lunedì 16 settembre 2013

Ultimi istanti della Silan di Carpi - ago 2010
ecco il link

http://www.youtube.com/watch?v=w91Vf-hH_VM

usate il copia incolla



Dialetto carpigiano:  per  non  dimenticare  chi siamo
Persone | 27 Giugno 2013 IL TEMPO
Lo stile è brillante e l’ironia a tratti irresistibile: non stupisce che Mauro D’Orazi sia rimasto in cima alla classifica dei libri più venduti a Carpi con il suo La ruscaróola èd Chèerp. L’idea di aver surclassato Inferno di Dan Brown inorgoglisce l’autore e tutti i cultori del dialetto carpigiano, ricercatori e linguisti interessati a catalogare, conservare e divulgare.
“Esiste persino un gruppo su Facebook (‘Chi parla dialetto carpsan’) a cui appartengono più di millecinquecento persone” spiega Mauro D’Orazi che, per la stesura del volume, si è avvalso della collaborazione di tanti appassionati.
Un tempo si pensava che il dialetto ostacolasse un corretto apprendimento dell’italiano, “ma quell’idea si è rivelata errata: oggi con i dialetti in forte regresso la lingua italiana è ben lontana dall’essere usata con proprietà. E ci ritroviamo a contrastare il declino del dialetto, parte integrante della nostra cultura salvando dall’oblio voci, modi, frasi, significati”. Così La ruscaróola èd Chèerp rappresenta, come scrive Luigi Lepri nella prefazione al libro, “un vademecum per ogni famiglia di Carpi, per non dimenticare chi siamo, il nostro carattere, le nostre radici”.
Oggi, prevale un uso misto di italiano e dialetto, a cui si attinge per lo più per frasi di uso comune di vita di tutti i giorni (Ciao a vàagh a ca!) o per imprecazioni e parolacce. Il destino del dialetto? Mauro D’Orazi avanza una sua teoria (p. 260): “Dalla fine degli Anni ‘50 il dialetto è visto malissimo ed è segno di ignoranza e arretratezza... Si semplifica, si destruttura, si italianizza, perde tante parole, spesso quelle più belle e caratteristiche”. Insomma, per D’Orazi, il dialetto non è più di moda”.
Oggi molta gente capisce il dialetto, pochi lo parlano, si nota però un amore verso di esso e nuovi spirargli per il suo uso e trasmissione alle nuove generazioni. Il dialetto non morirà, si trasformerà; il dialetto non gode certo di buona salute, ma non scomparirà! Il volume, allora, restituisce e conserva a futura memoria, quegli aspetti di corrosiva carpigianità che solo il dialetto è in grado di esprimere. Il riferimento riportato da D’Orazi nell’introduzione ben esemplifica il concetto. Una frase del genere: “Gentile signore, vista l’inopportunità del suo stolido, antipatico e sconveniente agire, la invito e la esorto a ritirarsi immantinente in un acconcio luogo di decenza ad espletare le sue funzioni fisiologiche, a cui peraltro è aduso, e conseguentemente a eclissarsi dalla mia percezione visiva e uditiva!”, si risolve in dialetto con un semplice e chiaro: “Mò va a caghèer”.
Il volume può essere preso in mano e letto partendo da qualsiasi pagina oppure sfogliato per ammirare l’apparato fotografico che parte dai primi del ‘900 per arrivare fino agli Anni ‘80.
Per più di un terzo dedicato alla fraseologia licenziosa tipica del dialetto, La ruscaróola èd Chèerp contiene aneddoti e storie di vita carpigiana, una sezione interamente dedicata ai giochi dei ragazzi dagli Anni ‘20 agli Anni ‘80 e si conclude con il dizionarietto carpigiano di milleuno insulti a cura di Graziano Malagoli (coautore, nel 2011, con Anna Maria Ori del Dizionario di Dialetto Carpigiano).
A completamento dell’opera, Mauro D’Orazi ha realizzato cd che contengono le poesie di diversi autori fra cui Jolanda Battini, Fiorella Urbini, Loris Guerzoni, Mario Stermieri, lette e recitate dalla stessa Jolanda Battini. “Delle cose di cui vengo a conoscenza vorrei che non andasse perso nulla” rivela D’Orazi.E sarà così. Per amore di Carpi e dei carpigiani!
Sara Gelli

domenica 15 settembre 2013

Preziosa appendice

I giochi, gli svaghi e i passatempi in campagna
di Mario Cassoli

aggiornamento e revisione del testo di Mauro D’Orazi (2014-15) V07

Riporto un bel capitolo di Mario Cassoli del suo libro “Carpi: memorie di vita contadina”, edito nel 1980 da Garuti e Gualdi – Carpi.
Ho apportato alcune lievi integrazioni, modifiche e aggiornamenti per coordinare meglio il testo con le mie ricerche; tutto col permesso della figlia di Mario Cassoli, Milena, che qui ringrazio per la sua generosità e comprensione.
Ho aggiunto anche altre preziose testimonianze di protagonisti di quei tempi; ricordi che ho raccolto di persona.
Il periodo trattato è la prima metà abbondante del secolo scorso e i riferimenti riguardano più la campagna, che la città.
Da notare poi che molti di queste attività si praticavano comunemente anche a Carpi – città, con gli inconvenienti degli spazi più angusti e della repressione, per quelli più pericolosi e dinamici, degli adulti e dei vigili.
Molti di questi giochi, in praticati e in uso da secoli, sono purtroppo quasi scomparsi a partire dagli anni ’80. Mauro D’Orazi
*0*
La vita dei campi, sempre così tesa e oppressiva, per affrontare la quale tutti erano sottoposti a continui sforzi fisici e a un lungo logorio psico-nervoso, richiedeva sostanziali pause ricreative e il bisogno di mutamento, anche se temporaneo, alla normale routine della vita quotidiana basata sulle abitudini e sulle pratiche imposte dalle esigenze dell'avanzare del tempo e da quello che il tempo portava con sé.
Gli adulti avevano una loro tradizione di svago nei giochi, che non sono a tutt’oggi mutati e che portavano alla domenica e nelle altre festività all'osteria a giocare a carte oppure al più movimentato gioco delle bocce; giochi che servivano a porsi in contatto con terzi, a farsi conoscere, ad avere una propria personalità che si evidenziava con la memoria e la scaltrezza dei singoli e che metteva la persona in grado di essere giudicata dagli altri.
I giochi degli adulti erano pochissimi, ben più rilevante è la parte e l’importanza che i giochi avevano nella vita dei bambini.
Con il gioco i ragazzi realizzavano con naturalezza se stessi: scaricavano la loro esuberanza, imparavano a vivere assieme, a mettere in pratica le norme difficili di convivenza, ad assoggettarsi alle regole del gioco che con i loro compagni avevano convenuto di rispettare, a comprendere e tollerare il comportamento o il raggiro o la sopraffazione del più scaltro o del prepotente di turno. Proprio attraverso il gioco il ragazzo integrava quelle esperienze e quelle carenze di insegnamento che purtroppo i genitori, per i continui
impegni lavorativi, non avevano tempo di curare per giungere a quelle finalità educative che invece più facilmente trovava il ragazzo di città.
Il ragazzo di campagna disponeva di meno tempo libero rispetto ai suoi coetanei della città o delle borgate attorno a Carpi, in compenso aveva più possibilità di svagarsi costruendosi il mezzo per il gioco e utilizzando gli abbondanti spazi per dare sfogo alla sua esuberanza fisica.
In questi grandi spazi senza limiti, quali erano il cortile e i campi, trovavano modo di correre e di nascondersi, saltare, individuando in ogni angolo un mezzo per trarre divertimento e sfogo dalla loro vitalità. Negli edifici annessi alla corte, con tutti quei ripostigli che sembravano inesauribili, con tanti attrezzi e recipienti custoditi, trovavano un teatro ideale per il gioco con tanto spazio per le loro fanciullesche fantasie.
Raggiunta l'età della doverosa presa di coscienza e responsabilità, il passaggio dal gioco al lavoro avveniva con naturalezza. Non dimentichiamo che il ragazzo sempre era utile perché infiniti erano i lavori ai quali poteva dedicarsi col minimo sforzo, specie quelli nell'ambito della ''corte". La necessità di essere utili portava a non interessarsi dello studio e nemmeno alla ricerca dell'emancipazione. Diventavano prima vecchi che adulti, anche per il fatto che non v'era tempo per essere istradati. Rimanevano analfabeti, semplici, timorosi, emotivi, indecisi; fortunatamente crescevano in famiglie numerose e tra tanti bambini, perciò con il vivere in gruppo si imitavano a vicenda, aguzzavano l'ingegno aiutandosi l'uno con l'altro nel crearsi i mezzi per giocare assieme, correre, ridere, scherzare.
I figli dei contadini erano meno esperti e si trovavano spesso a disagio di fronte agli altri. Erano pronti nel gioco collettivo, ma erano nullità quando dovevano rappresentare se stessi singolarmente. Allora il loro modo di divertirsi assumeva caratteri tutti particolari: perdevano quella vivacità e quella intraprendenza che manifestavano in gruppo. Guai poi se era presente un adulto, diventavano subito seri, bui, chiusi e complessati.
Era più facile che un ragazzo, che viveva nel centro del paese, si recasse a giocare con quelli della campagna nelle case di quest'ultimi, anziché viceversa. A parte il fatto che la casa colonica concedeva molto di più di una piazza o di una via di Carpi, era soprattutto una questione di timidezza e il trovarsi fuori dall'ambiente non era una cosa semplice. Inoltre il ragazzo della campagna, come detto, era frequentemente costretto a interrompere il gioco per dare il suo contributo lavorativo a ogni richiesta perveniente dagli adulti, o dalla donna di casa o dalla nonna o dalla madre.

