martedì 27 dicembre 2011

Robi vecìi e robivecìi (cose vecchi e robivecchi) di Mauro D’Orazi


Ròobi veci e ròobiveci (cose vecchi e robivecchi) di Mauro D’Orazi  
v 4     16-05-12

L’attuale società è impostata sull’usa e getta, sullo spreco; si tende a dare poca importanza alle cose, al loro riuso o conservazione. Un esempio per tutti: molto spesso un’automobile di pochi anni, in buono stato e basso chilometraggio e che potrebbe svolgere egregiamente la sua funzione per ancora molto tempo, ha valore ZERO: cioè significa che deve essere rottamata.
Un criterio di spreco che assolutamente non esisteva fino agli anni ’60, quelli precedenti al nostro cosiddetto boom economico, dove nulla veniva buttato via e quando una cosa era proprio inutilizzabile veniva presa da una strana e pittoresca categoria di persone: i ròobiveci. Personaggi molto particolari che diventavo presto molto noti sia in città che in campagna.
Si raccoglieva di tutto: i metalli in primis, ma anche vetro, lana da materassi, capelli di donne in trecce tagliate, mobili vecchi, ecc …
Costoro giravano per le strade con un barusèin (carriolino), sia a la sèerca (alla cerca), che su precisa chiamata e spesso segnalavano la loro presenza con urla o frasi con brevi e geniali cantilene, che li ponevano subito all’attenzione delle persone. Spesso venivano anche incaricati di leggeri o piccoli trasporti, in alternativa ai birocciai.
Con l’avanzare del progresso qualcuno era pure motorizzato con idonei motocarri a pianale marca Alpino o successivamente Ape Piaggio. Molto spesso con cane senza guinzaglio, li seguiva docilmente e senza creare guai.
I ròobiveci hanno avuto anche loro una specifica evoluzione e finale scomparsa; hanno girato per Carpi fino agli anni ’80, dedicandosi negli ultimi tempi alla raccolta dei numerosi cartoni che venivano lasciati di fianco ai cassonetti. Erano gli scatoloni scarto dei tantissimi laboratori di maglieria, confezioni e terzisti in genere.
A un certo punto, però, quasi improvvisamente, con la dipartita fisica degli ultimi rappresenti di questa singolare categoria, queste figure sono completamente sparite.
Oggi si … conferisce all’AIMAG. Un modo di dire innovativo, per obbligare i carpigiani a portare i rifiuti ingombranti negli appositi centri di raccolta, dove occhiuti e spietati controllori, danno ordini spietati ai poveri e disorientati cittadini, che si avventurano nell’OPERAZIONE CONFERIMENTO, per altro costretti e vessati da apocalittiche minacce di terribili sanzioni e messa al pubblico ludibrio con l’accusa di insensibilità ambientale. Ma andèe bein in cal pòost !! Andèe a fèrev tusèer a leoncina ( cioè pronti per l’impiccagione)
In passato a queste incombenze, in una società a misura umana pensavano invece I ròobiveci, attività dalla quale traevano un sostentamento non proprio sostanzioso, ma che permetteva loro di vivere una povertà dignitosa e non di rado di consentire ai figli un’esistenza diversa.
Il materiale ferroso e i metalli pregiati: rame, ottone, ecc … venivano rivenduti a peso alla Ditta Brani, che aveva la sede con un ampio spiazzo di deposito in Via Manzoni, in precedenza in via Andrea Costa.
Il nome di Brani, legato ai rottami, divenne ed è famoso per i carpigiani e fece nascere anche gustosi e ironici modi di dire.
Ne cito uno legato all’attività di questo prezioso imprenditore d’la ruzna (della ruggine). Quando una persona aveva qualche acciacco, rottura o indisposizione, gli si poteva dire scherzosamente: Guèerda ch at pòort da Braani ! (Guarda che ti porto a rottamare da Brani!); oppure, con tipico umorismo carpigiano, fu creata la parodia della famosa canzone cubana Guantanamera, modificando il ritornello in un irresistibile:
Quanta-lamèera.
Da Braani!! Quanta-lamèera.
Quanta-lamèera.
Da Braani!! Quanta-lamèera.

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L’attività di raccolta negli anni ’50 e ‘60 riguardava anche i tanti ragazzini che, completamente in bolletta, volevano rimediare, d’estate, un po’ di soldi per comprare qualche gioco o un paio di scattini.
Queste bande si mettevano in giro e tiravano su tutto quello che potevano; si dice anche qualche cancellata, quando l’occhio degli abitanti della casa era distratto.
Sempre questi ragazzacci erano capaci nottetempo di scalare la recinzione della Ditta Brani e “recuperare” materiale già depositato in precedenza, che poi veniva riproposto nei giorni successivi.
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Tornando ai robivecchi, ricordo di averne sempre visti; la loro presenza era costante nelle nostre strade. Mi viene in mento ad esempio un omino Ognibene che era soprannominato Rangìn, cioè che si arrangiava, dedicandosi forse anche a raccolte non proprio autorizzate di beni altri. Carlo Alberto Parmeggiani racconta che Rangìn passò per antonomasia nel linguaggio infantile e adolescenziale col detto "T’ì propria un rangingìn colombo!" te grat e te scap via come un clomb, inteso come epiteto ammollato a persona lesta nel minuto e amicale freghereccio, sempre in voga nel nostro Principato. "Rangigìn" è pure un termine dialettale che indica il piccolo esile ragnetto che sciabatta lungo le pareti della casa, indice peraltro di sanità dei muri, già che se altrimenti fosse, con l'umidità la ragnatela, che il Rangigìn si perita di fare, sarebbe in proporzione pesante come un tendone del Circo Medrano.

