martedì 23 giugno 2015

Lo specchio di Dionisio. SPECULUM VITAE - di Mauro D'Orazi - Carpi

Lo specchio di Dionisio. SPECULUM VITAE
Ognuno ha la propria legittima opinione e questo è un patrimonio indispensabile per l'umanità:
la libertà di pensiero e di coscienza e la diversità dei punti di vista.
lo specchio di Dionisio è andato in mille pezzi e ognuno di noi ne ha trovato un frammento.
Chi lo stringe forte nella mano, si taglia.
Chi lo unisce al frammento di un altro uomo o di un'altra donna, vedrà un altro pezzo della verità!
"La verità è uno specchio caduto dalle mani di Dio e andato in frantumi. Ognuno ne raccoglie un frammento e sostiene che lì è racchiusa tutta la verità." Rumi
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Fu contemplandosi nello specchio che Dioniso, secondo le tradizioni orfiche, si frantumò del tutto, subì una lacerazione che lo riportava al caos e gli consentiva di plasmare la visione di un mondo diverso. È lo specchio che permette di riconoscere la propria identità, quanto di distruggerla per conquistarne un'altra.
 È un mezzo per contemplare l'età dell'oro e per divinare. Tutti i mondi, esistenti o no, passano nello specchio, tutte le figure, reali o della mente, acquistano il corpo leggero dell'immagine riflessa. Lo specchio è infatti anche evocatore di presenze.
In una brocca, dal fondo riflettente, il novizio scorgeva per un attimo il proprio volto, al quale si sovrapponeva, per l'abile tecnica del sacerdote e del suo assistente di muovere la brocca insieme al sollevamento della maschera, il volto di Sileno. Era questi il sapiente precettore di Dioniso, custode della crudele certezza che la vita sia solo male per l'uomo.
La maschera di Sileno, riflessa nel fondo della brocca, rivela al novizio la terribile verità. L'angoscia che lo invade è rappresentata dalla figura dell'Atterrita che fugge allontanandosi dal luogo della rivelazione della maschera.
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Intraprendere lo stretto percorso dove la conoscenza è anche sapienza. Un itinerario che apre alla conoscenza è quello che conduce al «cuore della ragione», all'«interiorità fremente», il cui simbolo miracoloso è Dioniso: il dio di Eleusi e di Delfi che, nel mito, è divorato dai Titani, mentre, assorto, si contempla allo specchio e scorge non la sua immagine, ma l'mmagine del mondo. Dove tutto è fermo: la vita e il fondo della vita sono un dio che si guarda allo specchio.

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Uno specchio riflette la quarta parete della stanza e con essa i due uomini che  là si trovano mostrandoci, in tal modo, ciò che mai avremmo potuto vedere. Ne consegue che lo specchio, in virtù della sua duplice essenza, intrattiene un rapporto privilegiato con la conoscenza, perché ci fa vedere l’invisibile, quella quarta parete, che non avremmo avuto modo di percepire altrimenti. Quando si parla di specchio, si parla di riflessione. parola che guarda caso significa anche pensare dentro se stessi. è per questo che davanti a uno specchio tante volte riusiamo a fare pensieri molto profondi.
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Lo specchio riflette solo il tempo presente??