La domenica era tutta dedicata ai giochi: non v'erano interruzioni forzate, si trovavano con gli amici delle case vicine, erano impegnati al massimo. Si rispettavano fino a quando tutto filava bene, ma nascevano bisticci e incomprensioni al solo sospetto di essere stato burlato. E quante volte finiva in lite e il più timido o il meno veloce si allontanava con un occhio livido ! Liti da poco, perché il giorno dopo gli stessi ragazzi si cercavano come se nulla fosse accaduto. In quei tempi era pericoloso ricorrere ai propri genitori in cerca di appoggio o di difesa. Raccontare al padre o alla madre di essere stato picchiato da un amico significava essere nuovamente picchiato: era il sistema per far capire al figlio la necessità di scegliere tra comportarsi meglio o farsi furbo.
Anche nei giorni feriali il ragazzo di campagna, oltre al suo apporto lavorativo così vario e frammentario, trovava il tempo per lo svago e il gioco.
Trovava il tempo di arrampicarsi sui gelsi per fare scorpacciate di more, bacchiare le noci senza essere visto (perché anche le noci erano un cibo per tutti) come pure riempirsi le tasche di frutta e mangiarla di nascosto. Molte volte queste arbitrarie mangiate di frutta erano più dovute a fame che a golosità.
Questi timidi monelli ne combinavano di tutti i colori, non stavano mai fermi, erano allontanati dall'osservazione degli ospiti di casa. Erano considerati degli ingenui castigamatti : perciò la loro presenza di fronte agli estranei era temuta. Erano instancabili nel correre e nel saltare, sempre scalzi e con le ginocchia che abbinavano lo sporco alle piaghe delle continue cadute. Non era facile indurli a lavarsi e questo poco importava finché dormivano nel fienile su un ruvido telone; invece diventava un problema quando il progresso portò in casa un letto con lenzuola, anche se il materasso era pieno di foglie di frumentone (scartòoc’ o scartòos).

C’erano giochi propri dei maschi e altri specifici delle femmine, per cui si giocava spesso a compartimenti stagni; ad altri giochi invece partecipavano indifferentemente bambini e bambine. Vi erano giochi di parole e di fatti senza l'ausilio di oggetti; altri invece erano giochi di suoni, di offesa, di abilità per i quali i ragazzi costruivano il necessario con il loro ingegno o sull'esperienza di quelli realizzati dai genitori o dai fratelli più anziani.
La rassegna dei numerosi giochi avrebbe senz'altro richiesto una maggior discrezione sulle particolarità e la procedura, ma lo spazio purtroppo avaro nel nostro programma ci ha consigliato di fare di tutti solo un breve cenno.

Da un ramo di legno secco, avente un diametro di circa tre-quattro centimetri si ricavava un cono sulla cui parte appuntita si fissava un grosso chiodo da scarpe (bròoca). Avvolto attorno da uno spago, di cui si tratteneva con la mano un capo, veniva lanciato fortemente sul pavimento e costretto a girare su se stesso per srotolarsi: così facendo, la trottola (al frull) continuava a ruotare per lungo tempo.

Con l'omero dello zampetto di maiale si giocava al frull (anche questo chiamato dai carpigiani come la trottola): al suo centro si faceva un foro e vi si infilavano i due capi di uno spago con un particolare nodo avvolto all'osso; mediante un "tira e molla" dello spago, che si arrotolava e si srotolava velocemente sia in un senso che nell'altro, l’osso continuava a girare su se stesso sollecitato dal movimento del ragazzo.

Più ingegnoso era il rocchetto (al caar armèe), già privo del filo per cucire e tutto seghettato negli orli. Si infilava nel foro assiale un elastico circolare ricavato da una vecchia camera d'aria di bici, da un lato l'elastico era fissato da un chiodino e dall'altro da un fiammifero (fulminàant) o da uno stecchino che rimaneva distante dal rocchetto grazie a una rondella di cera ricavata da una candela. Il fiammifero veniva caricato in modo da attorcigliare l'elastico dentro al rocchetto. Posto sul pavimento il meccanismo girava lentamente fino al completo allentamento dell'elastico.

Un altro tipo di trottola era quello ricavato da un mezzo rocchetto nel quale era infilato a pressione un bastoncino in modo che sporgesse appuntito da una parte per due o tre millimetri; l'altra parte invece doveva rimanere esterna per due o tre centimetri in modo da poter essere afferrata tra due dita per imprimere un moto rotatorio e abbandonare la trottola sul pavimento.

Tra i giochi di offesa, il più economico era il lancio delle frecce di cartone (stufiòun) ricavate da una striscia e arrotolate a punta da un lato formando un lungo cono che veniva infilato in una canna del diametro di un centimetro circa e con un soffio era lanciato nella direzione voluta. A volte la punto del proiettile avvolgeva uno spillino, così da rendere davvero pericolosa l’arma.

Rincorrere un cerchione metallico (al séerc’) di una ruota da bicicletta, era tra i giochi più semplici e salutari dei ragazzi. Non richiedeva particolari accorgimenti; era sufficiente con un bastoncino spingere il cerchione nella concavità dove erano fissati i raggi della ruota e correre veloce lungo i campi.
L'aquilone (la cumètta) era un gioco di primavera, quando spirava un venticello sufficiente a far librare in alto il rudimentale apparecchio di carta. A un quadrato o a una losanga di carta oleata si fissava un telaio, costituito di bastoncini incrociati di legno leggerissimo, fissati alla carta con colla ricavata da farina impastata con aceto e da strisce di carta di uguale tipo, ma di colori vistosi affinché rendessero il tutto più colorato e più robusto. Con anelle congiunte, sempre di carta, si faceva una lunga coda. Uno spago fissato alle estremità della crociera permetteva di fissare al centro il lungo filo che avrebbe trattenuto e sollevato l'aquilone. La coda, dato il peso, dava al complesso l'inclinazione dovuta affinché il vento, che aveva la direzione opposta, gli fornisse la portanza sufficiente a portarlo in alto tenendolo sollevato.

