venerdì 10 maggio 2013

chiamare le galline e altre cosine - dialetto carpigiano



Chiamare le galline
e altre cosine
                                                       EDIZIONE AMPLIATA
        di   Mauro D’Orazi

prima stesura del 27 ott 2012                         v 70 del 08-04-2013


In collaborazione col gruppo “Conosci il dialetto carpigiano” di Facebook
Revisione del testo di Graziano Malagoli e Luisa Pivetti
 Norme di trascrizione del dialetto

Le norme di trascrizione adottate dal
“Dizionario del dialetto carpigiano - 2011”
di Anna Maria Ori e Graziano Malagoli

Tabella per facilitare la lettura

a      a come in italiano                           vacca
aa    pronuncia allungata                         laat, scaat, caana

è e aperta (come in dieci)                        martedè, sèccia, scarèssa, panètt, panèin
èe    e aperta e prolungata                      andèer, regolèeda, martlèeda, taièe
é      e chiusa (come in regno)                 méi, mé
ée    e chiusa e prolungata                      véeder, créedit, pée

i i come in italiano                                  bissa, dì
ii      i prolungata                                   viiv, vriir, scalmiires, dii

ò      o aperta (come in buono)                pòss, bòll, brònnṡa, pistòun, dimònndi
òo    o aperta e prolungata                      scartòos, scatlòot, malòoch, tròop
ó      o chiusa (come in noce)                   tó, só, indó
óo    o chiusa e prolungata                      vóolpa, casadóor, móoi, óov, ṡóogh
u      u come in italiano                           parucca, bussla, dubbi, currer, fiùmm
uu    u prolungata                                  bvuuda, vluu, tgnuu, autuun, duu

c’      c dolce (come in ciao)                     vèec’ , òoc’
cc’    c dolce e intensa (come in faccia)      cucc’, scarnìcc’, cutècc’, palpùcc’
ch    c dura (come in chiodo)                   ṡbòcch, spaach, stècch
g’     g dolce (come in gelo)                     curàag’, alòog’, coléeg’
gg’   g dolce e intensa (come in oggi)       puntègg’, gurghègg’
gh    g dura (come in ghiro)                    ṡbrèegh, siigh

s      s sorda (come in suono)                  sèmmper, sóol, siira
      s sonora (come in rosa)                   atéeṡ, traṡandèe, ṡliṡìi

s-c    s sorda seguita da c dolce                s-ciafòun, s-ciòop, s-ciùmma, s-ciòoch

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Avvertenza: Sono state raccolte testimonianze di Carpi e di tanta altre zone italiane







Chiamare le galline
e altre cosine

La tematica di questa piccola ricerca può sembrare insignificante; piccole cose non troppo degne di essere ricordate.
Ma se si riflette un attimo, si capisce subito che dietro a questi ingenui richiami ci sono storie e tradizioni di generazioni, probabilmente di secoli.
Ciò che abbiamo sentito dalla nonna, essa stesso lo aveva appreso dalla sua e così via. Si tratta dunque di minuscoli reperti “archeologici” della tradizione.
L’allevamento domestico delle galline era molto diffuso, sia in campagna che in città. Anche in giardino a casa mia c’era un pollaio fino ai primi degli anni ’60 e ne conservo un vago ricordo.
Poi arrivò moderno regolamento di polizia urbana che vietò per igiene e molestia (l’insistente canto di qualche galletto) questo antico uso.
Valeva la pena di fissare anche questi ricordi sulla carta, come testimonianza di un passato al quale non possiamo che guardare con nostalgia. Ho aggiunto anche qualche curiosa nota e un paio di gustosi aneddoti.
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Oscar Clò (Campogalliano) - Sua nonna quando era ora di dar da mangiare alle galline usciva in cortile e ripeteva: "Jiin, jiin, jiin! " e tutte le galline gli arrivavano intorno.

Luciana Tosi (Carpi - Budrione) - L a gh à ’na fòoto d sò nòona ch la pèer cal ritràat chè insimma!!! Lée la li ciamèeva acsè:"Còoochi ... còoochi ... còooochi!" E lóor i rivèeven subìtt.

William Lugli (Limidi di Soliera) - Ricorda una zia ch la dgiiva: ”Piriii ... piriii ... pirii!

Mauro Magri (Carpi) al gh à in meint che sò siina (la zia) la giiva aanca lée: "Pirii, pirii, pirii..."

Paolo Pasini (Carpi) - Sò nòona la ciamèeva: “Chè ... chè ... chè!

Claudia Soliani (Carpi) - Sua madre dice tutt'ora: "Ciciun saa ... ciciun saa!"

Enzo Crescenzio Luongo (carpigiano di origini meridionali) - Sua madre invece usava:"Pirin, pirin, pirin!" Era partenopea e non conosceva il dialetto di Carpi, ma le galline si sa ... erano e sono poliglotte !!!!

Deanna Bulgarelli (Carpi - Migliarina) - Sua nonna le chiamava:"Ciini, ciini!"
Lo stesso modo usato dalla nonna di Giliola Pivetti (Carpi).

Nicola Gavioli (Carpi) riferisce che sua nonna chiamava:"Pulii, pulii, pulii..."

Marzia Sala (Carpi)- "Còoochi, còooochi, còoochi!" Detta a mò a di cantilena onomatopeica, l'è la versiòun ch a la cgnuus aanca mé.

Mauro D’Orazi (Carpi) per i pulcini c’è il classico: “Pio, pio, pioooo, …” … per chiamarli.

