venerdì 31 luglio 2015

La movida carpigiana èd ‘na vòolta - dialetto carpigiano - Carpi - Mauro D'Orazi



Stesura iniziale 24-07-2015                                                                        V05 del 31-07-2014

La movida carpigiana èd ‘na vòolta

                                                                            di Mauro D’OraSi

Quando all’inizio del 1500 il Principe Alberto III Pio decise di fare dello spazio retrostante al ṡóogh dal balòun (oggi Piazzale Astolfo) una grande piazza, ornata da un lungo portico, certo non si immaginava che dopo 5 secoli avrebbe creato un problema di vivibilità di questo spazio immenso e praticamente ingestibile nella sua totalità.
Un problema molto serio che le recenti Amministrazioni comunali hanno risolto bypassandolo astutamente e concentrandosi su quello splendido gioiellino che è diventata Piazza Garibaldi, alias Piazza delle Erbe, o più semplicemente la Piasètta.
Piazza dei Martiri, già Piazza Vittorio Emanuele, sembra essere diventata un peso insostenibile, dove l’horror vacui trionfa fra cronici nulla facenti, sparuti pensionati, stanlòun (sottanoni) e assurdi velami femminei di culture che ci sono lontanissime. Qui Aristotele incontrerebbe il fallimento della sua nota teoria affermante che "la natura rifugge il vuoto" (natura abhorret a vacuo).

Eppure non era stato così fino a pochi decenni fa; mi è gradito e facile ricordare i supremi camerieri Gianni, Valerio e Alcide (a cui si aggiungeva un giovanissimo Donato, poi Bar Tazza d’Oro) che, in giacca cremino chiaro chiaro, farfallino e pantalone scuro, prestavano un servizio inappuntabile al Bar Roma. Due ampie distese di sedie e tavolini erano a disposizione di un vasto pubblico, che nelle serate estive gremiva questo ambito ritrovo. Dal banco della gelateria, la Nilve (brava, bella e sfortunata ragazzi) preparava dei gelati eccezionali e una panna montata che teneva in piedi il cucchiaino.
“Alcide per favore ci porta due spagnole (coppa di gelato di crema, nocciola, panna, amarene Fabbri e un biscottone piantato in cima). Grazie!”
Dopo pochi minuti, serviti come al Danieli di Venezia, l’inappuntabile Alcide Luppi arrivava col vassoio ricolmo delle delizie richieste con impazienza. A corredo c’era un bicchierino d’acqua che conteneva gli speciali cucchiaini a paletta, perfetti… per una degna consumazione di un prodotto di tale eccellente qualità.

Ma non c’era solo il Bar Roma in Piazza, basta guardare una qualsiasi cartolina dell’epoca; scendendo in direzione sud avevamo il Bar Armagni, col titolare Gerry, il Bar Dorando e in fine “il bar dei comunisti”… il Milano, sede di interminabili discussioni politiche e dove si appurava con puntigliosa precisione chi ghìis la tèesta più gròosa (chi avesse effettivamente la testa più grossa).
Dall’altro lato c’era poi il Caffè Teatro con la famiglia Garzon (Danilo, Maria e Vittorio), divenuto negli anni ’80 punto interclassista di incontro della gioventù carpigiana e ritrovo preferito della mia compagnia piuttosto eterogenea.

La cosiddetta movida nel secolo scorso era cosa tutto sommato semplice e coincideva con momenti particolari: le serate estive, la domenica pomeriggio e dalle 11 in poi alla mattina dei giorni festivi.
Quelle mattine si usciva per prendere il giornale, per la messa (chi ci teneva) e per prendere il pacchettino di paste da Mailli, che venivano confezionate, dopo una fila di almeno 20 minuti, con l’apposita cordella. Alla fine di questa veniva creato, da abili e avvezze mani, un apposito anello per infilarci il dito medio. Se il dito non si segava, questo sistema consentiva un facile ed “equilibrato” trasporto a casa per il pranzo domenicale.

