Lo specchio di Dionisio. SPECULUM VITAE
Ognuno ha la propria legittima opinione e questo è un patrimonio indispensabile per l'umanità:
la libertà di pensiero e di coscienza e la diversità dei punti di vista.
lo specchio di Dionisio è andato in mille pezzi e ognuno di noi ne ha trovato un frammento.
Chi lo stringe forte nella mano, si taglia.
Chi lo unisce al frammento di un altro uomo o di un'altra donna, vedrà un altro pezzo della verità!
"La verità è uno specchio caduto dalle mani di Dio e andato in frantumi. Ognuno ne raccoglie un frammento e sostiene che lì è racchiusa tutta la verità." Rumi
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Fu contemplandosi nello specchio che Dioniso, secondo le tradizioni orfiche, si frantumò del tutto, subì una lacerazione che lo riportava al caos e gli consentiva di plasmare la visione di un mondo diverso. È lo specchio che permette di riconoscere la propria identità, quanto di distruggerla per conquistarne un'altra.
È un mezzo per contemplare l'età dell'oro e per divinare. Tutti i mondi, esistenti o no, passano nello specchio, tutte le figure, reali o della mente, acquistano il corpo leggero dell'immagine riflessa. Lo specchio è infatti anche evocatore di presenze.
In una brocca, dal fondo riflettente, il novizio scorgeva per un attimo il proprio volto, al quale si sovrapponeva, per l'abile tecnica del sacerdote e del suo assistente di muovere la brocca insieme al sollevamento della maschera, il volto di Sileno. Era questi il sapiente precettore di Dioniso, custode della crudele certezza che la vita sia solo male per l'uomo.
La maschera di Sileno, riflessa nel fondo della brocca, rivela al novizio la terribile verità. L'angoscia che lo invade è rappresentata dalla figura dell'Atterrita che fugge allontanandosi dal luogo della rivelazione della maschera.
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Intraprendere lo stretto percorso dove la conoscenza è anche sapienza. Un itinerario che apre alla conoscenza è quello che conduce al «cuore della ragione», all'«interiorità fremente», il cui simbolo miracoloso è Dioniso: il dio di Eleusi e di Delfi che, nel mito, è divorato dai Titani, mentre, assorto, si contempla allo specchio e scorge non la sua immagine, ma l'mmagine del mondo. Dove tutto è fermo: la vita e il fondo della vita sono un dio che si guarda allo specchio.
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Uno specchio riflette la quarta parete della stanza e con essa i due uomini che là si trovano mostrandoci, in tal modo, ciò che mai avremmo potuto vedere. Ne consegue che lo specchio, in virtù della sua duplice essenza, intrattiene un rapporto privilegiato con la conoscenza, perché ci fa vedere l’invisibile, quella quarta parete, che non avremmo avuto modo di percepire altrimenti. Quando si parla di specchio, si parla di riflessione. parola che guarda caso significa anche pensare dentro se stessi. è per questo che davanti a uno specchio tante volte riusiamo a fare pensieri molto profondi.
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Lo specchio riflette solo il tempo presente??
Sono appassionato di cultura e dialetto delle ns zone - Carpi e la Carpigianità, Il dialetto e tutto ciò che viene da Carpi e zone vicine. Ho scritto vari libri le "Ruscaróola èd Chèerp " 1 - 2 e 3, "Scutmai" soprannomi di famiglia - "Ricordi a Carpi fra il 1953-45" e poi tanti articoli e ricerche. Non sono però uno stupido campanilista o un fanatico localista, ma aperto al confronto con amici e dialetti di zone vicine. la cultura, le tradizioni, il dialetto NON scompaiano dorry53@libero.it
martedì 23 giugno 2015
Giannino il tabaccaio - Mauro D'Orazi - Carpi - dialetto carpigiano
Giannino il tabaccaio
Chi si fosse trovato a passare alla
fine di maggio 2015 per Carpi in pieno centro storico, davanti al Municipio avrebbe
visto un’ enorme A appiccicata alla vetrina di una tabaccheria.
La squadra di calcio del Carpi è
andata in serie A e la gioia di Giannino (titolare dell’esercizio una volta
delegato al chinino, oggi al grattino) era esplosa all'inverosimile con
l'aggiunta poi, di lì a poco di quella dello scudetto e di altri trofei alla
Juve, sua squadra del cuore. Una vera apoteosi di esultanza, di emozioni, di
soddisfazioni di vita!