Giorgio Rinaldi (Vignola – Folclore contadino) - sua nonna le chiamava così:"Póoti, póoti, póoti, ..." (La “o” stretta e la "t" col "falso raddoppiamento" settentrionale). Alla lettera, il richiamo potrebbe essere così tradotto: "Bambine, bambine, bambine .../ puttine - putèini /piccoline".
Desidera a tal proposito far notare un parallelismo basato sull'affettuosità e quindi l'importanza attribuita all'animale tra il definire il maiale "ninètt" o "ninèin", cioè animaletto, animalino (animale per eccellenza) e le galline "póoti", cioè piccolette, bambine.

Luciana Nora (carpigiana, oggi risiedente vicino a Cà de Frari) e che qui sotto vediamo raffigurata in una foto della prima metà degli anni ’50, ha chiesto a una sua attuale vicine come chiama le sue galline:” Ci, ci, ci, ci … Pio, pio, pio …” Un richiamo ripetuto fino a quando non le ha radunate tutte nel pollaio per pasturarle e chiuderle per la notte. 

Luisa Pivetti (Carpi - San Marino) ricorda che nella frazione di San Marino dove abitava, sua nonna radunava le galline con questo richiamo:"Cin, cin, ciiin, ciiin, ciiin! ... ". Luisa ritiene che possa essere un'abbreviazione fonetica di " Cinni, cinni, cinni, cinni, cinni! " (voleva forse dire piccole, piccole ... venite qui?). ma per far uscire l'uovo: "Còoooco, còoco, còoco!" (notare la differenza.)

Stelio Gherardi (Novi di Modena) nel suo bel libro Memorie Novesi 1990 alla voce (che riporto con la grafia carpigiana) vèers commenta ed elenca vari richiami.
Ilario Piraccini (Castiglione di Cervia) ha sentito anche "Pigùuu, pigùuu, pigùuu!"

Carlo Niccolai (Toscana) la mia nonna toscana usava “Piro, piro, piro, piro … “

Marina Zoffoli (Riccione) ricorda che sua nonna Ida usava: “Pi, pi, pi ... Taaaa ... Pi, Pi, Pi, Pi ... Taaaaaa ..."

Vito Olive sua nonna pugliese: "Nè titì, nè titì ...".

Laura Tripaldi (Calabria): "Cuti cuti cuti ... cuti cuti cuti ... tè tè ... cuti cuti cuti..."

Tiziano Casoli a Trebbio di Montegridolfo si diceva e si dice ancora: " PI, pi, ta ..."

Moreno Balzoni (Forlì) racconta che vedendo queste foto gli è tornato alla in mente un aneddoto che si racconta dalle sue parti. Una contadina ogni mattina procedeva alla conta delle galline, mentre dava loro da mangiare: "Cooochii, cooochii ... cinq e quattr ... ott! ... Epù il mi galini i gli era nov! ... Còòchii, còòchii ... " Non si è mai saputo di preciso, se nottetempo, qualcuna sia rimasta preda della faina o di qualche ladruncolo.
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Una caratteristica del mondo contadino era quello di usare una specie di linguaggio tramite il quale ci si metteva in comunicazione (attraverso una particolare musicalità) con gli animali domestici e da cortile per chiamarli, rabbonirli, incitarli o scacciarli:
per pulcini - cirì, cirì, …
per anatroccoli - àni, anì, …
per tacchini o faraone - pirì, pirì, …
per maiali - gòogi, gòogi, …
per cavalli - ìii, ìii, … (per partire o accelerare), lèe, lèe, … (per lo stop, féerm èt).
A questo proposito Gherardi ci ricorda che l’ ‘ìii per incitare il cavallo è uno straordinario esempio di continuità col latino. Per dire andare i latini dicevano IRE e per esprimere l’imperativo “Vai!” o “Andate!” usavano “I”.
Sono perciò oltre 2.000 anni che i cavalli vengono incitati allo stesso modo

Primi anni ’50 - Luciana Nora, assieme alla madre,
alle prese con un’aggressiva chioccia

Chioccia con due pulcini … al caldo
Inizi anni ’50 - La nonna di Luisa Pivetti, Lugli Anna, da tutti chiamata Nòona Nèina (nonna Annina), mentre dà da mangiare alle sue galline a San Marino in Via Cavata, sull'aia, sulla quale si sgranava granoturco, si seccava grano e … si ballava.

Alcide Boni (Carpi) racconta che la zia in campagna quàand la ciamèeva al galèini la dgiiva:"Còochi, còochi, còoochi ..." Dòop trée vòolti èl gh éeren tutti adòos.

Fiorella Urbini (Carpi) ricorda quando era piccola che i suoi avevano un piccolo fondino a Limidi gestito da una famiglia di mezzadri con cui avevano un rapporto di amicizia; la reṡdóora quando dava da mangiare alle galline, diceva: "Co cococococo, co cococococo …" varie volte.

Tiziano Pace Depietri (Carpi) segnala ch a gh è anch:"Coo-coo-coo-coo-coo-coo ..." o anche "Ciri-ciri-ciri... ciriii!"

Erminio Ascari (Carpi, di origini reggiane) segnala: "Cooo, cooo, cooooo! Pio, pio, piooo! Pùii, pùii, pùiiii!"

Matteo Bocciolesi (reggiano di origini suzzaresi) ricorda che sua nonna di Suzzara chiamava anatre, galline, colombi tutti con una frase: "Papìin, papìin, papìin, ciciuni sà, m-m-m". I "papin" sono le anatre; le "ciciuni" sono le galline, m-m-m è il verso gutturale del piccione ... e l'aia si riempiva!


