martedì 27 dicembre 2011

Quadretto di Natale - L’assaggiatore del cappelletto di Mauro D'Orazi


Quadretto di Natale  - L’assaggiatore del cappelletto   
scritto il 24-12-2011
di Mauro D’Orazi  - Carpi
                                                                         V 24 del 26-10-2012 
Revisione del testo e della grafia del dialetto da parte di Graziano Malagoli

Mi piace ricordare il fatto che in occasione del pranzo di Natale vengo sempre chiamato in cucina per svolgere un compito di altissimo livello: si tratta di assaggiare un cappelletto di prova. Già alcune ore prima avevo dato il mio preventivo parere sul pesto e sul brodo. Ma adesso, giunti alla fine del complesso percorso, mi viene offerto un cucchiaio con un esemplare fumante. Con delicatezza, anche per non ustionarmi, lo assaggio. Mi piace che sia ancora abbastanza consistente e che il dente affondi con una leggera, ma ben percettibile resistenza. Ne tasto la compattezza, schiacciandolo delicatamente coi molari … due secondi di assoluto silenzio, sguardo estatico e ispirato rivolto all’infinito, in diretto collegamento esoterico con le anime e lo spirito genuino delle redóore di ogni tempo.

Gli occhi delle cuoche mi guardano spalancati, fissi e preoccupati … in attesa. “L è còot!! Chèeva!! “… pronuncio in modo solenne, col cucchiaio alzato e benedicente. “Si proceda all’immediato scodellamento!”. L’antico e benedetto rito ha inizio: tutti si siedono e si preparano ad allungare i piatti. La redóora (“Atèinti! A gh è la pgnaata buìinta!”) colloca la grande pentola fumante sulla tavola e con un capiente mestolo comincia a servire. Una catena di piatti comincia a muoversi con adeguata ritmica cadenza, per agevolare l’operazione; passano di mano in mano, prima vuoti e poi pieni. “Attenzione a non rovesciare il brodo!” è la raccomandazione. Finché ognuno ha davanti la sua minestra. “Chi vuole il formaggio grattugiato ?” Finalmente si mangia e i cucchiai si immergono avidi e veloci nei piatti che prestissimo saranno di nuovo vuoti.
Un mistico silenzio regna nella sala, rotto solo dallo scuciarèer ind i piàat (scucchiaiare nei rispettivi piatti).

Qualcuno, ad alta voce dichiara ufficialmente: “Óo i iin dimònndi bòun st aan! Aanch al bròod!  L è d capòun, ruspàant, cumprèe da un mè amìigh cuntadèin in campaagna!  Al m al tiin pròopia per mè tutt i aan! Al furmàii dal pisst, po’…, l è d primma qualitè! “Un 36 mesi” specèel d un caṡeifissi cun duu nummer, pròopria giusst giusst pèr fèer di graan caplètt.” Una serie di conferme segue immediata, con espliciti e convinti movimenti assertivi delle teste. Le bocche, infatti, NON parlano, impegnate nella degustazione. Le cuoche, che Dio al li bendissa in seculaseculòorum, sorridono soddisfatte; chi ha procurato con esperienza e astuzia i preziosi e pregiati ingredienti … anche.
Chi mangia … ancor di più. Ehee sì!! Sono rari e preziosi simili momenti di gioia collettiva e condivisa. Bisogna goderseli in piena consapevolezza: un prezioso dono offerto alle nostre esistenze troppo spesso piene di affanni, preoccupazioni e dolori.

Circa l'uso di informaggiare il cappelletto è antica e irrisolta questione. “Bròod èd galèina buìint e caplètt ... mò s te n gh mètt ’na branchèeda èd furmàai in simma ... pèr mè ... te ruvìin incòosa.” Questo è un punto fermo per il consumatore tradizionale, che aggiunge il pregiato elemento locale per completare e arrotondare il sapore del piatto.

Invece c’è chi, come me, lo evita con motivata decisione: questo perché si desidera gustare puro e originale, sia del brodo, che del cappelletto.
Se il brodo è buono, preferisco sentirne a pieno il gusto originale e vederlo bello, giallo e limpido cun un quèelch òoc'; ma … la mia è una posizione di consapevole minoranza. S a gh mètt al furmàai a vóol diir ch a nn andòom mìa dimònndi bèin e c'è da correggere qualcosa che è scarso e modesto.

Per evitare che i cappelletti non serviti i se spapèelen (si spappolino), è assolutamente necessario che vadano subito tirati su dal brodo con apposito attrezzo forato e a richiesta serviti per un bis con aggiunta di successiva mestola di solo brodo ancora bello caldo.
Chi potrà resistere a un secondo piatto di questa prelibatezza ?  
***
L’unica ombra di tristezza, sta nel guardarsi intorno e accorgersi con sgomento dei posti vuoti ai bordi del lungo e ricco tavolo natalizio. Qualcuno non c’è più!!  … o con la mancanza del corpo fisico o a causa della mente, ormai smarrita fra orribili nomi tedeschi di crudeli e orribili malattie! Cerchi il loro sguardo, la loro voce: ma non ci sono … NON ci sono. L’assenza di questi cari si fa sentire nel profondo dei nostri sentimenti, sembra spezzare il cuore e l’anima; ma nel pensiero sono e resteranno più che mai in mezzo a noi.
E sì! … qualcuno se ne è andato troppo presto o se si è allontanato così,  … lentamente, quasi senza lasciarci il tempo di rendercene conto in modo davvero consapevole. Se osserviamo il cielo dalle finestre della grande sala imbandita, ci piace pensare che anche loro ci guardino.
Spesso li ricordiamo la notte, quando fissiamo il buio e le stelle ... una data, una voce, una frase, uno sguardo, una carezza, una sgridata, una canzone, un luogo, un cibo, un odore, un’auto, un film visto assieme ... 
Mà  :=((( Ch a s pièea o no, biòggna andèer avaanti … mò ch fadiiga … i mè ragàas !

Un ricòord dla Marina - La Marina Trintèina di Mauro D'Orazi


Un ricòord dla Marina  -  La Marina Trintèina

 V 18    17-05-2012                           ricordi raccolti da Mauro D’Orazi
gentile revisione di Giliola Pivetti
          
Eccola in una rara foto degli anni ’60 in Via Cesare Battisti (oggi davanti alle poste) - La Marina rientrava a casa spingendo il suo carrettino di mercanzia varia verso Cuntreda Teranova, o L’Ultma (Via Giordano Bruno) in du la stèeva ed cà

La Marina Trinteina  (Trentini di cognome) era un ricordo indelebile nella mia memoria; la vedo ancora spingere il suo carro sotto il portico di Corso Fanti, inveendo pesantemente contro chi la prendeva in giro. Vale la pena di ricordala con la testimonianza di alcuni carpigiani, proprio perché ha rappresentato quasi un’icona della nostra città. E come spesso ipocritamente accade per questi personaggi scomodi, che si destavano, ridicolizzavano, sbeffeggiavano, quando erano in vita, si arriva poi a ricordarli quasi con affetto tanti anni dopo la loro morte. Un processo mentale auto assolvente, più che altro rivolto a una nostalgica rievocazione di se stessi e non al “disgraziato” di turno, che apparteneva a una categoria dalla quale si era ben contenti di essere lontani.
In noi ragazzini degli anni ’50 e ’60, la sua inquietante figura è rimasta fortemente impressa nei nostri lontani ricordi: alta, secca, sempre vestita di nero con il fazzoletto dello stesso colore in testa.
Ci faceva molta paura a vederla e le stavamo a debita distanza; non di rado prendeva delle balle orbe e tirava delle sequele ben articolate di briscole, soprattutto contro i monelli cattivi che, con tutta la pungente crudeltà tipica nella loro natura, le facevano degli scherzi feroci o la offendevano. Da giovani spesso si è inutilmente crudeli. Una volta alcuni ragazzi le tolsero il fermo di una ruota del carretto, con l’esito disastroso che possiamo ben immaginare. Al barusèin a cavàal a su, tuti al malgareini per tèera e di siigh e dal madòoni ch a s-cifleva l’aria.
Marina abitava in contrada Terranova (L’Ultma - Via Giordano Bruno), altro luogo di profonda carpigianità; stava subito dopo la bottega da lattoniere di Ardiglio (Cavasùu) Cavazzuti, fratello di Ersiglio e Doviglio. L’artigiano era famoso per la messa in opera di un fugòun da bugadèera … in lèegn. La saracinesca di questa antica attività si può ancora vedere tale quale, chiusa ormai da decenni. Fra qualche anno, con la prima ristrutturazione scomparirà di sicuro.