I carpigiani non si tiravano certo indietro da queste frequentazioni del centro e della Piazza. Il benessere, appena acquisto dopo un passato èd bulètta pèr dimònndi (povertà per molti), consentiva questi piccoli e piacevoli lussi.

Nelle sere estive una passeggiata, un giro in bici, un film al cinema estivo Italia (poi Super70), una fetta di cocomera da Benci nel Parco.
Si andava a letto presto e non si faceva casino.
Non c’era un complessino o un DJ ogni 20 mt, che intrecciando osceni bum bum, perepèe, unzz, unzz, pott, pott… trasformano anche le migliori intenzioni di rivitalizzare il centro in una bolgia acustica indecente e offensiva del bon vivre.

Io e gli amici, invece, passavamo le sere in modo attivo e dinamico, vagabondando da un posto all’altro, facendo garini con le moto, caricando sventurate ragazze; era bello arrivare in Piazza con auto e moto, parcheggiare comodamente davanti al bar, senza oppressive isole pedonali. Chi aveva un mezzo nuovo era contento di farlo vedere e di farsi vedere, sempre con la mai sopita brama di conoscere e affascinare nuove e belle fanciulle. Scopo ultimo e sempre tranquillamente confessato, quanto mestamente disatteso per i drammatici rifiuti ostinati delle controparti.
“Dèela via primma ch a sìidi di ruṡgòun! Primma ch a paasa la stagiòun!” diceva rabbioso qualcuno, dopo l’ennesima cocente delusione (Datela via prima che diventiate dei torsoli mangiucchiati di mela, prima che passi la stagione!).

Rimpianti ? Un po’… di sicuro! Noi ragazzi degli anni settanta abbiamo vissuto forse il periodo più fortunato e più bello dell’intera storia italiana. Ci siamo divertiti tutti, chi più chi meno, senza guerre e anche con un po’ di soldi.

Oggi, guardando la nostra grande piazza deserta, a vìin un bèel magòun, viene un bel po’ di amarezza, soprattutto d’inverno, proprio quando chi la vuole chiusa, se ne guarda bene di uscire di casa e ne sta bello caldo sul divano, cullandosi nella soddisfazione di pensare e dire: ”AAH… Ma che BELLA la Piazza chiusa! È dei pedoni!”
Pròopria ‘na bèela sudisfasiòun! Va mò là!
Ma è tempo perso spiegare questi concetti a certi… verdi pisello.

giovedì 23 luglio 2015

Ufff… Mò che chèeld! - Caldo estivo - Mauro D'Orazi - dialetto carpigiano - Carpi



Prima stesura 9 luglio 2015                                   V06 del 17-8-2020

 

Ufff…  Mò che chèeld!  

Uffa che caldo

                                                                                    di Mauro D’Orazi

Uff… è una esclamazione che si pronuncia nel nostro dialetto, gonfiando più o meno le guance e sbuffando, con la quale si suole esprimere un senso di soffocamento per il caldo eccessivo.

È il caso proprio della nostra pianura padana, dove d’estate soffriamo giornate di caldo micidiale; senza un alito di vento, con un’umidità che arriva al 100%. Un sofòogh o sofòoch (un soffoco) come ben descrive la situazione una parola del nostro efficace dialetto. A pèer d èsser in ‘na laanda, sembra di essere in una terra ardente e desolata; lo stesso Guareschi, in un suo famoso incipit a Don Camillo, ci dice che siamo in una terra dove d’estate un sole spietato picchia martellate furibonde sui cervelli della gente, con tutte le conseguenze del caso.

Il carpigiano accaldato pronuncerà con la consueta pungente ironia: a m suuda la linngua in bòcca! Mi suda la lingua in bocca.

Oggi per difendersi dal caldo ci chiudiamo in casa con i condizionatori; un certo numero di pensionati vengono deportati nei freschissimi centri commerciali, oppure di sera si va in Piazzetta, nuovo punto vitalissimo di Carpi, dove per uno strano, ma molto apprezzato gioco di correnti d’aria, dalle 22 in poi si sta veramente bene, se si ha l’avvertenza di sedersi in certi punti di quest’area. Filossi spontanei si creano ogni sera, utilizzando a cerchio le sedie e panchine a disposizione

Ma una volta come si comportano i carpigiani per difendersi dal caldo?

