venerdì 29 gennaio 2016

Al garùll - Il garullo - storie di cocomere a Carpi - Mauro D'Orazi - dialetto carpigiano

                            Prima stesura 8-10-2015                                                                      V20 del 13-06-2017
Al garùll   il garullo

Considerazioni micro-filosofiche e un po’ di storia locale
sulla deliziosa parte centrale della cocomera
di Mauro D’Orazi

Se il 18 aprile del 1948 il Fronte Popolare (PCI + PSI) avesse vinto le famose elezioni politiche, anziché per fortuna la Democrazia Cristiana, i comunisti certamente, come primo provvedimento per arrivare a una vera uguaglianza sociale, avrebbero preso la drastica decisione di abolire o comunque vietare tassativamente la preparazione e la vendita del garullo delle cocomere (uso la parola al femminile, anche se in italiano non è proprio corretto).
Certamente chi legge queste righe si chiederà cos’è questo garullo; questo garullo vocabolo in effetti esiste e non è la mia italianizzazione della efficace parola del nostro amato dialetto garùll.

Luigi Anceschi (Carpi) ha assistito alla presentazione del mio libro “La Ruscaróola Tre” il 15-05-2016 e così annota, contesta ed eccepisce al mio incipit a forte effetto: “IO C'ERO. Ne è valsa la pena, bella gente e anche qualche vecchio e giovane trombone. Mancavano IMBENI e BIZZOCCOLI (+2015) - (Imbèin & Biṡòochel). IMBENI (informato da FLORIO Magnanini) scriverà su VOCE un'altra MALDICENZA contro D'ORAZI e BIZZOCCOLI dirà che non c'era perché stava navigando nei MARI del SUD con un equipaggio di aborigeni cannibali, ecc… Ma la chicca a mio avviso è stata l'affermazione di Dorry che "se nel '48 avessero vinto i COMUNISTI, avrebbero subito ABOLITO IL GARULLO”. Mai menzogna fu più grande perché: 1) i COMUNISTI vincitori avrebbero convinto tutti che erano GARULLO anche la SCORZA, i SEMI ed il PICCIOLO delle cocomere; 2) nel tempo necessario a formare il GOVERNO COMUNISTA e il GARULLO sarebbe sparito (assieme alla melonaia), perché mangiato dai DEMOCRISTIANI.”


Il dizionario del dialetto carpigiano Ori – Malagoli del 2011 così descrive la parola:
Garùll s.m. 1 gheriglio. 2 parte centrale, cilindrica di cocomero o di forma di parmigiano: al garùll dla cucòmmbra l è sèinsa rumlèini - la parte centrale del cocomero è priva di semi, al furmàai d garùll l è più dóols èd quèll aṡvèin a la gròssta - il formaggio della parte centrale è meno salato di quello vicino alla crosta.

Per la tematica che voglio trattare dunque il garullo non è che la porzione al centro della cocomere, la parte più buona, senza le romelle nere, il boccone più succulento e prelibato. Lo zucchero imbianca la pasta rossa e la rende a dir poco deliziosa al palato e alla gola se consumata fredda nella opprimente calura estiva padana.
Il resto della cocomera è ben poca cosa al confronto e la qualità peggiora via via che ci si avvicina a un altro bianco della scorza tngnissa (coriacea) e insapore.

In senso figurato, metaforico, il garullo rappresenta il MEGLIO del MEGLIO.
La porzione d’eccellenza, tipo al pcòun dal prèet, il boccone del prete, che è la furia del pollo arrosto.
L'espressione boccone del prete ha più significati. Con questo termine si denomina la parte più prelibata del pollo, ovvero il "sottocoda", per esaltarne l'importanza.
Questo modo di dire risale al Medioevo, quando solo il clero e l'aristocrazia potevano concedersi certe pietanze che, quasi sempre, venivano ricevute in dono dai contadini obbligati a dare ai Signori i migliori capi di bestiame.
I cuochi del mare chiamano boccone del prete quella ridotta, ma squisita porzione del pesce considerata guanciale del pesce, che si trova in prossimità degli occhi dell'animale.
L’uso della parola garullo, nella comune lingua parlata delle nostre zone, è abbastanza diffuso e viene sempre pronunciata, quasi a mo’ di battuta, con il sorriso sulle labbra.

