stesura iniziale
23-10-2012 V
26 del 02-10-2014
Al cucumbròun
(Il cocomerone)
di Mauro
D’Orazi
Revisione del testo di Graziano
Malagoli
L'anguria
o cocomero (citrullus lanatus) è una
pianta della famiglia delle Cucurbitaceae, originariamente proveniente
dall'Africa tropicale, anche nelle nostre zone ha e ha avuto momenti di diffusa
coltivazione.
È
forse il frutto che meglio identifica l’estate, mangiata ben fresca all’ombra
con gli amici in ameno conversare.
Eravamo
nel 1971; ero appena tornato da Forte dei Marmi, dopo una breve vacanza finita la
scuola, e passavo le giornate il giro con la mia fedele Gilera 124 cc V5,
splendida nella sua livrea bianca fuori serie (normalmente era grigio) e nella
potenza del suo motore, dotato di grande spunto. La cilindrata era stata
portata dal suo primo proprietario, Paolo Righi, a 142 c c ed erano state
montate le valvole maggiorate della versione 175 c c.
L’estate
era calda come di solito dalle nostre parti e di sera avevamo preso l’abitudine
di trovarci a casa, o meglio nell’ampio giardino, di Aldo Creola in via
Giovanni XXIII, quasi in angolo con via Remesina.
Eravamo
sempre in tanti, almeno 10 - 15 ragazzi; ricordo Millo, Norberto Magnani, Mauro
Bulgarelli, Paolo Bulgarelli, Toto Bonato, Gigia, il Capo, Giuliano Guandalini,
ecc… C’erano poi due di cui non ho notizie da decenni e dei quali mi ricordo a
malapena il soprannome.
Il
primo era detto Bundaansa, l’origine
di tale nome si è perso nella nebbia del tempo… forse perché quando raccontava
le sue storie ne aumentava la portata e anche perché cercava di allargarsi nei
rapporti sociali, senza avere adeguato censo, o spiccata e autorevole personalità.
L’altro
veniva dal centr’Italia e, pur essendo un buonissimo ragazzo, aveva una faccia
che Lombroso avrebbe studiato con interesse per poi destinare di certo il suo
possessore in un qualche girone di malfattori e in qualche vaso di vetro sotto
formalina. Costui non per niente era chiamato Cimino, surrogando tale nome a
quello di un bandito omicida, che a quei tempi era molto famoso e temuto.
Nel
1967 il fuorilegge fu protagonista perfino di una canzone; infame assassino di
due fratelli gioiellieri, fu ferito in uno scontro a fuoco con la polizia a
Roma. Completamente circondato nel rifugio della sua banda, Cimino cercò i
farsi strada alla maniera di Butch Cassidy, uscendo e sparando all’impazzata.
Fu ferito al collo, restò paralizzato e morì dopo nove mesi.
Il
nostro Cimino, riccioluto e dal viso dai tratti grossolani, era però un ragazzo
semplice e tutt’altro che violento; il suo grande sogno era quello di potersi
comprare, anche usatissima, una Kawasaki 500 cc 2t.
Temo
però che non sia poi mai riuscito nel suo intento.
Tornando a noi, anche quella calda sera
eravamo nel giardino di Aldo, inoperosi e annoiati. Èd gnòoca a n s in ciacarèeva
gnaanch! ’Sa fòmm ia? ’Sa n fòmm ia? (Di ragazze non se ne parlava
nemmeno. Cosa facciamo? Cosa non facciamo?)
E così verso le dieci e mezza a
qualcuno, a Norberto, se non ricordo male, venne la geniale idea: “Mò
perchè a nn andòmm ia a cucòmmbri? (ma perché non adiamo in campagna a
cocomere?”
**
L’espressione andèer a cucòmmbri, a ùa, a piir,
a pòmm, a marusticàan, ecc… (andare a cocomere, a uva, a pere, a mele e
prugnette selvatiche, ecc…) non significava altro che inoltrasi notte tempo nei
campi coltivati per fregare con destrezza la frutta al contadino del luogo e fuggire
il più velocemente possibile, senza farsi prendere, o farsi sparare nel sedere
con cartucce a sale.
Anticamente se tutto
era tranquillo si sussurrava:”Insaaca,
insaaca... ch a n gh è nisùun ch a paasa!!! Ma se la situazione era preoccupante, il classico grido
di allarme per i gràata ùa èd ‘na vòolta era:“Òcio, òcio! Dai a ùa! Maraia! “
Cun cl ùa lè a s fèeva pò al vèin... LUNÈIN, cioè fatto con l'uva
rubata alla sola luce della luna. Era il vino dei camaràant di solito non
di gran qualità, in quanto al buio e con una certa "fretta",
raccoglievano quello che capitava. Con l’uva lunina si preparavano anche i
“sughi”.