Giuliano C.,  era un uomo straordinario, un personaggio pieno di curiosità geniali e strampalate, ma anche di inventiva talvolta un po' sconsiderata: ad esempio una volta costruì un barcone di lamiera nel solaio che non passò poi mai dalla porta e per le scale; oppure fabbricò un razzo a carburo che finì dritto dritto in un fienile che prese fuoco. A un certo punto si mise anche a strolgheèr (a … indagare inventando) su binari, rotaie e ruote che permettessero a un treno di fare delle curve meno ampie e più veloci.
Come robivecchi, la leggenda narra che rivendette per ben sei volte al vecchio Brani, nella stessa giornata, una pompa da bicicletta arrugginita, buttandola, anziché ai piedi del muretto dove gli era stato detto di gettarla, dopo la pesata a 40 lire al chilo, aldilà dello muretto di cui sopra. Ossia nel posto fra le ortiche dove egli stesso la prontamente la recuperava, una volta uscito col denaro, per riproporla poi, con
noncuranza e la bronza sorniona che lo distingueva, una mezz'ora dopo allo stesso Brani. Il quale troppo preso dal via vai dei suoi rottami, già si era dimenticato d'aver già avuto quella pompa sotto gli occhi, dalle mani di C. .

Ho conosciuto anche Danilo Federzoni, buonissima e onesta persona, propenso a un uso non proprio moderato del lambrusco. Ebbene, quando tornava a casa, sotto il portichetto di via Matteotti, si sentiva interrogare, in modo inesorabile, con questa frase impertinente, pronunciata dai terribili F.lli Forghieri (biciclisti), che avevano la loro bottega sull’itinerario di rientro del nostro: “El pasèe Danilo ?? (E’ passato Danilo ? ovvio … passato di vino)”

E poi c’era Radamèss; aveva il viso rotondo con un naso importante, pochi capelli e cappello di paglia (al paiarìss), statura medio altre e con un po’ di pancia.
Famosissimi i suoi gli annunci pubblicitario vocali, a grossolana rima baciata, urlati e cantilenati lungo le contrade per avvertire del suo imminente passaggio:
Dònni! Dònni! A gh è al straseèr!! Ghiv di cavìi, di oss, dal fèèr, dal pèesi da marchèes, dal vèeder, mè a tòogh sù tùtt … dòoniiii!!?? (Donne! Donne! C’è il robivecchi! Avete dei capelli - trecce tagliate -, delle ossa o del ferro, degli assorbenti usati, del vetro ?? Io prendo su tutto .. donneeee !!)”.
Radamèss mandava un messaggio semplicemente stupendo ed efficace; così tanto che, nonostante il tempo passato, esso è ancora ben presente nella memoria di molti concittadini.

Al mulèeta (l’arrotino) invece gridava, con forti sottintesi: Dòoni gh ìv quel da guséer, foòrbSi, curtée, di féer da sgheér?(Donne avete delle cose da affilare, forbici, coltelli, ferri da segare ?)

Tale ‘Nibal Luppi era invece un tipo molto particolare e viveva di espedienti, parlava a voce alta con se stesso. Spesso passando vicino alla bottega del fabbro Bizzoccoli (il nonno di Franco) si infilava lesto sotto al tabarro, che indossava allo scopo, un qualche pezzo di ferro o metallo che poi sarebbe andato a rivendere.
Stanco di questi continui furtarelli, il Bizzoccoli, vedendo il nostro avvicinarsi da lontano, preparò un ferro rovente, ma non più rosso, per dissimulare meglio la trappola crudele, e lo mise davanti fuori di lato alla porta. Nibàal (Annibale) vide l’oggetto e ne appropriò subito con la mano e lo nascose di slancio sotto i panni. Ma contemporaneamente, ustionato urlò un tragicomico: “Mò che calòor ch à gh à Nibal sotta al tabàar!!” (Ma che caldo che ha ‘Nibal sotto al tabarro!). Frase che passò subito per canzonatorio proverbio. Anche nella versione: “’Sa gh et chèeld ? … come ‘Nibàal sòota al tabàar!” (Cosa hai? Caldo come Nibàal sotto al tabarro!) nel caso che si tenti di nascondere qualcosa.

L’episodio di trasformò in una piccola leggenda. La tradizione orale, che sempre tende a ingrandire le cose per glorificare l’occasionale racconto di qualche ciarlatano affabulatore (penosa figura umana che in dialetto si definisce efficacemente con il termine ciavadaari) che, in cerca di facile protagonismo guadagnato dalla narrazione enfatica di vicende altrui, le esalta ingrandendole, ce ne regala diverse versioni, tra le quali la seguente, ulteriormente comica.
Una volta dei ragazzini per fare uno scherzo a Nibàal, prepararono sul suo consueto itinerario di raccolta un bel pezzo di tondino di ferro, dopo averlo ben scaldato. Lo sventurato vide l’ambita preda e subito con la mano si chinò a raccoglierla, ma la lanciò subito urlando: “Mò che calòor ‘Nibàal! Mò che calòor!” E quando vide i ragazzi che sghignazzavano, con rabbia ringhiò loro contro: “ A sì bèin ... a … a sì bèin … (siete bene) “ e i ragazzi: “ Mò sa gh è a Sibèin (Cibeno frazione di Carpi” e lui: “ A … a sì bèin di caiòun !!” (Siete bene dei coglioni!!).

Chissà quanti di questi bizzarri personaggi hanno attraversato le strade di Carpi? Gente certamente non comune, che vissero esistenze di sofferenza e di fatica, ma anche di grande libertà, senza padroni, senza orari, gioendo alla fine della giornata di una semplice bottiglia di vino in qualche osteria o bar.

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