Ad esempio anche l’ass Simone Tosi nel 2010 in un suo intervento in Consiglio Comunale a Carpi, nel presentare e sottolineare il punto centrale di una proposta di deliberazione, usò appunto in modo studiato e sapiente la parola garullo, ottenendo la totale e piena attenzione totale dei presenti, che capirono immediatamente la valenza della strana parola.

Io ho un ricordo indelebile sul garullo legato al vecchio Piero Bencivenni (detto Benci).

1964 Piero Bencivenni all’opera nella sua baracchina al Parco

Benci in un lontano passato girava al Parco col suo carrettino con la stecca di ghiaccio, lo grattugiava con l'apposito attrezzo e lo metteva in un bicchiere con sopra lo sciroppo dal gusto che si desiderava. Poi aveva messo su un chioschetto in muratura dove vendeva i Gelati all'inizio della Via Dallai di fianco all'entrata della ex Magneti Marelli, circa dove adesso c'è la Banca e la Pizzeria Re Artù. Poi dopo lo smantellamento del chioschetto, d'estate al Parco delle Rimembranze vendeva le cocomere e d'autunno vendeva le caldarroste. Al suo pensionamento gli subentrò il figlio maggiore Gianfranco (Gianni), che trovò una tragica fine in Piazza Martiri il 25 aprile del 2011.

Per decenni d’estate presso il Parco delle Rimembranze veniva allestita una baracchina della rinomata famiglia dei Bencivenni. Sedie, tavoli, tovaglie quadri, un barile d’acqua con rubinetto per lavarsi mani e labbra, un asciugamano a righine bianche, rosse e verdi, poi sostituito dal un rotolone di carta, garantivano una comoda e cordiale accoglienza nelle calde serate d’estate.
Piero Benci era un omone alto e robusto con due baffoni di tutto rispetto, serviva i clienti indossando un grembiule con la pettorina.
Serviva con arte gli accaldati clienti con grande maestria; era dietro un bancone con alcune fette già pronte, appena tagliate, che testimoniavano la rossa bontà del prodotto, che veniva offerto. Vari coltelloni erano appoggiati sul piano, pronti alla cruenta operazione di ghigliottinamento della cucurbitacea che doveva essere sacrificata di lì a poco, dopo che era stata… palpeggiata (pat… pat!), sculacciata (sciaff… sciaff!) e con la nocca della mano… bussata (toch… toch!) per intuirne la perfetta maturazione.
Se il suono è sordo: La sòuna bèin! Suona bene!
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A tale proposito occorre notare che mentre al melone a s nèesa al cuul per sapere se è maturo, per la cocomera i dati esterni per sapere l’esatta maturazione sono sempre stati un mistero.
Oggi i coltivatori si basano su questi parametri empirici legati ai sintomi che accompagnano la maturazione del frutto. La maturazione si avvicina quando:
– la pruina, quella patina cerosa che riveste il frutto e lo rende impermeabile, inizia a scomparire in modo graduale;
– il tipico colore che caratterizza il guscio esterno dell’anguria inizia a sbiadire leggermente e la buccia a contatto con la terra inizia a virare dal verde al giallo;
– il viticcio situato sulla parte opposta del peduncolo che tiene il frutto, inizia a disseccarsi.
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Qualche cliente arrivava in baracchina e chiedeva un intero frutto, Benci pescava nel barile ghiacciato la cocomera più in fondo e più fresca.
Si praticava la procedure dal tasèel per vedere se l’esemplare prescelto era maturo al punto giusto e s al ne ghìiva di magòun, se non aveva dei nodi fibrosi, delle imperfezioni. A n gh è gnìinta èd péeṡ che ‘na cucòmmbra immaguèeda! Non c’è niente di peggio di una cocomera immaginata!
Con un piccolo coltello affilato, con precisione chirurgica, si praticava un’incisione a base quadrata, che poi si sviluppava in una piccola piramide a punto alta una decina di centimetri.

Un tasèel, un po’ sovradimensionato

All’estrazione della piramide con la base verde, poi bianca e con la punta rossa, seguiva qualche secondo silenzio assoluto!
Occhi espertissimi controllavano, scrutavano la scala cromatica; si annusava il rosso!
Anche il cliente esaminava… piegandosi leggermente in avanti…
Finché non arrivava la sentenza: “L’è pròunta!‘Na cucòmmbra èd Serie A!”.
Si tappava il buco, reinserendo il tassello e via…

Ma… osservando meglio il bancone, notavo un misterioso e lucente cilindro di alluminio lucente, vuoto all’interno e con un bordo in fondo affilato. Il diametro di questo pezzo di tubo poteva essere attorno ai 15 centimetri per un’altezza di 40. Io scherzosamente lo chiamavo il… garullatore.

