martedì 13 novembre 2012

Il noleggio di auto e moto di Mauro D'Orazi Carpi Dialetto


Al nolègg’
(Il noleggio)
                                                                      di Mauro D’Orazi
testo iniziale 30-08-2012                                      v24 del  13-10-2012
  
Nel dopo guerra e, in particolare, negli anni ’50 si diffuse anche a Carpi la pratica del noleggio di scooter, moto e auto.
Carlo Alberto Parmeggiani ricorda che il mercato delle moto a noleggio era allora fiorente, visto che dava modo, a chi era a corto di quattrini, di passarsi una bella domenica d'estate in giro per il lago o la montagna a cavallo di una moto e con la fidanzata per il costo suppergiù di un paio di giornate di lavoro.
Il fenomeno durò fino agli anni ’60 per poi lentamente scomparire, grazie al boom e al forte miglioramento delle condizioni economiche delle famiglie, che permise un diffuso aumento di acquisti personali di mezzi a motore.
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Nelle curiose foto che seguono vediamo un singolare tentativo di convertire una bottega di maniscalco (Lamberto Martinelli) in Piazzale Ramazzini in un punto di noleggio e manutenzione di moto.
Questo tentativo ebbe però breve durata, fino al 1953.

Personalmente ricordo con piacere una domenica mattina di giugno, penso del ’57, quando mio padre arrivò con una Fiat Giardinetta, presa a noleggio da Abele Luppi (biciclista di Corso Fanti, presso il Voltone) e andammo con mia madre sul Lago di Garda.
 
Fiat Giardinetta
Quella volta mio padre prese in affitto anche una piccola macchina fotografica a soffietto per immortalare l’evento.
Partimmo felici, io nel sedile davanti per attenuare i problemi di mal d’auto, regolarmente muniti di panini, frutta e thermos col tè.
    
Macchina fotografica a soffietto e thermos vintage
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Luciana Tosi ha bene in mente quando i suoi presero l'auto a noleggio con l'autista per andare a un matrimonio a Bologna. Era il 1953 e Bologna si presentò enorme ai suoi occhi. Quante rotaie e il treno passava sotto ... Incredibile!
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Mariella Bellintani rammenta che nel 1963 in via Curzio Arletti, una stradina vicino a Corso Roma dove abitava, c'era un certo Sacchetti (che poi andò in via S. Santi, la strada a lato della carrozzeria Ariani) che dava a noleggio le automobili. Con i soldi degli straordinari guadagnati al sabato pomeriggio prendeva a noleggio un’auto e scorazzava per due o tre ore, in base alle lire che aveva a disposizione. Allora naturalmente non possedeva l'automobile, ma erano gran bei tempi.

William Lugli ha in mente che in un sèert perìod a s catèeva a nòol ’na MG spider (per un certo periodo si poteva trovare a nolo una MG inglese). Lui era troppo piccolo, ma un sò amìigh più graand l andèeva via cun ’n èeter ancòrra più graand ch al gh iiva la patèint (ma un suo amico più grande andava via con un altro ancora più grande, che aveva la patente). Prendevano la macchina per una domenica pomeriggio, ma siccome i soldi erano pochi facevano pochi chilometri. Si divertivano però a fermarsi davanti a un bar affollato, scendere e aprire il cofano così da scoperchiare gran parte del motore. Poi uno dentro la macchina sgasava e l'altro auscultava con fare da esperto il motore, poi scuotendo la testa diceva: "A t l iiva ditt che cal ṡiglóor ché a nn andèeva mìa bèin! (Te l’avevo dello che questo getto del carburatore non andava bene!)"
Ovviamente la platea del bar osservava a bocca aperta la scenetta.

Renato Cucconi quando voleva fare bella figura andava da Scachetti, perché aveva un bel parco macchine. C’erano, tra le altre a disposizione, la Fiat 1100 cun al còvvi lunnghi a duu culóor (con le code lunghe a due colori) e la FIAT 1300, detta fanalòun, cun al caambi al volàant e ch l’éera ’na gràan maachina (detta “fanalone”, per i sui ampi fari, con il cambio al volante, e che era un gran bel mezzo).
Quàand te dgiiv ch la fèeva più di sèint a l'óora, a sembréeva èd diir chisà còosa … (quando dicevi che faceva più di cento all’ora, sembrava di dire una cosa eccezionale).
       
Anni ’60 - Le Fiat 1100 e 1300
Quando si voleva andare a ballare cun al “fanalòun”, bisognava prenotarlo con un certo anticipo per poterlo avere a disposizione. Ciò consentiva di far vedere alle ragazze sempre la stessa auto e di conseguenza far pensare che fosse davvero tua. Biṡgniiva fèer bèela figuura cun al balarèini. Ma prima o poi i gniiven a savéer la veritèe e che al maasim te gh iiv  ’na Lambrètta o ’na Vèespa. Che deluṡiòun ... e  s ciapèeva aanch di ciocapiàat, ma a n gh éera èeter … (Bisognava fare bella figura con le ragazze che si trovavano a ballare. Ma prima o poi la verità emergeva e si prendeva anche del ciocca piatti, ma allora non c’erano molte alternative per tentare di cuccare).
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Un noleggio del tutto particolare è menzionato da Mauro Magri. Dal 1946 in poi sul lato sinistro scoperto, subito prima dell'inizio del portico di S. Nicolò, c'era una bottega che noleggiava delle macchinine a pedali per bambini. Lui era un utente assiduo. Il percorso era in salita e faticoso fino al giardino davanti a S. Nicolò, ma la discesa poi compensava lo sforzo.