Giannino il tabaccaio - Mauro D'Orazi - Carpi - dialetto carpigiano

Giannino il tabaccaio


Chi si fosse trovato a passare alla fine di maggio 2015 per Carpi in pieno centro storico, davanti al Municipio avrebbe visto un’ enorme A appiccicata alla vetrina di una tabaccheria.
La squadra di calcio del Carpi è andata in serie A e la gioia di Giannino (titolare dell’esercizio una volta delegato al chinino, oggi al grattino) era esplosa all'inverosimile con l'aggiunta poi, di lì a poco di quella dello scudetto e di altri trofei alla Juve, sua squadra del cuore. Una vera apoteosi di esultanza, di emozioni, di soddisfazioni di vita!
Giannino ha appena compiuto 50 anni, è un uomo sano, un tifoso felice, ha moglie e due figli, un buon lavoro, ecc… Vende sigarette, francobolli e… piccole gioie con i gratta e vinci!
Giannino è una brava persona. Ce ne fossero! Ma non si pone grossi dubbi esistenziali e, per paura di uscire dal seminato, non ha nemmeno mai assaggiato un piatto di spaghetti di soia cinesi. È andato per la prima volta all’estero l’estate scorsa e di fronte alla Torre Eiffel ha esclamato, un po’ sorpreso: “AH! Credevo fosse anche più alta!”
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A questo punto qualcuno fra coloro che mi ascoltano, comincerà a preoccuparsi della salute mentale di chi legge queste righe e a chiedersi cosa c’entra tutto ciò con quello che stiamo studiando e approfondendo.
Ebbene Giannino è l’esatta corrispondenza nella ns società attuale della figura di Papageno del Flauto Magico del grande Mozart.
Nella celeberrima opera, il protagonista Tamino è chiamato a grandi traguardi, sarà iniziato, libererà Pamina dal buio della notte, la farà sua e diventerà l’allievo/ successore del gran sacerdote Sarastro.
Papageno, invece, è uomo comune che si accontenta delle cose primordiali. Il buono, il giusto: secondo il comune sentimento popolare. Inizialmente racconta qualche ingenua frottola per farsi grande, ma è un peccatuccio veniale e alla fine si rivelerà di buon cuore e anche piuttosto saggio.
Il “povero” (fra virgolette) Papageno (lato infantile di Tamino) ambisce a traguardi molto meno ambiziosi dell’eletto; innanzitutto deve guadagnarsi da vivere, catturando e rivendendo rari volatili, e poi desidera assolutamente trovare una Papagena come lui, per mettere su famiglia e avere tanti piccoli Papagenini.
Papageno è scaltro e pieno di inventiva, ma nel contempo è anche gran chiacchierone e, come tutti coloro che sono affetti da tale fastidioso problema (per le orecchie altrui), spesso non sa né discorrere, né tacere. Ha paura ed è timoroso davanti a troppe novità, che quasi sempre non riesce a capire.
A Papageno viene data la possibilità di accedere a stati di coscienza più maturi, ma non riesce a superare le prove di iniziazione e in particolare quella del silenzio, parlando e anche a sproposito.
Papageno, nella sua spontaneità semplice e incontenibile, non ce la fa proprio a tacere e le sue labbra vengono serrate da un lucchetto d’oro.
Nella figura di Papageno viene rappresentata la dimensione psichica di chi si sente ben inserito nella concretezza del reale e si accontenta di quello che la vita gli offre lì per lì; non pensa a una condizione umana più alta, a un avvenire intriso di altissimi principi. Papageno non intende per nulla operare grossi rivolgimenti nella sua pratica esistenza, tende perciò a escludersi dalle prove d'iniziazione, rappresentano più che altro un fastidio e un limite al proprio istinto naturale.
II silenzio e il dominio di sé, possono essere l'espressione della forza della coscienza e della saldezza dell'io.
Questa forza e solidità vengono richieste a Tamino, mentre Papageno, succube e tentato dai sensi, non è degno dell'iniziazione, anche se la sua figura di basso livello completa la solennità iniziatica del mondo di Tamino.
