Ròobi veci e ròobiveci (cose
vecchi e robivecchi) di Mauro D’Orazi
v 4 16-05-12
L’attuale società è impostata
sull’usa e getta, sullo spreco; si tende a dare poca importanza alle cose, al
loro riuso o conservazione. Un esempio per tutti: molto spesso un’automobile di
pochi anni, in buono stato e basso chilometraggio e che potrebbe svolgere
egregiamente la sua funzione per ancora molto tempo, ha valore ZERO: cioè
significa che deve essere rottamata.
Un criterio di spreco che
assolutamente non esisteva fino agli anni ’60, quelli precedenti al nostro
cosiddetto boom economico, dove nulla veniva buttato via e quando una cosa era
proprio inutilizzabile veniva presa da una strana e pittoresca categoria di
persone: i ròobiveci. Personaggi
molto particolari che diventavo presto molto noti sia in città che in campagna.
Si raccoglieva di tutto: i
metalli in primis, ma anche vetro, lana da materassi, capelli di donne in
trecce tagliate, mobili vecchi, ecc …
Costoro giravano per le strade
con un barusèin (carriolino), sia a la sèerca (alla cerca), che su precisa
chiamata e spesso segnalavano la loro presenza con urla o frasi con brevi e
geniali cantilene, che li ponevano subito all’attenzione delle persone. Spesso
venivano anche incaricati di leggeri o piccoli trasporti, in alternativa ai
birocciai.
Con l’avanzare del progresso
qualcuno era pure motorizzato con idonei motocarri a pianale marca Alpino o
successivamente Ape Piaggio. Molto spesso con cane senza guinzaglio, li seguiva
docilmente e senza creare guai.
I ròobiveci hanno avuto anche loro una specifica evoluzione e
finale scomparsa; hanno girato per Carpi fino agli anni ’80, dedicandosi negli
ultimi tempi alla raccolta dei numerosi cartoni che venivano lasciati di fianco
ai cassonetti. Erano gli scatoloni scarto dei tantissimi laboratori di
maglieria, confezioni e terzisti in genere.
A un certo punto, però, quasi
improvvisamente, con la dipartita fisica degli ultimi rappresenti di questa
singolare categoria, queste figure sono completamente sparite.
Oggi si … conferisce all’AIMAG.
Un modo di dire innovativo, per obbligare i carpigiani a portare i rifiuti
ingombranti negli appositi centri di raccolta, dove occhiuti e spietati
controllori, danno ordini spietati ai poveri e disorientati cittadini, che si
avventurano nell’OPERAZIONE CONFERIMENTO, per altro costretti e vessati da
apocalittiche minacce di terribili sanzioni e messa al pubblico ludibrio con
l’accusa di insensibilità ambientale. Ma
andèe bein in cal pòost !! Andèe a fèrev tusèer a leoncina ( cioè pronti per
l’impiccagione)
In passato a queste incombenze,
in una società a misura umana pensavano invece I ròobiveci, attività dalla quale traevano un sostentamento non
proprio sostanzioso, ma che permetteva loro di vivere una povertà dignitosa e
non di rado di consentire ai figli un’esistenza diversa.
Il materiale ferroso e i metalli
pregiati: rame, ottone, ecc … venivano rivenduti a peso alla Ditta Brani, che
aveva la sede con un ampio spiazzo di deposito in Via Manzoni, in precedenza in
via Andrea Costa.
Il nome di Brani, legato ai
rottami, divenne ed è famoso per i carpigiani e fece nascere anche gustosi e
ironici modi di dire.
Ne cito uno legato all’attività
di questo prezioso imprenditore d’la
ruzna (della ruggine). Quando una persona aveva qualche acciacco, rottura o
indisposizione, gli si poteva dire scherzosamente: Guèerda ch at pòort da Braani ! (Guarda che ti porto a rottamare da
Brani!); oppure, con tipico umorismo carpigiano, fu creata la parodia della
famosa canzone cubana Guantanamera, modificando il ritornello in un
irresistibile:
Quanta-lamèera.