Le mele prendevano il
nome di pòmm raparèin (mele rapinate). Anche i cunii (conigli rubati)
erano di razza... raparèina.
Queste
pratiche era molto diffusa fino agli anni ’50, quando tante famiglie cittadine
facevano davvero fatica a tirare avanti e a trovare il cibo quotidiano. E
quando la reṡdóora vedeva arrivare i figli con le tasche piene di frutta o
altro non faceva certo troppo domande e metteva senza problemi in tavola.
È
probabile che pronunciasse fra sé la famosa frase: “Aanch pèr incóo a s è magnèe! E
dmaan a gh pinsaròmm! (Anche oggi si è mangiato! Domani ci penseremo!”
Ma
negli anni ’60 e ’70 questa indigenza era via via completamente scomparsa. Anzi
il boom e il benessere avevano portato sulle nostre tavole anche più del
necessario (frutta esotica, ecc…).
Andare
a rubare della frutta in campagna non aveva quindi alcun senso, se non quello
eccitante dell’avventura che, per quanto miserevole, dava sempre comunque
emozione e brivido.
Aggiungete
poi anche il fatto che la cocomera era stata tutto il giorno sotto il sole
rovente di agosto e che certo il suo tepore non avrebbe potuto ristorare
granché gli sprovveduti e ingenui manigoldi.
Sarebbe
stato molto meglio andare tutti assieme presso la rinomata baracchina di Benci (Bencivenni) al Parco e prendere
una bella fetta di anguria gelata e di prima qualità, spendendo tranquillamente
poche lire.
Ma
tant’è!
**
“Mò
perchè a nn andòmm ia a cucòmmbri?”
esortò di nuovo lo sciagurato ideatore di quella che si sarebbe rivelata
un’epica e memorabile sfortunata impresa.
La
proposta fu accolta con entusiasmo; io avevo, naturalmente, qualche mia
personale riserva. Pensavo più che altro a mio padre poliziotto e ai suoi
severi moniti di comportamento, ma lo spirito di gruppo prevalse. In pochi
minuti un nutrito stormo di moto e scooter imboccava la vicinissima Via
Remesina, puntando decisamente a nord, verso Fossoli, dove, a sentire i bene informati,
c’erano dei vasti appezzamenti coltivati, delle cocomeraie adatte a soddisfare
in nostri turpi scopi.
Io
avevo dietro Cimino, che era venuto in bici, Millo portava Bundaansa, Norberto era sul suo vespone e caricava Toto, Aldo era
col suo LUI 50 azzurro, potentissimo e scattante, truccato a 125 cc, ecc…
Passammo
i binari della ferrovia sulla Remesina, dove ogni tanto di notte il compianto Paolo
Bulgarelli e altri bontemponi si divertivano a fare i fantasmi con un lenzuolo
in testa, spaventando la gente che passava in bici o in auto.
Poi
via Ivano Martinelli, l’ex Campo di Concentramento, ancora avanti… avanti
nell’oscurità della notte. Io dentro di me godevo con piacere l’inebriante
ebbrezza di quest’avventura per me inedita, ma nel contempo ero terrorizzato
dal fatto che qualcosa potesse andare storto e che mio padre, come ho già
ricordato… inflessibile poliziotto, lo potesse venire a sapere con tutte le
tragiche (MOLTO tragiche) conseguenze del caso.
Finalmente
ci fermammo. La nostra informatissima guida aveva riconosciuto il posto giusto,
già studiato e individuato durante il giorno. Al limitatissimo chiarore
notturno, sulla nostra destra, si distingueva un vasto campo con degli oggetti tondeggianti,
sparsi un po’ più scuri. ERANO le COCOMERE!
“Dai
mò! Andèe uèeter!! (Su andate voi!)” ordinò uno dei piloti ai
passeggeri.
Questi
smontarono in fretta dalle selle e, saltato il fosso, si spinsero veloci e
attenti nel campo, imitando le pattuglie di commandos viste in tanti film. Io
intanto, col cuore che mi batteva forte per la paura che ci scoprisse il
contadino, avevo subito girato la moto verso Carpi e stavo col motore al minimo
a scrutare con grande apprensione l’oscurità.