Non si possono poi dimenticare negli anni ’60 le macchinine a noleggio che c'erano al Parco, il guardiano col cappello da posteggiatore e la casetta con la cassa, 10 lire tre giri pista, con fermata alla fontanina per bere, anche se non avevi sete
 











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Espedienti per pagar meno

    
I cosiddetti … arlòoi

Molti e curiosi gli espedienti per cercare di pagare meno i noleggi, facendo risultare un chilometraggio minore, ciò anche grazie ai contachilometri meccanici di allora, a filo flessibile in trasmissione diretta, che consentivano èd dèer gh indrée (darci indietro).
Erminio Ascari ricorda che era intorno al 1950 e abitava ancora a Budrione. Sulla strada vide un signore intento a una strana operazione: stava spingendo la moto in retromarcia. Notando la stramberia della cosa allora io e il mio amico, col quale stavo giocando, molto incuriositi gli chiedemmo il motivo. La risposta fu che non aveva abbastanza soldi per pagarsi il noleggio del mezzo e così andando in retromarcia si sarebbero (secondo lui) cancellati i chilometri ed avrebbe pagato di meno. A posteriori imparai poi che i chilometri indietro, di solito, non si cancellano”. Chissà come andò a finire quella volta? In ogni caso avrebbe meritato uno sconto solo per l'improba fatica fatta? Come andò a finire? Forse avrebbe meritato lo sconto solo per la distanza percorsa a piedi.

Parmeggiani annota che negli anni ‘60 i giovanotti di allora dell'Armagni o del Dorando, appena patentati e a corto di sostanze, erano soliti affittare la domenica mattina auto perlopiù sportive dal noleggiatore vicino alla stazione dei treni. L'auto più gettonata era una Triumph Spitfire 1300 cc.
Triumph Spitfire 1300 cc

Un’elegante spyderina bianca che ne vide di tutti colori; poco dopo essere partiti si staccava il flessibile del conta chilometri per poi riattaccarlo poco prima di tornare. Oppure, prima di riconsegnarla a tarda sera si innestava il flessibile nel mandrino di un trapano a mano per farlo andare all'indietro e così gabbare di non poche lire l'esoso noleggiatore. Che poi costui, però, si fece furbo e piombò l'innesto del flessibile con il contagiri.

William Lugli, quando sottraeva di nascosto la Lambretta dello zio per fare qualche giro, si limitava a staccare momentaneamente il filo del contachilometri.

Graziano Forghieri ricorda che alla fine degli anni ’50, fra i tanti noleggiatori, c’era anche Pgnàata (Pignatti) che in una budghìina vicino alla Cagnóola, dopo il Molino Verrini, dava in affitto delle moto MiVal.
I ragazzi al sabato i tuliiven al mòoto a nòol (prendevano le moto a nolo) per andare al ballare alla sera a Correggio o in altri posti in zona.
Turnèe prèesti! A m arcmàand! Primma èd meṡanòot … ch a vóoi andèer a lèet! (Tornate presto prima di mezzanotte, perché voglio andare a  letto.
Al stàaga tranquìll!”  Difàati i turnèeven a trée óor èd nòot.(Stia tranquillo! - Di fatti tornavano regolarmente alle tre).
Pignatti quella notte arrivò giù in vestaglia brontolando; erano arrivati quattro ragazzi con due moto. Prese il suo quadernino a quadretti dove annotava le targhe e la cifra dei chilometri di partenza per confrontarli con quelli di arrivo, fare la sottrazione e calcolare la tariffa da pagare.
Segnò la cifra appena letta, sotto quella scritta in precedenza, fece la sottrazione … ma … c’era qualcosa che non andava: il risultato era NEGATIVO. Meno chilometri di quando erano partiti.
óo ragàas … l è trée óor èd nòot … va bèin tutt … ma ch a sìa mè a dvéer dèer v èn indrée … a m pèer un pòo tròop!!!! (Cari i miei ragazzi, è tardi, va bene tutto, ma che sia io a dovervi dare indietro dei soldi … mi pare vieppiù eccessivo)”.
Quale astuto trucco avevano escogitato i birbantelli?
Ritornati a Carpi mettevano le due moto sul cavalletto, una davanti all’altra, facevano girare la ruota dietro di una moto in aderenza con la gomma davanti dell’altra (tenuta sollevata) che naturalmente andava all’indietro, trascinando al decrescere anche il contachilometri.
Solo che quella volta avevano esagerato.

Finale davvero divertente e non c'è che dire! Molta parte del genio della carpigianità stava tutta e sta ancora nel fregare il prossimo, talvolta esagerando fino a rasentare l'idiozia.