Le opportunità non erano certo tante e si improvvisava coi pochissimi mezzi a disposizione. I ragazzi si arrangiavano come potevano; andavano a fare il bagno della Lama (Lama River nel gergo giovanile di allora), dove il Comune dava un minimo di attrezzatura e anche un bagnino (sono ancora note nella memoria i nomi epici di Turrini e di Ardore).

Si frequentava anche il Secchia o il laghetto (vicino a la bòtta) del Bacino della Bonifica a Quartirolo.

In tutti questi posti audaci maschietti improvvisavano prove di ardimento con tutti e gare di nuoto.

Il Comune organizzava anche colonie estive al mare a Ponte Marano e in montagna, ma anche a San Martino Secchia funzionava un affollato centro elioterapico. Un nome altisonante, benefico e salutare, che dava rispetto solo a pronunciarlo ed esaltava ciò che in realtà era in sé ben poca cosa.  Tutte iniziative a cui il sindaco Bruno Losi teneva moltissimo, anche come contributo per allontanare l’incubo della TBC, che fino mezzo secolo fa non scherzava.

Noi ragazzini andavano a giocare al Parco e lì c’era un barrettino dove vendevano i BIF, i ghiaccioli. Se eri fortunato nel bastoncino c’era una stella marroncina e ne vincevi un altro.

I carpigiani la sera i tulìiven arsòor (prendevano respiro, sollievo), occupando le decine e decine di tavolini di ben cinque bar in piazza, che era onorata dal parcheggio delle auto e che la rendevano viva. Ricordo i nomi degli esercizi: bar Milano, bar Dorando, bar Armagni, bar Roma e dall’altra parte della piazza il caffè Teatro

Mò a gh èera aanch al funtaani… in via Fassi, viale Carducci e il baracchino dal graniiti davanti ai necrologi èd fròunt al veschvèed.

Infine nei miei ricordi ci sono i bellissimi dopo cena con la mia famiglia sempre al Parco, ma stavolta presso la famosa baracchina di cocomere della nota famiglia Bencivenni. Alla frescura serale, sotto le fronde, si univa una fetta di cocomero gelato che era una delizia, un paradiso in terra.

Il benessere economico, esploso agli all’inizio degli anni ’60, ci consentiva anche questo piccolo lusso. C’era poi la questione del … garullo, ma questa è un’altra storia che ho raccontato in una diversa narrazione del nostro passato.

Con poco si toccava la felicità.

martedì 14 luglio 2015

Avere poco tempo: mò che fuuga! (Ma che fretta!) Piccolo divertimento, inventato da Mauro D’Orazi - dialetto carpigiano - Carpi

Avere poco tempo: mò che fuuga!
(Ma che fretta!)
Piccolo divertimento, inventato da Mauro D’Orazi
Prima stesura 5-5-2014                                                 v 11 del 07-07-2015

Quando non c’è tempo e si ha molta fretta.
In fretta = in fuuga! In prèesia!
Un dìtt e un faat! Un detto e un fatto! Mentre si enuncia una cosa da fare contemporaneamente la si realizza.
Un… pèela, cóos e maagna. Un pela, cuoci e mangia, quando si cucinano dei cibi in velocità.
Sèinsa tanti bàali (o ciavèedi): senza tante storie, senza indugi artificiosi e ingiustificati.
***

C'è anche una strana famiglia di gente svelta e con poca pazienza, ma non immune da errori e pressapochismi: 
a gh è Ṡgagiadèin (detto Ṡgaagio… pèr fèer primma… ovvio) ch al gh à sèmmper fuuga, al ṡbaaglia incòoṡa e al n in fa màai 'na giùssta;  fradèel Fughiini, ch al gh à dimònndi prèssia aanca lò (péela, cóoṡ e maagna!), só surèela Ṡveltèina... ché un quelchidùun a psrèvv pinsèer mèel.
C’è Ṡgagiadèin (detto Sgagio per far prima) che ha sempre fretta, sbaglia tutto e non ne fa mai una giusta; suo fratello Fughiini che ha sempre fretta pure lui (pela, cuoci e mangia!) e sua sorella Sveltina… sul cui nomignolo qualcuno potrebbe pensare anche male.