Pare fosse anche attirata dal fascino di un allora noto enologo carpigiano, che devotamente ogni settimana andava riverire e nel contempo a farsi omaggiare di qualche bicchiere. “Cirooo, mò digh …s t ‘i bèel!” era solito dirgli.
Teneva banco il piazza al giovedì e alla domenica (solo recentemente si è passati al sabato). La sua postazione era di fronte al quella del fabbro Bizzoccoli (il nonno di Franco) che si collocava sotto il torrione degli spagnoli, proprio ai piedi della lapide per Presa di Roma - XX settembre 1870.
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Ho cercato fra la gente ricordi personali sulla Marina, ottenendo tante tessere per un mosaico un po’ frammentato, che dà però un profilo verosimile, anche se approssimativo, del personaggio. Sono convinto che l’interessata non si sarebbe mai immaginata una sua rievocazione.

Primo Saltini ricorda: “Era quasi un divertimento per noi ragazzini di allora, passargli vicino e sussurrarle: Imberiagòosa! Un’ingiuria che immediatamente scatena una litania furente di madonne, cancheri ed epiteti vari. Tutto un vocabolario gergale interessante che poi si poteva ripetere insieme agli amici, sghignazzando. In più la seguivamo, quando andava verso i giardini a fare pipì (all’antica maniera delle donne padane); la faceva stando in piedi e dandosi una asciugatina con il vestito! Eravamo proprio dei delinquenti.”

Alfredo Copelli abitava in via Marco Meloni e nel retro della casa c'era un cortile con una tettoia. Spesso la Marina si fermava li a dormire per scuasèer la bàala (per smaltire le dosi alcoliche), così come era … cun al barusèin abbandonato con tutte le povere merci.

Ersilio Spezzani rammenta che le piaceva anche bere un buon quartino di vino, ma forse anche di più. “Tante volte chiedeva a noi ragazzi se le andavamo a prendere il vino, perchè a lei non lo davano all’osteria vicino a San Rocco. Puvreta !! La fèeva compassiòun, già da ragass … ,  ma anch adesa, dòop tant ann, a pinser cum la viviva, l’a t  fà pinser che la solitudine l'è ‘na gran tristesa.
La pariva cativa, mo l'era sool una povra dònna, senza nisun intoorna ch a la aiutiss.
I eren mument difficil anch aloora, sperem ch in tornen più, anch se a m sembra che incòò a n adema per gninta bèin.

Anche ad Annamaria Loschi la gh fèeva na fàata paura ... Anch perchè a n s capiva gninta ed quel ch l a gìiva. Essere vecchi e poveri era ed è una vera disgrazia.
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Anna Bulgarelli ha bene in mente la Marina Trintèina, abitando nella sua stessa contrada: “Io sono nata e cresciuta in via Giordano Bruno e me la ricordo bene. A noi bambine ci incuteva un certo timore: così alta e vestita di nero, spesso alterata dal vino. Ma quando era lucida e la incontravo uscendo di casa, mi riempiva di complimenti e mi  diceva con grande dolcezza " In du vèet pricipèesa?".
Una volta la nipote la stava aspettando da ore in via Giordano Bruno, più o meno preoccupata. A un certo punto la vide arrivare senza il carrettino, dimenticato chissà dove, la girèeva ed galòun penosamente ondeggiando con un piede sul marciapiede e uno sulla strada. “Bè mò … Cus ela? ‘Na baala nòova?” commentò amareggiata la nipote, commentando lo strano incedere della zia ubriaca.
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Lo scrittore Carlo Alberto Parmeggiani afferma che della Marina, detta anche la MarinaaSa, non sa dire più tanto, perché raramente bazzicava nelle sue zone da bambino, le poche volte che ha avuto a che farci si era sempre mostrata non solo gentile, ma anche spiritosa.
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La prof Anna Maria Ori: “Ricordo vagamente la Marina Trintèina, perché non mi ha mai né spaventato, né intenerito, né (lo ammetto) interessato, ma era una specie di arredo urbano di cui semplicemente prendevo atto. Mi dispiace di non averla osservata con più attenzione, in pratica di non averla vista, anche se entrava nel mio raggio visivo.”

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Gilda Lugli: "Mia madre, Fernanda Bertolazzi, mi raccontava che la Marina era di buona famiglia, ma che a un certo punto suo fratello aveva preso le distanze da lei.
Quando avevamo la ditta di legnami in via Carducci, la Marina entrava dal retro in via N. Biondo e cercava di venderci la sua mercanzia. Mi faceva paura, ma anche tanta pena ..."
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Enrico Rancan, al fiòol dal pròfugh: “Ce l’ho in mente, ma ero veramente piccolo. Suonava a casa mia, in viale Nicolò Biondo, per offrire la sua mercanzia e mia madre, per mandarla via in fretta, le comprava sempre qualcosa. A me piacevano le carrube, che evidentemente lei vendeva, e che ho conosciuto proprio per questo.
La Mary, mia madre, Maria Jone Lugli, zia della Gilda Lugli, però ne dava un severo giudizio e diceva:"E’ una donnaccia !" ... forse per il suo continuo bestemmiare.”
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Margherita Panzani: “Io me la ricordo bene, abitavo in Corso Fanti e lei passava, vestita sempre con un grembiulone nero e un fazzoletto in testa, col suo carretto pieno di scope, secchi, spazzole e tante altre cose. Molte volte si fermava, chiamava mia nonna e chiedeva il permesso per andare al gabinetto che era in cortile, gabinetto che era poi un buco, con sopra un coperchio. Altre volte, semplicemente, apriva le gambe e faceva la pipi li dove si trovava. Non mi faceva paura e la nonna mi diceva che non era cattiva.”
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Mauro Marri ricorda bene questa strana donna; sua nonna, infatti, comprava i giochi da lei per i nipoti, quando erano buoni, il che succedeva molto raramente. La Marina era ... avanti: faceva già il porta a porta tanti anni fa.
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Ecco un incisiva immagine che ci lascia Luciana Nora
La Marina
Se la Filimede fu un personaggio caratterizzante di via Cantarana, l'esprimersi della quale aveva come confine le contrade attigue, ci fu anche un'altra figura femminile particolarissima, completamente fuori dagli schemi, conosciuta in tutta Carpi per via del fatto che svolgeva un'attività ambulante: la Marina Trintèina cla stèeva in Cuntrèeda Teraòova.
Aveva un carro a due stanghe che tirava lei stessa, con il quale portava le sue mercanzie per tutte le contrade carpigiane. Una struttura corporea segaligna, vestita di un nero stinto che aveva virato al grigio: un fazzolettone annodato al collo, i cui lembi estremi venivano usati per asciugare il sudore della fronte e del petto, sottana lunga e larga quasi fino alla caviglie che, estate e inverno, spuntavano nude da larghe, nere scarpe maschili.
Dalle maniche arrotolate fino ai gomiti, uscivano le braccia secche e nervose. Le mani erano lunghe e nodose le mani su cui, dopo una sosta, come erano soliti fare gli uomini, sputava, per poi sfregarsele, prima di riagguantare le stanghe del suo carro e riprendere il suo giro.
I capelli grigi, dritti dal taglio pari appena sotto le orecchie, qualche volta tenuti indietro da un cerchietto metallico, incorniciavano un volto austero, rugoso, dai tratti sottili. Un’ambulante strana che passava senza segnalarsi e bandire la propria merce. Aveva sul carro dal pianale piatto dal malgareini e dal ramàazi, ‘na quelch trapla per soregh, un po' di pentolame e varie altre cose. ‘Na specie ed Righetta ed Limid ambulante … in miniatura.
Il tempo aveva tinto di grigio anche il carro. Sicuramente girò per Carpi fino alla prima metà degli anni ‘60. Se la ripenso oggi, anche il mio ricordo si spoglia dei colori e vira al grigio come in un film in bianco e nero e in parte perde la voce. Incontrarla era un fatto pressoché quotidiano. Almeno a me, ma sono certa di non essere stata la sola tra le mie coetanee, la sua comparsa incuteva qualche timore, specialmente sollecitava un interrogativo: Ma chi era la Marina?
La fantasia infantile poteva associarla a una qualche strega o, più improbabile, a una fata. Avevo capito dove aveva una posta per il suo carro in una delle mie visite alla zia Ernesta, che abitava in Cantarana. Entrando in quella contrada da Santa Chiara, sulla destra, poco più in là del palazzo sede del cappellificio Losi, lì doveva far sostare il carro la Marina. Era pomeriggio inoltrato e uscendo da quella corte affollata da una quantità di famiglie, ero rimasta folgorata sull'ingresso, perché, in quella strada stretta, mi ero ritrovata a un passo dalla Marina che stava smanovrando il suo biroccino. Mi ero fermata ad osservarla, forse cercando qualche risposta.
Di lì a qualche minuto, ebbi a vederla sollevare un poco la sottana, divaricare ampiamente le gambe e, come si usava dire a quel tempo, spender aqua in mèes a la strèeda. Mentre realizzavo mentalmente che doveva essere senza mutande, fui scrollata da un rauco e perentorio: “Veh, te, ragazòola, c'sa gh et da guardèer?  N'et mai vist spendèer aqua?” No! Non avevo mai visto farlo in quel modo. Ero poi filata via come un fuso.
Col tempo però i timori erano arrivati a dissolversi, fino ad avvertire un certo fascino per quella figura femminile particolarissima, la cui filosofia doveva ritrovarsi pienamente nel dantesco "non ti curar di loro, guarda e passa". Filosofia praticata fino a quando, come una sorta di maledizione, uscì la canzone intitolata a Marina, che divenne, tant per zunter al ràam a la mescla, una sorta di perfido dileggio che i ragazzi e anche qualche stupido adulto, usavano cantarle per farla uscire dai gangheri. Marina usciva allora dal suo silenzio, prendeva una scopa dal suo carro e, brandendola, imprecava: “Dio chè! Dio là! Vin ché vigliacch. S a t ciapp a t'la sbrèegh in dla schiina!”
Non so quando e come Marina sia uscita di scena, ma spesso mi è ritornata alla mente, particolarmente quando, tra le mie letture anni Settanta, ho incontrato Le streghe del Nagual di Carlos Castaneda. Mi piace pensare che, chissà, in quel suo continuo e faticoso peregrinare, più che dettato dal bisogno di un'esistenza grama, Marina cercasse e avesse trovato l'essenza dell'essere.
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Francesco Bezzecchi, detto Il Mimì, ricorda che la Marina comprava le scope (al malgareini) dal suo principale Francesco Pacchioni, il mestichero di fianco al cinema Fanti, in via Mazzini, che gestì per molti anni una rivendita di colori e affini. Allo speciale prezzo di costo che le veniva praticato, la Marina applicava poi il suo guadagno di venditrice ambulante.
La Marina spesso andava all'osteria di Cimbro in via Matteotti sotto il portico, e dopo due o tre bicchieri, apriva le gambe e faceva la pipí sotto il tavolo. Arrivava Pippo (Saetti, figlio di Cimbro, in seguito noto e valente ingegnere e arredatore) che, con la segatura e la scopa, puliva senza fiatare.