Giannino ha appena compiuto 50
anni, è un uomo sano, un tifoso felice, ha moglie e due figli, un buon lavoro,
ecc… Vende sigarette, francobolli e… piccole gioie con i gratta e vinci!
Giannino è una brava persona. Ce
ne fossero! Ma non si pone grossi dubbi esistenziali e, per paura di uscire dal
seminato, non ha nemmeno mai assaggiato un piatto di spaghetti di soia cinesi. È
andato per la prima volta all’estero l’estate scorsa e di fronte alla Torre
Eiffel ha esclamato, un po’ sorpreso: “AH! Credevo fosse anche più alta!”
***
A questo punto qualcuno fra
coloro che mi ascoltano, comincerà a preoccuparsi della salute mentale di chi
legge queste righe e a chiedersi cosa c’entra tutto ciò con quello che stiamo
studiando e approfondendo.
Ebbene Giannino è l’esatta
corrispondenza nella ns società attuale della figura di Papageno del Flauto
Magico del grande Mozart.
Nella celeberrima opera, il
protagonista Tamino è chiamato a grandi traguardi, sarà iniziato, libererà
Pamina dal buio della notte, la farà sua e diventerà l’allievo/ successore del
gran sacerdote Sarastro.
Papageno, invece, è uomo comune
che si accontenta delle cose primordiali. Il buono, il giusto: secondo il
comune sentimento popolare. Inizialmente racconta qualche ingenua frottola per
farsi grande, ma è un peccatuccio veniale e alla fine si rivelerà di buon cuore
e anche piuttosto saggio.
Il “povero” (fra virgolette)
Papageno (lato infantile di Tamino) ambisce a traguardi molto meno ambiziosi
dell’eletto; innanzitutto deve guadagnarsi da vivere, catturando e rivendendo
rari volatili, e poi desidera assolutamente trovare una Papagena come lui, per
mettere su famiglia e avere tanti piccoli Papagenini.
Papageno è scaltro e pieno di
inventiva, ma nel contempo è anche gran chiacchierone e, come tutti coloro che
sono affetti da tale fastidioso problema (per le orecchie altrui), spesso non
sa né discorrere, né tacere. Ha paura ed è timoroso davanti a troppe novità,
che quasi sempre non riesce a capire.
A Papageno viene data la
possibilità di accedere a stati di coscienza più maturi, ma non riesce a
superare le prove di iniziazione e in particolare quella del silenzio, parlando
e anche a sproposito.
Papageno, nella sua spontaneità
semplice e incontenibile, non ce la fa proprio a tacere e le sue labbra vengono
serrate da un lucchetto d’oro.
Nella figura di Papageno viene rappresentata
la dimensione psichica di chi si sente ben inserito nella concretezza del reale
e si accontenta di quello che la vita gli offre lì per lì; non pensa a una
condizione umana più alta, a un avvenire intriso di altissimi principi.
Papageno non intende per nulla operare grossi rivolgimenti nella sua pratica
esistenza, tende perciò a escludersi dalle prove d'iniziazione, rappresentano
più che altro un fastidio e un limite al proprio istinto naturale.
II silenzio e il dominio di sé, possono
essere l'espressione della forza della coscienza e della saldezza dell'io.
Questa forza e solidità vengono
richieste a Tamino, mentre Papageno, succube e tentato dai sensi, non è degno
dell'iniziazione, anche se la sua figura di basso livello completa la solennità
iniziatica del mondo di Tamino.
Pertanto Papageno rappresenta la
paura naturale dell'uomo, che si ritrae dall'ascesi e dallo sforzo di
elevazione della vita; egli non ha lo scopo di andare nella notte, di rischiare
la morte verso più alte mete e si accontenta del fatto di pensare, con
un’alzata di spalle, che: "Ci sono
molto persone come me!" Quando gli viene comunicato, con compunta
solennità, che non ha superato le prove iniziatiche. Il suo atteggiamento è di
tranquilla noncuranza, mista a una punta di dispregio.
NON dimentichiamolo, in questa
sua semplice, ma fondamentale constatazione, ha dalla sua parte l’umanità
ordinaria, cioè la maggior parte delle persone di buon senso e di positiva
volontà!