C’è pure al ṡio ch i l ciàamen PiSSaprèesia, perché ha molta fretta di farla.
Dove abita questa strana famiglia, così… urgente?
Mò… in vìa Scapavìa, nummer… Cuur gh adrée, s te sòun al campanèin a t caasca in tèesta un bucalèin.
Ma in via Scappavia, numero Corrici Dietro, se suoni in campanello di cade in testa un ombrello! Ma no! Un pitale da notte!
*0*

Ṡgagiadèin è esistito davvero! E qui lo voglio ricordare con affetto.

Era lo scutmàai col quale era noto Ermes Benetti: un salace e ironico personaggio carpigiano, sempre pronto alla battuta. Simpaticissimo! Vendeva i materassi in Piazza sotto alla casa della Taparlèina, di fianco alla torre dell’uccelliera.
Eccolo una domenica mattina in Piazza negli anni ’70, mentre scherza con mio padre, che è alla guida della Giulia della Polizia. 
(foto di Alcide Boni)

Al vèedri ( le vetre - le palline di vetro) Ricordi di Lauro Zuffolini _ Carpi - dialetto carpigiano -

Al vèedri
(le palline di vetro)
Ricordi di Lauro Zuffolini
                                                                           Carpi 12 luglio 2015

Giocare alle biglie di vetro, o alle palline, o al vèedri (le vetre, come spesso le indicherò) termine per i ragazzi più adusi alla lingua originale carpigiana e che erano poi la maggioranza, è stato per anni anche per me molto più di un semplice passatempo.
Era un gioco di gruppo che apriva alla conoscenza di altri ragazzi, per la semplicità e per la diffusione che aveva. Esso era connaturato a portare ad ampliare di continuo il numero dei partecipanti, permettendo a chiunque di aggiungersi in qualsiasi momento senza alterare la sua essenza, ma rendendolo più interessante con l'innalzamento della posta in palio.
Insomma era un'esperienza di vita alla portata di tutti.
Si entrava in contatto con tanti ragazzi, spesso anche più grandi, almeno nel mio caso, dai quali si imparava tutto ciò che si poteva apprendere dalla strada. Non solo quello che era attinente al gioco in sé, ma molto di più. Si sperimentavano le situazioni competitive, le furbate degli altri, le aggressività che sfociavano in violenza non solo psicologica e verbale, ma a volte anche fisica. Si scoprivano le dinamiche di gruppo, le interazioni possibili con i prepotenti, oggi denominati bulli, i leader da strada, circondati dai loro scagnozzi e gregari e da quelli che semplicemente stavano sempre a guardare senza prendere posizione.
Si coglieva da mozziconi di frasi, quali erano i rapporti al di dentro delle varie famiglie di quei ragazzi. Cosa veniva loro vietato o permesso da padre e madre e quali erano le scappatoie che i ragazzi stessi mettevano in atto per poter fare quello che pareva loro. Si imparavano i primi rudimenti della problematica sessuale e le prime informazioni riguardanti le ragazzine, anche se, al tempo delle vetre, il mondo femminile stava ancora sullo sfondo e l'unica vera femmina con cui ci si doveva misurare tutti i giorni era ancora la mamma.

Scrivo queste righe attingendo totalmente e unicamente ai miei ricordi personali, senza aver svolto alcuna ricerca documentaria.
A quei tempi abitavo dov'ero nato, in via Brennero (Cantaraana). Della casa in questione ci sono notizie precise che risalgono al 1150, ma la mia famiglia affonda le origini nell'ignoto ed è proprietaria di quella casa dal 1917, quando mio nonno Tito Zuffolini la comprò. Di questo atto possiedo ancora con cura il rogito notarile. Cantaraana è nel centro storico di Carpi; una stradina che più centro di così non si può, trovandosi appena dietro il duomo.