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La poetessa Luciana Tosi ricorda di averla vista diverse volte, ma a quei tempi lavorava duramente, faceva almeno 10 ore al giorno e a n gh era mia tante teimp de stèer a guardèer chi paseèva ... Si ricorda una la donna alta, un po' curva, con un abito lungo e scuur, al carètt cun dal stanghi acsè lunghi. Aveva una figlia di nome Norma.

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Chiudo con ‘na poVesia degli anni ’60 di Micin (Cinzio Micheli)

LA DONA ED TERANOVA

Col prim sol, po' fin a sira,
per le vie della città,
la Marina, gira, gira,
col carretto se ne và.

Và gridando: sùca fina!
pir e persègh, figh e mlòun,
cun nà vòs ardònda e pìna
da desdèr tutt al riòun.

Ma un brutt dè, s'oscura al mond,
vengon giorni tristi, amari,
dove tutt un po' s'counfond
se sbarchèr s'vol al lunàri.

Fu così che quel carretto,
invece ed sùca o portogall,
di portare fù costretto
quel ch'tuliva su "NIBAL".

Passa un giorno, passa l'altro…
poi il boom viene della lana
dove Carpi, per lo scaltro,
l'è dvintéda nà cucagna.

Lei di nuovo butta all'aria
tutt, baraca e buratein,
e di merce, la più varia,
l'impiniss al barusèin.

Marletèin, candeli usedi,
automatich, pan d'savòun,
e (chisà dove scuvèdi)
scatli d'luster d'Furmigòun.

Per stà dòna ed Teranova, (Terranova = Via Giordano Bruno o l'Ùltma)
al baròs l'è seimpr' impgné,
le un po' tutt la mett in ovra
seinsa bsér la qualité.



Postura carpigiana - mani sui fianchi di Mauro D'orazi


Postura carpigiana
       dorry@libero.it      v 05                                                     Miarèina, 25-11-2011
di Mauro D’Orazi e degli amici del Gruppo di Facebook “Chi parla dialetto carpsan”

Particolare di una foto di Don Ettore Tirelli – 1910 circa

Ho trovato questo gustoso particolare allargando una vecchia foto; dopo averla scannerata, l’ho allargata a dismisura per trovare dei tesoretti nascosti di vita quotidiana di un mondo di ben 100 anni fa ormai scomparso, ma che è indelebile nelle nostre radici.
Da questa immagine centenaria si evidenzia in modo chiarissimo la postura della donna carpigiana (anche molti maschietti non ne sono certo esenti): mani sui fianchi, gomiti in fuori, tronco leggermente proteso in avanti (di pochi gradi) per consentire alla testa e al viso di essere incisivamente proiettati in avanti.
Fateci caso e vi troverete davanti tanti esempi e probabilmente voi stesse.
L’anziana rezdòora della foto, anche se potrebbe in effetti avere solo una cinquantina d’anni, sembra cercare all’orizzonte qualcuno, forse il marito, pèers  in ‘na quelch ustaria a bèver un pèecher o ‘na fujetta ed  lambro.  Sembra voler dire: “Bè mò ‘sa fàal ? In duv el?
Le braccia sui fianchi sono indice inequivocabile di carpigianità al 100%.
È famoso questo episodio: in una grande città italiana una signora in veste di turista improvvisamente si sente chiedere: " Vò sìi ed Chèrp?" - " Bè mò ??? ‘Sa dìsel ? Perchè ?" rispose tenendo sempre le mani sui fianchi.
A me è capitato anni fa di essere in Egitto sotto la sfinge; tante foto ricordo … e quando poi le rivedo, noto subito una signora di schiena che, unica fra centinaia di turisti, guardava il monumento con le mani sui fianchi. Indovinate di che città era ? **
Si tratta dunque della postura del comando. La rezdòora, la donna di casa che gestisce gli interessi, assume questa posizione in modo naturale. Donne sicure di sé e consapevoli del ruolo centrale che avevano in famiglia. Le timide e le seconde linee della famiglia di solito le tengono o lungo i fianchi o conserte.  Le nostre famose magliaie degli anni ’60 avevano questo piglio.
Se si vuole fare una ulteriore analisi a dirèev che, già dal teimp d'Adamo, anch Eva la s'era mìisa acsè ... con i pùgnn pugèe in sima a i fianch e i brass in foora cun tant ed grugn. ... E a un sert punt l a gh avrà dìtt: “Elòora des-ciulet … ste pòmm a l magnet o no!! Dai mò e sbrighett … ch a s vìin sira adòos!!"

**
Incredibile, ma sono riuscito a scoprire anche il nome della vecchia carpigiana nella foto presso la giasèera, vicino all’incrocio di S. Nicolò – Vie Fassi / Berengario. L’ha riconosciuta la nipote Osanna Sacchi: si tratterebbe di sua nonna Filomena Sgarbi in Sacchi che viveva in San Francesco.  Ci piace pensare che sia così.

Quando Nerio (Righi Amedeo detto Leon) lavorava in CMB di sua abitudine si metteva le mani sui fianchi e immancabilmente Omèeti' (il gruista) gli diceva: “Mòola cal cucombri!! e lui di scatto calava giù le braccia sui fianchi. Che ricordi!!!
Maddalena Zanni:  Stessa postura di mia nonna quanto intimava: "Bhè  mò 'scòolta!", che marchio..