Tra i giochi di gruppo, i più frequenti e duraturi erano per i maschi quelli delle palline (al buciini). I giocatori erano molti e alcuni, oltre all'interesse della vincita e all’aumento del capitale di palline in possesso, avevano come scopo il prestigio, la supremazia sugli altri, ottenuti con l'abilità e l'astuzia. Il gioco più semplice, mettendo in palio una o più palline, era pari o dispari, oppure testa o croce con il lancio di una monetina. Poi vi era il gioco del contare (fèer la còunta). Ogni ragazzo diceva un numero che veniva sommato agli altri: la risultante era il numero finale della conta che, partendo da un punto fisso precedentemente stabilito e indicando ad uno ad uno i presenti, veniva effettuata in senso orario. Il vincente (colui che si trovava a corrispondere al numero risultante) vinceva una pallina da ogni partecipante al gioco.

Il primo gioco delle palline a richiedere una certa abilità era quello di avvicinarsi a un punto stabilito. Si tracciava una riga sulla terra e il concorrente che vi arrivava più vicino vinceva le palline degli altri concorrenti meno abili o meno fortunati.
Poi vi era il gioco della buca che si doveva raggiungere, avvicendandosi, con diversi lanci mediante il lancio in avanti della pallina (buciina) con due dita (una specie del golf). Chi arrivava per primo nella buca, vinceva il numero di palline messe in palio, in parti uguali, dai concorrenti.
Altro bellissimo gioco di abilità era quello di lasciar cadere dall'alto la buciina e colpire quella dell'avversario mirando con l'occhio. Se colpita, veniva vinta, nel caso contrario spettava cercare di colpire col medesimo procedimento. Altro gioco ancora (capurrio) si ponevano, in misura uguale tra i concorrenti, tante palline su una linea lasciando fra di loro uno spazio concordato di qualche centimetro. Scelto l'ordine dei tiri mediante la conta, chi colpiva una pallina vinceva tutte quelle poste alla sinistra (o destra secondo gli accordi) della stessa.
Poi v'era ancora il gioco del colpire la pallina dell'avversario inseguendola entro un limite stabilito (in genere un cerchio).

Le palline di terra cotta, verso gli anni trenta, furono sostituite dalle multicolori di vetro e poi dalle sfere metalliche di cuscinetti a sfere di certi motori. I ragazzi stabilivano valutazioni, dando inizio ad una vera ricerca e di conseguenza ad un continuo baratto. Per una palla metallica se ne richiedevano anche dieci in cotto o tre di vetro. Le più ricercate erano quelle grosse delle bottiglie di gasosa, che erano diffuse in certe zone più di città che nelle campagne, avendo più possibilità di essere reperite; il gioco avveniva entro tracciati prestabiliti: piste concave o scavate a fosso.
         
C'era pure il batti-muro (batmùrr); sbattendo la pallina contro il muro con forza calcolata, il ragazzo tentava di colpire o avvicinarsi più possibile a quella posta sul terreno. Se cadeva entro la misura stabilita, vinceva, nel caso contrario la pallina era vinta dall'avversario. Se al gioco partecipavano diversi concorrenti, veniva tracciata una linea e chi vi andava più vicino, vinceva quelle degli altri.

Il più divertente e redditizio per i colpitori era il gioco del mucchio di palline (mucìin). Con il solito cricco (cricch), o anche col normale lancio, si tirava la pallina (balèina o buciina) con l'intento di colpire la turètta di una quantità di palline poste a piramide, a seconda del numero di partecipanti: chi colpiva al mucc' s'impossessava di tutte le palline. I più sfortunati erano gli ultimi che però si assoggettavano all'ordine dei tiri stabilito all'inizio con il solito mezzo della "conta".

Altro abile gioco delle palline era quello del circuito. Su un terreno battuto si incavava un circuito intrecciato. Stabilito l'ordine di partenza, ogni concorrente mediante il tiro col cricco (cricch) faceva correre la propria pallina su questa pista e con un colpo alla volta cercava di superare quelle degli avversari e arrivare primo al traguardo. Se la pallina usciva dalla pista, doveva ricominciare da capo o ritornare da dove aveva fatto l’ultimo tiro saltando così un turno. Era una specie di gioco dell'oca adattato alle palline.

Analogo al gioco precedente era quello dei coperchietti a corona (cuercìin) di bottiglie di birra o di bibite, che venivano lanciati sempre con il sistema del cricco su una pista tracciata sul terreno. Come premio finale veniva stabilito un certo numero di figurine (faciutèin, o faciutèini) o di bottoni.

Per variare il gioco delle bucini si inseriva anche il gioco dei bottoni che per la maggior parte si svolgeva con un turacciolo (suvver). Con delle monete lanciate con la mano, si cercava di colpire e rovesciare il mucchietto di bottoni posti su un turacciolo e i concorrenti dovevano cercare di avvicinarsi più possibile ai bottoni perché divenivano vincita della moneta più vicina. Anche i bottoni erano oggetto di scambi e avevano una loro valutazione. I bottoni madreperla valevano dieci di quelli a due fori per pantaloni; essendo la gamma vastissima, era stato creato un loro prezziario.

Altri giochi simpatici erano quelli del suono. Da una foglia di acacia o da un petalo di fiore o da una foglia di altra pianta, appoggiata sulle labbra in posizione tale da farla vibrare con la pressione dell'aria, si otteneva un delicato suono. Più pressione veniva data, più stridulo era il suono che mediante variazioni assumeva il tono del violino.

Dal gambo di un fiore giallo, il tarassaco comune, taraxacum officinalis in latino e pissa a lèet in dialètt, che abbonda a primavera nei nostri campi, soffiando, si ottiene un costante suono. Quest'erba, essendo di natura poco resistente e di spessori diversi, non permetteva di farne uso prolungato; perciò pur essendo ogni gambo di una tonalità diversa, era impossibile fare suoni multipli come una piccola orchestra.

Uno tra i giochi di vera abilità manuale era la piva. Da una frasca di pioppo o di salice, quando a primavera la pianta era in pieno germoglio, si tagliava un rametto di circa venti centimetri di lunghezza, senza polloni, mediante una battitura tutt'attorno alla scorsa affinché questa fosse distaccata completamente dal legno. Al tubo di scorza veniva praticato, a pochi centimetri dall'imboccatura, un foro e all'interno nuovamente posti alcuni centimetri dell'anima precedentemente tolta, privato però di una fettina, affinché lasciasse passare l'aria soffiata che, per uscire dal foro, produceva un fischio. Il fischio variava a seconda dell'aria che conteneva il vuoto della scorza e che, al lato opposto, a mo' di stantuffo con la parte rimanente di quella estratta, si frizionava avanti ed indietro ottenendo una variabilità del suono.

Per i più piccoli ogni barattolo era un tamburo. Diversi barattoli diventavano una batteria di rumori assordanti, certamente non graditi dagli adulti. Solo nell'epoca delle sementi veniva tollerato, anzi consigliato purché fosse suonato fra i campi delle semine onde spaventare e tenere distanti i passeri.

La fionda (la sfrummbla) era molto pericolosa, ma i ragazzi che conoscevano la gravità dell'uso l'adoperavano per la caccia agli uccellini o, come gesto di mini vandalismo, prendendo di mira i supporti isolanti delle linee elettriche (bicirèin). La fionda era ricavata da un rametto (al cavalètt) con biforcazione costante tagliata a Y legando all'estremità della forcella due elastici di circa venti centimetri, ricavati da una camera d'aria di bici fuori uso, e ai capi di questi con una tela resistente o una pelle a forma ovale, venivano uniti in modo da custodire un sassolino. Tirando fortemente l'elastico dopo aver preso la mira del bersaglio da colpire, poi lasciato andare, la fionda lanciava con veemenza il proiettile.