Graziano Malagoli (Carpi) ha sempre sentito sia: "Còochi, còochi ..." che "Cò, cò, cò ... e “Pìo, pìo,” per i pulcini.

Anna Maria Ori (Carpi) ricorda che quando era piccola a Montecreto Mamma Maria (*) le chiamava con: "Piita, pita, pita ...". Un richiamo ripetuto tre volte e molto in fretta, con la “i” più lunga la prima volta.
È curioso come ci sia in tutte o quasi le frasi ricordate l’uso della “i”, forse per una sensibilità particolare di questi animali al suono acuto.
Anche i gatti vengono chiamati con la “i”:"Mimìiiin, mimìin ...".
(*) Mamma Maria era la nonna dei Cappellini che ospitavano la famiglia Ori. Anna Maria la considerava un po' come una nonna acquisita. Era equilibrata, dava soggezione, ma sapeva far capire le cose con uno sguardo. e ci voleva bene, lo capivamo dalle attenzioni concrete che ci riservava. Le galline erano in un metato (edificio per seccare le castagne) in un piccolo castagneto nella località La Vartara, a circa due chilometri e 150/200 m di dislivello, in salita, dal paese. Lei ci andava tutti i giorni, due volte al giorno, due salite e due discese, per aprire il pollaio e richiuderlo, lasciando le galline libere di razzolare in giro – ladri non ce n’erano, allora! Conosceva così bene la strada, o meglio le scorciatoie anche disagevoli che prendeva, che lavorava a maglia per tutto il percorso, col gomitolo in tasca del grembiule. E non faceva maglioni, ma calzini, di cotone bianco, con un gioco di ferri sottili, del n 1 al massimo, e si fermava solo quando doveva fare i calati o gli aumenti, del calcagno o della punta, per contare le maglie e fare un lavoro “giusto”. Non sapeva leggere né scrivere, ma le calze le sapeva fare!

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È bene chiamarle, ma ancor meglio è mangiarle.
A tal proposito, questo proverbio calza a meraviglia :
" In faat d urtàaia, a preferìss la pulàaia" (dissertando sugli ortaggi, io preferisco il pollame). Ossia: meglio una buona gallinotta arrosto, che un cavolo lesso!
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Luciana Nora già direttrice del Museo etnografico di Carpi ricorda ill pane conservato dalla cena della Vigilia di Natale e che aveva caratteristiche “magiche” poteva essere usato anche per preparare una zuppa di brodo di gallina da somministrare alla puerpera come primo pasto dopo aver partorito. Si credeva così di proteggere e aiutare la donna e stimolare la monta lattea.
Una gallina era anche uno dei regali offerti alla puerpera dalla madre: di penna bianca se non si volevano porre limiti alla prolificità, di penna nera se si sperava di ridurla o interromperla.
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Covata di galline
Alberto Guidorzi - esperto di "cose" contadine (Sermide - MN)
La reṡdóora di campagna tutte le sere controllava, prima di chiudere il pollaio, se tutte le sue galline erano rientrate; la mattina, prima di rilasciarle libere per l'aia, provvedeva alla “palpata” (termine non scientifico) che consisteva nel sentire con la punta del dito, se vi era un uovo pronto per la deposizione. Se lo riteneva imminente, teneva la gallina confinata nel pollaio, finché non aveva deposto, se invece giudicava che per la consistenza del guscio si andava al giorno dopo, la lasciava uscire dal pollaio assieme a quelle che avevano già fatto il loro dovere di ovaiole. Tra l’altro conoscendole una per una, la reṡdóora aveva molto bene sotto controllo al situazione.
L'isolamento serviva per impedire che le galline deponessero le uova in anfratti esterni nascosti della corte, cosa che portava al rischio della loro scomparsa.
La reṡdóora teneva sotto costante controllo la produzione di uova del proprio pollaio.
Poteva capitare che nelle ceste di deposizione del pollaio mancasse qualche uovo, già previsto. Allora ricorreva ai tanti ragazzini liberi di scorrazzare in corte e conoscitori di tutti gli anfratti esistenti per trovare il posto dove la gallina aveva deciso di lasciare l'uovo. Quasi una caccia al tesoro! I ragazzini erano anche invitati a osservare le galline che cantavano lontano dal pollaio, perché era probabile che lì intorno qualcuna di loro avesse deposto un uovo. Immancabilmente il premio era un uovo sbattuto da bere, vera leccornia insperata!
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1954 - Nonna con galline
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Al còoregh pèr la ciòosa e i pulṡèin

Nella stupenda foto (che segue) degli anni ’50 si può notare l'abbigliamento delle bimba con maglioncino 4 stagioni, di lana per la primavera - estate -autunno ed inverno. La differenza la faceva la gonnellina, per la primavera e l'estate, mentre per l'autunno e l'inverno c'erano i pantaloni o tutt'al più le calze pesanti sotto il solito gonnellino.
Il caschetto tipo Caterina Caselli è la conseguenza di uno spiccio taglio casalingo realizzato in economia con scodella da caffelatte collocata sulla testa.
Da notare la catenina al collo, regalo da Cresima degli zii ed il braccialetto, sempre a cura degli zii, dato in qualche altro anniversario o caduta di denti. La cosa più bella però è l'espressione della bimba che, complice la sua paffutaggine, risulta essere tra lo stupito e lo stordito, tra l'indeciso e l'impietrito di fronte agli animaletti. Il bimbo sembra fotografato in mutande, una consuetudine abbastanza normale all'epoca, porta il solito maglioncino 4 stagioni in lana.
Questa foto può essere capita nella sua essenza solo da chi nato prima del boom economico di Carpi e dell’Italia in generale. Si vede in questa immagine un trascorso vissuto con una ingenuità e naturalezza che forse, oggi, difficilmente si ritrova nei bambini.
Considerazioni fatte assieme a Vanni Fregni (Carpi)