Motociclisti un po’ speciali di Mauro D'Orazi Carpi Dialetto



Motociclisti un po’ speciali
v23   del 29-01-2013 
prima stesura ott 2012  
 di Mauro D’Orazi
revisione a cura di Graziano Malagoli

Claudio Baraldi (1946-2003), per tutti Barry o Barèeld, veniva da Quarantoli ridente frazione di Mirandola, una piccola località della Bassa situata poco dopo Trentoli, ma poco prima di Cinquantoli. Dopo aver vissuto per anni a Mirandola, si era trasferito nella nostra città.
Barry nei primi anni 2000

A Carpi si era integrato molto bene ed era uno dei frequentatori più assidui e costanti del Caffè Teatro del periodo d’oro di Vittorio Garzon negli anni ’70 - ’80. Barèeld era un “soggetto” davvero speciale e conduceva la sua esistenza sempre sul filo di quella linea sottilissima, che divideva il legale dall’illegale. È stato l’inventore della disciplina tanticro - iniziatica de “ La Polmonare”, applicabile nei casi di rapporti difficoltosi fra uomo e donna; la tecnica, sia pure empirica, sovente produce esiti appiananti e risolutivi dei problemi della coppia.
Stare con lui al bar era quando di più spassoso ci potesse essere. Ho ancora nelle orecchie il tono della sua voce serio e cadenzato da una studiata lentezza, a metà via fra il mantovano e il carpigiano di adozione.
Barry era sempre attentissimo ai tipi umani che via via incontrava e facilmente ne sapeva cogliere virtù, ma soprattutto debolezze. Ciò gli consentiva di prodursi in un continuo spettacolo di varietà con battute efficacissime di consolidato repertorio e con novità create al momento.
Era fonte di una perenne eruzione di facezie e invenzioni di situazioni assurde, quanto irresistibili; i suoi bersagli preferiti erano Gepe il Folle e Taras, per i quali, nonostante le feroci prese in giro, nutriva un amore rispettivamente “quasi” paterno e fraterno.
Ho intervistato a lungo pochi anni fa il figlio di Barry, che da tempo lavora con la madre alle Canarie nella gestione di un bar. Mi raccontò, ancora stupito, con commozione, che sul letto di sofferenza, poco prima di morire, quasi a chiedergli scusa, il padre si era lasciato andare a questa confessione: “A m indespièeṡ … ma a m in suun adèe che in sèert mumèint a iò vluu più bèin a Gèepe che a te! (Mi dispiace, ma mi sono accorto che in certi momenti della vita ho voluto più bene a Gepe che a te””

Più volte ho pensato di buttare giù qualche decina di pagine rievocative di questo personaggio che aveva caratteristiche così peculiari. Ne varrebbe effettivamente la pena, sia per il ricchissimo repertorio caratterizzato da una verve inarrestabile ed efficace che produceva gag sempre nuove e sempre poi ripetute all’infinito, sia per i suoi strepitosi e talora drammatici episodi di vita realmente vissuti in modi più o meno avventurosi e rischiosi.
Tutto ciò meriterebbe di essere raccontato e messo nero su bianco; cosa che non escludo di fare, anche se sono intimorito dalla possibilità di denunce da parte degli altri personaggi coinvolti e tuttora viventi, che hanno concreti interessi a che tante vicende siano dimenticate anche se ormai cadute in prescrizione.
1976 Ecco Barry a sn al Caffè Teatro in un particolare di una foto dell’epoca

Ad ogni modo per entrare nella premessa della tematica motociclistica che ci interessa in questa sede, Barry negli anni ’80 cominciò a guadagnare qualche soldo in più tagliando le case per isolarle dall’umidità; aveva messo su una piccola impresa con Gelo (Gelati) e successivamente aprì anche qualche ditta di maglie, stampe tessuti o simili.
Famosa resta l’Alitaras, volatile compagnia a responsabilità limitatissima di trasporti veloci ed espressi per colli di maglie e confezioni, nella quale era socio con Taras e della cui contabilità sono buoni testimoni i cassonetti del pattume che anni fa erano collocati in piazza di fianco al Caffè Teatro.
La disponibilità di denaro guadagnato col taglio delle case gli consentì di soddisfare la passione per grosse moto che aveva in cuor suo da tempo. Cominciò cun di mèeṡ ripiéegh (con dei mezzi ripieghi): un vetusto Kawasaki 500 verde 2t, un’Honda 750 nera e con  Kawa Z 900 bianco un po’ pistolato con il manubrio basso e poi via via altre moto.

   
Kawasaki 500 c c 2t e Z 900 c c 4t

Gli piaceva la velocità e correre in pista, perciò, con vari amici Caffi, DiDi Diacci, Gigia Sgarbi, ecc … , ogni tanto andava in circuito al Mugello, nell’alta Toscana, per girare un’oretta a tutto gas nel famoso circuito.
Persona esuberante e non certo timida una volta ebbe da dire con direttore di pista del circuito. Dopo qualche accesa battuta, il tipo, minacciando col dito puntato, sbottò in un crescendo di rabbia:“ Ma allora lei non sa chi sono io?” e Barry di getto, guardandolo MOLTO fisso negli occhi:
“ NO! Mè al sò chi t ii … T ii ’n IDIÒOTA!” E la così finì lì.