Anche per la freccia vale il discorso della pericolosità della fionda. La freccia di legno con punta a chiodo o di filo di ferro (molte volte era un raggio di una ruota di bicicletta o una costola di ombrello, scòddṡa) veniva lanciata da un arco (èerch) ricavato da un ramo di salice, molto elastico, curvato e trattenuto da uno spago. Veniva scagliata contro inermi passeri o contro le malandate porte e finestre delle purtroppo malandate case.

Il gioco degli "scoppi" era la disperazione degli anziani, sia per la pericolosità di chi li faceva, sia per il forte scoppio che giungeva quasi sempre inaspettato. Si potrebbe elencare una lunga serie in quanto erano tanti i modi per ottenere gli scoppi (ciòoch). Il più comune scoppio era ottenuto con le piastrelle. In tutte le case coloniche si faceva uso dello zolfo per la difesa delle viti dai parassiti, una delle materie prime per questo pericoloso gioco. Si mescolava un po' di zolfo con del potassio (erano pastiglie medicinali per la cura del mal di gola, quindi facile da reperire) si poneva la miscela fra due piastrelle (sassi piatti) facili da trovarsi fra la ghiaia di fiume; poi, salendovi sopra con un piede in modo che il peso del corpo comprimesse la miscela, con l'altro si dava un colpo alla piastrella più alta in modo da creare un attrito dei due sassi e il conseguente scoppio della miscela. Un altro sistema era quello di porre la stessa miscela fra due viti di ferro filettate o bulloni (bulòun) di uguale spessore congiunte da un dado che li unisse in un corpo solo. In questa intercapedine tra due bulloni e il dado si creava una camera di combustione. Questo gruppo di oggetti, costituitisi in un solo corpo, buttato in alto, nel toccare terra grazie al minimo gioco che esisteva dalla filettatura, creava la compressione e quindi lo scoppio della miscela.
Vi era poi il peggiore della serie; quello con il carburo. Anche il carburo era facile per i ragazzi sottrarlo dall'uso della illuminazione ad acetilene, unico mezzo per illuminare le buie case di allora, poi soppiantato dalle lumiere a petrolio. In un barattolo vuoto, usato per contenere l'estratto di pomodoro, tolto completamente un coperchio e nell'altro praticato un foro si poneva con il foro in alto entro una buca e nell'interno proprio perpendicolare al foro si metteva il pezzetto di carburo. Il barattolo veniva poi ermeticamente chiuso da terra ben pressata tutto attorno.
Dal foro si facevano cadere alcune gocce d'acqua tenendo poi chiuso il foro perché non uscisse il gas. Appena tolto il dito dal foro, con una lunga canna recante un cerino acceso, si dava fuoco alla miscela che nel giro di pochi secondi, quando il fuoco entrava nel barattolo, causava lo scoppio proiettando in alto il barattolo con un forte boato.

Quando alcune ditte industriali o organizzazioni commerciali, per lanciare e diffondere o propagandare i loro prodotti avevano creato la ricerca di figurine (faciutèin) che erano incluse nelle confezioni dei prodotti, i ragazzi ne avevano tratto motivo di fare collezioni, scambi e giochi di figurine. Fra queste vi erano le più ricercate ed introvabili, creando un vero mercato di scambio e di diversi valori. Il Feroce Sa-ladino fu l'introvabile figurina che spinse tutti i ragazzi alla sua ricerca. Quanti salvadanai custoditi in luoghi nascosti, furono rotti per disporre di quelle piccole monete da 5, 10, 20 e 50 centesimi accantonate nel tempo! I ragazzi, spinti oltre anche dalla golosità dei dolci prodotti, con quelle monete davano la caccia al pregiato Feroce Saladino. Si iniziava così tutta una serie di giochi. Il più semplice era quello di buttare in alto una quantità stabilita di figurine e, secondo il valore delle stesse, veniva precisato la scelta del primo in figura o cartone (bianco), biàanch o ròss, ed erano sue tutte quelle che evidenziavano la sua scelta.

Il lancio dell'aeroplano di carta era il gioco dei più piccini. Se lo costruivano da soli, era un piegare e ripiegare un foglio di carta, più resistente possibile. Il lancio avveniva dall'alto, da una finestra del piano superiore o da un albero. Gioco modesto, ma molto piacevole e tanto diffuso.

Sempre di carta e mediante piegatura simile a quella dell'aeroplano venivano costruite le barchette e poste sull'acqua dei numerosi recipienti sistemati sulla corte. Fortunato chi aveva nei pressi qualche ruscello in cui porre alla deriva le barchette di carta ed in questi casi di così preziosa possibilità di gioco, l'ingegno li portava a realizzare le barchette in legno, applicandovi anche qualche vela di tela. Il ruscello diveniva un vero campo di competizione delle molteplici barchette che gareggiavano tra di loro, tante volte oggetto di scommesse e di grandi discussioni.

Nell’aia, più comunemente chiamata corte (cóort), era facile trovare nelle mattinate serene di una domenica primaverile un gruppo di adulti e qualche giovane ben messo di statura, che giocavano a bigaara: lanciavano a turno un sasso piatto da una certa distanza con l'intento di colpire al sacàagn, un frammento di pietra di forma a parallelepipedo messo in senso verticale, sopra il quale erano state poste le monete che i concorrenti avevano stabilito di mettere in gioco. I soldi spettavano a quelli o a quello che col proprio sasso era andato più vicino alle monete sparse all'atto del bersaglio colpito.

Con una ruota (róoda), ottenuta affettando un ramo d'albero di un certo diametro, alla cui scanalatura esterna veniva arrotolato uno spago, si creava quel simpatico gioco chiamato "jo-jo" che ebbe tanto successo verso gli anni trenta. La róoda èd lèggn fu sostituita dalle bobine dei nastri delle macchine per scrivere che in quei tempi prendevano sempre maggiore diffusione. A queste rondelle o bobine si lasciavano cadere e prima che si fosse srotolato l'intero spago con un secco colpo allo spago trattenuto ad un capo si sollecitava il riavvolgersi e questo movimento di scendere e salire durava, con una cadenza costante, quanto si voleva.

In ogni spiazzo delle borgate o della cittadina, come pure nelle ampie aree delle case di campagna si raggruppavano ragazzi amici o occasionali per dare due calci ad una palla. Avere una palla di gomma o addirittura un pallone di cuoio era un privilegio di pochi. Ma una palla si faceva anche con stracci legati e racchiusi con una pezza e spago a forma rotonda. Le porte, erano sempre improvvisate e delimitate da sassi, oppure dal maglione o dalla giacca di ragazzi. La gioia immensa era prima di tutto essere inclusi nel gruppo; immaginarsi poi la soddisfazione di chi imbroccava un tiro da goal.
Il progresso, la propaganda di regime fascista, i successi della nazionale italiana in campo internazionale, le palle sempre più robuste e alla portata di tutti, mossero i giovani a sviluppare il gioco del pallone. E sempre più frequente appariva in ogni angolo di Carpi e della campagna il vero pallone di cuoio con camera d'aria. In ogni borgata o gruppo di case coloniche si fondevano le iniziative di gruppo per gareggiare con quelli della borgata vicina. Erano vere gare con l'applicazione di regole che venivano diffuse dalle scuole. La maggior attenzione al gioco del calcio, purtroppo, provocò l'abbandono dei vecchi giochi che si tramandavano da generazioni a generazioni.

Un gioco quasi musicale era quello del suono creato dal pettine. Si premeva il resistente pettine che usavano gli adulti, per i bambini vi era la pettinina (petnèina) per sistemare sempre ruvidi e poco curati capelli. Si fasciava il pettine con una carta sottile (per la precisione chiamata velina) che faceva da ancia e poi lo si faceva scorrere sulle labbra come un organino, trasformando il motivo canticchiando a sotto fondo in un tremolane suono orecchiabile.