Pertanto Papageno rappresenta la paura naturale dell'uomo, che si ritrae dall'ascesi e dallo sforzo di elevazione della vita; egli non ha lo scopo di andare nella notte, di rischiare la morte verso più alte mete e si accontenta del fatto di pensare, con un’alzata di spalle, che: "Ci sono molto persone come me!" Quando gli viene comunicato, con compunta solennità, che non ha superato le prove iniziatiche. Il suo atteggiamento è di tranquilla noncuranza, mista a una punta di dispregio.
NON dimentichiamolo, in questa sua semplice, ma fondamentale constatazione, ha dalla sua parte l’umanità ordinaria, cioè la maggior parte delle persone di buon senso e di positiva volontà!
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Quasi tutte le mattine io e l’amico S prima di andare a lavorare, ci fermiamo più che volentieri a chiacchierare nel negozio di Giannino, divenuto piacevole punto di incontro per gossip, battute, frizzi e lazzi. Giannino è un istrione e ogni mattina recita a soggetto, straparla simpaticamente.
Giannino però ogni tanto ci sente discorrere, in modo sintetico e per sottintesi, di strani appuntamenti per la serata; è curioso. A un certo punto sbotta:“ A m piesrèev savèer indu andèe a la sìira?” Mi piacerebbe sapere dove andate alla sera? Si attenta a chiedere in dialetto, con compiaciuta ignoranza e sbuffante malizia. Noi ridendo, gli rispondiamo rivelandogli cose fra le più inverosimili: traffici di valuta per milioni di euro con paesi esteri, incontri a scopi sessuali ambigui, rapporti coi servizi segreti di mezzo mondo, complotti contro il Vaticano, ecc.. . Giannino ci guarda scuotendo la testa e ci manda al diavolo sempre con efficaci frasi dialettali.
NON capisce, ma soprattutto non potrebbe capire, NON VUOLE capire… nemmeno se gli dessimo un minino di spiegazioni… le nostre sono “cose” troppo lontane dal suo sentire.
Giannino è felice nella sua vita di sana ordinarietà, non cerca soddisfazione in esoterici piani paralleli esistenziali.
“Sei il nostro Papageno!” Gli dico sorridendo. “Ehh?!” Replica lui, guardandomi stupito: non comprende e io di certo non glielo spiego. Eppure sarebbe semplicissimo dare un occhio a qualche pagina di internet; cosa che però non farà mai. È felice così! Perché porsi nuovi problemi?
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Ma… noi GRANDI   filosofi al massimo grado… lo siamo anche noi… felici? Noi chiamati agli alti destini di Tamino! Noi che ci vediamo assegnati nomi e titoli altisonanti.
Noi…   chiamati alla purezza, alla santità e alla diffusione del pensiero e degli ideali di libertà di saggezza nel mondo, nella società. Il destino di Tamino ci appartiene; ci è stato attribuito da un alto (e nel contempo intimo) disegno, che perseguiamo (per ispirazione e intuito) pur senza mai riuscire a comprenderne adeguatamente la sua interezza e la sua complessa e completa verità.
Ma sarà proprio vero che siamo chiamati a questi supremi e ineluttabili compiti? Soprattutto quelli estremamente gravosi di portare i ns grandi ideali nella società. Chi ci dà la convinzione di essere superiori a Papageno e all’amico Giannino? Che presunzione!!
Tamino è l’eroe che attraversa l’oscurità, rischiando la morte per arrivare al celeste piacere dell’iniziato. Egli insegue la sua Gerusalemme Celeste. Egli rappresenta il principio della coscienza attiva che deve essere messa in funzione e che deve affermarsi nella lotta con le forze oscure dell’inconscio. Egli è alla caccia del tesoro, della pietra preziosa, che è simbolo dell’ampliamento di coscienza, che è poi il profitto di ogni iniziazione.
Papageno non è in grado di partecipare all’alto volo spirituale di Tamino, ma non è che non subisca una trasformazione, solo che essa avviene nell’ambito di un mondo naturale, non tanto inferiore, ma che si limita a vibrare con una frequenza più grossolana. Una dimensione che è certo meno intellettualmente raffinata, ma allo stesso tempo di certo umanamente positiva.
Una risposta potrebbe essere di considerare il mistero superiore dell’iniziazione (che è per pochi), come il colmo della stessa forza d’amore per la vita, che anima il mondo più prosaico di Papageno.
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Giannino è soddisfatto della sua vita, il suo concreto umanesimo ha semplici e solidi principi.