**
Quasi tutte le mattine io e l’amico
S prima di andare a lavorare, ci fermiamo più che volentieri a chiacchierare
nel negozio di Giannino, divenuto piacevole punto di incontro per gossip, battute,
frizzi e lazzi. Giannino è un istrione e ogni mattina recita a soggetto,
straparla simpaticamente.
Giannino però ogni tanto ci sente
discorrere, in modo sintetico e per sottintesi, di strani appuntamenti per la
serata; è curioso. A un certo punto sbotta:“
A m piesrèev savèer indu andèe a la sìira?” Mi piacerebbe sapere dove
andate alla sera? Si attenta a chiedere in dialetto, con compiaciuta ignoranza e
sbuffante malizia. Noi ridendo, gli rispondiamo rivelandogli cose fra le più
inverosimili: traffici di valuta per milioni di euro con paesi esteri, incontri
a scopi sessuali ambigui, rapporti coi servizi segreti di mezzo mondo,
complotti contro il Vaticano, ecc.. . Giannino ci guarda scuotendo la testa e
ci manda al diavolo sempre con efficaci frasi dialettali.
NON capisce, ma soprattutto non
potrebbe capire, NON VUOLE capire… nemmeno se gli dessimo un minino di
spiegazioni… le nostre sono “cose” troppo lontane dal suo sentire.
Giannino è felice nella sua vita
di sana ordinarietà, non cerca soddisfazione in esoterici piani paralleli
esistenziali.
“Sei il nostro Papageno!” Gli
dico sorridendo. “Ehh?!” Replica lui, guardandomi stupito: non comprende e io
di certo non glielo spiego. Eppure sarebbe semplicissimo dare un occhio a
qualche pagina di internet; cosa che però non farà mai. È felice così! Perché
porsi nuovi problemi?
***
Ma… noi GRANDI filosofi al massimo grado… lo siamo anche noi…
felici? Noi chiamati agli alti destini di Tamino! Noi che ci vediamo assegnati
nomi e titoli altisonanti.
Noi… chiamati alla purezza, alla santità e alla
diffusione del pensiero e degli ideali di libertà di saggezza nel mondo, nella
società. Il destino di Tamino ci appartiene; ci è stato attribuito da un alto
(e nel contempo intimo) disegno, che perseguiamo (per ispirazione e intuito) pur
senza mai riuscire a comprenderne adeguatamente la sua interezza e la sua complessa
e completa verità.
Ma sarà proprio vero che siamo
chiamati a questi supremi e ineluttabili compiti? Soprattutto quelli
estremamente gravosi di portare i ns grandi ideali nella società. Chi ci dà la
convinzione di essere superiori a Papageno e all’amico Giannino? Che
presunzione!!
Tamino è l’eroe che attraversa
l’oscurità, rischiando la morte per arrivare al celeste piacere dell’iniziato. Egli
insegue la sua Gerusalemme Celeste. Egli rappresenta il principio della
coscienza attiva che deve essere messa in funzione e che deve affermarsi nella lotta
con le forze oscure dell’inconscio. Egli è alla caccia del tesoro, della pietra
preziosa, che è simbolo dell’ampliamento di coscienza, che è poi il profitto di
ogni iniziazione.
Papageno non è in grado di
partecipare all’alto volo spirituale di Tamino, ma non è che non subisca una
trasformazione, solo che essa avviene nell’ambito di un mondo naturale, non tanto
inferiore, ma che si limita a vibrare con una frequenza più grossolana. Una
dimensione che è certo meno intellettualmente raffinata, ma allo stesso tempo
di certo umanamente positiva.
Una risposta potrebbe essere di
considerare il mistero superiore dell’iniziazione (che è per pochi), come il
colmo della stessa forza d’amore per la vita, che anima il mondo più prosaico di
Papageno.
**
Giannino è soddisfatto della sua
vita, il suo concreto umanesimo ha semplici e solidi principi.
Mi chiedo se lo sono anche io…
soddisfatto e felice, avvolto dalla certezza del dubbio e spesso pesantemente
ricurvo, come un punto interrogativo vivente, sulle mie incertezze di verità;
VERITÀ che intuisco, corteggio, inseguo, ma che drammaticamente NON raggiungo
mai (invece come vorrei) nella sua completezza.