Da Braani!! Quanta-lamèera.
Quanta-lamèera.
Da Braani!! Quanta-lamèera.
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L’attività di raccolta negli anni
’50 e ‘60 riguardava anche i tanti ragazzini che, completamente in bolletta,
volevano rimediare, d’estate, un po’ di soldi per comprare qualche gioco o un
paio di scattini.
Queste bande si mettevano in giro
e tiravano su tutto quello che potevano; si dice anche qualche cancellata,
quando l’occhio degli abitanti della casa era distratto.
Sempre questi ragazzacci erano
capaci nottetempo di scalare la recinzione della Ditta Brani e “recuperare”
materiale già depositato in precedenza, che poi veniva riproposto nei giorni
successivi.
**
Tornando ai robivecchi, ricordo
di averne sempre visti; la loro presenza era costante nelle nostre strade. Mi
viene in mento ad esempio un omino Ognibene che era soprannominato Rangìn, cioè
che si arrangiava, dedicandosi forse anche a raccolte non proprio autorizzate
di beni altri. Carlo Alberto Parmeggiani
racconta che Rangìn passò per antonomasia nel linguaggio infantile e
adolescenziale col detto "T’ì propria un rangingìn colombo!" te grat
e te scap via come un clomb, inteso come epiteto ammollato a persona lesta nel
minuto e amicale freghereccio, sempre in voga nel nostro Principato.
"Rangigìn" è pure un termine dialettale che indica il piccolo esile
ragnetto che sciabatta lungo le pareti della casa, indice peraltro di sanità
dei muri, già che se altrimenti fosse, con l'umidità la ragnatela, che il Rangigìn
si perita di fare, sarebbe in proporzione pesante come un tendone del Circo
Medrano.
Giuliano C., era un uomo straordinario, un personaggio
pieno di curiosità geniali e strampalate, ma anche di inventiva talvolta un po'
sconsiderata: ad esempio una volta costruì un barcone di lamiera nel solaio che
non passò poi mai dalla porta e per le scale; oppure fabbricò un razzo a
carburo che finì dritto dritto in un fienile che prese fuoco. A un certo punto
si mise anche a strolgheèr (a …
indagare inventando) su binari, rotaie e ruote che permettessero a un treno di
fare delle curve meno ampie e più veloci.
Come robivecchi, la leggenda
narra che rivendette per ben sei volte al vecchio Brani, nella stessa giornata,
una pompa da bicicletta arrugginita, buttandola, anziché ai piedi del muretto
dove gli era stato detto di gettarla, dopo la pesata a 40 lire al chilo, aldilà
dello muretto di cui sopra. Ossia nel posto fra le ortiche dove egli stesso la
prontamente la recuperava, una volta uscito col denaro, per riproporla poi, con
noncuranza e la bronza sorniona che lo distingueva, una mezz'ora dopo allo stesso Brani. Il quale troppo preso dal via vai dei suoi rottami, già si era dimenticato d'aver già avuto quella pompa sotto gli occhi, dalle mani di C. .
noncuranza e la bronza sorniona che lo distingueva, una mezz'ora dopo allo stesso Brani. Il quale troppo preso dal via vai dei suoi rottami, già si era dimenticato d'aver già avuto quella pompa sotto gli occhi, dalle mani di C. .
Ho conosciuto anche Danilo
Federzoni, buonissima e onesta persona, propenso a un uso non proprio moderato
del lambrusco. Ebbene, quando tornava a casa, sotto il portichetto di via
Matteotti, si sentiva interrogare, in modo inesorabile, con questa frase
impertinente, pronunciata dai terribili F.lli Forghieri (biciclisti), che
avevano la loro bottega sull’itinerario di rientro del nostro: “El pasèe Danilo ?? (E’ passato Danilo ?
ovvio … passato di vino)”
E poi c’era Radamèss; aveva il
viso rotondo con un naso importante, pochi capelli e cappello di paglia (al
paiarìss), statura medio altre e con un po’ di pancia.