Nelle giornate primaverili o nei filòos serali, mentre le donne facevano la treccia di truciolo, i ragazzi prima di essere presi dal sonno trovavano la forza di giocare ancora. Erano giochi semplici che non recavano disturbo agli adulti, anzi piacevoli a tutti. Fra i tanti ricordiamo le bolle di sapone che alla luce della lumiera a petrolio o dell'acetilene brillavano con riflessi diversi rompendosi contro i molteplici attrezzi che abbondavano nella stalla. In una bottiglia o barattolo (scatlòun) veniva sciolto dal sapone (savòun) e con una cannuccia, spesso di paglia, veniva leggermente aspirato e poi delicatamente spinto col proprio fiato all'esterno sprigionando miriadi di bolle.

Altro elementare e divertente gioco era quello dello spago cioè la séega muléega. Con la partecipazione di un secondo ragazzo, intrecciando uno spago a forma di stella, non facile da descrivere, si tirava alternativamente due capi alla volta dei quattro che lo componevano, dando l'impressione di svolgere un lavoro di sega.

Un altro gioco (anch'esso non facile da spiegare) e sempre di spago era la panarèina, cioè un susseguirsi di forme che componevano a seconda dell'abilità, l'immagine della madia, poi del tagliere ecc. ecc. Attraverso queste mosse si ritornava a rifare le prime e via di seguito sino ad una distrazione che avrebbe arrecato un groviglio di intreccio e perciò la conclusione del gioco.

Poi la lunga serie dei giochi con le carte, cioè le carte da gioco, quelle in uso nella zona di Carpi e precisamente le piacentine.

Anche il bambino più piccolo, in possesso delle sue forze, se gli capitava fra le mani un mazzo di carte, tentava di costruirsi il suo castello di carte. Tra i bambini diventava una gara il dimostrare che il castello dell'uno era più alto di quello dell'altro. Due carte appoggiate verticalmente fra di loro in modo che restassero in piedi e altre orizzontali più quelle d'appoggio per crearsi un piano di sostegno, elevavano sempre più il castello. Nasceva l'invidia e di conseguenza un voluto colpetto al tavolo o meglio al piede del tavolo, il che era più facile da giustificare come fosse stato un involontario urto. Anche un improvvisato ed incontrollabile colpo di tosse costringeva l'amico a ricominciare tutto da capo.

Il gioco dell’asino (èeṡen) veniva effettuato da quattro o cinque ragazzi, maschi o femmine, e anche da adulti che si divertivano molto a osservare le reazioni dei più piccoli. Mescolate per bene le carte venivano ripartite in parti uguali tra i partecipanti. Dal mazzo intanto era stata tolta una carta che per la maggior parte non veniva resa nota e che scompaginava le coppie delle quaranta carte. Ogni giocatore accoppiava le proprie carte con uguale numero o figura, per esempio un asso con un asso, un due con un due, un re con un re, ecc. Dopo questo spoglio un giocatore dopo l'altro dava la possibilità al compagno vicino, tenendo coperte le carte, di tentare nel prendere una carta, di accoppiarne una delle sue e scartare la coppia e a sua volta di dare al giocatore di destra la stessa possibilità. Nel susseguirsi di diversi giri, le carte avrebbero finito col trovare la loro gemella e i giocatori a rimanere quindi senza carte, ad eccezione di quello sfortunato che rimaneva con quella carta dispari, essendo l'altra stata tolta all'inizio. Quindi rimaneva " asino ".

Il gioco della cava-camicia (chèeva o léeva patàaia) si gioca in due a ciascheduno dei quali va metà mazzo da giocare una carta alla volta. La base fondamentale del gioco sono gli assi, i due e i tre. Le altre figure o scartini che fossero, non avevano nessuna importanza. Iniziato il gioco ogni giocatore rovesciava sul tavolo una carta alternandosi con l'avversario; se la carta era uno scartino o una figura, si proseguiva fin quando da uno veniva posta una delle carte fondamentali. Se era un tre, l'avversario doveva porre di seguito tre sue carte. Se queste erano insignificanti al gioco, tutte quelle sul tavolo venivano prese e accodate alle sue dal vincitore. Nel caso contrario, cioè se tra le tre carte poneva una significativa, supponiamo un due invertiva la possibilità di vincita e se nelle due carte che era obbligato di rovesciare vi erano due scartini le carte spettavano al giocatore in possesso del due. La carta che tante volte decideva era l'asso, perché era difficile trovare in una sola carta proprio una che interrompesse il gioco. Tutte le carte passavano con l'andar dal gioco al più fortunato, a quello che, come si dice nel carpigiano è riuscito a cavèer la patàaia, cioè a togliere tutte le carte all'avversario. La cosa particolare del gioco è che esso, nel suo svolgimento e seguendo le regole, non richiede nessuna abilità da parte dei giocatori e il vincente o perdente sono già determinati al momento della distribuzione dei due mazzetti da 20 carte.

Il gioco che appassionava molto i bambini, era rubamazzo il primo passo verso i giochi più interessanti e impegnativi che, con il suo sorprendente gioco dispettoso serviva anche alla formazione del carattere ai ragazzi, indispensabile nel gioco delle carte, sia per la buona sia per la cattiva sorte. Si giocava maggiormente in due; in quattro si svolgeva con l'interesse a coppia. Sul tavolo venivano rovesciate quattro carte e tre a ciascuno dei giocatori che ricevevano uguale distribuzione ogni qualvolta finiva la mano. I giocatori uno alla volta, sempre nell'ordine da sinistra a destra, dovevano prendere dal tavolo la carta uguale ponendo il proprio mazzetto rovesciato in modo che fosse possibile agli avversari vedere; perché un giocatore, nel caso che avesse avuto una analoga carta, avrebbe rubato il mazzo unendolo al proprio. Vinceva quello che alla fine ne aveva di più. Era veramente un gioco sorprendente che molte volte, proprio nell'ultima mano quando si stava gioendo per la vittoria, l'avversario ti prendeva il mazzo perché la sorte gli aveva dato una carta uguale a quella scoperta del mazzo e te lo rubava proprio al termine del gioco.

Al ṡóogh ciamèe béestia partecipavano ragazzi, adulti maschi o femmine che desiderassero trascorrere un po' di tempo come svago divertendosi veramente. Il gioco molto diffuso ancora oggi, aveva svolgimento sul principio della briscola. Si distribuivano ai concorrenti tre carte ciascuno e si rovesciava sul tavolo una carta per indicare la briscola; rimanevano in gioco quelli che avevano le briscole, in particolare quelli che avevano le più alte. Potevano scartare le carte insignificanti nella speranza di trovare altre briscole. Chi non partecipava al gioco, perdeva la sua posta e chi finiva senza prendere una mano delle tre, doveva raddoppiare la posta. La posta veniva divisa in tre parti perché potevano essere tre giocatori diversi a vincere ciascuno una mano. Si doveva rispondere al gioco iniziale; cioè, se la prima era una briscola, si doveva rispondere briscola, se era un altro gioco si rispondeva a quello iniziale.

Poi v'erano i giochi con le carte che intrattenevano gli adulti nelle osterie nelle giornate festive o ind i filòos invernée. Giochi che non sono mutati affatto nel tempo e sono: brìsscola, trisèet, masèin, cutècc’, scòppa o scopòun. A questi oggi si sono inseriti sempre con maggior insistenza i giochi con le carte da tarocco e da ramino; tra questi predominano la scala quaranta, rilancino, poker e ramino. Il gioco delle carte anche nei tempi di magra di epoche remote ben conosciute, oltre al gusto del gioco stessi, trascinava dietro la scommessa e quella della vincita, che nelle osterie era la tradizionale bottiglia di vino o qualche bicchierino di vermouth o di liquore. Nelle stalle era frequente invece il giocarsi un coniglio, un tacchino o un cappone e in questi casi il gioco preferito era il mazzino. Giocavano ore e ore e tante volte sin al mattino tardi, fin quando non si era ben delineata la vincita dell'intera posta.