Mini – modellini Ferrari di Scaglietti – Tirelli - di Mauro D'Orazi - Carpi - dialetto carpigiano
Prima stesura 10-06-2015 V09 dell’08-03-2016
Mini - Ferrari di
Scaglietti - Remo Tirelli
e altre note su
modellini carpigiani di auto e moto
BOZZA in perfezionamento di Mauro D’Orazi
Gianguido
Tarabini (Tarash Bulba) mi ha chiesto alcune note sulla “ferrarina” in suo
possesso ed esposta con giusto orgoglio all’ingresso del Blumarine; ho colto l'occasione per riassumere in un
unico pezzo tutto il materiale (in parte ancora un po’ contradditorio e
lacunoso) che ho su questi piccoli modelli a motore carpigiani degli
anni ‘50-’60.
Mi
sembra un capitoletto della nostra storia molto carino da ricordare e da non
perdere; traspare chiaramente la genialità, la manualità, la fantasia di
persone NON comuni; valentissimi artigiani che ho sempre ammirato per quello
che sapevano fare con la testa e le mani.
**
Mauro D'Orazi per Tarash
Bulba (note tratte da Facebook)
22 febbraio 2015
1960 ca - Carpi -
mini Ferrari in uno stand della
Lambretta
(non montava un motore Lambretta 125 c c,
ma un DEEM 50 c c a raffreddamento forzato)
Tarash
Bulba - Grazie Mauro, ora quella stessa
mini-Ferrari fa bella mostra di sé nell'ingresso della Blufin. Io però da bimbo
non l'ho mai guidata, ne avevo una più "classica" in plastica con i
pedali con la quale scorrazzavo nel cortile del Molly.
Mauro
D'Orazi - chi sono i bimbi? li conosci?
Tarash
Bulba - Non lo so, io sono nato più tardi, forse uno potrebbe essere Antonio
Paltrinieri, il fratello dell'Annunziata. Però è un ipotesi. 22 febbraio alle ore 9.31 ·
Mauro
D'Orazi ecco !! chiedo alla interessata
22
febbraio alle ore 9.33
Annunziata
Paltrinieri mi dice però che nelle due foto sopra non è lei e forse nemmeno suo
fratello
E
aggiunge “La Ferrarina per poter partire
andava spinta. Era perfetta in ogni particolare, quello era il suo unico
difetto. Quanto ci siamo divertiti!”
Mauro
D'Orazi - Ho qui davanti (al bar Tazza
d’Oro) Antonio Paltrinieri che mi conferma che sono lui e Annunziata. Sono lì in
quello stand per pubblicità; ma il motore era da Lambretta ? (un 125 c c troppo
potente per dei bambini), come potrebbe apparire dall’insegna pubblicitaria, oppure
più probabilmente un DEEM 50 c c due tempi a raffreddamento forzato
22
febbraio alle ore 10.03
Sergio Scaglietti in una foto del 1953
Mauro
D'Orazi - 1960 circa Carpi - modello di mini Ferrari con Antonio Paltrinieri a
sn.
Ecco
la testimonianza che ho (Mauro D'Orazi) raccolto il 22-02-2015 da Antonio
Paltrinieri:
“Siamo
alla fine anni '50; il carrozziere della Ferrari, Sergio Scaglietti (1920 -
2011), costruì la carrozzeria di questa e altre due ferrarine (tre in tutto).
Marcate 0001, 0002 e 0003. Il meccanico
"fantasista e geniale" Remo Tirelli è l’autore della meccanica e del
telaio in tubi; aveva bottega in via 4 Novembre, dove aveva l'officina con il
cosiddetto "Pensatoio", luogo frequentato da amici, a mo’ di filosso, da cui scaturivano le idee
più strane e originali.
Tirelli
attrezzò le tre aumobiline con un motore a due tempi DEEM 50 c c a
raffreddamento forzato, usato per piccoli motofurgoni (anche se nelle foto la
Ferrarina è esposta dal concessionario della Lambretta a Carpi). Il problema
era che bisognava avviarle a spinta, perché
per motivi di spazio, non c’era il pedale dell’accensione. Questa della foto
era di Vittorio Paltrinieri, si presuma la 0002; la prese per figli Annunziata
Paltrinieri e Antonio Paltrinieri. Divenne poi dei Tarabini – Molinari e oggi questo
modellino è esposto nell'ingresso del Blumarine a Carpi.