Piero chiedeva al cliente di turno: “Vóo t ‘na fètta o al garùll?
Spesso se una persona era benestante sceglieva la seconda opzione che costava quasi il doppio.
Allora Benci prendeva una cocomera in fresco, la soppesava, la metteva sul piano dopo aver tagliato il picollo in alto e il culetto in basso. Il tubo veniva appoggiato sopra e con un colpo secco… TRAAFF… veniva affondato per tutta la lunghezza del frutto.
Al cucumbrèer, il maestro cocomeraio, estraeva il tubo e subito dopo da questo il prezioso contenuto… un rosso cilindro di cocomera, senza traccia di semi e con venature più chiare di zucchero. ERA IL GARULLO!
Un vero cibo degli dei, per chi poteva permetterselo. Veniva tagliato in quattro parti, prima per il lungo e poi a metà.

E i puvrètt? Bè… i gh l ivèen in cal pòost, cóome sèmmper! Infatti si dovevano accontentare del residuo; fette con la buccia, meno dolci e con tante romelle.
Peggio per loro, mò al mònnd l è semmper stèe divìis in duu!

Un altro segno di distinzione alla baracchina dei Benci, fra signori e poveretti carpigiani, era lo scegliere fino agli anni ‘60, come dessert o rinfrescante nelle canicole serali, tra meloni e cocomeri; i primi più cari e i secondo alla portata di tutti, essendo più a buon mercato, tranne l'esclusivo garullo.
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Altri ricordi legati al garullo.
Maurizio Malvezzi (Carpi) ricorda: “Da la Titta e Scarciòof, a la fiin èd corso Roma, al garùll al custèeva al dòppi. E s t èe gh dmandèev: - Èela bòuna? -
It rispundiiven: - L’è frèssca! –“.

Marco Giovanardi (Carpi): “A la barachiina, al garùll l èera tutt protèet da ‘na ridèina. Mò a psiiva capitèer ch al gnìiss vèec... S te capitèev al mumèint giùsst i t al dèeven a prèesi da saldi fine stagione!”

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Dunque è corretto prendere il garullo come veritiero simbolo delle disuguaglianze sociali ed è per questo che nel 1948 un governo popolare lo avrebbe certamente proibito.

Cari lettori… al garùll a pièes a tutt! Così come si bramano e concupiscono, solo per fare alcuni esempi: una bella donna o un bel ragazzo, una Ferrari, un Rolex, o un vestito di Armani o di Blumarine.

Ma al garùll è un privilegio che probabilmente ha sentito il tempo e forse per una sorta di pudore è andato via via scomparendo.
Anche perché negli anni del boom praticamente tutti i carpigiani se lo potevano permettere e più nessuno si poteva accontentare di comprare una fetta monca della sua parte migliore… ma quando mai? E poi il vento del ’68 ha contribuito a spazzare via piano piano anche la tradizione del garullo.

E così le ormai poche bancarelle di cocomere che ancora esercitano, fra incongrue tasse e assurde coercizioni sanitarie, come l’obbligo di un cesso con lavandino, servono solo fette intere e non mutilate… ma a carissimo prezzo,
Forse l’unico campo dove si è arrivati alla perfetta eguaglianza… spendendo.
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Anni ’90 – in una calda serata estiva di luglio, Elio Bacchelli, Giuliano Casarini e altri amici, seduti ai tavoli della baracchina di Gianfranco (Gianni) Bencivenni al Parco. Foto Alcide Boni


2009 - un primissimo piano di Gianfranco (Gianni) Bencivenni
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Ecco alcuni splendidi ricordi della scrittrice carpigiana Rosella Tagliavini legati alle cocomere e al garullo, pubblicate nella sua rubrica settimanale “In cornice” su Voce di Carpi. Ringrazio lei e il direttore del settimanale Florio Magnanini per la gentile concessione.