Cantarana - Palamaio e Via Santa Cèera- di Mauro D'Orazi


prima stesura 2010                                                                                       v 27 del 06-10-2015

Cantaraana,

Palamàaio

e Vìa Saanta Cèera


 

Tutto quello che ho trovato finora

 

A cura di

Mauro D’Orazi

 

 

Correzione del testo a cura di Graziano Malagoli e Giliola Pivetti


COME LEGGERE E SCRIVERE IL DIALETTO CARPIGIANO

Norme di trascrizione e lettura del dialetto

 

Le norme di trascrizione adottate dal

“Dizionario del dialetto carpigiano - 2011”

di Anna Maria Ori e Graziano Malagoli

 

Tabella per facilitare la lettura

 

a      a come in italiano                             vacca

aa    pronuncia allungata                           laat, scaat, caana

 

è e aperta (come in dieci)                        martedè, sèccia, scarèssa, panètt, panèin

èe    e aperta e prolungata                        andèer, regolèeda, martlèeda, taièe

é      e chiusa (come in regno)                    méi, mé

ée    e chiusa e prolungata                        véeder, créedit, pée

 

i i come in italiano                                  bissa, dì

ii      i prolungata                                     viiv, vriir, scalmiires, dii

 

ò      o aperta (come in buono)                   pòss, bòll, brònnṡa, pistòun, dimònndi

òo    o aperta e prolungata                        scartòos, scatlòot, malòoch, tròop

ó      o chiusa (come in noce)                   tó, só, indó

óo    o chiusa e prolungata                      vóolpa, casadóor, móoi, óov, ṡóogh

u      u come in italiano                             parucca, bussla, dubbi, currer, fiùmm

uu    u prolungata                                    bvuuda, vluu, tgnuu, autuun, duu

 

c’      c dolce (come in ciao)                        vèec’ , òoc’

cc’    c dolce e intensa (come in faccia)         cucc’, scarnìcc’, cutècc’, palpùcc’

ch     c dura (come in chiodo)                     ṡbòcch, spaach, stècch

g’     g dolce (come in gelo)                       curàag’, alòog’, coléeg’

gg’    g dolce e intensa (come in oggi)          puntègg’, gurghègg’

gh    g dura (come in ghiro)                       ṡbrèegh, siigh

 

s      s sorda (come in suono)                     sèmmper, sóol, siira

ṡ      s sonora (come in rosa)                      atéeṡ, traṡandèe, ṡliṡìi

 

s-c    s sorda seguita da c dolce                   s-ciafòun, s-ciòop, s-ciùmma, s-ciòoch


Cantaraana - Palamàaio e Vìa Saanta Cèera

 

Tutto quello che ho trovato finora - A cura di Mauro D’Orazi

 

Frutto del lavoro di ricerca sul web, con suggerimenti e con il contributo costante del Gruppo di Facebook “Chi parla dialetto carpṡàan” e del rughlètt di affezionati del bar Tazza d’Oro alle 7 del mattino e di tanti altri amici e amiche sempre pronti a portare la loro esperienza personale e familiare al servizio di un dialetto che deve e può continuare a essere parlato e vissuto.


1962 in contrada Cantaraana (oggi via Brennero) ecco da una foto di Tutto Carpi la famosissima Filimede, nota col soprannome di Radio Cantaraana; pare che a forza di sbraghirare dalla finestra, a gh fùss gnù al carnùmm in di gomètt (le fosse venuto il callo nei gomiti)

 

Per indicare una donna con molta chiacchiera le si diceva... “Te m pèer la Filiméede”... “ Mi sembri la Filimede (Carnevali) !”... una signora di Contrada Cantaraana, donna di spirito, con la lingua instancabile,... braghéera nel senso di profonda e intima conoscitrice della città e della sua gente; è stata anche la balia secca di Franco Bizzoccoli.

Una curiosità: la Filimede di Cantaràana, oltre ad èsser ’na bablòuna, era una sarta in sedicesimo, riparava occhi, arti e vestiti delle bambole... uno dei tanti mestieri che si sono persi.

 

In un numero unico umoristico degli anni ’50 Al blèdegh (Il solletico) le venne dedicata una vignetta in Cantaraana Street e una simpatica poesiola di Libera Guidetti:

 

 

La Filimede in Cantaraana Street col cane Diana e il gatto Bagióola

da un vecchio numero unico umoristico carpigiano Al Blèdegh.


 

"Mò dì sù, c'sa t aani faat?

T aani miss in sirudéea

còn un caan e còn un gaat

e còn più d unna stanéela?"

 

Tutti sanno e ben si vede

che tu sei la Filimede

con "Bagióola" e con la "Diana"

la ṡbablòuna èd Cantaraana.

 

"Che canàaii quìi dal Blèdegh,

méegh però a n gh è gniint da féer,

diggh ch i vaaghen a dèer vìa al... sèddeṡ,

diggh ch i s vaaghen a fèer tuṡèer".

 di Libera Guidetti

 (forse il suo primo lavoro in dialetto)

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La prof Anna Maria Ori, che abitava di fronte alla Filimede, ricorda che il suo gatto si chiamava Bagiolino. Secondo la padrona questo animale sapeva usare il cesso alla turca, mettendo i piedini sulle due pedane, in modo da non sporcare mai! E la cosa potrebbe essere verosimile, considerando il modo di come il gatto sapeva stare con lei sotto l’ombrello aperto alla finestra e da come l’avvisava, se si distraeva, del passaggio di qualcosa di insolito, o di qualcuno in genere.

Erano in simbiosi perfetta, lei e il suo gatto, attenti a tutto e a tutti. Conoscevano i bambini della strada, i nostri giochi, i nostri orari, i nostri amici “di fuori”, tutto... insomma. Al mattino all’alba, si diceva, che lei uscisse e arrivava fino al passaggio a livello dell’attuale via Roosevelt, per verificare il traffico in entrata e in uscita da Carpi di trasportatori & simili, e controllare le novità in uscita o in entrata. Non le sfuggiva nulla.

*M*


1962 circa - Cantaraana Street – TuttoCarpi

 

Ecco qui sopra un’eccezionale foto di Cantaraana (Via Brennero) dei primi anni ‘60. A sinistra la bisnonna dell’amico Giorgio R. con l'inseparabile sporta con la trèssa da trii, a destra una vicina, la Carlòota, con il marito. Dietro in bicicletta cun ’n aasa in maan (con un asse di legno in mano) Setti Viterbo, che sta partendo dalla sua bottega da marangòun (falegname). Siamo nei primi anni ‘60 perché la rivendita di vino era ancora dalla parte sinistra dove si vede la bisnonna, in seguito si spostò di fronte.

Al palazzo Losi, dove si vede Setti, è legato un gustoso e piccante episodio.

Lì abitava una ragazza non bellissima, ma con un corpo da urlo. Una volta, di ritorno dall'Arlecchino (locale da ballo in Piazza), verso l'una di notte, (allora si andava a ballare alle 9 di sera e si usciva poco dopo mezzanotte) era accompagnata niente meno che da Peter van Wood (ottimo chitarrista e cantante olandese e in seguito anche astrologo). L’artista si era esibito quella sera nel locale e lì aveva conosciuto la fanciulla. Arrivati al portone, il bacio della buonanotte... ma putroppo in vedetta alla finestra c'era la Filimede, che si mise subito ad urlare: "Melnétt, laas la stèer, l’è incòrra ’na ragasóola... adèesa a ciàam i carabinéer!" (Sporcaccione, lasciala stare, è ancora troppo giovane, adesso chiamo i carabineri) e via di seguito, fino a svegliare mezza Cantaràana. Al titolato spasimante non restò che abbandonare avvilito il campo.

Facile figurarsi l'indomani che taglia e cuci di braghiriiṡm lungo la contrada.

 


1962 Trecciaole in Cantaràana

 


1962 da Tutto Carpi

Giorgio R. annota: ”In questa foto ecco la mia bisnonna Giuditta, fibra di ferro, morì serenamente a 93 anni: il giorno prima era andata e tornata a piedi fino alle case dell'INA sulla Remesina. Le altre due sono la Carlotta Catlàana e l'Emma Tirabàasa, quest’ultima era la madre del proprietario del negozio di elettrodomestici e dischi che era in corso Fanti di fronte al Vescovado. Nella foto il negozio a sinistra, cun al bùssli, era la rivendita di vino di mia nonna... mò quàanta tréssa da trìi... !

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Aldvìigh Allegretti, così era chiamato in dialetto. Faceva al barusèer (il birocciaio).

Fu il fondatore o l'ispiratore della società "Allegretti Trasporti"; infatti era il padre dei Fratelli Allegretti che fecero poi gli autotrasportatori.

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Cantaraana, a òogni pòorta a gh è... ’na scraana (ṡò in strèeda, davaanti a l uss), cun a séeder ’na putaana.... oppure indu caanta ’na putaana. Un luogo comune che troverà nella successiva nota di Attilio Sacchetti una ferma e circostanziata smentita.

In Via Brennero, alias Cantaraana, davanti a ogni porta c’era una sedia dove chi abitava lì si sedeva in strada davanti alla porta per chiacchierare e spettegolare.