“Ma dove caxxo sono? Mò c’sa faan i? Dàai ! Muvìi v! (cosa fanno? muovetevi!)”. Il
mio cuore batteva forte… bumm, bumm,
bumm…
Io
NON avevo dubbi: al minimo segno di pericolo eroicamente avrei abbandonato il
gruppo a tutto gas. Insomma… curàag’ ch a scapòmm! (coraggio che
scappiamo!)
Dopo
alcuni interminabili minuti, vidi arrivare due che portavano qualcosa a quattro
mani. “Mò ’sa fèe v? Dio a v maledissa! (cosa state facendo!)”
“Ne abbiamo cercata una grossa! puff… puff…” fu la risposta ansimante,
ma soddisfatta, di uno di questi. In effetti ciò che stavano trasportando era
un enorme cucumbròun dal considerevole peso e con un diametro almeno di
50 / 60 centimetri.
Insomma un globo verde spropositato. Proprio una grande preda!!
Cimino
provò a montare sulla mia moto, ma la sfera era troppo, davvero troppo
voluminosa: io, lui e LEI non si
stavamo. Dopo vari disperati e comici tentativi, gli ordinai perentorio:”Cimino!
Dai mò! Mòunta su a l’arvèersa! (monta su alla rovescio con la cocomera
sulle ginocchia!)”
Questi
non se lo fece dice due volte, salì sulla sella, schiena contro schiena, con la
cocomera strettamente abbracciata fra il petto e le ginocchia.
In questa efficace
rievocazione dell’artista carpigiano Marco Giovanardi
vediamo la fuga in
moto di Dorry e Cimino con l’enorme cocomera.
VIAaaaa! VIAaaaa!
VIAaaaa! A gaaṡ avèert! A gas
aperto… sì! Ma fin a un sèert puunt,
perché rischiavo di perdere il passeggero e il carico al primo serio scossone.
Non so ancora come facemmo ad arrivare, ma immagino la faccia di qualcuno che
aveva potuto vederci durante l’interpretazione di quel buffo numero di equilibrismo
circense.
Finalmente
giungemmo a casa di Aldo e il suo provvidenziale cancello ci inghiottì
velocemente, nascondendoci alla vista di eventuali curiosi e braghèer
sempre in agguato.
Sistemate
le moto, il grande trofeo vegetale fu solennemente messo al centro di un basso
tavolinetto che si trovava in giardino.
“Chè
a
gh vóol un curtèel!” disse qualcuno. Il padrone di casa ne portò subito
uno, che si rivelò non troppo adeguato.
A
Norberto, grande cintura nera di arti marziali estremo orientali, fu affidato
l’impegnativo compito del taglio. Due volonterosi collaboratori tenevano ferma
la sfera.
Un
attento e teso silenzio calò sull’intera compagnia. Tutti i presenti
osservavano con trepidante smania la decapitazione e attendevano l’inizio della
spartizione del “prezioso” bottino, così avventurosamente guadagnato.
Norberto
tentò di affondare la lama… una volta… due volte. Niente! La coccia del grosso
frutto opponeva resistenza alla cruenta violazione, complice una affilatura
compromessa dal tempo e dall’uso.
Un
terzo colpo deciso ebbe ragione dell’ostinata scorza.
Ma
ecco accadere un fatto davvero singolare…
Non
appena la lama raggiunse la polpa rossa, un imponente getto d’acqua … FFFFFffffffffffffffffffff… schizzò
fuori spinto dalla pressione interna.
L’accoltellatore
impaurito con un balzo si spostò velocemente indietro per non esserne
investito, i ragazzi più vicini… anche.
Il
getto continuò, fra la sorpresa di noi tutti, per vari secondi e alcuni litri
di acqua sudicia e attaccaticcia bagnarono il tavolino e la palladiana.
Ci
guardammo in faccia stupiti l’un l’altro… “Ma
che… ??”
A
un certo punto qualcuno osservò meglio l’interno del frutto, annusò l’odore
davvero disgustoso…
La
realtà fu presto appurata con grande delusione e sconcerto… ebbene…
avevamo preso… la cocomera da semenza…
al cucumbròun da smèinsa.
Proprio
quello che il contadino sceglie con cura, non despicca, lascia crescere e maturare per raccogliere poi i semi
neri da seccare e da piantare l’anno successivo.
Con
grande delusione prendemmo su i miserevoli pezzi della nostra preda e,
guardinghi, li buttammo in un secchio del pattume per far sparire il più
velocemente possibile ogni traccia visibile del deludente misfatto.
Davvero
una bella impresa !!!
A n gh è mèel!! Và mò là…
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