1950 - Al còoregh pèr la ciòosa e i pulṡèin
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1948 - Carpi - Giliola Pivetti davanti a un còoregh cun i pulṡèin




Cambiamo pennuti

Anni ’50 - La reṡdóora la ciàama l'òoca: “Andòmm a diṡnèer!”
(La massaia chiama l'oca: “Andiamo a pranzo!”)
Òochi e ucaròun

Al Prìmm d’Avrìil tutti a gli òochi i vaav in gìir
Anni ’50 - Luisa Pivetti a 9 anni con la sorella Ornella a Milano in Piazza Duomo
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Pularìa di Adriano Boccaletti di Novi 1990
La pularìa o la pulàaia sono parole dialettali che stanno a indicare l’insieme degli animali di un pollaio. Di giorno si disperdono nell’aia a cercare ogni sorte di cibo e alla sera fanno ritorno nel loro rifugio.
I rifiuti importanti venivano tenuti per il maiale, così le galline (ruspanti, cioè che grattano il terreno per trovare alimento) si dovevano arrangiare.
Solo per completare l’ingrasso a un certo punto si dava loro degli scarti di granaglie.

Un pulaaster, un pulastrèin, unna pulastrèina, unna pulastrèela sono polli, gallinacci giovani; questi termini vengono usati ironicamente anche per indicare ragazzi e ragazze.
Un pulaaster indica anche una persona sciocca e ingenua, facile da raggirare

Un pularóol è un commerciante che si dedica più che all’allevamento, alla compravendita dei polli, spesso barattando merci e beni vari.

La pulèina è assieme degli escrementi dei polli, usato come concime.
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Aragosta e … pulaaster

Si narra che alcuni anni fa un nonno contadino carpigiano, abituato solo ai nostri cibi tradizionalissimi, fosse stato costretto ad affrontare una "bella" crociera per accontentare la moglie e i figli, questi ultimi autori del prestigioso, ma non troppo desiderato, regalo.
La crociera, come logico, si svolgeva in ambienti raffinati, dove abbondavano mangiari strani e moderni.
L'uomo, abituato da una vita al suo semplice e collaudato ambiente campagnolo, non era proprio a suo agio in queste soffici e lussuose atmosfere e ormai da vari giorni mal sopportava, sbuffando e brontolando, la nuova ed esotica dieta; tuttavia abbozzava per non creare imbarazzi. Ma un pomeriggio un addetto dell'equipaggio, ch a l girèeva un pòo dunèina, chiese con voce flautata al gruppo di turisti carpigiani: "Questa sera lo chef propone una gustosa alternativa fra aragosta e piatti con pollo. Vogliate ordunque comunicarmi cortesemente le vostre preferenze, in modo da organizzare al meglio le dîner pour le soir."

  
Aragosta e … pulaaster
Il nostro nonno non se lo fece dire due volte, scattò in piedi dalla sedia, cóome s al gh iss avùu 'na mòola sòtt al cuul, alzò la mano e urlò:" PULAASTER!!"

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I lèeder èd galèini

Durante i furti notturni da parte di lèeder èd galèini, gli animali non venivano certo chiamati, ma erano catturati in silenzio e al buio, mentre avevano gli occhi ancora chiusi.
Divenne famosa negli anni ’50 una coppia di ladruncoli che utilizzavano una tecnica particolare: a gh éera l infurnadóor. I due ladretti facevano un buco in una parete del casotto del pollaio, oppure passavano direttamente dal burlèin (sportellino) dal pulèer. Uno di essi teneva un sacco aperto e l'altro, tale Fiaschìin, vi infilava cautamente un lungo bastone allo stesso modo in cui si introduce una paletta in forno da pane o da pizza. Tich … Tich … Toccava delicatamente le zampe di una gallina, questa al buio sentiva un nuovo appoggio, cambiava posizione e si aggrappava al bastone. A questo punto l infurnadóor al "desfurnèeva (sfornava)" e al cavèeva fóora piàan piàan al pùi che finiva subito nel sacco.

Anche Carlo Lodi (Carpi) conferma questo singolare metodo: aveva un amico più vecchio di lui che, durante la guerra, ogni tanto si arrangiava in quel modo. Era una tecnica efficace che funzionava bene, diceva lui.


Molto nota è anche la sfortunata e più che altro leggendaria avventura capitata a due piccoli malfattori che nottetempo avevano praticato un buco nel pollaio per potere rubare qualche pennuto.
Uno dei ladri mise dentro la testa per capire dove allungare la mano. Il problema era però che il contadino, stanco di altri furti subiti, era all’erta dentro al pollaio con in mano un robusto bastone.
Appena vide il ladro introdurre la testa gli menò fra naso e bocca una secca e violenta bastonata.
Lo sventurato, colto di sorpresa, cacciò un urlo e nel contempo uscì dal buco con una mano sulla bocca.
Il complice non capiva: “Mò ’s’ è sucèes??” chiese più volte.
Riavutosi un attimo dall’intenso dolore, sempre con la mano sulla bocca sanguinante, rispose al compare: “Va dèinter tè, ch a m scaapa da ridder!
La frase, nella più diffusa variante “Va avaanti tè, ch a m scaapa da ridder!”, si è trasformata in un modo dire e viene usata comunemente come tipico atteggiamento nei confronti di un'enunciazione di un'idea altrui, forse bella, forse utile, ma particolarmente onerosa o non priva da pesanti negative controindicazioni. In pratica vuol dire: "Sì! Certo ! Ma fallo prima tu ...".
Anche l’espressione “ladro di polli o di galline” definisce personaggi di infimo spessore qualitativo umano.
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Modi di dire in dialetto

Una persona che è ben sistemata in un buon posto di lavoro si può definire … l è bèin pularèe, nel senso che ben sistemato in un confortevole pollaio, dove ha di chè mangiare, bere sotto un sicuro tetto. L è bèin pularèe in Comòuna, in baanca o in Fundasiòun (è ben collocato in Comune, in banca o in uno dei ben retribuiti consigli di amministrazione della Fondazione della Cassa).