È chiaro che al posto di scraana si poteva mettere anche un’altra parola, o aggiungere un’altra frasetta; esse fanno ugualmente rima e denotano le attitudini e le professioni femminili che la “vox populi” indicava comunemente essere presenti in loco.

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Raadio Bugadèera (Radio Lavanderia). Sta a indicare sia il pettegolezzo in genere che la persona che lo mette in circolazione o fa da tramite raccontandolo.

Mi è d’obbligo riportare una frase che è un’icona massima di carpigianità: “Te m pèer Raadio Bugadèera !” Mi sembri Radio Lavanderia, ad indicare sia il pettegolezzo in genere o comunque il passaggio di notizie più o meno segrete e/o compromettenti, che la persona che lo mette in circolazione o fa da tramite raccontandolo. Quindi se si sente in giro una spettegolata su qualcuno si dirà a l ò sintìi da Raadio Bugadèera (lo ho sentito da Radio Lavanderia), mentre se ascoltiamo una persona che rivela un segreto o sparla di qualcuno potremo commentare... “Sèint mò lè, Raadio Bugadèera! Senti lì, Radio Lavanderia!

Ma perché tanta insistenza sulla lavanderia? Perché la bugadèera in passato era il locale all'interno o all'esterno di una casa, molto spesso in comune tra più famiglie, dove si lavavano i panni. Il termine deriva infatti da bughèeda (bucato) che curiosamente in dialetto ricorre solo femminile. Lavare i panni si dice quindi fèer bughèeda. In questo luogo, molto frequentato da donne, era normale un fitto scambio di informazioni sui fatti propri, ma soprattutto altrui. Quanto al termine "radio" il dialetto se ne impadronì subito (magari ironizzando e deformando: mò chi l à ditt, l'aradio? (Chi l'ha detto, la radio?) essendosi rivelato un potentissimo strumento di diffusione di massa. E non ci sarà mai una Tele Bugadèera, perché la comunicazione dialettale non è immagine, ma sonorità, parola e lessico. Voce, insomma: altre senza allusioni.

La Contrada Cantaraana (via Brennero) finiva al Palamàaio ed era luogo di sconsolata miseria e disperata umanità, in cui si ricorda tale "Braghiina" che viveva di espedienti, ma superando, nonostante tutto e alla bene meglio, le più forti avversità, da cui il singolare modo di dire... " A termarà al guèeren, mò màai Braghìin d invèeren!"... "Tremerà il Governo, ma mai Braghina d'inverno!”

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Al ciàacri di putèin i spòorchen la ca! Le chiacchiere dei bambini sporcano e rendono difficili i rapporti in una casa.

La frase significa che spesso succede che i bambini (ingenuamente e senza i filtri diplomatici degli adulti) riportino e spiattellino a estranei fatti e segreti detti in stretto ambito familiare, provocando imbarazzi e permali.

La nostra concittadina Luciana Nora racconta che la prima volta che ha sentito questa espressione aveva otto anni. In quella circostanza era fortemente afflitta dalla morte del suo gatto Bagióola, omonimo di quello della Filimede in Cantaraana. Era un certosino morbidissimo, affettuoso, figlio del gatto della Ganimede e della gatta della sua prozia Ernesta, che abitava anche lei in Cantaraana. L'aveva portato a casa piccolissimo, con lui giocava ore e ore. Un pomeriggio, dopo averlo cercato per due giorni, aveva ritrovato il suo amato Bagiòola in una credenza che era in cantina. Dal vetusto mobile, da un'anta semiaperta, gli sbucava la coda e, credendo di poter giocare lui come faceva spesso, l'aveva tirata col risultato orribile di estrarre un corpo rigido senza vita. Il primo contatto con la morte. Pianse molto per il dolore e non riuscì mai più a scrollarsi l'impressione di quel corpo rigido che, senza nessuna sua resistenza, si era tirata addosso. Proprio quel pomeriggio venne a casa loro un amichetto del fratello che ebbe a dire quasi compiaciuto: "E' morto il vostro gatto! Eh!?! Mé pèeder al gh à faat un bèel magnarèin (Mio padre gli ha fatto un bel mangiarino), così non viene più nel nostro granaio a mangiare le salsicce!”

Sì! perché le case di via Rocca (Ṡguasalòoca) sono tutte contigue una all'altra; i gatti attraverso i tetti e i lucernari aperti entravano e uscivano a loro piacimento, senza il dovuto rispetto dei confini umani.

Sua madre uscì allora con la frase: "L è pròopia véera che al ciàacri di putèin i spòorchen la ca!" In quel modo si deteriorò un rapporto di buon vicinato, che non trascese a discussioni, ma perse per sempre di calore. In particolare Luciana non frequentò più quella famiglia.

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Gianni Manfredini (Carpi) ricorda: "Mia nonna abitava in Cantàarana; a proposito di miseria mia nonna faceva la polenta e ne vendeva delle fette; con quello che guadagnava (sic!) riusciva a pagarsi le altre fette che mangiavano i miei nonni e i figli.


prima stesura febbraio 2010 v22 del 09-10-2014

 

Un biglietto di auguri dal passato

 

di Mauro D’Orazi

 

 

 Pubblicato in parte su La Voce di Carpi del 4 marzo 2010 n 9

 

dorry@libero.it

 

 Ecco un interessante omaggio natalizio che i garzoni dei barbieri davano ai clienti per le feste di fine anno per avere una mancia. A quei tempi, fine ‘800, si offriva uno stampato con una “povesia” (poesia), successivamente nel ‘900 si sarebbero preferiti i gustosi calendarietti profumati con immagini sexy a colori di donnine o attrici in bikini o in caste pose ignude.

L’autore della povesia non è ufficialmente noto, ma da un esame del testo, è facile capire che non può essere altri che il noto Ubaldo Urbini, uno dei maggiori poeti carpigiani, che aveva un negozio tessuti, una delle professioni tipiche degli ebrei, sotto il portico di Corso Alberto Pio, poco prima dell’attuale galleria. È provabile che il testo sia stato commissionato, probabilmente per amicizia, nel lontano fine anno 1886 da un garzone diciannovenne dell’allora noto barbiere "Nicco", che era il soprannome o per meglio dire l'abbreviativo di Nicodemo Bassoli.

 

Anna Maria Ori, preparata studiosa e conoscitrice delle “cose” locali carpigiane, ritiene che il testo non possa che essere attribuito all’Urbini. Lo stampato infatti figura tra le carte di quello che fu uno dei massimi poeti dialettali carpigiani. La poesia evidenzia le caratteristiche del poeta, dal lessico alla metrica, al tono, non è quindi l’exploit solitario di un barbiere, ma opera di Urbini.

È dunque ragionevole pensare a una “graziosa” concessione del poeta all’amico barbiere per elegante uso augural - natalizio.

 

 

 

Ecco in una foto del 1939, con particolare ingrandito,

in Piazza la bottega di barbiere di Nicco e poi di Scaglioli

Nicodemo Bassoli (Nicco) era il proprietario della più famosa e importante barberia di Carpi, sita in piazza Martiri (l'ubicazione era in una delle due vetrine dell’attuale gioielleria Allegretti vicino alla farmacia dell’Assunta); da notare che l'intero edificio era di proprietà del suddetto Bassoli. D'estate ai clienti veniva fatta la barba stando all'aperto, sotto il portico. Fra i "garzoun" c'era anche il bisnonno (2) di Dario (Bonini) D’Incerti, Ferdinando Scaglioli (1). Ferdinando poi ne divenne in qualche modo l'erede, in quanto sposò la figlia del Bassoli, Teresita, che sarà così la bisnonna materna di Dario. Ciò spiega anche l'intestazione "I garzoun d'Nicco al barber..." e la firma "Scaglioli, anch per chi eter". Scaglioli, abitava in  Cantaraana e divenne padre di tre figli tra cui c’era il notissimo e finemente arguto avvocato Cleomede Scaglioli, un ragiunadóor, ’n òmm da parér, liberal e generoso, ma anche valente e talentoso poeta dialettale. Una fotocopia dell’interessante documento, che più sotto viene integralmente riportato, mi è stata gentilmente data proprio dal mio caro amico e compagno di classe di tanti anni Dario (Bonini) D’Incerti, il bisnipote diretto, in quanto sua madre - Anna Scaglioli - era a sua volta una dei tre figli dell’avv Scaglioli.

Chiarita la complessa prosapia, soffermiamoci sulla interessante scritto.

Il testo è scherzoso e Urbini riesce a ben rappresentare l’indole ironica, estrosa e incisiva tipica della famiglia Scaglioli.