Mi chiedo se lo sono anche io… soddisfatto e felice, avvolto dalla certezza del dubbio e spesso pesantemente ricurvo, come un punto interrogativo vivente, sulle mie incertezze di verità; VERITÀ che intuisco, corteggio, inseguo, ma che drammaticamente NON raggiungo mai (invece come vorrei) nella sua completezza.

Mini – modellini Ferrari di Scaglietti – Tirelli - di Mauro D'Orazi - Carpi - dialetto carpigiano

Prima stesura 10-06-2015                                                                                              V09 dell’08-03-2016
Mini - Ferrari di Scaglietti -  Remo Tirelli
e altre note su modellini carpigiani di auto e moto
                 BOZZA in perfezionamento                      di Mauro D’Orazi  

Gianguido Tarabini (Tarash Bulba) mi ha chiesto alcune note sulla “ferrarina” in suo possesso ed esposta con giusto orgoglio all’ingresso del Blumarine;  ho colto l'occasione per riassumere in un unico pezzo tutto il materiale (in parte ancora un po’ contradditorio e lacunoso) che ho su questi piccoli modelli a motore carpigiani degli anni ‘50-’60.
Mi sembra un capitoletto della nostra storia molto carino da ricordare e da non perdere; traspare chiaramente la genialità, la manualità, la fantasia di persone NON comuni; valentissimi artigiani che ho sempre ammirato per quello che sapevano fare con la testa e le mani.
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Mauro D'Orazi per Tarash Bulba (note tratte da Facebook)
22 febbraio 2015

1960 ca - Carpi -   mini Ferrari  in uno stand della Lambretta
(non montava un motore Lambretta 125 c c,
ma un DEEM 50 c c a raffreddamento forzato)

Tarash Bulba  - Grazie Mauro, ora quella stessa mini-Ferrari fa bella mostra di sé nell'ingresso della Blufin. Io però da bimbo non l'ho mai guidata, ne avevo una più "classica" in plastica con i pedali con la quale scorrazzavo nel cortile del Molly.   

Mauro D'Orazi - chi sono i bimbi? li conosci? 
          
Tarash Bulba - Non lo so, io sono nato più tardi, forse uno potrebbe essere Antonio Paltrinieri, il fratello dell'Annunziata. Però è un ipotesi.  22 febbraio alle ore 9.31 ·  

Mauro D'Orazi ecco !! chiedo alla interessata
22 febbraio alle ore 9.33  

Annunziata Paltrinieri mi dice però che nelle due foto sopra non è lei e forse nemmeno suo fratello 
E aggiunge  “La Ferrarina per poter partire andava spinta. Era perfetta in ogni particolare, quello era il suo unico difetto. Quanto ci siamo divertiti!”

Mauro D'Orazi  - Ho qui davanti (al bar Tazza d’Oro) Antonio Paltrinieri che mi conferma che sono lui e Annunziata. Sono lì in quello stand per pubblicità; ma il motore era da Lambretta ? (un 125 c c troppo potente per dei bambini), come potrebbe apparire dall’insegna pubblicitaria, oppure più probabilmente un DEEM 50 c c due tempi a raffreddamento forzato
22 febbraio alle ore 10.03  
Sergio Scaglietti in una foto del 1953
Mauro D'Orazi - 1960 circa Carpi - modello di mini Ferrari con Antonio Paltrinieri a sn.
Ecco la testimonianza che ho (Mauro D'Orazi) raccolto il 22-02-2015 da Antonio Paltrinieri:
“Siamo alla fine anni '50; il carrozziere della Ferrari, Sergio Scaglietti (1920 - 2011), costruì la carrozzeria di questa e altre due ferrarine (tre in tutto). Marcate 0001, 0002 e 0003.  Il meccanico "fantasista e geniale" Remo Tirelli è l’autore della meccanica e del telaio in tubi; aveva bottega in via 4 Novembre, dove aveva l'officina con il cosiddetto "Pensatoio", luogo frequentato da amici,  a mo’ di filosso, da cui scaturivano le idee più strane e originali.
Tirelli attrezzò le tre aumobiline con un motore a due tempi DEEM 50 c c a raffreddamento forzato, usato per piccoli motofurgoni (anche se nelle foto la Ferrarina è esposta dal concessionario della Lambretta a Carpi). Il problema era che bisognava avviarle a spinta,  perché per motivi di spazio, non c’era il pedale dell’accensione. Questa della foto era di Vittorio Paltrinieri, si presuma la 0002; la prese per figli Annunziata Paltrinieri e Antonio Paltrinieri. Divenne poi dei Tarabini – Molinari e oggi questo modellino è esposto nell'ingresso del Blumarine a Carpi.
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A chi sono andate?
La prima è andata direttamente in USA; per le altre le storie si intrecciano e si sovrappongono, non c’è chiarezza. Riporto con beneficio di inventario, le notizie che mi sono arrivate in buona parte vere, ma altre da verificare.
La 0001 dovrebbre essere stata manda da Ferrari stesso a Chinetti in USA.
Una la comprò Gian Pietro Bonaretti (industriale di Carpi) che la sottopose (sempre con Tirelli) a miglioramenti come l’avviamento elettrico, la marcia indietro mutò la livrea da quella per la corsa di Le Mans che comprendeva il bianco (come quella poi Tarabini) in completo rosso Ferrari, pare che il motore fosse da Lambretta, ma restano i dubbi più volte espressi.
Un esemplare pare sia andata al Circo Orfei (?) dove veniva adoperata negli spettacoli e nelle sfilate per pubblicizzare il circo all'arrivo nelle varie città (è leggenda?).  È chiaro che sono necessarie delle verifiche. La verità si mischia appunto con la “leggenda”. La ricerca è in corso e ho passato tutta la mia documentazione ad Adolfo Orsi, super esperto di Ferrari e che possiede sulle tre Ferrarine preziose testimonianze e documentazioni.
Pare ci sia stato il passaggio a un asta a Montecarlo.
Se i proprietari sono tutti veri, è chiaro che ci sono stati dei passaggi proprietà da appurare nei tempi di successione.