Quando poi si sedeva in tribuna a osservare gli imprudenti dilettanti che sgasavano a tutta e vedeva uno di essi andare fuori pista e cadere, quasi sempre con ingenti danni, cinicamente domandava subito all’amico che gli era a fianco: “Caffi, faa gh un preventìiv! (Caffagni prova a fargli un preventivo dei danni)”
Barry era poco propenso alle coercizioni e alle regole imposte dalla legge. Così quando divenne obbligatorio l’uso del casco in moto nel 1986, arrivò ben presto alla determinazione di dar via la moto che aveva.
Era una splendida Honda 1.100 c c Bol d’Or blu, rossa e bianca, che era già stata di Gigia; un gran bel pezzo, ma di fatto voleva sbarazzarsene, sia per la faccenda del casco, ma forse anche per necessità di liquidità monetaria.
Honda 1.100 c c Bol d’Or
Graziano Forghieri mi riferì la cosa e così una sera di fine maggio 1988 al Caffè Teatro chiesi a Barry: “I m àan ditt te vènnd la tò mòoto. Mi potrebbe interessare!” Lui stava fumando, in silenzio aspirò e lentamente, molto lentamente buttò fuori il fumo; poi guardandomi, come faceva lui, leggermente di traverso con l’occhio penetrante, dietro il quale si nascondeva chissà quale groviglio di pensieri, mi rispose:
Dorry !!!pausa  … A tè a t la pòos aanch dèer!
(A te … la posso anche dare!)”.
E così dopo pochi giorni io era molto felicemente in sella a una delle mie tante nuove moto usate. Nel prezzo mi diede in dotazione, casco, tuta, stivali e guanti; tutta roba che conservo tutt’oggi con una feroce nostalgia e ostinazione in un armadio in cantina nella mia casa avìta.

Una domenica mattina nell’inverno del 1989 -
da sx Giorgio Maccari, Lele Forghieri, Barry semicoperto, Pepe e Taras.

Barry frequentava spesso il Mugello, Misano e altri circuiti motociclistici, anche per seguire le imprese di valenti piloti carpigiani come Maurizio Morselli e Daniele Diacci, quest’ultimo sponsorizzato dalla ditta di compressori di Gigia. Durante queste trasferte, Barry dava fondo alla sua creatività di affabulatore e inventava continuamente artate storie di fantasia che servivano per prendere in giro qualche nuovo ingenuo venuto, che si aggregava alla compagnia.
Queste storie venivano presentate con naturalezza con la complicità di qualche amico che rispondeva a tono, in un malefico e sapiente gioco di pingpong in crescendo. Colui che era oggetto della burla veniva con abilità del tutto ignorato, stando però attenti che ascoltasse con attenzione l'intreccio del racconto di pura fantasia; la trama veniva ampliata a soggetto e al momento, a  seconda delle necessità e dell’ispirazione. A un certo punto il nuovo venuto montava su ... doveva PER FORZA dire la sua anche lui ... e allora era un massacro inconsapevole per il povero diavolo; il dileggio poteva anche durare per settimane o mesi, se il soggetto era particolarmente tonto.
Ecco due esempi due storie affabulanti. Quando la comitiva di motociclisti si organizzava per il pranzo, Barry cominciava a menzionare e lodare il Ristorante “Ai Fraticelli”; un locale che era stato aperto presso un convento di un’amena località collinare, proprio sopra al Mugello.
I frati, santi uomini, si accontentavano e usavano alimenti prodotti da loro stessi. Sapori veri, antichi e genuini con una spesa davvero contenuta, attorno alle 5.000 lire; ma spesso si provvedeva a offerta libera adeguata al menù e al reddito del cliente. Lì si mangiava con semplicità davvero molto bene e il rapporto qualità prezzo era eccezionale. Il menu era poi appropriato alla religiosità e all’umiltà del posto: tagliolini alla priore o penne alla priora, risotto al vin santo, pappardelle alla monachella, stico di santo, uccelletti al santo spirito, tiramisù beato, ecc ...
Il cuciniere si chiamava Fra' Coriolano, ma con lui era meglio non lamentarsi mai del menù, o anche solo contraddirlo, questo a causa del suo caratterino poco paziente; infatti il fraticello era un ex galeotto pluriomicida, accolto poi in convento, dopo una crisi mistica.
Finalmente, dopo tanto eclatante raccontare, il bersaglio della burla chiedeva con insistenza di andare a mangiare lì: “Barry ’sa fòmm ia? Andòmm ia dai frèe?”  Ma Barry, con un sapiente coup de théâtre, rispondeva serio e scandalizzato: "NOoo!! ’Sa dii t? A n s póol mìa!  Ma la tò tèesta s a t diiṡ la? Vèe t dai frèe cun ’na Golf turbo diiṡel da 20 miliòun e pò te gh  dèe 5.000 fraanch? No! No! ... An s póol mìa!”
La cosa era impossibile; infatti si trattava di un luogo semplice e di umiltà e andarci con una Golf Volkswagen da 20 milioni di lire dell’epoca era cosa troppo di lusso; al massimo era consentita una Fiat Panda, altrimenti il conto finale sarebbe diventato moralmente elevatissimo, ben superiore alle 5.000 lire.
Ma ogni "opzione" era valida per non visitare quel fantomatico refettorio: il periodo quaresimale, i momenti di ritiro spirituale dei fraticelli, ecc …