Leggendo i versi si nota un elegante e pregevole dialetto cittadino, simile a quello che io definisco “sgnurèe” (quello che ho sempre sentito da mia madre, che fu in un lontano tempo appartenente a una famiglia possidente, poi dolorosamente decaduta). Il dialetto delle classi più abbienti e/o acculturate con l’uso di parole “difficili”, intercalate volutamente anche da termini in italiano, per “ dèer più ghèerb a la ragiòun” (per dare più garbo alla ragione). L’autore evidenzia ancora una volta l’efficacia della musicalità nel verso, tracciati con precisione e leggerezza, senza eccessi e ridondanze auliche o banalità; anche se qualche soddisfazione, il nostro Ubaldo, se la toglie, ad esempio con l’uso di parole anche difficili e ricercate

Circa i dialetti cittadini e del forese erano facilmente distinguibili le differenze. Addirittura fino a poco tempo fa era anche possibile capire da quale contrada cittadina o frazione una persona provenisse, sentendola parlare e pronunciare particolari modi di dire.

Azzardo una mia valutazione, aperta a ogni confronto: il testo evidenzia un dialetto cittadino che oggi non parliamo quasi più, soprattutto dopo l’inurbamento dal contado, dei cosiddetti “vilàan”, dal 1946 in poi. Questi nuovi carpigiani avevano una parlata con evidenti diversità e caratteristiche, che contribuì non poco alla modifica del dialetto. Dal punto di vista socio - politico, ciò coincise con la presa di possesso del governo della città da parte di una maggioranza PCI con consensi oltre il 60%. Ebbene quasi tutti i dirigenti del partitone erano di provenienza delle frazioni a nord di Carpi e questo a mio parere ha avuto conseguenze anche sul dialetto parlato.

Cito, su queste tematiche, il più grande poeta carpigiano Mario Stermieri:

"Vilàn che Dio ti fè

sapa e badìl ti diè,

e ti scrisse ind ‘na culàta:

porc d'un vilàn vaca!"

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Ma esaminiamo ulteriormente il testo, traendone alcune osservazioni interessanti. Anna Maria Ori mi fa osservare come tutti possano apprezzare la musicalità e la cantabilità delle due strofette di settenari. La Parte Unica molto facilmente potrebbe nascere da un orecchio educato a teatro, alla cantabilità delle arie dei libretti d’opera, spessissimo in settenari, appunto, coi loro bravi accenti fissi. Questa metrica facilita la memoria dei versi e stimolano la fantasia, quando ci si vuol provare a scrivere poesie. A quel tempo tutti cantavano arie d’opera, quando lavoravano e a casa. Ogni rappresentazione veniva seguita per tutte le repliche.

Tornando alle strofe, esse contengono poi tutte le figure retoriche di una costruzione della frase caratteristiche delle ariette, inversioni, inserimenti, ecc … , tipiche del melodramma.

Carlo Alberto Parmeggiani ritiene anche che la cantabilità dei settenari, oltre che dai libretti d'opera (Boito soprattutto), sia una imitazione, a occhio e croce, dalle prime poesie di Olindo Guerrini (alias Lorenzo Stecchetti), che in quel periodo godeva di grande notorietà e successo nei ceti piccolo e medio borghesi e di Rapisardi, poeta e amico di Guerrini, nelle cui opere sono presenti ed evidenti i richiami alla Scuola Siciliana (Ciullo d'Alcamo, Lentini, Guido e Odo delle Colonne).

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Dal punto di vista dei termini e della grammatica, osserviamo poi alcune importanti peculiarità ad esempio l’uso di “int al (nel) al posto del corrente “ind al”, “cap d aan” (capodanno) al posto di “cav d aan”, “bòuni fèest” tronco, invece di” bòuni fèesti”, oppure “sèinsa taant gnòoli” invece che “tanti”; il normalissimo uso di “briiṡa” e “minnga”, quando oggi si usa quasi sempre “mìa”, credendo erroneamente che le due prime espressioni siano tipiche solo di altre province (Bologna) o altre regioni (ad es: Lombardia).

Interessante poi il plurale di Natale: “Nadèei”.

Altro particolare da segnalare riguarda una questione mai completamente risolta: la Z e la S, che, a causa della nostra simpatica dizione, tendono a confondersi. Si è sempre detto la Z spetta più ai modenesi e la S più ai carpigiani, affrontando eterne (e noiose) dispute anche solo per dire “carpsàan” o “carpzàan” (o addirittura “carbsàan” o “carbzàan”). Ebbene il nostro Urbini usa tranquillamente la Z, molte volte. Dobbiamo quindi prenderne atto; basta poi osservarne l’uso in “pazinzia”. Interessante anche la contrazione “de scrivr' “ anziché “de scriver” o “pr’ ” invece di “per”.

C’è anche, talora, un utilizzo delle consonanti doppie all’interno della parole, come nello stesso incipit … “RISPETTABILISSEM AVVINTOR”.

Infine la chicca finale: un uso del passato remoto, addirittura in terza persona plurale: “i m dissen” (mi dissero), ma anche in prima persona singolare con “ a buttè “ (io buttai) e infine con uno splendido “a gh voss”(Io gli volli). Questo mi consente di aprire una piccola parentesi sul passato remoto in dialetto e vi sottopongo alcune mie note di una delle cose più belle e rare forme della nostra parlata locale.

Il passato remoto è un vero reperto archeologico: non si usa più in italiano, figurerèes in dialètt …

In famiglia avevo sentito alcuni esempi limitati alla sola 3^ persona singolare; ecco alcuni casi con stupende ed efficaci contrazioni:

al gè = egli disse (… ad esempio .... non è fantastica ?); al vdè = egli vide; l andè = egli andò; al magnè = egli mangiò; al vlè = egli volle, al fè = egli fece, ecc …

Sono verbi fra i più usati, ma ho dovuto constare la notevole e stranissima mancanza di ogni traccia del passato remoto in dialetto per i due fondamentali e primari verbi essere e avere. Un bel mistero, visto che nella vicina Modena esiste, così come ci testimonia l’introduzione del vocabolario del Meranesi.

Gli esempi prima riportati sono a mio avviso davvero piccole PERLE LUCENTI, che pare venissero adoperate solo dal dialetto colto/borghese di città. Nel contado credo (ma non ne ho certezza) si adoperasse unicamente il passato prossimo, anche perché (qualcuno forte dei ricordi di quella provenienza mi ha suggerito) … : “Mò alóora, in campaagna, i éeren acsè puvrètt ch in gh iivèen gnaanch al pasaato remòoto!”.

Oltre alla terza persona singolare del passato remoto non avevo trovato nulla, nonostante la consultazione di noti esperti e letture varie; quindi trovo davvero importanti queste tre forme riportate da Urbini e aiutano a colmare un piccolo vuoto, anche se molto resta da approfondire su questo tema.

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Fra i barbieri di Carpi nel 1914 abbiamo anche il nostro Scaglioli


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I GARZOUN

D’NICCO AL BARBER

AI SO’

RISPETTABILISSEM AVVINTOR

 (di Ubaldo Urbini)

Prologo

In  Cantaraana quand as dis « Scaglioli »

 an fagh minga per dir, ma an s' va più in là.

E chi ragazz ch' al san, séinza tant gnoli,

a 1' ètra sira int' al condùrm' a cà,

im dissen che pr' i auguri dal Nadèl

avrev bisgnù ch' a staniss fora quél.

Sa vlem', acsé in s' duu péé, 1' é un bèl impegn ...

Ma gnanch per quest' agh' voss dèr un rifiut.

Con dla pazinzia e con cal bris d' inzegn

a buttè zo stì vèrs in des minut:

s' agh fuss un quélch sbagliett, pinsè, i me' sgnor,

ch' a srev péz ch' am sbagliiss con al rasor:

 

Parte unica

 

Clienti rispettabili,

an v'fèdi maravja

se st' anno il ticchio presemi

de scrivr' in poesia ;

fu questa, il dico subito,

'na prova, al fu un pretèst

per migliorar la rancida

gnola del « Bouni fèst ! »

Eppoi, perchè tacervelo?

L’ é un pèzz ch'a iva in pinser

di presentarvi un tenue

saggio dal me' saver:

Ma il padre mio, buon diavolo,

l' andéva innanz' a dir:

 « Bada, Nandino, pensaci,

 te t' vè a fér tor in gir ! »

Sia pur. Gracchiate, o critici,

 dgìm dl' èsen dl' imprudeint:

 sarò imprudente ed asino,

ma an v' ho gnanc per la méint.