***
A
chi sono andate?
La
prima è andata direttamente in USA; per le altre le storie si intrecciano e si
sovrappongono, non c’è chiarezza. Riporto con beneficio di inventario, le
notizie che mi sono arrivate in buona parte vere, ma altre da verificare.
La
0001 dovrebbre essere stata manda da Ferrari stesso a Chinetti in USA.
Una
la comprò Gian Pietro Bonaretti (industriale di Carpi) che la sottopose (sempre
con Tirelli) a miglioramenti come l’avviamento elettrico, la marcia indietro
mutò la livrea da quella per la corsa di Le Mans che comprendeva il bianco
(come quella poi Tarabini) in completo rosso Ferrari, pare che il motore fosse
da Lambretta, ma restano i dubbi più volte espressi.
Un
esemplare pare sia andata al Circo Orfei (?) dove veniva adoperata negli
spettacoli e nelle sfilate per pubblicizzare il circo all'arrivo nelle varie
città (è leggenda?). È chiaro che sono
necessarie delle verifiche. La verità si mischia appunto con la “leggenda”. La
ricerca è in corso e ho passato tutta la mia documentazione ad Adolfo Orsi,
super esperto di Ferrari e che possiede sulle tre Ferrarine preziose
testimonianze e documentazioni.
Pare
ci sia stato il passaggio a un asta a Montecarlo.
Se
i proprietari sono tutti veri, è chiaro che ci sono stati dei passaggi
proprietà da appurare nei tempi di successione.
Mauro
D’Orazi - La bottega di Remo Tirelli era un lungo garage di proprietà di
Vittorio Paltrinieri sito nel lato sud di via 4 Novembre. Nel “Pensatoio”
Tirelli ideò anche una speciale e teorica macchina, che avrebbe dovuto ricavare
energia dal moto delle maree utilizzando degli lamieroni che dovevano oscillare
in base ai movimenti del mare e, tramite una dinamo, produrre energia
elettrica. La sua ultima attività fu quella di produrre fili da freno da
bicicletta completi di terminale, con un apposito congegno meccanico -
elettrico inventato da lui stesso. Questa macchina completava i fili da freno
da bicicletta dei loro terminali, che venivano torniti e sistemati automaticamente
in serie.
Remo
penso di vendere in serie questo modellino di Ferrari e predispose un apposito
depliant. Il costo dei prototipi era attorno alle 500 mila lire, una cifra
considerevole al tempo.
Remo
era poi fratello del Tirelli della Tirelli Frigor, nota al tempo ditta
carpigiana che produceva frigo industriali e da bottega /bar. Quest’ultimo
Tirelli era il padre di Leda Tirelli, moglie di Dino (FRARICA) Righi, noto
industriale carpigiano delle camicie.
1965 ca modellino mini Ferrari con motore DEEM – oggi
di proprietà Blumarine
**
Nel
1957 ca Carmine D'Agostino era il benestante proprietario della villa in via
Roosevelt, al tempo una specie di cantina dove lavoravano i residui dell'uva e
frutta secca (fichi, ecc...). D'Agostino aveva fatto costruire per il figli una
specie di piccola Fiat 1100, senza tettuccio, che funzionava con un motore a
scoppio. Il ragazzino girava contento negli ampi spazi esterni della ditta.
**
Ricordo
anche che nei primi anni ’60 il figlio di Dino Righi, Giorgio, mio compagno di
scuola, girava invece nel lungo perimetro interno della FRARICA con un
modellino di auto con motore elettrico.
Un
pomeriggio di fine scuola, giugno, tutta la classe era ospite di Righi e vidi
l’oggetto del desiderio. Deve essere stato lì, quando vidi la piccola auto, che
ho provato per la prima volta un fortissimo e acuto sentimento di invidia e di impotenza di vita.
**
La
“mania” di costruire modellini a Carpi ebbe origine da un paio di abili
meccanici; nei primi anni ’50 il meccanico commerciante di Moto Guzzi Cadossi
che ne costruì una per il figlio, seguito poi da Giorgio Sgarbi nel 1959, che
costruì anche lui una piccola moto per il figlio Gigia Gianfranco Sgarbi.