Per le ragazze e i giovanotti le carte erano, come lo sono ancora oggi, mezzi per leggere il pensiero, per sapere il futuro. Le cartomanti erano care e non sempre ci si poteva rivolgere loro per chiedere come era il futuro amoroso.
Allora ci si accontentava sulla riuscita dei solitari, a cui si rivolgeva il pensiero, la domanda, il desiderio, di essere corrisposto dalla persona a cui erano rivolte le premure e le attenzioni amorose. I solitari erano tanti, i più facili erano quelli dell'otto oppure del cinque; il più difficile era quello di Napoleone.

Sempre di gruppo vi erano i giochi semplici, ai quali partecipavano anche le bambine, cioè quelli che non richiedevano l'apporto di attrezzature o meccanismi, come i quattro cantoni, a nascondino (pòmma o cucùu), mosca cieca e giro - girotondo, mentre per i soli ragazzi era diffuso il salto cavallina (pasquòoli).

 

Al sèelt èd la cavalèina era infatti un gioco molto diffuso tra i bambini, anche perché per poter giocare non serviva proprio nulla nel senso che un gruppo di ragazzi si trovava e bastava dire: “Giochiamo alla cavallina!”.
Un volontario allora si metteva inginocchiato con le mani per terra e a turno si faceva saltare dai compagni vocianti che lo sormontavano di corsa sulle spalle come fosse un quadrupede. Più pericoloso era se il primo si appoggiava al muro e gli altri a turno saltavano con tutta la forza possibile sulla schiena di chi lo aveva preceduto. Il rischio di gravi lesioni era serio.
 

Le bambine si divertivano con i giochi più aggraziati, in genere più sedentari, fatti soprattutto di imitazioni, di fantasia e di parole, di loro piccole ispirazioni di fare la mamma e di fare il mangiare.
Le bambole le facevano loro con l'aiuto della mamma o di una sorella maggiore; erano di stoffa imbottita di stracci, di cenere o di segatura, gli occhi, la bocca e il naso erano ricamati con filo di colore diverso dal tessuto, e con quelle semplici bambole trascorrevano ore di gesti e di recitazione. Agli adulti ricorrevano solo per farsi fare quello che per loro era impossibile come per esempio: un letto di filo di ferro o un seggiolone (scranòun) di legno. Apparve finalmente nelle vetrine il bambolotto di celluloide, il cui costo era alla portata di tutti e questo giocattolo trasformò il passatempo delle femminucce che confezionavano da sole i vestitini con pezzi di stoffa usata, le scarpette, la berretta ecc., ponendole più vicino alla realtà.
Con i vasetti, le scatole che contenevano gli unguenti e i medicinali e altri piccoli oggetti creavano l'ambiente in cui vivevano, la casa, il mangiare e il lavare, poi man mano che crescevano, trasformavano il gioco nella realtà, iniziando a lavare i grandi fazzoletti rossi da naso e cuocendosi le prime uova al tegamino.

Nelle giornate di sole anche le bambine correvano indiavolate come i maschi, assieme con le coetanee delle case vicine, un giorno qua e l'altro là; le case erano tutte uguali perciò non temevano la trasferta e di conseguenza non temevano la timidezza. Il gioco che prevaleva era la "settimana" (la stmaana). Disegnavano sul terreno battuto un grande rettangolo che frazionavano in sette quadretti con indicato il giorno della settimana; alla domenica lasciavano spazio doppio. In questi quadri lanciavano seguendo l'ordine dei giorni, una piastrella (sasso piatto) che raccoglievano entrando nel recinto saltellando su una gamba sola senza appoggiare l'altra e senza pestare i tracciati. In caso di una infrazione compreso il lancio sbagliato del sasso, dovevano, al loro turno, ricominciare da capo.

Un simpaticissimo gioco di gruppo e di abilità visiva era il gioco del cerchietto (al séerc') che prima che fosse venduto nei negozi era fabbricato dalle stesse bambine con rametti di salice. Con un bastoncino lanciavano il cerchio verso una collega che, con uguale bastoncino doveva infilare al volo il cerchio lanciato e a loro volta rilanciarlo ad altra bambina.

Era piacevole vedere le bambine saltare la corda; un gioco grazioso e nel contempo faticoso. Vi era quello di gruppo e quello per la ragazzina sola. Quello di gruppo si svolgeva nel seguente modo: due bambine ad ogni capo di una corda lunga tre o quattro metri che, allentata, facevano girare ad arco. Quando la corda saliva in alto, entrava - nel gioco una delle bambine che saltellando permetteva alla corda di passarle sotto i piedi e che continuava a saltare fin quando, urtava la corda, interrompeva di roteare. A quel punto subentrava là seconda e poi la terza, alternandosi con quelle che avevano il compito di fare girare la corda.
Il gioco singolo della corda è il normale salto che ancora oggi si osserva nelle palestre e nei campi sportivi per fare fiato, dimagrire ed entrare nella forma sportiva. Le bambine erano maestre di questo gioco prendevano i capi della corda, se la facevano passare ad arco sulla testa saltandola a piedi pari o a passo saltellante quando sfiorava la terra, imprimendo tante volte delle velocità incredibili sincronizzandosi nel movimento con il passaggio della corda come se corressero a grande velocità.
Quando il tempo non permetteva di giocare all'esterno, il gruppetto si trasferiva in qualche ambiente al coperto, come il portico, la barchessa o la stalla. Si ponevano a sedere in fila tenendo le mani congiunte; una prescelta, poi tutte a turno, infilando con le proprie mani quelle delle amiche, lasciava cadere un sassolino o il ditale in quelle di una bambina in modo però da non far capire, ove aveva lasciato l'oggetto; l'amica prescelta doveva poi indovinare. Se la bimba sbagliava, veniva penalizzata secondo il metodo classico di dire – fare – baciare – lettera - testamento, scegliendo la pena che le veniva poi imposta dall'amichetta che aveva posto il sassolino o il ditale. Se indovinava prendeva il posto a sedere di quella che aveva il pegno.

La tambarèina o ciaparèina. Gioco vorticoso col il quale ci si prendeva fortemente per le mani o i polsi e si girava alla massima velocità fruttando la forza centrifuga; avvicinandosi e allontanandosi l’uno con l’altro si variava la velocità.
La tambarèina

Uno, due, tre... Stella! Un bambino teneva la testa appoggiata ad un muro e si copriva gli occhi con le mani. Gli altri bambini gli stavano dietro, molto distanti dal muro. Il bambino o la bambina con gli occhi coperti contava "uno, due, tre... Stella!" e mentre lui parlava gli altri dovevano correre e avvicinarsi il più possibile al muro. Finito di contare il bambino si girava di scatto e se vedeva qualcuno muoversi lo rimandava indietro di tre passi. Lo scopo del gioco era quello di avvicinarsi senza essere visti al muro e di riuscire a toccarlo. Il bambino che riusciva a toccare il muro doveva gridare: "Stella!" Aveva vinto e prenda il posto di quello che contava.