**

Dunque, signori, io v' auguro

 che liber dai malan

cento vediate scorrere

Nadèi e zèint Cap d'an.

Che lungi la crittogama(3)

la v'staga da l' pussioun(4),

talché possiate riempiere

el botti dal véin boun.

Danni giammai vi rechino

breini, timpesti e veint,

 il cielo ognor vi liberi

dai begh int' al furmeint...

Ma d' annoiarvi proprio

an n' ho brisa la voja:

d altronde è il dir superfluo,

a i già magnè la foja.

 

 Scaglioli (Ferdinando n.d.r.), anch per chi èter.

 

24 Dicembre 1886.

 

**

Carpi, Tip. Com 1886

 ________

 

note:

(1) Ferdinando Scaglioli nato nel 1867 ebbe tre figli da Teresita Bassoli sposata nel 1890: Celeste, Cleomede e Clodia.

(2) Il bisnonno in dialetto si dice nunòun (nonnone), non so se esista anche al femminile

(3)La crittogama è un parassita vegetale di varia natura molto dannoso per la vite; ci fu una devastante epidemia in Italia a partire dal 1850, quindi il nostro Ferdinando ne aveva buona notizia e memoria.

(4) Possessioni.

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Hanno preziosamente collaborato Dario (Bonini) D’incerti, Attilio Sacchetti, Anna Maria Ori, Carlo Alberto Parmeggiani e Franco Bizzoccoli.

 


Cantaraana - Palamàaio e Vìa Saanta Cèera

 

 Un po’ di foto

 


1912 Don Ettore Tirelli Santa Chiara senza L'Eden . Qui sotto passa il canale

 

Nel 1912 al posto del Palamàaio c'era il vecchio macello - in fondo a via Santa Chiara c’era la murra e la caduta del canale come ci diceva Giorgio Iotti - Via  Cantaraana (Via Brennero) vista da via Fontana. In fondo si vede il vecchio macello, demolito nel 1925, che verrà poi spostato lì vicino in via De Amicis; al suo posto sorgerà il Palamàaio in una foto del 1970.

 


1970 il Palamàaio oggi - sotto c’è il canale, che prosegue via Medaglie d'Oro

 


1912 ca via Santa Chiara - a dx l'edificio anche oggi esistente che esce - a sn in fondo il vecchio macello, dopo poi sorgerà il Palamàaio - in fondo si vede la Murra, sotto il famoso canale con la grata. proseguendo poi sorgerà via Medaglie d'oro


1912 ca via Santa Chiara (particolare) - a dx l'edificio anche oggi esistente che esce- a sn in fondo il vecchio macello dopo poi sorgerà il Palamàaio - foto don Ettore Tirelli

 


2011 Via Santa Chiara


 


1910 foto don Ettore Tirelli - via  Cantaraana vista da via Fontana - in fondo via Santa Chiara con il vecchio macello, dove poi sorgerà il Palamàaio


1910 Particolare della foto sopra



Anni ’50 - via  Cantaraana (Via Brennero)

in fondo via Santa Chiara con il Palamàaio


 


1973 Via Santa Chiara - L'ultima vera osteria di Carpi


 


anni '70 Rovatti, biciclista in Santa Chiara

 

 

1979 Via Santa Chiara dal cortile di Palazzo Gandolfi – Foto di Gianni Magnani

 



2009 Il Canale di Carpi passa sotto il Palazzo Gandolfi in corso Fanti e prosegue per via Santa Chiara e via Medaglie d’ Oro. Foto di Giorgio Iotti


2012 Via Santa Chiara all’incrocio con corso Fanti Palazzo Gandolfi –

Foto di Marco Giovanardi

Marzo 2015

Ecco giungere inaspettate due foto interessantissime dal carpigiano Maurizio Malvezzi che ha abitato in gioventù in Palazzo Gandolfi, corso Fanti n 40. Le foto, che hanno un intervallo di circa 15 anni, sono state scattate dalla finestra della sua abitazione al 3° piano del Palazzo, in direzione di Via Santa Chiara e ci fanno vedere chiaramente le importanti trasformazioni avvenute.


1950 ca Dal 3° piano di palazzo Gandolfi vediamo Via Santa chiara senza il Cinema Eden e via Medaglie d'Oro. All’altezza del Palamàaio c’è un cancello con un muretto e il Gabelo che prosegue verso nord- est.



1963 ca – sempre dalla stessa finestra, Malvezzi fotografa via Santa Chiara; le cose non molto cambiate: c’è il Cinema Eden sulla sinistra e in fondo via Medaglie d’Oro con sotto il Gabelo ricorperto.

 

 

Ecco alcuni sentiti ricordi legati alla visione della due foto di Malvezzi.

 

Renato Cucconi (Carpi - Marzo 2015): “Nella foto degli anni '50 là in fònnda, a s vèed al Palamàaio e un murètt, (che nuèeter ragasóo a gh sughevèen a la guèera). Là incumincièeva al Gabèelo scuacèe (mò quaant poundèegh!)- èd fiàanch a gh èera al masèel di Viale De Amicis e me mèeder dal vòolti (quaand a n gh èera èeter da magnèer) l a m mandèeva (cun un sèec') a tóor al sanghèev dal béesti chi masèeven, e che al Comun a s regalèeva.”

 

Carla B. (Carpi - Marzo 2015): “Che bella! La cercavo proprio una foto così, perché la terra che si vede era quella che aveva mio nonno come mezzadro dei Salvaterra, terra che andava dagli attuali Viale De Amicis e Viale Manzoni. Mia madre si è innamorata di mio padre nel 1937 circa proprio in quell'angolo, vedendolo a 16 anni potare delle piante. Lei abitava nella vicinissa via Brennero (Cantaraana) con la famiglia e aveva il cancelletto sul retro, su viale De Amicis (ammesso che allora si chiamasse così).

Mia padre è nato in quella casa di campagna azzurrina dietro alla villa dei Salvaterra che hanno demolito 3 anni fa circa per farci un palazzone. Egli mi raccontava che da bambino, giocando con il figlio dei Salvaterra, avevano riempito il pozzo di pietre e le aveva prese tutti e due. Nel 1960 però mio nonno aveva 75 anni e abitava in un altro posto e nessuno dei suoi 3 maschi ha fatto il contadino. Mio padre nel 1939 entrò nella Guardia di Finanza.”

 

Anna Maria Ori (Carpi - Marzo 15): “Il muretto lo abbiamo visto tutti, noi che abitavamo da quelle parti, e conoscevamo bene anche i profumi e gli effluvi del Gabelo! Tutti i “maschi” ci giocavano, sfidandosi ad esercizi di abilità nel percorrere il muretto e simili. Spesso anche scoppiavano litigi furibondi e scontri tra squadre di diversa residenza: i gruppi amicali si formavano prevalentemente su base topografica, con qualche compagno di scuola che veniva accettato in cambio di sostanziosi aiuti scolastici. I genitori lasciavano fare, meno ossessionati dalla sicurezza di quelli d’oggi, e i bambini si autoregolavano, quanto al correre rischi, salvo in casi di sfide tra maschi alfa.

Noi bambine stavamo abbastanza lontane da loro, giocando a palla contro il muro del macello, ma sempre attente alle prodezze dei più audaci. C’era una specie di attrazione/repulsione tra i due gruppi dei maschi e delle femmine, che variavano con l’avvicinarsi della pubertà; e anche le prese in giro verbali e l’accompagnare o essere accompagnate a casa (dieci metri!) avevano un preciso significato sociale, allora.

 

Graziano Malagoli (Carpi - Marzo 2015): “A proposito della foto di via Santa Chiara, ricordo che ho frequentato il Liceo Fanti dal 1956 al 1961 e la strada non era completamente asfaltata: vi era una ampia striscia in sassi (come quelli che erano in piazza e che ben si vedono nella prima foto) davanti alla scuola.

Ricordo che un mio compagno di classe (Vincenzo Capretti, figlio del farmacista di Rio Saliceto) pluriripetente, in 4^ classe, veniva a scuola con una Balilla, che parcheggiava di traverso proprio davanti al portone.

Allora, come certo saprete, il Liceo scientifico M. Fanti (5 classi di cui la nostra, partita in 13 studenti e arrivata in 10, inclusi due ripetenti, Capretti e Strillo Rossano Bellelli) era tutto su via santa Chiara, salvo l'aula di disegno che era più all'interno verso sud-ovest e aveva le finestre sul cortile interno.