Mauro D’Orazi - La bottega di Remo Tirelli era un lungo garage di proprietà di Vittorio Paltrinieri sito nel lato sud di via 4 Novembre. Nel “Pensatoio” Tirelli ideò anche una speciale e teorica macchina, che avrebbe dovuto ricavare energia dal moto delle maree utilizzando degli lamieroni che dovevano oscillare in base ai movimenti del mare e, tramite una dinamo, produrre energia elettrica. La sua ultima attività fu quella di produrre fili da freno da bicicletta completi di terminale, con un apposito congegno meccanico - elettrico inventato da lui stesso. Questa macchina completava i fili da freno da bicicletta dei loro terminali, che venivano torniti e sistemati automaticamente in serie.
Remo penso di vendere in serie questo modellino di Ferrari e predispose un apposito depliant. Il costo dei prototipi era attorno alle 500 mila lire, una cifra considerevole al tempo.
Remo era poi fratello del Tirelli della Tirelli Frigor, nota al tempo ditta carpigiana che produceva frigo industriali e da bottega /bar. Quest’ultimo Tirelli era il padre di Leda Tirelli, moglie di Dino (FRARICA) Righi, noto industriale carpigiano delle camicie.

1965 ca modellino mini Ferrari con motore DEEM – oggi di proprietà  Blumarine
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Nel 1957 ca Carmine D'Agostino era il benestante proprietario della villa in via Roosevelt, al tempo una specie di cantina dove lavoravano i residui dell'uva e frutta secca (fichi, ecc...). D'Agostino aveva fatto costruire per il figli una specie di piccola Fiat 1100, senza tettuccio, che funzionava con un motore a scoppio. Il ragazzino girava contento negli ampi spazi esterni della ditta.
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Ricordo anche che nei primi anni ’60 il figlio di Dino Righi, Giorgio, mio compagno di scuola, girava invece nel lungo perimetro interno della FRARICA con un modellino di auto con motore elettrico.
Un pomeriggio di fine scuola, giugno, tutta la classe era ospite di Righi e vidi l’oggetto del desiderio. Deve essere stato lì, quando vidi la piccola auto, che ho provato per la prima volta un fortissimo e acuto sentimento di invidia e di impotenza di vita.
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La “mania” di costruire modellini a Carpi ebbe origine da un paio di abili meccanici; nei primi anni ’50 il meccanico commerciante di Moto Guzzi Cadossi che ne costruì una per il figlio, seguito poi da Giorgio Sgarbi nel 1959, che costruì anche lui una piccola moto per il figlio Gigia Gianfranco Sgarbi. 