Famosissimi i suoi gli annunci
pubblicitario vocali, a grossolana rima baciata, urlati e cantilenati lungo le
contrade per avvertire del suo imminente passaggio:
“Dònni! Dònni! A gh è al straseèr!! Ghiv di cavìi, di oss, dal fèèr, dal pèesi da marchèes, dal vèeder, mè a tòogh sù tùtt … dòoniiii!!??
(Donne! Donne! C’è il robivecchi! Avete dei capelli - trecce tagliate -,
delle ossa o del ferro, degli assorbenti usati, del vetro ?? Io prendo su tutto
.. donneeee !!)”.
Radamèss mandava un messaggio
semplicemente stupendo ed efficace; così tanto che, nonostante il tempo passato,
esso è ancora ben presente nella memoria di molti concittadini.
Al mulèeta (l’arrotino) invece gridava, con forti sottintesi: Dòoni gh ìv quel da guséer, foòrbSi, curtée,
di féer da sgheér?(Donne avete delle cose da affilare, forbici, coltelli,
ferri da segare ?)
Tale ‘Nibal Luppi era invece un
tipo molto particolare e viveva di espedienti, parlava a voce alta con se
stesso. Spesso passando vicino alla bottega del fabbro Bizzoccoli (il nonno di
Franco) si infilava lesto sotto al tabarro, che indossava allo scopo, un
qualche pezzo di ferro o metallo che poi sarebbe andato a rivendere.
Stanco di questi continui
furtarelli, il Bizzoccoli, vedendo il nostro avvicinarsi da lontano, preparò un
ferro rovente, ma non più rosso, per dissimulare meglio la trappola crudele, e
lo mise davanti fuori di lato alla porta. Nibàal (Annibale) vide l’oggetto e ne
appropriò subito con la mano e lo nascose di slancio sotto i panni. Ma
contemporaneamente, ustionato urlò un tragicomico: “Mò che calòor ch à gh à Nibal sotta al tabàar!!” (Ma che caldo che
ha ‘Nibal sotto al tabarro!). Frase che passò subito per canzonatorio proverbio.
Anche nella versione: “’Sa gh et chèeld ?
… come ‘Nibàal sòota al tabàar!” (Cosa hai? Caldo come Nibàal sotto al
tabarro!) nel caso che si tenti di nascondere qualcosa.
L’episodio di trasformò in una
piccola leggenda. La tradizione orale, che sempre tende a ingrandire le cose
per glorificare l’occasionale racconto di qualche ciarlatano affabulatore
(penosa figura umana che in dialetto si definisce efficacemente con il termine ciavadaari) che, in cerca di facile
protagonismo guadagnato dalla narrazione enfatica di vicende altrui, le esalta
ingrandendole, ce ne regala diverse versioni, tra le quali la seguente,
ulteriormente comica.
Una volta dei ragazzini per fare uno
scherzo a Nibàal, prepararono sul suo consueto itinerario di raccolta un bel
pezzo di tondino di ferro, dopo averlo ben scaldato. Lo sventurato vide
l’ambita preda e subito con la mano si chinò a raccoglierla, ma la lanciò
subito urlando: “Mò che calòor ‘Nibàal!
Mò che calòor!” E quando vide i ragazzi che sghignazzavano, con rabbia ringhiò
loro contro: “ A sì bèin ... a … a sì
bèin … (siete bene) “ e i ragazzi: “ Mò
sa gh è a Sibèin (Cibeno frazione di Carpi” e lui: “ A … a sì bèin di caiòun !!” (Siete bene dei coglioni!!).
Chissà quanti di questi bizzarri
personaggi hanno attraversato le strade di Carpi? Gente certamente non comune,
che vissero esistenze di sofferenza e di fatica, ma anche di grande libertà,
senza padroni, senza orari, gioendo alla fine della giornata di una semplice
bottiglia di vino in qualche osteria o bar.
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