Un unico corridoio che, percorso da sud a nord aveva: proprio davanti alla scalone l'orologio e la stanzetta dei bidelli, girando a destra un'aula e un tortuoso corridoio che portava all'aula di scienze, al laboratorio e all'aula di disegno. Girando invece a sinistra si trovava subito la presidenza con finestre sul cortile dell'Eden e di fronte la sala professori e le altre aule. Che piacevoli ricordi!”


Anni ’50 – L’entrata del Liceo in via Santa Chiara


 


26-05-5-2013- Mie foto, scattate dal terrazzo del piano nobile (2° p) di Palazzo Gandolfi

***

 


Commenti a una foto del 1949

tratte da Facebook – Gruppo Conosci il dialetto carpigiano?


Scrive La Giuli 23-9-2013: Posto una foto di gente del Palamàaio e di Cantaarana. Siamo nel giugno del 1949. La signora in piedi, seconda da destra dietro la Filimede, è mia nonna Jolanda e la punta della piramide, attaccato alla grondaia, è lo zio Mario Burani.

Primo Saltini per La Giuli: La foto si riferisce al 50° anniversario del matrimonio di Carmelina Borghi in Sacchi, altri presenti sono: CLEONICE TAMPELLINI, suo marito GUGLIELMO BORGHI, ancora RITA BORGHI in GHIDONI, Carmen LUGLI in SACCHI, Daniele SACCHI, DORINA BORGHI in MALAVASI VITTORIO, Lea LODI in BORGHI, INES SACCHI, ERIO SACCHI, Mora BORGHI in ANDREOLI, ERMENTINA SACCHI in CAMPEDELLI, Valètt SACCHI. La foto non dovrebbe essere stata scattata al Palamàaio, ma forse nei pressi del parco!

Il garofano bianco si portava ai matrimoni. Ecco il perché di questo fiore posto all'occhiello di tanti nella foto. Si celebra un anniversario di matrimonio dei due signori in prima fila. L'uomo indicato dalla freccia rossa sembra essere Walter Andreoli.

Gianna Pagliani: La seconda sinistra direi che è Norma Veroni. Strano io ci abitavo, ma non vedo nemmeno i mie genitori; io allora avevo 5 anni dovrei pure ricordare ma dalle porte che si vedono non è di certo il Palamàaio.

La Giuli per Primo Saltini: guarda questa foto è venuta fuori dalla scatola delle foto di mia nonna che nella foto c'è e su questo sono sicura. Dietro alla foto c'è scritto: giugno 1949 Palamàaio. Circa la freccia rossa, c'è scritto zio Mario. Altro non so. Ho riportato quanto ho trovato. Dietro la foto c'è scritto così e i miei parenti ci abitavano.

Gianna Pagliani per Giuli: immagino tu sia molto più giovane di me, come si chiamavano i tuoi parenti? Pensa io ho conosciuto benissimo tuo zio Mario Burani e famiglie ma in questa foto non lo riconosco proprio,era un gran bell'uomo ma sordo completamente.

La Giuli: Lo zio Mario è lo zio della mia mamma che è nata nel 1949 è la più piccola dei 7 fratelli Burani della Jolanda e di Gino; i miei zii sono Rino, la Graziella, Gastone, Maurizio, Paola, Admer e poi la mia mamma Mara.

In questa foto a parte mia nonna non ho riconosciuto nessuno e lo zio Mario l'ho individuato, perché se vedi ha una freccia rossa sopra la testa e dietro la foto ci hanno scritto chi era. Mia mamma ha detto che dovrebbe esserci anche sua nonna Carmelina, ma non l'ha riconosciuta; dei miei zii pare non ci sia nessuno.

Lo zio Enrico da quel che so l èera un bèel nummer. Mio zio Maurizio è stato un grande atleta della squadra della Patria ed è stato uno dei promotori della pista di pattinaggio del parco, sui pattini era un drago! Era anche un bravissimo ballerino e faceva le gare.

Gianna Pagliani: Di Maurizio non so niente, ma Enrico lo ricordo bene, si è sposato con una meridionale e avevano avuto una figlia che ora deve avere una sessantina d'anni a sua volta ha un figlio che fa o faceva i mercati.

Alfiero Malavasi: Rìico l èera un nummer, mò annch Gìino a n èera mia da mèena. A se vdivèen sool a la Lama; la mé cumpagnia l'èera con Gastòun al fiool éd Gìino e conoscevo tutta la vostra famiglia.

Alóora a gh èera Rìino, Gastone, Graziella, Maurizio, Admèer. d unna a m suun scurdèe al nòmm e la cichiìina Mara. Tò nòon Buràani al vindìiva al cucòmmbri, oltre a fèer al so mistèer (aiutèe da Rìino e Gastòun).

La Giuli per Alfiero Malavasi: C'era anche Paola; purtroppo da quasi 2 anni è insieme a Rino a Gastone e alla Graziella

La Giuli per Gianna Pagliani: Sì è proprio lo zio Enrico che ha sposato la Maria che era meridionale; hanno avuto una figlia la Gina e, con suo figlio, ha un banco da mercato. L è pròopria lò.

Gianna Pagliani: Allora non ho sbagliato. Io al Palamàaio ci sono nata nel '44 e sono andata via, perché mi sono sposata, nel '66. La nonna Carmelina, cosi la chiamavo, il giorno del mio matrimonio volle che andassi a farmi vedere vestita di bianco. Ogni volta che mi vedeva, fin da piccola, mi diceva: " Mò dicche te ti giustèeda, ma l'ùltma vòolta ch a t ò visst, t èer pròopria brutta! E me lo tornò a dire anche il giorno del matrimonio .

Giocavo con la Marinella e Anselmo figli di tua zia Nina.


1949 Il cocomeraio Gino Burani 2° al centro seduto e in piedi, cicca in bocca, suo fratello Rino.

 

La Giuli: Da quello che mi ha raccontato mia mamma di lei (la nonna) non stento a crederlo. Mio nonno vendeva le cocomere e altro. So che però quando mia mamma era piccola si erano trasferiti con la baracchina lungo il viale della Stazione.

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Altre foto della zona


1910 Fattura della Ditta Fiocchi – sede a Cibeno, abitazione in Cantaraana


 


1973 L’ultima osteria di una volta in via Santa Chiara


1975 ca - Romano Bassoli materassaio al Palamàaio

 


1975 ca Alfredo del Palamàaio, fratello di Aristide e figlio della Maria Ruṡnèinta


1980 ca Fagiolo Pignatti del Palamàaio.

 


1984 Alcide FORNASARI calzolaio in via Brennero - Cantaraana


 

Postfazione

Nel novembre 2011 c’è stato un interessante ritrovamento di PROFONDA carpigianità: presso il falegname Pio Venturi in Ṡguasalòoca (via G. Rocca) ho avuto copia di una specie di censimento con brevi, ma interessanti descrizioni scritto in una ventina di pagine da Ivo Malaguti (1926-2011), fratello del professore di inglese. Lo scritto è relativo alle famiglie del Palamàaio, Cantaraana e Saanta Cèera, cioè di quelli ritenuti (a torto o a ragione) i peggiori bassifondi di Carpi.

Pio era amico intimo di Ivo e conferma, salvo alcune scusabili imperfezioni, i contenuti dello scritto. Ne emerge una realtà stupefacente che incarna molta della carpigianità cittadina dal '30 al '70 circa. Un mondo pressoché scomparso e che ha ancora pochissimi testimoni. Un modo denso, densissimo di profondo humus carpigiano.

Per dire di lì sono anche passati noti magliai e industriali carpigiani; poi tante bravissime persone, che poi erano la maggioranza, ma anche puvrètt, strasèer, imberiagòos, lèeder, putaani, accoltellatori, di mianormèe(l) cun la tèesta, famiglie con abbondanza di figli illegittimi; c'era anche la cuoca della Banda Adani e Caprari che si diceva fornisse cibo e rifugio ai malviventi.

Queste cose, questi ricordi NON devono andare persi.

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Ho parlato con Pio, con Franco Bizzoccoli e con Carlo Albero Parmeggiani e ognuno di essi ha attestato la sostanziale veridicità del manoscritto.

Ho messo pure alcune correzioni che mi hanno giustamente suggerito.

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Preso da sacro fuoco ho poi anche raffazzonato tutto ciò che avevo scritto in precedenza su Cantaraana e dintorni nelle mie ricerche, che troverete nella prima parte di questo testo. Si tratta come sempre di una bozza di lavoro, in continua evoluzione.

Un saluto a tutti...

 Mauro D’Orazi

 sempre entusiasta di Carpi e del suo dialetto.