Anni ’50 – tre foto allo stadio di Carpi - Cadossi
con un modellino costruito dal padre
Anni '50 Stadio di Carpi Cadossi con una motina,
a dx il Conte Galasso Benzi, gentleman della moto.
**
20 settembre 1959 - Festa dell’Infanzia al Parco -
Gianfranco (Gigia) Sgarbi fa rifornimento presso il distributore Aquila (poi Total)
vicino al Parco dal benzinaio Anacleto Burani; esattamente dove oggi c’è la
rotonda di via Giovanni XXIII
Particolare della foto - il faccino di Gigia
Negli
eccezionali (anche se non nitidi) fotogrammi che seguono, estratti da un
filmino d’epoca, vediamo il piccolo Gigia esibirsi il 20 settembre del 1959 per
la Festa
dell’Infanzia al Parco con una piccola replica di una MV 500 cc da corsa. La
“motina" fu progettata e costruita da suo padre… naturalmente ed è ancor
oggi gelosamente conservata dal figlio.
20 settembre 1959 - Festa dell’Infanzia al Parco -
Gianfranco (Gigia) Sgarbi percorre la pista interna con una mini moto n 13
costruitagli dal padre Giorgio
Il giro prosegue
Il traguardo si avvicina
20
settembre 1959 - Festa dell’Infanzia al Parco - Il Sindaco di Carpi Bruno Losi
premia il bambino per l’impresa effettuata. Gigia è in braccio al segretario
del Sindaco Augusto Depietri
per le foto contattatemi - dorry@libero.it
Agente DIVO facente di Pietro D’Orazi - Carpi - A nostro padre
Agente DIVO facente
di Pietro D’Orazi
C’erano molti indizi a conferma dell’ipotesi che nostro padre fosse davvero
un poliziotto seppure in borghese.
Innanzi tutto c’era quell’odore di cuoio/lucido/grassoperstivali, ovvero di
caserma, proveniente dall’armadio della cantina che conteneva una uniforme
ormai smessa in pelle nera da postodiblocco/motociclista di p.s., stile Sordi
ne “Il vigile”.
Vigile
motociclista (divisa simile al poliziotto motorizzato) [filmato 1]
Poi c’era quel suo portamento fiero che tanto ci inorgogliva quando si era
a passeggio; conosceva tutti e tutti lo conoscevano che sembravano incantati
più dal suo sorriso conciliante che dal fascino sprigionato dalla divisa
imprigionata nell’armadio.
Un’altra tessera del mosaico era in realtà
un tesserino verde oliva cimina, rilasciato dal Ministero, dove
appariva con tanto di baffi e in testa la tesa.
Possedeva un istinto tutto particolare per cogliere in flagrante la nostra
ingenuina fragranza, mentre magari si barriva sghignazzanti per telefono al
malcapitato di turno o si trappolava per strada con un portafoglio pieno di
carta usato da esca o si elaborava il rutto insolente.
Quel tipico fiuto che non aveva bisogno di una seconda impressione, che a
confronto era nulla l’olfatto di quel “vero e proprio cane-lupo-rintintin” con
tanto di ingombrante testone che sembrava la sella di una lambretta, in
compagnia del quale talvolta passava per casa quando era al lavoro,
impressionando la ziona e me.
Odierna
sella pullman con Ben
Se poi ci aggiungiamo che non ebbe pace finché non riuscimmo a permetterci
la Giulia Seppur Milletre TI (ma non proprio la
Giulia Super 1.6, dal culo ribassato di puledro spronato, in dotazione alla
forza pubblica) con cui percorrere la Cassia per mille miglia e una
ancora...
Giulia
Super 1.6 in piazza con Divo al volante,
mentre parla con (Sgagiadèin) Ermes Benetti
Anche il fatto che talvolta reclutava mio fratello e me, immagino per
coprirgli le spalle, quando era in servizio allo stadio (cheppalle insidiose!).