L è un bastòun mèerd: è un bastone usato per rimescolare i pozzi neri o simili fetidi luoghi; definisce una persona molto difficile da trattare e che va presa solo per il giusto verso (quello non sporco … ovvio, evitando gli spricchi), altrimenti si è certi che ci saranno da pagare delle conseguenze poco piacevoli.
Ma c’è un ulteriore grado di gravità in questa categoria di definizioni ed è quando si indica qualcuno come: L è un bastòun da pulèer - È un bastone da pollaio. In questo caso al personàag’ l è dimònndi, mò pròopia dimònndi descòomed; infatti tale bastone, essendo completamente disteso nel recinto delle galline, è sporco completamente in tutta la sua lunghezza e non si sa dunque come prenderlo in mano senza sporcarsi.
A n s sà da che còo ciapèer èl (non si sa assolutamente da che parte prenderlo). Trattare positivamente con costui sarà pertanto un’impresa disperata.

In nèer a s impinìss d óov al pulèer; in gennaio si riempie di uova il pollaio.
Cus èel ch al pulèer? Cos’è questo pollaio? Inteso come come gran confusione. Fèer dal pulèer … fare schiamazzi.

1930 – Contadina con le sue galline
A suun piin cóome 'n óov … sono pieno come un uovo, dopo un lauto pranzo.
Al gaal dal pulèer è la persona più autorevole in un gruppo. Deriva dal fatto che il gallo del pollaio è l'unico maschio tra le galline. Infatti abbiamo ... andèer d acòord cóome duu gaal ind al pulèer. Si è in competizione come due galli in un pollaio; non è possibile la coesistenza pacifica.
Se al gaal l è mutt, pulèer a t salùtt, se il gallo è muto, pollaio ti saluto. Se il gallo non canta, non vi è futuro per il pollaio.
L è argiulìi cóome un galètt, essere vivace come un galletto in piena gioventù.
Un galètt (galtèin, galtinèin) indica un ragazzo vivace, svegli ardito. Al fa al galètt còn tutti al ragaasi ... corteggia tutte le ragazze senza alcun timore.
Mentre i galètt sono gridolini acuti graduati di un bimbo di pochi mesi. Sèint mò che bée galètt ch a fa al putèin! Senti che begli urletti fa il piccolino.

La pèer ‘na ciòosa in covva, sembra una chioccia che sta covando; una frase che si riferisce a una donna dall’aspetto dimesso

Imberièegh cóome ‘na ciòosa, ubriaco come una chioccia. Per far sì che una chioccia allevasse pulcini non suo rimasti orfani, la reṡdóora dava da mangiare al pennuto del pane bagnato nel vino in modo da confondere i suoi sensi con l’alcol. La povera gallina ubriaca camminava caracollando.

Ciuseèr, chiocciare … termine scherzoso riferito a chiacchiere fitte, fitte, fitte di donne, che parlano di tante cose assieme senza pause e sovrapponendosi in continuazione l’un l’altra. Quàand i àan finìi (mò dòop un bèel pòo) i iin tutti cuntèinti, aanch se nisunna à capìi gniint!
Quando hanno finito di chiacchierare (ma dopo un bel po’) sono tutte contente, anche se nessuna ha capito niente.


Pusèer cóome ‘n unndeṡ, puzzare come un uovo marcio. Se si traduce questa frase dal dialetto si è facilmente indotti a riferirsi al numero undici, che invece NON c’entra nulla. Il significato della parola unndeṡ, inndeṡ o enndeṡ, come risulta dai vari modi di dire delle nostre zone, è infatti … indice. Si tratta di un uovo vero o di legno, detto appunto "indice", che era quello che un tempo la resdṡdóora lasciava nel nido, affinché le galline andassero tutte e sempre lì a fare l'uovo e non in altri posti sparsi, col rischio di perdere il loro prezioso deposito.
È facile comprendere che dopo alcuni giorni l'uovo "indice" prendeva un "profumo" caratteristico di marcio.
Òogni cuvèeda la gh a al so unndeṡ, ogni covata ha il suo uovo marcio; la frase può essere riferita anche a una figliolanza numerosa, dove qualche rampollo può risultare con dei difetti fisici, mentali o caratteriali
Ciacarèer cóome ‘na ciòosa - ciusèer
(Parlare come una chioccia - chiocciare)


Magnèer cóome un pulṡèin, mangiare come un pulcino, ovvero pochissimo.
Móoi cóome un pulṡèin, bagnato come un pulcino appena uscito dall’uovo.

L è próopria un pulaaster (o un pùi), è proprio un giovane pollo, una persona ingenua facile da ingannare.

‘Na bèela pulastrèina (pulastrèela, galinèela), riferito a un’avvenente giovane ragazza che si vorrebbe ghermire a concupiscenti desideri.

Fèer cuacìin, è l'azione del pulcino che si rannicchia sotto la chioccia.
A la fèesta a m pièeṡ fèer un cuacìin a lèet primma d alvèer èm. La domenica mi piace starmene rannicchiato nel calduccio del letto per un po', prima di alzarmi.