Voce di Carpi del 25 LUGLIO 2007 - IN CORNICE –
La percezione del caldo
di Rosella Tagliavini
...
Quando era caldo ai tempi di mia nonna la cose erano molto più semplici di adesso. Faceva caldo e basta.
Quando veniva quasi sera si mettevano sotto il bersò e se ne stavano a sventagliare anche con le sottane nere, e proprio quando non se ne poteva più si pensava a una bella fetta di cocomero comperata da Bencivenni. Di quelle nostrane, non di quelle allungate che sono costumate dopo. Non presa dal cassone bianco attaccato alla luce elettrica, ma presa da dentro il pozzo o da dentro la botte con la stecca di ghiaccio. Lucida di bagnato, la cocomera si faceva spaccare con un colpo dopo aver perso il caldo della melonaia, dopo aver subito gli schiaffetti che la tastavano come ottima, dopo aver immolato il suo cuore al disco tondo del garullo. Non è che le cocomere non ci siano più, anche loro hanno cambiato casa e le baracchine sono davvero meno...
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1946 – i fratelli Bencivenni nella loro baracchina al Parco
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Voce di Carpi del 1 LUGLIO 2012 - IN CORNICE –
Cuore di cocomera
di Rosella Tagliavini

È un frutto incredibile. Se non fossimo abituati ad averlo sotto mano potrebbe essere un frutto delle favole. Grosso, grossissimo, non so se ne esista uno più grosso. Non cresce su di un albero, ma per terra, dove la terra non sa dare tanto di importante, dove l'acqua non è tanto abbondante, lei, la cocomera nostrana, dà acqua in abbondanza a chi ha sete e non ha appetito in queste giornate qui. A estraniarsi dal consueto vengono fuori cose da favola. Nostrana è bella tonda, quelle americane, invece, sono allungate, meno dolci e meno delicate nella polpa. Mi ricordo lo scandalo delle prime che arrivavano a invadere il mercato. Bianca, rossa, verde, la cocomera è contadina, patriottica, padana, proletaria, storica, affettiva. Gonfia la pancia e fa fare la pipì, percorre, fresca, tutta la nostra vita. “Non mangiare anche il bianco che ti fa male!”, mi dicevano a casa. Ma io la mia fetta me la volevo succhiare fino in fondo e tutta quanta e farla durare al tempo i cui non erano previsti bis né porzioni grandi quanto la mia golosità. Bencivenni le teneva nella sua baracchina del parco che adesso è abbandonata. E non le teneva nemmeno dentro il frigorifero, ma giusto nella botte col ghiaccio a stecche. E bisognava farsi furbi a chiedere quella fresca che l'avesse messa giù da un poco e non da soli dieci minuti. A volte te lo diceva: fresca l'ho finita. Andare alla baracchina faceva serata e Gianfranco Ascari vinceva la gara di numero incredibile con quel poco che potevano costare e quando costarono cinquecento lire il pezzo non ci andò più, perché era un ladrocinio. Sarebbero venticinque centesimi neanche. Spesso la cocomera la si mangiava in giardino sotto il bersò nelle sere come queste qua che non le ha inventate la meteorologia nominalista, ma ci sono sempre state. E anche a Rovereto, che li ringrazio per tanto riscontro, loro, che si vede non sono avvezzi a essere nominati, a Rovereto me la ricordo scelta sul campo a tasti, schiaffetti, bussate e rigirate. Poi messa nel secchio e giù nel pozzo che stava davanti alla casa che è andata giù. Ma più mi ricordo l'invito a mangiarla come si deve, non a pezzetti e col coltello, ma con la faccia dentro che i semi ti devono entrare dentro le orecchie e la faccia si deva bagnare con tutto il muso. Adesso, invece, la cocomera la mangio con coltello e forchetta e i semini neri li levo con la punta accuratamente e non li sputo a gara chi li manda più lontano. Ora, tutto questo fatto della storia della cocomera nasce da quella che si è comperata dal contadino e che è da tagliare. Così nascono le liti sul garullo e la mia tendenza ad avanzare verso di esso. Mi si accusa del fatto che mia madre, ai tempi di Bencivenni, si permetteva il lusso di comperarlo. Succedeva cosi: dopo aver scelto il frutto giusto con attenzione da esperto venditore, lui Benci, dava la cimata di sotto e di sopra, così il rosso si evidenziava e già da lì potevi capire se era giusta o immagonata, senza neanche il bisogno di sfregiarla con il tassello. Poi prendeva il cilindro lucido e tagliente e lo premeva giù. Così estraeva il cuore prezioso da vendersi a caro prezzo. Ci restavano, da vendere a meno, fette accorciate, piene di semi neri in file fitte. Così succede che, quando taglio fette di cocomera, tendo a barare sforando il centro della sfera per farmi una fetta più alta delle altre e conquistare la metà preziosa. E lui si lamenta, che sono come mia madre.
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1976 – In questa foto di Alcide Boni è ritratto Pietro Bencivenni
seduto al Caffè Milano in piazza a Carpi
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Jenner Meletti (Fossoli) - Giornalista di Unità e Repubblica:  "Io da bambino e ragazzo ho mangiato sempre e soltanto il garullo. Al ritorno dalla raccolta – facevo anche al spicadóor (colui che staccava e raccoglieva le cocomere per poi essere immesse sul mercato) – sul carro si spaccava un cocomero appena crepato e dunque non commerciabile e si teneva solo il garullo. Io a quelli della baracchina nel Parco non volevo troppo bene, perché, quando ad esempio le cocomere venivano vendute a 10 lire al chilo, loro ri-vendevano una fetta di mezzo chilo a 100 – 150 lire.”