O l’addestramento cui ci sottoponeva la domenica mattina in piazza,
allorché ci toccava perlustrare quel vasto accampamento fatto di pannelli
bianchi, nebbia a banchi, passerelle e stand, che cingevano il castello ai bei
tempi dell’assedio export, quando al dodicesimo rintocco seguiva il boom
economico (che, invero, da casa nostra non si percepiva poi così forte) credo
sparato a SalveRegina dalla cannonica del Sannìcolò [filmato 2]:
perché la Fiera del Filato era un vero e proprio labirinto, col collega Filone
affiliato al Minotauro e di fili un sacco, di Arianna e non; poco ariana fu la
Twiggy casereccia che ci consegnò due cravatte tronche Trevira 2000, in fibra sintetica
non pettinata, in quanto hippie, i cui colori sgargianti avrebbero presto
influenzato la vernice del LUI 50&75 di Bertone, ma che al momento mal si
addicevano al paraorecchie incorporato nel mio berretto.
A proposito di
Beretta, probabilmente in casa c’era anche una pistola “che a essere prudenti
non si tocca”, senza caricatore, ben nascosta chissà dove nello sgabuzzino
(nella vecchia credenza, aprendo con cautela di molto il cassetto di sinistra,
in fondo, dietro alla cartella del rogito).O forse nel comodino in camera da letto.
Beretta mod 1934 di ordinanza della PS
E quel nostro cognome
oriundo, eventualmente così ordinario tra militari, ma che certo un poco
strideva nel registro di classe, fra quelli così schiettamente emiliani dei
compagni? Dunque quel cognome che faceva sorprendentemente rima strabaciata con
quello carpigiano di nostra madre (Bertolazzi), non era forse un altro indizio?
E che parte poteva avere quel quasi omonimo, non omino, amico fornaio,
direttore del tiro a segno? Che dietro a suoi grugniti, tra una croisette
ferrarese ed una baguette sciapò, si celasse il contatto giusto per la
resistenza francese,
tipo la Grande Fuga? Mai glielo Chiesi, che andò in ferie.
1944 Ricevuta Forno Chiesi per consegna al Campo Fossoli
Troppe quindi le
coincidenze, innumerevoli le tracce lasciate.
Purtroppo le nostre indagini non si poterono spingere oltre, perché la
nostra intelligence andò in riserbo.
Finché, in un tardo mattino di agosto, nel ritirare l’odiato pane locale
precedentemente ordinato da nostro padre presso un forno di turno, lessi sul
sacchetto stampigliato a lapis in caratteri cubitali e dialetto ingentilito:
PULISCIOTTO.
P.S.: pubblica
sicurezza (Polizia/forza pubblica).
p.d’o.:
Inizio modulo
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I Piletti di Tomeazzi ridotti per Voce di Carpi - dialetto carpigiano Mauro D'Orazi
I Piletti di Tomeazzi ridotti per Voce di Carpi
Maggio 2015
Bene, D’Orazi, tu asserisci di aver ritrovato arcani significati dietro
la vicenda di quelli che i Carpigiani non più giovani ricordano come i pilètt ed Tomeàasi, ovvero i due
fittoni che da sempre chiudono il portico di piazza Garibaldi verso corso Roma…
Ci hai scritto su uno dei tuoi quaderni storici su costumi e detti della Carpi
che fu. Ci vuoi riassumere qui il senso della sua scoperta?
«Intanto, lasciami descrivere il
posto, carico appunto di reminiscenze e modi di dire carpigianissimi…»
Prego.
«Gli storici pilètt o fittoni in marmo chiudono il portichetto detto dla Minghètta, quello che porta dalla
piazzetta verso San Francesco e così chiamato dal nome di una fruttivendola che
vi teneva bottega. Ce li avevano messi a fine Ottocento per impedire
probabilmente che nel portico entrassero birocci o altro. Sono sempre stati due,
anche se non si tratta di quelli originali. Proprio lì a fianco, sotto il
portico, aveva sede la bottega dei Tomeazzi che si autodefiniva “agenzia
giornalistica e libreria”, ma vendeva merce molto varia. E sempre nei pressi
c’era al Cafè èd Gigìin Caròobi,
molto frequentato per tutta la prima metà del secolo scorso. E sempre in zona,
a dimostrare che in piazzetta i locali funzionavano già molto prima che la
scoprissero i ristoranti e i caffè di oggi, c’era il Tre Corone…»
L’albergo…
«Ma anche ristorante, dove si
mangiava molto bene: cappelletti, lasagne, arrosti, bolliti che venivano
serviti con ricercatezza e stile. I Carpigiani ci andavano con tutta la
famiglia la domenica: un rito durato fino a tutti gli anni Sessanta»
Insomma, c’era un piccolo mondo, intorno ai pilètt ed Tomeàasi: ma andiamo avanti
«Eh sì, bastava dire Mò lè, da i pilètt èd Tomeàasi e tutti
capivano, anche se i Tomeazzi originali chiusero presto i battenti e dov’erano
loro ci aprì poi la tabaccheria che ora si trova in corso Roma»
E che cosa le ha fatto scattare l’idea che ci sia qualche cosa di
misterioso intorno ai due fittoni?