Imberièegh cóome 'na ciòosa, ubriaco come una chioccia. Quando alle chiocce veniva dato pane inzuppato nel vino, perché accettassero, senza accorgersene, pulcini di altre covate da allevare.

La pèer 'na ciòosa in còvva, sembra una chioccia che sta covando. La frase si riferisce a una donna dimessa e di atteggiamento schivo.

Le lè ch al còvva quèel! È lì che cova qualcosa. Quando persona se ne sta seduta rannicchiata, mogia mogia; la febbre e i brividi stanno arrivando.

A gh caala sóol al laat èd galèina, gli manca solo il latte di gallina. Si tratta di una persona privilegiata che ha tutto, gli manco solo l'impossibile.

Questioni di argiulidùura … la galèina vèecia la vóol al galètt nóov; questione di ripresa di vitalità … la donna vecchia vuole un compagno giovane.

Fèer la bòcca a cuul d galèina, quando fa una smorfia di disappunto, fastidio, disprezzo stringendo il centro delle labbra verso l'esterno.



Pèr Paasqua e pèr Nadèel, òogni galèina al sò pulèer … per Pasqua e per Natale ogni gallina al suo pollaio. Nelle grandi occasioni si torna in famiglia.

La gallina faraona (la faravòuna), considerata la sua provenienza dall’India, si chiamava anche la dinndia. I contadini la portavano per Natale in città, già plèeda, a chi aveva fatto loro importanti favori o dato preziosi consigli.

Pulèer
Un’usanza particolare delle nostre campagne del secolo scorso prevedeva che la madre della puerpera regalasse, fra i vari doni offerti in questa circostanza, una gallina. Doveva essere di penna bianca, se non si volevano porre limiti alla prolificità, di penna nera se si sperava di ridurla o interromperla.

Anni ‘60 - La massaia con le sue galline

Mercato dei polli - Piazzale Ramazzini a Carpi - anni '50 - Il sig. Veroni, noto pollivendolo di Fossoli col fazzoletto al naso. Abitava in Via Remesina detto "Vròuna al pularòol"!!

1965 Scuola di campagna - lezione all’aperto

1960 Nonna e nipotina con le galline - Il nonno dietro al lavoro


1960 - Una bambina osserva curiosa una giovane gallina
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Oltre ai polli e altri pennuti, c’era naturalmente anche il maiale a cui dar da mangiare …


anni 60 - Famiglia con maiale e galline
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Le radiazioni atomiche possono portare singolari conseguenze!!

Fionda e arco - dialetto carpigiano



La sfrummbla
di Mauro D’Orazi

Prima stesura 26-02-2013                                                        V26 del 05-04-2013

Pubblicata su Voce di Carpi n 11 del 14-3-2013
Fionda

Voglio ricordare uno dei giochi più popolari tra i bambini di una volta, soprattutto per i maschi. Mi riferisco alla sfrummbla, cioè alla fionda, che più che giocattolo era una vera e propria arma di difesa e offesa. Quanti fanali e quanti vetri sono andati in frantumi, grazie a questo micidiale strumento. Un oggetto proibitissimo in casa mia, soprattutto perché mio padre era un poliziotto e non voleva certo guai dai figli per sciocchezze del genere.
Le difficoltà tecniche che si incontravano per costruire una buona fionda. Per prima cosa bisognava trovare il ramo giusto a Y (al cavalètt), frutto di apposite spedizioni in campagna. Doveva avere la grossezza, la consistenza e la biforcazione più corretta per legarci gli elastici, che di solito si ottenevano da certe camere d'aria particolari che si conservavano gelosamente.
A n éera mìa faacil truvèer èl ind al fatèssi giùssti.  Dal vòolti a gh e vliiva di bée dèe. Al lèggn l andèeva pò stagiunèe e tutt tirèe còn un véeder pèr fèer èl gniir bèel liss. Non era facile trovarlo delle fatte giuste. Delle volte ci volevano dei bei giorni. Il legno andava poi stagionato e tutto tirato col bordo di un vetro tagliente per farlo venire bello liscio e adatto alla mano del tiratore.
Di solito si usava il legno di olmo che aveva della biforcazioni adatte all’uso successivo.
Un altro modo di approvvigionamento era trovare il pezzo adatto fra le fascine da bruciare.
Poi serviva il pezzetto di cuoio che doveva contenere il sasso. Ci si poteva far aiutare dalla complicità di qualche scarpolino, ma di solito erano poco propensi a perdere tempo con noi ragazzi. Oppure ti arrangiavi da solo con ago e filo pèr sistemèer al capusóol: ma che fatica! … spesso inutile. Se non si era un po’ esperti il risultato era quasi sempre indecente e l’attrezzo finiva fuori uso dopo pochi tiri.
Si andava in cerca di scarpe vecchie pronte per essere gettate via, sperando di trovare la linngua (la linguetta sotto l'allacciatura) ancora in buono stato; si tagliava questo pezzettino di cuoio e lo si usava per fare al capusóol dla sfrummbla, incidendo due piccole aperture ai lati per far passare e fissare gli elastici.
Nota: al capusóol era anche il rinforzo in metallo che si metteva nella punta delle scarpe per farle durare di più, assieme al bròochi che invece erano i chiodi che si mettevano sotto le suole sempre aumentarne la durata. Un tempo le scarpe erano un bene costoso e da tutelare. Quante foto d’epoca abbiamo visto dei primi del ‘900 con i ragazzini che giravano a piedi nudi, sia in campagna che in città!
Con invidia invece ammiravo la produzione dei ragazzi più grandi, che creavano esemplari davvero belli ed efficienti.  
Molto pregiati erano poi degli elasticoni bruni di pura para a sezione quadrata; sviluppavano uno potenza incredibile. In dialetto l’attrezzo così potentemente dotato prendeva il nome di sfrummbla a quadertòun.
Questi ambiti elastici si trovavano a pagamento per qualche decina di lire nella bottega di Alcide Palmati in Corso Fanti ed erano molto più potenti delle camere d’aria.
Trovati finalmente tutti i pezzi si procedeva all’assemblaggio, spesso con la complicità del tuo gruppetto di amici. Si andava a casa di qualcuno che aveva i genitori fuori, altrimenti al Parco su una qualche panchina. Il legno si levigava al meglio per adattarlo alla mano; si incidevano due scanalature per fissare le strisce di gomma. Si usava per unire il tutto dove necessario con un filo robusto da calzolaio avvolto strettamente. E finalmente lo strumento era pronto per le prime prove.
A questo punto non restava che procurarsi i sassi adatti, belli rotondetti, ben calibrati in rapporto alle dimensioni della fionda e farne una buona provvista da mètter in bisaaca. Non di rado il peso tendeva a far scendere le braghette
Circa i proiettili, oltre i sassi, c’erano però altre due varianti ancora più pericolose.
Si potevano tirare le castagnole, che erano delle bombette grosse come una castagna. Si compravano in armeria e nelle cartolerie, ad esempio da Romano sotto il portico di Corso Fanti di fronte a Palazzo Gandolfi; avevano un avvolgimento di carta spessa in vari colori, dentro c’era povere esplosiva unita a minuto brecciolino. Il colpo violento sul terreno, di solito fra le gambe delle ragazze per carnevale, provocava attrito, scintille e una conseguente rumorosa, quanto innocua deflagrazione.
Se la castagnola però veniva tirata contro il muro di una casa con una fionda l’effetto era ancora più eclatante e divertente. Esilarante era vedere le facce spaventate e stupite degli abitanti delle case che si affacciavano alle finestre per capire cosa stesse succedendo. Bisognava però essere molto veloci a fuggire per evitare spiacevoli conseguenze e ritorsioni.
L’altro di tipo di munizione era davvero micidiale; lo si otteneva andando di nascosto nei cantieri delle case in costruzione, senza farsi beccare dai muratori. Si cercavano i tondini in ferro, che servivano come anima del cemento armato, poi, con la tronchesa presente sul posto, si tagliavano tanti pesanti dadini di un centimetro cubo circa.
Vi lascio immaginare l’effetto devastante e criminale di tali proiettili con una fionda dotata di robusti elastici.