Anni ’50 – tre foto allo stadio di Carpi - Cadossi con un modellino costruito dal padre

Anni '50 Stadio di Carpi Cadossi con una motina,
a dx il Conte Galasso Benzi, gentleman della moto.
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20 settembre 1959 - Festa dell’Infanzia al Parco - Gianfranco (Gigia) Sgarbi fa rifornimento presso il distributore Aquila (poi Total) vicino al Parco dal benzinaio Anacleto Burani; esattamente dove oggi c’è la rotonda di via Giovanni XXIII
Particolare della foto - il faccino di Gigia
Negli eccezionali (anche se non nitidi) fotogrammi che seguono, estratti da un filmino d’epoca, vediamo il piccolo Gigia esibirsi il 20 settembre del 1959 per la Festa dell’Infanzia al Parco con una piccola replica di una MV 500 cc da corsa. La “motina" fu progettata e costruita da suo padre… naturalmente ed è ancor oggi gelosamente conservata dal figlio.

20 settembre 1959 - Festa dell’Infanzia al Parco - Gianfranco (Gigia) Sgarbi percorre la pista interna con una mini moto n 13 costruitagli dal padre Giorgio

Il giro prosegue
Il traguardo si avvicina


20 settembre 1959 - Festa dell’Infanzia al Parco - Il Sindaco di Carpi Bruno Losi premia il bambino per l’impresa effettuata. Gigia è in braccio al segretario del Sindaco Augusto Depietri
per le foto contattatemi - dorry@libero.it

Agente DIVO facente di Pietro D’Orazi - Carpi - A nostro padre

Agente DIVO facente
di Pietro  D’Orazi
C’erano molti indizi a conferma dell’ipotesi che nostro padre fosse davvero un poliziotto seppure in borghese.
Innanzi tutto c’era quell’odore di cuoio/lucido/grassoperstivali, ovvero di caserma, proveniente dall’armadio della cantina che conteneva una uniforme ormai smessa in pelle nera da postodiblocco/motociclista di p.s., stile Sordi ne “Il vigile”.     
Vigile motociclista (divisa simile al poliziotto motorizzato) [filmato 1]
Poi c’era quel suo portamento fiero che tanto ci inorgogliva quando si era a passeggio; conosceva tutti e tutti lo conoscevano che sembravano incantati più dal suo sorriso conciliante che dal fascino sprigionato dalla divisa imprigionata nell’armadio.
Un’altra tessera del mosaico era in realtà un tesserino verde oliva cimina, rilasciato dal Ministero, dove appariva con tanto di baffi e in testa la tesa.

Possedeva un istinto tutto particolare per cogliere in flagrante la nostra ingenuina fragranza, mentre magari si barriva sghignazzanti per telefono al malcapitato di turno o si trappolava per strada con un portafoglio pieno di carta usato da esca o si elaborava il rutto insolente.
Quel tipico fiuto che non aveva bisogno di una seconda impressione, che a confronto era nulla l’olfatto di quel “vero e proprio cane-lupo-rintintin” con tanto di ingombrante testone che sembrava la sella di una lambretta, in compagnia del quale talvolta passava per casa quando era al lavoro, impressionando la ziona e me. 

Odierna sella pullman con Ben

Se poi ci aggiungiamo che non ebbe pace finché non riuscimmo a permetterci la Giulia Seppur Milletre TI (ma non proprio la Giulia Super 1.6, dal culo ribassato di puledro spronato, in dotazione alla forza pubblica) con cui percorrere la Cassia per mille miglia e una ancora...  
Giulia Super 1.6  in piazza con Divo al volante, mentre parla con (Sgagiadèin) Ermes Benetti

Anche il fatto che talvolta reclutava mio fratello e me, immagino per coprirgli le spalle, quando era in servizio allo stadio (cheppalle insidiose!).
O l’addestramento cui ci sottoponeva la domenica mattina in piazza, allorché ci toccava perlustrare quel vasto accampamento fatto di pannelli bianchi, nebbia a banchi, passerelle e stand, che cingevano il castello ai bei tempi dell’assedio export, quando al dodicesimo rintocco seguiva il boom economico (che, invero, da casa nostra non si percepiva poi così forte) credo sparato a SalveRegina dalla cannonica del Sannìcolò [filmato 2]: perché la Fiera del Filato era un vero e proprio labirinto, col collega Filone affiliato al Minotauro e di fili un sacco, di Arianna e non; poco ariana fu la Twiggy casereccia che ci consegnò due cravatte tronche Trevira 2000, in fibra sintetica non pettinata, in quanto hippie, i cui colori sgargianti avrebbero presto influenzato la vernice del LUI 50&75 di Bertone, ma che al momento mal si addicevano al paraorecchie incorporato nel mio berretto. 