«Tutto risale a una chiacchierata
con il compianto Franco Bizzoccoli. Una volta mi raccontò che lui lo
frequentava il Cafè Caròobi. Lì ci
trovava i suoi amici e si giocava alla concia, un gioco a carte pernicioso che
richiede molta fortuna. Proprio per questo, mi disse che Gigìin Caròobi, su uno dei piletti, il 2 febbraio, giorno della Candelòora, accendeva sempre una candela
per càaia, come diceva lui, come
forma di scongiuro. Bizzoccoli mi confessò anche questo: “Gigìin sapeva quale dei due piletti portava sfortuna, e lo so
anch’io, ma non te lo posso dire”. Fatto sta che il giorno della Candelora,
detta anche Seriòola, Gigìin esponeva la sua candela. E poiché
i piletti erano esposti a mezzogiorno, lui diceva che quando il sole batte
sulla candela, significa che è più il freddo che deve ancora venire di quel che
è già venuto»
Questo nesso tra la fortuna, la candela e il meteo un po’ mi sfugge…
«Franco purtroppo se n’è andato
senza darmi altre spiegazioni, ma il tarlo mi è rimasto dentro, come la voglia
di risolvere questo piccolo mistero. Ho postato il quesito sul mio profilo Facebook
chiedendo se qualcuno sapesse qualche cosa di questa storia di candele,
scongiuri e stagioni»
E ci sono state risposte?
«Sì, quella di Renato Cucconi che
in dialetto mi ha spiegato che un pilètt
l’èera scuchèe e al purtèeva càia perché
i gìiven che un, in dal saltèerel, al gh ìiva lasée i cùcch (si diceva che
uno dei due piletti era scoccato e portava scalogna, perché uno, nel saltarlo,
ci aveva rimesso… i gioielli, ndt). E
allora sono andato a controllare una vecchia foto dei primi del Novecento e mi
si è accesa una lampadina: in effetti vi si vede uno dei due piletti… smichèe,
tranciato alla sommità, e non poteva che essere quello sul quale Gigìin accendeva la candela, perché
portava scalogna, come ben poteva dimostrare lo sfortunato saltatore»
Un rito, dunque, uno scongiuro che serviva anche come previsione del
tempo…
«Sì, perché il 2 febbraio è
importante: viene 40 giorni dopo Natale e precede di uno San Biagio, San Bièes cun la néeva sòtt al nèes, l’ultimo
mercante da neve. Ed è anche il giorno in cui si celebra la presentazione di
Gesù al tempio e la Purificazione di Maria Vergine. Insomma, un incrocio di
circostanze che fa del 2 febbraio, la Candelòora o Seriòola, una tappa importante dell’inverno, potendone decretare la
fine o i colpi di coda: per la Seriòla o
ch a piòov o ch a néeva o ch a nàas la viòola, o ancora per la Seriòola da l’invéeren a sémm fòora.
Quanto alle candele, la chiesa celebra questa giornata con la loro benedizione
perché simboleggiano l’accendersi della vita divina nei battezzati. E si
credeva che la candela, benedetta dal sacerdote, portata a casa e appesa sopra
il letto o infilata fra la biancheria nel cassettone, esercitasse influssi
benefici contro le forze del male»
Insomma, con un gesto fatto magari per propiziarsi la fortuna o esorcizzare
la scalogna al gioco delle carte, il buon Gigìin
cercava anche di capire di che natura sarebbe stato il restante periodo
invernale, e magari di propiziarselo un po’. Paghi uno e prendi tre: tutto molto
carpigiano.
«Mettiamola così, se credi…».
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il testo originale è molto più completo e lungo
posso mandarlo a richiesta
dorry@libero.it
oppure potere mandarmi altre preziose testimonianze al riguardo
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