Si cercavano poi le zone adatte e gli obiettivi su cui esercitare la mira e calibrare la fionda. Come target si andava dai coperchi dei camini sui tetti, ai lampioni, ai bicirèin, i boccolotti bianchi in vetro-ceramica isolanti dei pali e fili della luce, ai cartelli stradali, alle lucertole, agli uccelli e fino anche a compiere veri disastri (vetri di case, la testa di un bambino, ecc …) che poi causavano di conseguenza la confisca e la distruzione della fionda da parte di maestri e genitori, nonché la giusta l’erogazione di pene corporali punitive.
Quando si tornava a casa, rientrando dal Parco, la fionda veniva conservata clandestinamente; celata sotto la maglietta, veniva subito nascosta in fondo a un cassetto o dietro i volumi di SandRocan della tua libreria.
Ma quando uscivi casa, sempre dopo aver tenuto la fionda sotto la maglietta, non vedevi l’ora di esibirla con l’orgoglio di un pistolero del west con la bici al posto del cavallo.
C’era anche un altro modo per ottenere una fionda di prima qualità: andare sempre nel negozietto Palmati. Proprio lì, dove si trovavano anche gli elasticoni quadrati.
C’era solo un problema: il costo! Un esborso davvero proibitivo per le tasche di un bambino degli anni ’60: da 1.500 lire per il modello più semplice e ancora di più per i modelli più sofisticati. Che desiderio bruciante! MAI realizzato!
Tanto che l’anno passato, frequentando i banconi di una fiera dell’elettronica, per l’altro pieni anche di prodotti cinesi di ogni genere, ho visto un bel mucchio di fionde con la loro bella scatola, fatte magnificamente in tondino di ferro appositamente ricurvato e verniciato, con un elastico meraviglioso … ripeto … MERAVIGLIOSO: 5 euro? Sì! Solo 5 euro! Non ho resistito e l’ho presa subito.
Tornato a casa, volevo regalarla con solennità e orgoglio al figliuolo di un mio amico, che per temperamento se la sarebbe certamente goduta … con imprese audaci e prove di ardimento. Bhèe! Non ci crederete: mi hanno ASSOLUTAMENTE proibito di dar sfogo alla mia disinteressata ed entusiasta generosità. “Guai a te s te fèe un lavóor dal gènner!!!”
Maha!??! Il mondo è proprio cambiato !!
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Fra i più grandi sfrumbladóor degli anni ’40 del secolo scorso, ricordiamo Lino Corradini, detto Badoglio, poi emigrato in Canada, micidiale cun al  pirètti e  i lampiòun.
Ma anche Gianni Chiesi, della Banda della Piazzetta; di lui si narra una vicenda mirabolante. Nel 1944 i Tedeschi usavano per le ricognizioni degli aeri leggeri foderati in tela, detti Cicogna; un giorno il nostro se ne trovò a tiro uno che volava a bassa quota e lo perforò con un perfetto colpo di fionda.
Il piccolo aero fu costretto a effettuare urgenti riparazioni e, non si sa come, il provetto tiratore fu individuato e convocato con tutta la banda dalle autorità per la strapazzata del caso.
L'aereo tedesco da ricognizione Fiesler Storch, detto Cicogna