A proposito di Beretta, probabilmente in casa c’era anche una pistola “che a essere prudenti non si tocca”, senza caricatore, ben nascosta chissà dove nello sgabuzzino (nella vecchia credenza, aprendo con cautela di molto il cassetto di sinistra, in fondo, dietro alla cartella del rogito).O forse nel comodino in camera da letto.

Beretta mod 1934 di ordinanza della PS

E quel nostro cognome oriundo, eventualmente così ordinario tra militari, ma che certo un poco strideva nel registro di classe, fra quelli così schiettamente emiliani dei compagni? Dunque quel cognome che faceva sorprendentemente rima strabaciata con quello carpigiano di nostra madre (Bertolazzi), non era forse un altro indizio?
E che parte poteva avere quel quasi omonimo, non omino, amico fornaio, direttore del tiro a segno? Che dietro a suoi grugniti, tra una croisette ferrarese ed una baguette sciapò, si celasse il contatto giusto per la resistenza francese, tipo la Grande Fuga? Mai glielo Chiesi, che andò in ferie. 
1944 Ricevuta Forno Chiesi per consegna al Campo Fossoli

Troppe quindi le coincidenze, innumerevoli le tracce lasciate.
Purtroppo le nostre indagini non si poterono spingere oltre, perché la nostra intelligence andò in riserbo.
Finché, in un tardo mattino di agosto, nel ritirare l’odiato pane locale precedentemente ordinato da nostro padre presso un forno di turno, lessi sul sacchetto stampigliato a lapis in caratteri cubitali e dialetto ingentilito: PULISCIOTTO.

P.S.: pubblica sicurezza (Polizia/forza pubblica).
p.d’o.:  
  
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I Piletti di Tomeazzi ridotti per Voce di Carpi - dialetto carpigiano Mauro D'Orazi