Voce di Carpi del 10 Luglio 2013 - IN CORNICE -

Questione di garullo
di Rosella Tagliavini

Tutto per una fetta di cocomera. No, dice, tu non la tagli la cocomera, che non sei capace. Io!? Io non sono capace di dare l’avvio alla cocomera!? Brividino di rabbia e fuocherello di indignazione al limite del chi credi di essere e come ti permetti, ma molto contenuto per tutta l’educazione poco meno che inglese che ho. Io che possiedo una tecnica studiata alla moviola fin dalle origini del problema e dell’esistenza del taglio della stessa, dallo scegliere la coltellina abbastanza lunga e appuntita avendo osservato dal vero i gesti di Bencivenni alla baracchina del parco. Allora se le teneva, le cocomere, dentro la botte col ghiaccio e andava a pescare le ultime sul fondo battendole e sculacciate affettuose solo se eri un cliente conosciuto, altrimenti te le dava calde. Io che ho visto come si muove il coltellaccio a decapitare cima e fondo, dischi tricolore, ma solo un poco, per farla stare dritta colante di succo dolce, senza scoppiare crepe. Io che ho visto buttare giù il cilindro di alluminio bordo tagliente per estrarre il garullo compatto e privo di semi. Una volta tirato su lo strumento, mi sembra di ricordare che lo dividesse in quattro con una sezione diagonale e una verticale giusto sul diametro che sapeva calcolare a occhio. Ne uscivano quattro pezzi must, più costosi di ogni altro pezzo, più croccanti e totalmente privi di semi da sputare, o di magoni da scartare. Naturalmente si poteva fare solo con i frutti grossi e nostrani, non con i piccoli o le americane che erano snobbate da tutti. Era, appunto, una questione di garullo. Per via di quel tassello di molti anni fa. Siccome mia madre si permetteva di comperare fette da garullo, io, secondo lui, non sono giusta nella divisione delle fette. Non ho una visione paritaria della distribuzione, accetto disuguaglianze, organizzo parti privilegiate che non tengono conto dei diritti degli altri. Insomma, nella cocomera, non sono socialista e a lui, poi, tocca pareggiare il taglio prendendo dalla parte bassa. Così in cucina ci va lui a tagliare la fetta rigorosa. Ma, siccome non è poi, si vede, così facile, torna indietro e mette davanti alla Ra un pezzo di frutto poco più su della doppia fila di semi tutti da levare. Quella lo guarda e gli dice il suo, che quella porzione lì, non giusta per niente, se la mangi lui. Il fatto è che, per natura, l’anguria non ha una forma regolare di sfera, ma pende, è schiacciata, matura coricata per cui ha una faccia bella e una faccia brutta e acerba e così non è facile ridurre quanto è naturalmente storto e non perfettamente sferico, a spicchio regolarissimo. Così, ridendo, si finisce a offesa perché non è lecito ridere di chi crede in quello che dice e non riesce a vedere un altro punto di vista. Come il valore relativo della fetta o il fatto che si può compensare diversamente, o che si può essere generosi e lasciare a un altro una porzione più preziosa quando a noi non ne derivi un danno grosso. Così, la parabola della cocomera e del garullo potrebbe tradursi in un invito alla tolleranza dei piccoli altrui egoismi e alla generosità o anche solo al calcolo di quanto conviene o no arrabbiarsi per poco.