L'altra storia era quella di Marcellino, anche questa raccontata da Barry all'ingenuo di turno con dovizia di particolari e varianti continue.
A questo fantomatico Marcèelo era stata creata da Barry una vera e propria identità. Si trattava di tale Marcellino Paone e risultava originario di Spello (PG); era un amico intimo di Caffi e prima di lui di suo padre. Nel 1990 aveva circa 95 anni, ma praticava snow board, parapendio, paracadutismo, andava a correre la Parigi - Dakar in moto e non si sa quante ragazze ventenni avesse.
Marcellino era anche un grande appassionato di corse di moto e si spostava nei vari circuiti con una tenda super attrezzata.
La tenda, che veniva trasportata da un apposito camion, era a due piani, con un piccolo terrazzino; all'interno oltre ai letti, c'erano anche i servizi cun al cèeso e la doccia; apposite tubature in rame si diramavano per portavano l'acqua e il riscaldamento (quest'ultimo però solo quando la stagione era ancora fredda); c'erano infine le canaline per la luce, prese e interruttori.
A piano terra c'era un elegante salotto con divano e poltrone; esso era sempre a disposizione per gli ospiti che potevano godere di frigo e tv.
Anche in questo caso quando lo sprovveduto di turno prima o poi interveniva per dire la sua ... puntualizzava, aggiungeva, raccontava di quella volta che lui ... e allora la burla si ampliava indefinitamente.
Marcellino aveva poi anche un’altra particolarità: era un vero mago nella previsione del meteo. Quando i ragazzi si trovano presso l’officina del meccanico rivenditore di moto Fregni in via Lombardia nei fine settimana per organizzare giri in moto, Barry dopo un po’ con tono serio chiedeva a Caffi con accento della Bassa: “Aa t telefonèe? (Hai telefonato a Marcellino per le presioni meteo?)
Caffi prontamente, nel riferire null’altro che le previsioni del TG2 aveva appena ascoltate, rispondeva con autorevolezza:”Marcèelo al m a ditt che dmaan a pióov  (Marcello mi ha detto che domani piove)oppure “Per trii dè a gh è un sóol ch al spaaca al préedi  (per tre giorni c’è un sole che spacca le pietre).
Una volta però successe che uno degli amici aveva fatto conto delle previsioni, non sapendo che era tutta un’invenzione. Arrivò da Fregni al lunedì nel tardo pomeriggio, incavolatissimo scese dall’auto e sbattendo la portiera esclamò: “Ch a gh vèggna ’n asidèint a Marceliino indù l è! (che venga un accidente a Marcellino dove adesso si trova!) ”
Barry e gli altri si guardarono l’un l’altro stupiti, non avevano più nemmeno in mente che il venerdì avevano recitato la commedia di Marcello e del meteo. Ma ’s è sucèes? chiesero.
L’amico rispose: “A sòmm andèe al mèer a iéer, mò è gnuu ṡò taanta èd cla timpèesta che s a n tiir mìa vìa mè fióola da la spiàagia  la s insucca. (Ieri siamo andati al mare; ma è venuta fatta grandinata che se non porto via mia figlia dalla spiaggia si inzucca! “ Non sapeva che Marcello non esisteva, … adesso credo lo abbia imparato.
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Un altro motociclista molto speciale era Giorgio Ghidoni, soprannominato il Gatto, abitava sulla SS 468 prima di ponte nuovo verso Correggio. Qualcuno più in confidenza, alla sua altezza fisica e di carattere, lo chiamava anche Micio.

Il Gatto, esperto in arti marziali, era uno con doppia nervatura, faccia affilata e capelli un po’ lunghi biondi e uno sguardo poco rassicurante e patibolare che metteva a disagio chi non era in dimestichezza con lui; un sogèet dimònndi scòomed. Un’imprudente occhiata di traverso e potevi essere nel suo mirino.
Era abituato allo scontro fisico e al regolamento immediato delle questioni mediante vie di fatto spicce.
Per capire la sua personalità e la sua grinta, basta ricordare un episodio fra i tanti. Lui e Cipo (un altro mio amico) una sera erano andati a ballare in un locale estivo nel reggiano … in terra straniera; Cipo si intratteneva, ben corrisposto, con una ragazza del luogo e ciò aveva suscitato l’irritazione e le ritorsioni di un personaggio del posto, molto geloso della pregiata “selvaggina” del proprio territorio.
Il Gatto, capita la situazione e vedendo l’amico in difficoltà, andò subito in mezzo alla pista e, messosi davanti all’incauto disturbatore, all’improvviso gli spense la cicca, che stava fumando, sul bavero della giacca. Nel contempo gli disse, guardandolo fisso negli occhi:”A vóoi te laas stèer al mè amìigh! Èe t capìi? (Voglio che lasci stare il mio amico! Hai capito?)” La questione si risolse IMMEDIATAMENTE.
Il Gatto era un amante delle sensazioni forti e naturalmente era anche lui un motociclista piuttosto nervoso. Aveva comperato un’Honda 1.100 c c Bol d’Or che a metà degli anni ’80 era forse il massimo.
Fiancatina dell’Honda 1.100 Bol d’Or,
prestigiosa moto della metà degli anni ’80

Andava spesso via coi miei amici del Caffè Teatro per giri in moto, ma mentre tutti gli altri erano regolarmente bardati con casco, tuta e guanti, lui si presentava, come nulla fosse, in giacca e pantaloni, camicia bianca aperta davanti.
A questo proposito è rimasto famoso, e infinite volte tramandato nei nostri racconti evocativi delle serate amicali del venerdì sera, questo gustoso episodio.  
Siamo nel 1985 a fine marzo; le prime giornate primaverili di sole invogliano gli appassionati (a s sèint al murbèin) a riprendere la moto, dopo la pausa lunga invernale delle nostre zone. Al sabato gli amici del Caffè Teatro organizzarono il viaggio di apertura di stagione in moto con meta Portovenere in Liguria e relativo pranzo nella prestigiosa trattoria da pèss “Da Iseo”.
Esterno della trattoria da pèss “Da Iseo” a Portovenere (La Spezia)