Rùuba bandèera, ruba bandiera. Si formavano due squadre contrapposte e a ogni giocatore si assegna un numero, viene delimitato un campo di gioco di eguale metratura per entrambe con una linea centrale di divisione e linee di fondo oltre le quali si schierano i giocatori. Il giudice teneva una bandiera o un fazzoletto in mano e si piazzava sulla linea centrale e ad alta voce chiamava un numero. I giocatori ai quali era stato assegnato il numero chiamato correvano verso la bandiera il più velocemente possibile per strapparla al giudice e riportarla oltre la linea di confine della propria squadra senza farsi toccare.
Se però il giocatore senza bandiera toccava con la mano l’avversario, prima che raggiungesse la sua meta, il punto era della sua squadra
Il bello veniva quando i corridori avevano la stessa velocità di corsa, perché arrivano entrambi vicino al fazzoletto nello stesso momento. A questo punto quindi bisogna cercare con finte e occhiatacce di distrarre l'avversario e si stava col braccio sinistro alzato a cingere virtualmente il rivale, perché se si veniva anche solo sfioratisi perdeva il punto. Così come si perdeva il punto se si toccava il rivale senza che questi avesse preso la bandiera.
Il tutto ovviamente senza oltrepassare la linea di divisione del campo. Il giocatore che è toccato viene eliminato e dopo un certo numero di prove prestabilite vince la squadra che rimane con più concorrenti.

i Quatàr Cantòn - i Quattro Cantoni

I quattèer cantòun, i quattro cantoni. Per terra veniva disegnato un quadrato e quattro giocatori dovevano occuparne gli angoli, mentre un quinto stava al centro. Quest’ultimo doveva cercare di occupare uno dei quattro angoli, mentre gli altri tentavano con arditi spunti di corsa di scambiarsi il posto. Se l’occupazione riusciva, chi aveva perso il posto doveva andare a sua volta al centro del quadrato e il gioco ricominciava.  Si poteva giocare disegnando il quadrato in un aia, oppure in Centro a Carpi si poteva giocare nel cortile d’onore del Castello dei Pio. Il problema era che c’era sempre qualche vigile in agguato che perseguitava i giocatori.

Il gioco dell'indovino (indvinèel) per la maggior parte veniva svolto durante l'inverno nelle stalle essendo esclusivamente sedentario. Una ragazzina bendata, con l'aiuto della sensibilità delle sole mani, toccando in un tempo abbastanza breve, il capo delle compagne doveva indovinare chi era. Le compagne erano sedute in fila e se non indovinava la prima poteva tentare la seconda, e via tutte le altre. Restava bendata sino a quando non aveva azzeccato, in tal caso arrivava al termine della fila le bimbe si scambiavano il posto. Se invece indovinava veniva sostituita dalla collega; se aveva tentato di indovinare sbagliando doveva dare un pegno al gruppo o subire una penitenza, come il restare in un angolo in ginocchio fino a quando non veniva liberata dall'errore di un'altra.

Altro gioco bendato era mosca cieca. Una bimba si metteva al centro di un gruppetto di coetanee, poste a cerchio, e doveva toccare una ragazzina che cercava di scambiarsi il posto con un'altra amichetta. Il solo rumore la portava a tentare di toccare nella speranza di poter prendere il suo posto.

Analogo gioco era i quattro cantoni (i quàater cantòun). In un locale giocavano cinque ragazzi o ragazzine, uno per ogni angolo più uno al centro. Quello al centro doveva toccare i compagni che cercavano di scambiarsi il posto. Se era toccato, doveva cedere il suo angolo all'avversario e sostituirlo al centro del locale. Per questo gioco era necessario un locale ampio che desse possibilità di movimento. I ragazzi di città (Giorgio Maccari, Vanni Previdi, ecc …) lo giocavano nella cornice perfetta del Cortile d’Onore del Castello dei Pio, perseguitati del custode del castello e dai vigili.

Il gioco della bandiera (ruuba bandéera) richiedeva spazio, perciò si giocava solo all'aria aperta. Un numero uguale di ragazzini si poneva ad una distanza di circa venti metri e al centro uno che reggeva, cadente, un fazzoletto. Il compito di ogni gruppo era quello di prendere il fazzoletto per primo. Partivano sempre un ragazzo o ragazzino alla volta e non dovevano assolutamente passare nel campo dell'altro. Molte volte si fermavano a cinquanta centimetri dal fazzoletto con la speranza che l'avversario in un momento di distrazione permettesse un rapido strappo. Guai se avveniva che il fazzoletto fosse preso da tutti e due. Solo il ragazzo del centro aveva le funzioni di arbitro. Chi strappava il fazzoletto aveva diritto di chiamare nel suo gruppo un componente del gruppo avversario; in questi casi veniva sempre scelto il più veloce, quindi il concorrente più temuto. Anche nel caso di un concorrente che avesse oltrepassato il proprio campo, perdeva un proprio concorrente.

Da un foglio di carta oleata, allora molto diffusa, si faceva la stella o elica (stèlla). Da un quadrato mediante congiunzione dei lembi o punte verso il centro si veniva a creare un'elica che unito al centro da un chiodo fissato ad un'asta o bastone permetteva, correndo in senso contrario al vento di far girare velocemente l'elica. Anche questo gioco fu perfezionato e fabbricato in celluloide e venduto in cartoleria. Ancora oggi, questo passatempo, viene venduto nelle bancarelle delle fiere e delle sagre, unitamente ai variopinti palloncini.

Due oggetti servivano per il gioco della lippa, in dialetto s-ciancòol, s-ciàanch o s-ciàanco); un bastone della lunghezza di 50-70 cm, chiamato canèela e uno di molto più piccolo, circa 15-20 centimetri con i lati a cono. La mazza era nella parte più bassa leggermente più grossa, possibilmente gli ultimi dieci centimetri leggermente curvato, invece al s-ciàanch era di un diametro di circa tre centimetri. Per questo pericolosissimo gioco occorreva molto spazio e terreno privo d'erba. Quando il battitore e tutti a turno lo dovevano fare, era pronto, lanciava un urlo "S-ciàanch!", e da qui la denominazione del gioco, per richiamare l'attenzione dei concorrenti che stava per essere lanciato il "proiettile ". L'avversario a sua volta rispondeva ad alta voce: "Vèggna!" Posta la lippa sul terreno, con la mazza si doveva colpire la parte conica affinché si fosse sollevata da terra, circa un metro e mezzo e prima che cadesse veniva nuovamente colpita dalla mazza per essere lanciata più distante possibile. Per la serie di lanci convenuti veniva stabilito un punteggio a seconda della graduatoria di ogni lancio che si accumulavano agli altri per stabilire il vincente. Chi sbagliava la lippa aveva una penalità che diminuiva il punteggio acquisito. Era un gioco che appassionava e tante volte i giovani venivano trascinati a complicare il gioco stesso ed affrontare maggiori rischi. Allo svolgimento sopradescritto si aggiungeva la presa al volo da parte dell'avversario dello s-ciàanch, con tutti i rischi che incorreva; nel caso favorevole eliminava un concorrente e il punteggio del battitore passava a lui.
Altra possibilità di eliminazione del battitore era quando, molto maliziosamente, uno dei ricevitori diceva lèggna, invece di vèggna e lascio immaginare le discussioni e le liti conseguenti!!
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Renato Cucconi (Carpi) maggio 2015 racconta: “Nuèeter in carbṡaan a l òmm semmper ciamèeda la canèela, quell'asta di legno che si usava a battere. Mentre al s-ciancòol era quell'affare di legno a due punte (doppio cono allungato) che veniva sollevato e battuto da la canèela nei tiri successivi al primo. Si partiva da cerchio disegnato con qualsiasi cosa, purché lasciasse un segno sul terreno, per poi contare quaanti canèeli c'erano dal s-ciancòol al sèerc’. Vinceva (dopo vari tiri concordati con l'avversario) chi aveva più canèeli (maggior distanza) dopo i vari tiri. “
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Da segnalare al riguardo:
scanlèer v.tr. dare una forte bastonata
scanlèer v.tr. 1 bastonare. 2 FIG. calciare violentemente un pallone.
scanlèeda s.f. 1 colpo inferto col mattarello, bastonata. 2 FIG. violento calcio al pallone.
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note di Graziano Malagoli (Carpi) - 2014
Ricordo il gioco, se vuoi piuttosto aristocratico, del volano, che si giocava non solo al mare ma anche nel cortile di casa se, come nella casa abbinata dei miei genitori, vi era un rete metallica tra le due parti.