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Renato Corsi (attore carpigiano) ricorda:” Gli elastici per la fionda si andavano a comprare non solo da Palmati, ma anche da Mantovani Gomma in Corso Alberto Pio; questi ultimi però erano  di color nero.
Si andava anche a rompere le scatole a un qualche gommista per avere delle camere d’aria da auto usate, perché gli elastici erano molto più potenti di quelli delle bici.
D intóorna al cavalètt dla sfrummbla si avvolgevano gli elastici di scorta; sempre pronti per un rimpiazzo alla veloce e un ripristino offensivo dell’arma.
Una volta dovevo finire di assemblare ’na bèela sfrummbla, ma mi mancava al capusóol, il pezzo di pelle destinato a contenere il sasso.
Ebbi la brillante idea di tagliare una lingua di una scarpa di padre.
A quel tempo le scarpe erano un bene prezioso, non come oggi che se trovano a prezzi stracciati.
Quando la domenica dopo mio padre fece per mettersi le scarpe e vide lo scempio commesso, capì subito che era stato io.
Al mé dè unna d cagl’uunti, che a distanza di 60 anni a gh l ò ancòrra in mèint cóome adèesa.

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Vi sono alcuni modi di dire in dialetto inerenti al tema.
Andèer a sfrummbla, andare molto velocemente con un scatto iniziale molto energico.
Magnèer a sfrummbla, mangiare molto velocemente.
Al pèer ‘na a sfrummbla, sembra una fionda, riferito persona molto dinamica
(S)fiunderèes, precipitarsi velocemente il un determinato posto
Sfrumblòun, questa parola definisce un ragazzo che consuma velocemente la roba che indossa o che usa. La madre al figlio, osservando le scarpe nuove già logorate: “ T ii pròopria un sfrumblòun!”.
Sfrummbel, in fretta e furia, velocemente.
Sfrumblèer, atto del tirare e/o colpire con la fionda.
Sfrumblèeda, un tiro di fionda.
Sfrumblèerers, atto del precipitarsi, buttarsi a capo fitto, fiondarsi in un luogo … giù per le scale.
Al (La) tirèeva cóome ‘na sfrummbla, modi dire evocanti organi sessuali in piena e performante azione.
La gh à dóo gàmmbi ch ii perèen un cavalètt da sfrummbla. Ha due gambe che sembrano un telaio da fionda, cioè arcuate e storte.  O duu s-ciavaróo  (pioli da sedia), se sono piccole e sottili.

Fionda da www.etimo.it

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L’èerch èd scòddṡi
(L’arco)

Un’altra esperienza la facemmo con del materiale estremamente pericoloso: le stecche o bacchette (al scòddṡi dl’umbrèela = le costole) molto flessibili di acciaio provenienti da ombrelli rotte o dismessi o bellamente … fregati.


Si legavano strettamente col fil di ferro di seguito due o tre stecche, si incurvava il tutto e si inseriva fra due capi una corda e … l’arco era pronto. Come frecce naturalmente di usavano delle altre bacchette che per la loro conformazione avevamo anche ai capi una rientranza che consentiva di incoccare bene. Con allenamento e perizia si piantavano nel tronco degli alberi. L’operazione produceva dei rumori affascinanti e indimenticabili … fissssschh  … stoookkk!
Pensate se fosse arrivato per fatale errore nell’occhio di un compagno di giochi!

La libidine maggiore l’avevamo lanciando la bacchetta di metallo in alto, tra i fili della luce. Quando l’asta toccava contemporaneamente due fili, il tutto andava in corto e si sprigionavano scintille, sfrigolii e “sfriggimenti”. La nostro gioia di sconsiderati era immensa, soprattutto quando poi si esaminavano i silàach  e si constava che il metallo della stecca si era un po’ fuso dove aveva toccato i fili.
La fortuna ha voluto che non succedesse mai niente.

Renato Cucconi (Carpi) racconta: Nuèeter ragasóo èd via Ròmma e via Marco Meloni, subìtt dòop la guèera, cun al scòddṡi dagl’umbrèeli a gh fèeven i éerch da tirèer al frècci. Al frèecci i éeren dagl’èetri scòddṡi; a gh fèeven la puunta da un còo cun un saas e un martèel.
Cun un gèss a s fèeva un séerc’ in un purtòun èd lèggn e a s divertiiven a fèer i céentro. Cal ṡòogh chè l éera dabòun pericolóoṡ e s a s n acurgiiva al padròun dal purtòun t iiv da vèdder che vulèedi, se no i éeren bòoti e chèels ind al cuul. Se pò i l gniiven a savéer i tóo, óoltre al sequèester dl éerch, i éeren èetri bòoti da òoreb.
Noi bambini di Via Roma e Via Marco Meloni, subito dopo la guerra, con le astine degli ombrelli facevano gli archi da tirare le frecce. Le frecce erano della altre stecche; facevamo loro la punta da un lato con un sasso e un martello.
Col gesso si faceva poi un cerchio in un portone di legno di una abitazione e ci si divertiva a fare centro.
Questo era un gioco davvero pericoloso e quando se ne accorgeva il padrone del portone, dovevi vedere che volate, se no erano botte e calci in culo. Se poi lo venivano a sapere i tuoi, oltre al sequestro dell’arco, arrivavano botte da orbi.