Il gruppo lo passò a prendere, come d’accordo, a casa sua sulla strada per Correggio. Il Gatto non era ancora pronto, stava finendo di saldare alcuni pezzi di ferro. Nonostante la stagione, stava saldando con la fiamma ossidrica … scalzo, in braghette corte e canottiera, incurante del freddo e dei roventi s-ciatèin (spricchi di metallo incandescente).
“Un attimo!” - disse agli amici - “Mi cambio e arrivo!” Dopo poco arrivò in completo giacca e pantaloni in gessato grigio, sciarpa bianca, stivaletto nero con tacco, guantini di pelle e naturalmente casco.
Nessuno osò dire niente, anche se fra i presenti serpeggiava un diffuso divertito stupore con muti e allusivi sguardi di sottecchi.
Siete mai andati in moto con la giacca a due o tre bottoni anche solo a 50 km all’ora? Allora provate! Di peggio non si può immaginare con il tessuto dell’indumento che si gonfia e va dove vuole: scomodissimo, ingestibile e assolutamente non dà nessuna protezione da aria e freddo.
Arrivati a destinazione, i motociclisti, come d’uso, parcheggiarono con attenzione le moto, si arrotolarono giù la parte superiore delle tute in vita ed entrarono nel mitico ristorante per il pranzo.

 

Il Gatto andò subito in bagno e con composta flemma tolse da uno stivaletto il pettine, si aggiustò i capelli con tre o quattro passate bene assestate, poi dall'altro stivaletto prese una piccola bottiglietta di profumo pour homme Gianfranco Venturi e se ne diede due 2 gocce.

   

Entrò in sala con portamento consapevole e sicuro, guardò gli amici con superiorità e una punta di compiaciuto disgusto, poi disse loro, immerso in un’allure di eleganza e distinzione:
D un niméel, mò a v sii v guardèe ? … a parìi ’na baanda d interdètt! (Ohibò! Ma vi siete visti? Sembrate una banda di interdetti!)”. 
Ècch caraater!!!
Class is not water! La classe non è acqua! Anche se francamente l’incipit riportato della frase non era esattamente quello pronunciato. 

La sua guida della moto era molto decisa e non esente da incidenti; una volta decollò col suo mezzo sulla Futa. L’Honda subì seri danni, ma il Gatto la fece rimettere a posto, per venderla prudentemente fuori zona; difatti dopo un po' l’incauto acquirente gli telefonò lamentandosi che tirava da una parte!
Strano! Dopo l’incidente l'éera dvintèeda éelta (era diventata alta) come un go-kart!

Il Gatto era purtroppo destinato a una fine epica e prematura; la sua esistenza trovò un tragico epilogo con la caduta del suo deltaplano, appena dietro casa nell’ottobre del 1988; la causa fu un improvviso cedimento del rivestimento portante delle ali, si dice a causa di mancanza di manutenzione. Egli era solito lasciare il velivolo all’aperto senza protezione alcuna per sole o intemperie e ciò con tutta probabilità causò un nefasto deperimento del materiale.
Un’uscita di scena adatta al personaggio, dopo una vita così inquieta; spero possa riposare in pace in volo sotto altri cieli.

                     

Al cucumbròun di Mauro D'Orazi Carpi Dialetto


stesura iniziale 23-10-2012                                                  V 26  del 02-10-2014

Al cucumbròun
(Il cocomerone)
                                                                  di Mauro D’Orazi
Revisione del testo di Graziano Malagoli

L'anguria o cocomero (citrullus lanatus) è una pianta della famiglia delle Cucurbitaceae, originariamente proveniente dall'Africa tropicale, anche nelle nostre zone ha e ha avuto momenti di diffusa coltivazione.
È forse il frutto che meglio identifica l’estate, mangiata ben fresca all’ombra con gli amici in ameno conversare.

Eravamo nel 1971; ero appena tornato da Forte dei Marmi, dopo una breve vacanza finita la scuola, e passavo le giornate il giro con la mia fedele Gilera 124 cc V5, splendida nella sua livrea bianca fuori serie (normalmente era grigio) e nella potenza del suo motore, dotato di grande spunto. La cilindrata era stata portata dal suo primo proprietario, Paolo Righi, a 142 c c ed erano state montate le valvole maggiorate della versione 175 c c.
 

L’estate era calda come di solito dalle nostre parti e di sera avevamo preso l’abitudine di trovarci a casa, o meglio nell’ampio giardino, di Aldo Creola in via Giovanni XXIII, quasi in angolo con via Remesina.
Eravamo sempre in tanti, almeno 10 - 15 ragazzi; ricordo Millo, Norberto Magnani, Mauro Bulgarelli, Paolo Bulgarelli, Toto Bonato, Gigia, il Capo, Giuliano Guandalini, ecc… C’erano poi due di cui non ho notizie da decenni e dei quali mi ricordo a malapena il soprannome.
Il primo era detto Bundaansa, l’origine di tale nome si è perso nella nebbia del tempo… forse perché quando raccontava le sue storie ne aumentava la portata e anche perché cercava di allargarsi nei rapporti sociali, senza avere adeguato censo, o spiccata e autorevole personalità.
L’altro veniva dal centr’Italia e, pur essendo un buonissimo ragazzo, aveva una faccia che Lombroso avrebbe studiato con interesse per poi destinare di certo il suo possessore in un qualche girone di malfattori e in qualche vaso di vetro sotto formalina. Costui non per niente era chiamato Cimino, surrogando tale nome a quello di un bandito omicida, che a quei tempi era molto famoso e temuto.
Nel 1967 il fuorilegge fu protagonista perfino di una canzone; infame assassino di due fratelli gioiellieri, fu ferito in uno scontro a fuoco con la polizia a Roma. Completamente circondato nel rifugio della sua banda, Cimino cercò i farsi strada alla maniera di Butch Cassidy, uscendo e sparando all’impazzata. Fu ferito al collo, restò paralizzato e morì dopo nove mesi.
Il nostro Cimino, riccioluto e dal viso dai tratti grossolani, era però un ragazzo semplice e tutt’altro che violento; il suo grande sogno era quello di potersi comprare, anche usatissima, una Kawasaki 500 cc 2t.
Temo però che non sia poi mai riuscito nel suo intento.