I Piletti di Tomeazzi ridotti per Voce di Carpi
Maggio 2015
Bene, D’Orazi, tu asserisci di aver ritrovato arcani significati dietro la vicenda di quelli che i Carpigiani non più giovani ricordano come i pilètt ed Tomeàasi, ovvero i due fittoni che da sempre chiudono il portico di piazza Garibaldi verso corso Roma… Ci hai scritto su uno dei tuoi quaderni storici su costumi e detti della Carpi che fu. Ci vuoi riassumere qui il senso della sua scoperta?
«Intanto, lasciami descrivere il posto, carico appunto di reminiscenze e modi di dire carpigianissimi…»
Prego.
«Gli storici pilètt o fittoni in marmo chiudono il portichetto detto dla Minghètta, quello che porta dalla piazzetta verso San Francesco e così chiamato dal nome di una fruttivendola che vi teneva bottega. Ce li avevano messi a fine Ottocento per impedire probabilmente che nel portico entrassero birocci o altro. Sono sempre stati due, anche se non si tratta di quelli originali. Proprio lì a fianco, sotto il portico, aveva sede la bottega dei Tomeazzi che si autodefiniva “agenzia giornalistica e libreria”, ma vendeva merce molto varia. E sempre nei pressi c’era al Cafè èd Gigìin Caròobi, molto frequentato per tutta la prima metà del secolo scorso. E sempre in zona, a dimostrare che in piazzetta i locali funzionavano già molto prima che la scoprissero i ristoranti e i caffè di oggi, c’era il Tre Corone…»
L’albergo…
«Ma anche ristorante, dove si mangiava molto bene: cappelletti, lasagne, arrosti, bolliti che venivano serviti con ricercatezza e stile. I Carpigiani ci andavano con tutta la famiglia la domenica: un rito durato fino a tutti gli anni Sessanta»
Insomma, c’era un piccolo mondo, intorno ai pilètt ed Tomeàasi: ma andiamo avanti
«Eh sì, bastava dire Mò lè, da i pilètt èd Tomeàasi e tutti capivano, anche se i Tomeazzi originali chiusero presto i battenti e dov’erano loro ci aprì poi la tabaccheria che ora si trova in corso Roma»
E che cosa le ha fatto scattare l’idea che ci sia qualche cosa di misterioso intorno ai due fittoni?
«Tutto risale a una chiacchierata con il compianto Franco Bizzoccoli. Una volta mi raccontò che lui lo frequentava il Cafè Caròobi. Lì ci trovava i suoi amici e si giocava alla concia, un gioco a carte pernicioso che richiede molta fortuna. Proprio per questo, mi disse che Gigìin Caròobi, su uno dei piletti, il 2 febbraio, giorno della Candelòora, accendeva sempre una candela per càaia, come diceva lui, come forma di scongiuro. Bizzoccoli mi confessò anche questo: “Gigìin sapeva quale dei due piletti portava sfortuna, e lo so anch’io, ma non te lo posso dire”. Fatto sta che il giorno della Candelora, detta anche Seriòola, Gigìin esponeva la sua candela. E poiché i piletti erano esposti a mezzogiorno, lui diceva che quando il sole batte sulla candela, significa che è più il freddo che deve ancora venire di quel che è già venuto»
Questo nesso tra la fortuna, la candela e il meteo un po’ mi sfugge…
«Franco purtroppo se n’è andato senza darmi altre spiegazioni, ma il tarlo mi è rimasto dentro, come la voglia di risolvere questo piccolo mistero. Ho postato il quesito sul mio profilo Facebook chiedendo se qualcuno sapesse qualche cosa di questa storia di candele, scongiuri e stagioni»
E ci sono state risposte?
«Sì, quella di Renato Cucconi che in dialetto mi ha spiegato che un pilètt l’èera scuchèe e al purtèeva càia perché i gìiven che un, in dal saltèerel, al gh ìiva lasée i cùcch (si diceva che uno dei due piletti era scoccato e portava scalogna, perché uno, nel saltarlo, ci aveva rimesso… i gioielli, ndt). E allora sono andato a controllare una vecchia foto dei primi del Novecento e mi si è accesa una lampadina: in effetti vi si vede uno dei due piletti…  smichèe, tranciato alla sommità, e non poteva che essere quello sul quale Gigìin accendeva la candela, perché portava scalogna, come ben poteva dimostrare lo sfortunato saltatore»
Un rito, dunque, uno scongiuro che serviva anche come previsione del tempo…
«Sì, perché il 2 febbraio è importante: viene 40 giorni dopo Natale e precede di uno San Biagio, San Bièes cun la néeva sòtt al nèes, l’ultimo mercante da neve. Ed è anche il giorno in cui si celebra la presentazione di Gesù al tempio e la Purificazione di Maria Vergine. Insomma, un incrocio di circostanze che fa del 2 febbraio, la Candelòora o Seriòola, una tappa importante dell’inverno, potendone decretare la fine o i colpi di coda: per la Seriòla o ch a piòov o ch a néeva o ch a nàas la viòola, o ancora per la Seriòola da l’invéeren a sémm fòora. Quanto alle candele, la chiesa celebra questa giornata con la loro benedizione perché simboleggiano l’accendersi della vita divina nei battezzati. E si credeva che la candela, benedetta dal sacerdote, portata a casa e appesa sopra il letto o infilata fra la biancheria nel cassettone, esercitasse influssi benefici contro le forze del male»
Insomma, con un gesto fatto magari per propiziarsi la fortuna o esorcizzare la scalogna al gioco delle carte, il buon Gigìin cercava anche di capire di che natura sarebbe stato il restante periodo invernale, e magari di propiziarselo un po’.  Paghi uno e prendi tre: tutto molto carpigiano.

«Mettiamola così, se credi…».
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il testo originale è molto più completo e lungo
posso mandarlo a richiesta
dorry@libero.it
oppure potere mandarmi altre preziose testimonianze al riguardo