E poi l anèel, tipico delle bambine: tutte a mani giunte come a pregare, chi ha l’anello un mano passa pra le bimbe e lascia cadere nelle mani di una l’anello. chi di turno deve indovinare. solita penitenza dire, fare, baciare, lettera, testamento (si potrebbe specificare cosa si intendeva con questi termini penitenziali) in caso di errore.

Uno-due tre per le vie di Roma.

Rompere la pignatta a carnevale.

La s-ciàafa gioco prettamente maschile e piuttosto violento.

La cavalèina sinonimo di pasquòoli – si può giocare sia in due squadre , una delle quali è sotto e l’altra cavalca (si cambia squadra allorchè la squadra sotto non cede), o individuale, correndo e saltando lungo la via ogni singolo partecipante che si è messo a 90 gradi e poi la pulèinta. La pulèinta è la montagnola di sabbia con infilato propofondamente un bastoncino: ognuno toglie un po’ di sabbia e paga penitenza chi fa cadere il bastoncino. Ci sono poi le parole da indovinare di cui si scrive lettera iniziale e finale e un trattino per la consonante e una crocetta per la vocale, i 5 sassetti da cogliere da terra lanciandone un altro in aria, prima uno per volta, poi due a due e così via; gli scattini, i cariolini su cuscinetti, il cartoncino fissato con un marlètt sulla forcella posteriore della bici per simulare il rumore della moto, il bigliardino di padre Natale in S. Nicolò, il ping-pong all’Eden, i birilli, le bocce in spiaggia, le piastrelle (sostituito delle bocce su selciati), al bif sulle panchine del parco, la scherma con due bastoni di pari lunghezza, le pistole e i fucili di legno caricati ad elastico tenuto dal solito marlètt, il telefono con filo con due coperchi di scatole da lucido Furmigòun, l’elica lanciata tramite in ferro a forma di vite con passo lunghissimo, le pistole a salve con caricatore a nastro, le macchinine con carica a molla, i soldatini di piombo, il trenino RivaRossi, il biliardo, le freccette (allora senza punta ma con testa adesiva), al più caiòun l è quèll ch al gh à la piùmma in tèesta (innocuo divertimento di bambini antesignano del pesce appeso sulla schiena di un ignaro compagno il primo d’aprile, la cunna era presente nel cortile di molte case contadine ove c’erano bambini (quasi ovunque) realizzata semplicemente con due funi appese a due alberi, e non disdegnata anche dai ragazzi per potere sbirciare le gambe delle ragazze, o per toccare loro il sedere con la scusa di dare spinte più poderose.
C’era poi strega in alto e strega in basso: chi era destinato dalla solita conta, chiamava e tutti dovevano adeguarsi; chi veniva raggiunto prima di riuscirvi, andava sotto e chiamava a sua volta (o faceva la solita penitenza).
Tombola: il classico gioco invernale giocato nella stalla, al calore naturale delle mucche, da tutta la famiglia e dagli amici. La degna conclusione del filòos.
Al scranèin dal curucucù: in due si incrociavano le mani prendendosi per i polsi in modo da formare, appunto, un scranèin e portare a spasso preferibilmente una ragazzina (primi approcci con malcelato sfondo sessuale)
I bambini imparavano ad andare in bicicletta non montando le ruotine ai lati della ciclo (l’assenza di asfalto sulle strade ne impediva l’utilizzo) ma dentro i fossi d’estate.
I bambini più fortunati avevano genitori che erano molto abili nel costruire attrezzature agricole (trattore, erpice, aratro, ecc.) con filo di ferro. Con questi si giocava simulando la realtà che ogni giorno si vedeva nei campi e simulando, con la voce, il rumore del motore del trattore: pum, pum, pum.
Alvèer al nìi: scovare il nido di uccellini sugli alberi e attendere che i piccoli uscissero dal guscio per asportarli. La presenza di viti aggrappate agli olmi agevolava la salita sugli alberi dei ragazzi più dotati fisicamente.
Spighlèer: più che un gioco, raccogliere le spighe rimaste dopo la mietitura manuale, era, per certe famiglie, una necessità. Ma veniva presentata dai genitori come un divertimento.
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La Cumètta che faceva i suoi “dovèeri”
  di Gianluca Vecchi 2003


Come si fa praticamente ad ogni latitudine e longitudine, da millenni, anche a Carpi si giocava con l'aquilone. Nel dialetto di una volta l'aquilone si chiama cumètta f. (= cometa): curiosamente, cometa è il nome che si dà all'aquilone anche in Spagna. Forse in nome deriva della coda, simile a quella dell’astro vagante. In un dialetto più moderno cometa si pronuncia esattamente come in italiano. Ecco come mia nonna racconta la preparazione al volo quand'era bambina.

A se s-cianchèeva un fóoi [si pronuncia anche fòoi] èd chèerta dal quadèeren (si strappava un foglio di carta dal quaderno), pò a s lighèeva insèmm duu stècch (poi si legavano insieme due stecchi di legno). Cun d'l'aqua e d'la farèina a s' prèparèeva un pò 'd còola (con dell'acqua e della farina preparava un po' di colla) e a s inculèeva [da non equivocare e si dice anche ingulèeva] al fóoi ai stècch (e s'incollava il foglio agli stecchi). Pò té lighèev la cumètta a un sughètt (poi legavi l'aquilone a uno spago), acsè t l a tirèev e la vulèeva (così lo tiravi e volava), e dòop la fèeva tutt i dovèeri (e dopo faceva tutte le giravolte e i volteggi).

Alcune precisazioni a margine su questo racconto, da appassionato di aquiloni, per chiarire alcuni particolari che forse la memoria di mia nonna ha tralasciato. Il modello qui presentato era sicuramente il classico aquilone a losanga (cioè romboidale, che tutti abbiamo visto volare almeno una volta nella vita), formato da una vela di carta o tessuto fissata ad un'intelaiatura a croce: perciò è probabile che il foglio di carta venisse tagliato in tale forma prima di venire incollato agli stecchi. È anche probabile che si utilizzassero fogli di vecchi giornali, piuttosto che di quaderno: erano più leggeri e sicuramente più economici a quei tempi (ed evitavano sberle di maestre e mamme). Per gli stecchi non c'erano problemi, la campagna e gli argini abbondavano di pioppi, e andèer a stècch (andare a stecchi, cioè raccogliere scarti di legna da bruciare per riscaldare e cucinare) era pratica comune per tutti i bambini poveri. Al sughètt (lo spago) era probabilmente troppo pesante e irregolare da usare come filo di traino, quindi si usava forse un filo di cotone rubato dalla scatola del cucito della mamma o della nonna (i fili di lana sono notoriamente poco resistenti). Nel nostro dialetto sughètt è anche nome generico per indicare un qualsiasi tipo di filo o cordino abbastanza sottile: infatti è il diminutivo di sóoga (corda).
Parliamo ora dei dovèeri. Non sono riuscito a scoprire il perché le giravolte degli aquiloni si chiamassero proprio così: posso fare solo delle congetture. Forse dovere richiama il fatto che l'aquilone è "obbligato" a fare le sue evoluzioni (perché è legato al filo). O forse la parola dovere richiama un suo uso antiquato nel senso di saluto: le giravolte potevano ricordare un movimento festoso e allegro, che salutava chi guardava. O magari dovere era solo un nome scherzoso affibbiato così, come tante volte capita.
Una nota tecnica: un aquilone del genere come quello descritto da mia nonna, per ragioni aerodinamiche che qui sarebbe lungo spiegare, è molto instabile e quindi di dovéeri doveva farne un bel po'...

Anni ’20 – Tre adolescenti alle prese con un aquilone

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