Tornando a noi, anche quella calda sera eravamo nel giardino di Aldo, inoperosi e annoiati. Èd gnòoca a n s in ciacarèeva gnaanch! Sa fòmm ia? ’Sa n fòmm ia? (Di ragazze non se ne parlava nemmeno. Cosa facciamo? Cosa non facciamo?)
E così verso le dieci e mezza a qualcuno, a Norberto, se non ricordo male, venne la geniale idea: “Mò perchè a nn andòmm ia a cucòmmbri? (ma perché non adiamo in campagna a cocomere?”
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L’espressione andèer a cucòmmbri, a ùa, a piir, a pòmm, a marusticàan, ecc… (andare a cocomere, a uva, a pere, a mele e prugnette selvatiche, ecc…) non significava altro che inoltrasi notte tempo nei campi coltivati per fregare con destrezza la frutta al contadino del luogo e fuggire il più velocemente possibile, senza farsi prendere, o farsi sparare nel sedere con cartucce a sale.


Anticamente se tutto era tranquillo si sussurrava:”Insaaca, insaaca... ch a n gh è nisùun ch a paasa!!! Ma se la situazione era preoccupante, il classico grido di allarme per i gràata ùa èd ‘na vòolta era:“Òcio, òcio! Dai a ùa! Maraia!
Cun cl ùa lè a s fèeva pò al vèin... LUNÈIN, cioè fatto con l'uva rubata alla sola luce della luna. Era il vino dei camaràant di solito non di gran qualità, in quanto al buio e con una certa "fretta", raccoglievano quello che capitava. Con l’uva lunina si preparavano anche i “sughi”.
Le mele prendevano il nome di pòmm raparèin (mele rapinate). Anche i cunii (conigli rubati) erano di razza... raparèina.

Queste pratiche era molto diffusa fino agli anni ’50, quando tante famiglie cittadine facevano davvero fatica a tirare avanti e a trovare il cibo quotidiano. E quando la reṡdóora vedeva arrivare i figli con le tasche piene di frutta o altro non faceva certo troppo domande e metteva senza problemi in tavola.
È probabile che pronunciasse fra sé la famosa frase: “Aanch pèr incóo a s è magnèe! E dmaan a gh pinsaròmm! (Anche oggi si è mangiato! Domani ci penseremo!”
Ma negli anni ’60 e ’70 questa indigenza era via via completamente scomparsa. Anzi il boom e il benessere avevano portato sulle nostre tavole anche più del necessario (frutta esotica, ecc…).
Andare a rubare della frutta in campagna non aveva quindi alcun senso, se non quello eccitante dell’avventura che, per quanto miserevole, dava sempre comunque emozione e brivido.
Aggiungete poi anche il fatto che la cocomera era stata tutto il giorno sotto il sole rovente di agosto e che certo il suo tepore non avrebbe potuto ristorare granché gli sprovveduti e ingenui manigoldi.
Sarebbe stato molto meglio andare tutti assieme presso la rinomata baracchina di Benci (Bencivenni) al Parco e prendere una bella fetta di anguria gelata e di prima qualità, spendendo tranquillamente poche lire.
Ma tant’è!
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“Mò perchè a nn andòmm ia a cucòmmbri?” esortò di nuovo lo sciagurato ideatore di quella che si sarebbe rivelata un’epica e memorabile sfortunata impresa.
La proposta fu accolta con entusiasmo; io avevo, naturalmente, qualche mia personale riserva. Pensavo più che altro a mio padre poliziotto e ai suoi severi moniti di comportamento, ma lo spirito di gruppo prevalse. In pochi minuti un nutrito stormo di moto e scooter imboccava la vicinissima Via Remesina, puntando decisamente a nord, verso Fossoli, dove, a sentire i bene informati, c’erano dei vasti appezzamenti coltivati, delle cocomeraie adatte a soddisfare in nostri turpi scopi.
Io avevo dietro Cimino, che era venuto in bici, Millo portava Bundaansa, Norberto era sul suo vespone e caricava Toto, Aldo era col suo LUI 50 azzurro, potentissimo e scattante, truccato a 125 cc, ecc…


Passammo i binari della ferrovia sulla Remesina, dove ogni tanto di notte il compianto Paolo Bulgarelli e altri bontemponi si divertivano a fare i fantasmi con un lenzuolo in testa, spaventando la gente che passava in bici o in auto.

Poi via Ivano Martinelli, l’ex Campo di Concentramento, ancora avanti… avanti nell’oscurità della notte. Io dentro di me godevo con piacere l’inebriante ebbrezza di quest’avventura per me inedita, ma nel contempo ero terrorizzato dal fatto che qualcosa potesse andare storto e che mio padre, come ho già ricordato… inflessibile poliziotto, lo potesse venire a sapere con tutte le tragiche (MOLTO tragiche) conseguenze del caso.
Finalmente ci fermammo. La nostra informatissima guida aveva riconosciuto il posto giusto, già studiato e individuato durante il giorno. Al limitatissimo chiarore notturno, sulla nostra destra, si distingueva un vasto campo con degli oggetti tondeggianti, sparsi un po’ più scuri. ERANO le COCOMERE!
Dai mò! Andèe uèeter!! (Su andate voi!)” ordinò uno dei piloti ai passeggeri.



Questi smontarono in fretta dalle selle e, saltato il fosso, si spinsero veloci e attenti nel campo, imitando le pattuglie di commandos viste in tanti film. Io intanto, col cuore che mi batteva forte per la paura che ci scoprisse il contadino, avevo subito girato la moto verso Carpi e stavo col motore al minimo a scrutare con grande apprensione l’oscurità.
Ma dove caxxo sono? Mò c’sa faan i? Dàai ! Muvìi v! (cosa fanno? muovetevi!)”. Il mio cuore batteva forte… bumm, bumm, bumm…
Io NON avevo dubbi: al minimo segno di pericolo eroicamente avrei abbandonato il gruppo a tutto gas. Insomma… curàag’ ch a scapòmm! (coraggio che scappiamo!)
Dopo alcuni interminabili minuti, vidi arrivare due che portavano qualcosa a quattro mani. “Mò ’sa fèe v? Dio a v maledissa! (cosa state facendo!)

Ne abbiamo cercata una grossa! puff… puff…” fu la risposta ansimante, ma soddisfatta, di uno di questi. In effetti ciò che stavano trasportando era un enorme cucumbròun dal considerevole peso e con un diametro almeno di 50 / 60 centimetri. Insomma un globo verde spropositato. Proprio una grande preda!!


Cimino provò a montare sulla mia moto, ma la sfera era troppo, davvero troppo voluminosa: io, lui e LEI non si stavamo. Dopo vari disperati e comici tentativi, gli ordinai perentorio:”Cimino! Dai mò! Mòunta su a l’arvèersa! (monta su alla rovescio con la cocomera sulle ginocchia!)”
Questi non se lo fece dice due volte, salì sulla sella, schiena contro schiena, con la cocomera strettamente abbracciata fra il petto e le ginocchia.


In questa efficace rievocazione dell’artista carpigiano Marco Giovanardi
vediamo la fuga in moto di Dorry e Cimino con l’enorme cocomera.

VIAaaaa! VIAaaaa! VIAaaaa! A gaaṡ avèert! A gas aperto… sì! Ma fin a un sèert puunt, perché rischiavo di perdere il passeggero e il carico al primo serio scossone. Non so ancora come facemmo ad arrivare, ma immagino la faccia di qualcuno che aveva potuto vederci durante l’interpretazione di quel buffo numero di equilibrismo circense.
Finalmente giungemmo a casa di Aldo e il suo provvidenziale cancello ci inghiottì velocemente, nascondendoci alla vista di eventuali curiosi e braghèer sempre in agguato.
Sistemate le moto, il grande trofeo vegetale fu solennemente messo al centro di un basso tavolinetto che si trovava in giardino.
Chè a gh vóol un curtèel!” disse qualcuno. Il padrone di casa ne portò subito uno, che si rivelò non troppo adeguato.
A Norberto, grande cintura nera di arti marziali estremo orientali, fu affidato l’impegnativo compito del taglio. Due volonterosi collaboratori tenevano ferma la sfera.
Un attento e teso silenzio calò sull’intera compagnia. Tutti i presenti osservavano con trepidante smania la decapitazione e attendevano l’inizio della spartizione del “prezioso” bottino, così avventurosamente guadagnato.


Norberto tentò di affondare la lama… una volta… due volte. Niente! La coccia del grosso frutto opponeva resistenza alla cruenta violazione, complice una affilatura compromessa dal tempo e dall’uso.
Un terzo colpo deciso ebbe ragione dell’ostinata scorza.
Ma ecco accadere un fatto davvero singolare…
Non appena la lama raggiunse la polpa rossa, un imponente getto d’acqua FFFFFffffffffffffffffffffschizzò fuori spinto dalla pressione interna.
L’accoltellatore impaurito con un balzo si spostò velocemente indietro per non esserne investito, i ragazzi più vicini… anche.
Il getto continuò, fra la sorpresa di noi tutti, per vari secondi e alcuni litri di acqua sudicia e attaccaticcia bagnarono il tavolino e la palladiana.

Ci guardammo in faccia stupiti l’un l’altro… “Ma che… ??
A un certo punto qualcuno osservò meglio l’interno del frutto, annusò l’odore davvero disgustoso…
La realtà fu presto appurata con grande delusione e sconcerto… ebbene…

avevamo preso… la cocomera da semenza
al cucumbròun da smèinsa.

Proprio quello che il contadino sceglie con cura, non despicca, lascia crescere e maturare per raccogliere poi i semi neri da seccare e da piantare l’anno successivo.



Con grande delusione prendemmo su i miserevoli pezzi della nostra preda e, guardinghi, li buttammo in un secchio del pattume per far sparire il più velocemente possibile ogni traccia visibile del deludente misfatto.
Davvero una bella impresa !!!
      A n gh è mèel!! Và mò là…