Il tempo delle vetre per me va dal '58 al '65, con intensità maggiore tra il '60 e il '63, quando avevo dai 7 ai 10 anni.
Il campo da gioco principale era la strada, senza limitazioni. Sia la carreggiata male asfaltata di Cantaraana, sempre ricca e generosa di buche e squarci nella copertura, sia i marciapiedi, quelli ancor più sbrecciati e irregolari, con molte interruzioni a seconda delle varie abitazioni che costeggiavano lungo quella strada. Un luogo pubblico decisamente vissuto e frequentato da persone di livello popolare medio basso, andando in giù.
Le automobili di passaggio erano poche e non disturbavano. Le biciclette erano numerose, ma i ciclisti di allora erano pacati e comprensivi rispetto all'umanità sempre stressata e incazzata che popola il congestionato traffico cittadino odierno. I passanti di allora erano abituati a capire e a tollerare il gioco dei ragazzi in strada, perché era un fatto normale ovunque.

I vari tipi di giochi
Io conoscevo tre tipi di giochi con le vetre. Ecco i primi due, cerchio parlerò in relazione alla frequentazione del Parco.

Il primo veniva chiamato picc’ e spaana (a picchio e spanna). Si giocava con una pallina a testa per volta. Si doveva lanciare vicino o lontano. Molti preferivano stupire con lanci quasi stratosferici per intimidire gli avversari. Il secondo lanciatore doveva lanciando a sua volta avvicinarsi a distanza di una spanna per conquistare la vetra dell'altro. Il gioco così si sviluppava in spazi abbastanza ampi. Se la misura non veniva raggiunta i lanci si ripetevano. Naturalmente non ci si limitava a giocare solamente col bel tempo o con l'asciutto, per cui ci si inzaccherava non poco nelle pozzanghere, nel fango e sulla terra bagnata. Quello era il suo bello: fare le misurazioni con le vetre immerse in acqua e melma...
Era un gioco che serviva e stimolava la ginnastica manuale. Certi ragazzi sfoderavano degli allungamenti tra pollice e mignolo da lasciare stupefatti, da non crederci; si andava oltre le normali potenzialità anatomiche. Quando si dice “misurare a spanne” come esempio di un metodo approssimativo, chissà? Forse è partito tutto da lì...

Le contestazioni erano frequenti, quindi era necessario ponderare bene con chi valesse la pena di giocare. Certi personaggetti vivaci andavano evitati, altrimenti si assisteva all'esibizione di spanne chilometriche e alla negazione di qualsiasi solare e… palmare…  evidenza.
Io giocavo soprattutto con il mio amico d'infanzia, quasi dirimpettaio, Franco Lodi e con Alberto Bencivenni. Più avanti si aggiunse Mauro Aguzzoli, abitante acquisito tardi a Cantaraana.
Da evitare assolutamente era tale Prisco Ianniciello, focoso e irascibile bambinetto di origini avellinesi, dotato di fratello maggiore con cronico prurito alle mani e dedito totalmente e acriticamente alla sua security personale.
Io ero un bambino tranquillo, con l'inclinazione naturale addirittura a far da paciere nei litigi altrui. Fu proprio Prisco a interrompere questa mia vocazione prematura al martirio, centrandomi in faccia con un consistente getto della sua orribile saliva, quando tentai di placarlo, mentre stava menando un malcapitato che pretendeva di averla vinta con lui.

Ma il gioco più bello per me da fare in strada con le vetre era al capurrio.
C'era da mettere in fila sul marciapiede tante palline, quante i giocatori intendevano puntare. Poi si stabiliva l'ordine di battuta, in base a chi riusciva a lanciare la sua pallina più vicino a un oggetto scelto in precedenza. Quindi si trattava di posizionarsi dall'altro lato della strada e di tentare di colpire la prima pallina della fila con il lancio di un'altra vetra. Era ammesso anche il tiro di rimbalzo contro il muro della casa. Chi colpiva la prima facendola uscire dalla fila vinceva tutte le altre e, se quella che riusciva a colpire non era la prima, si vincevano comunque tutte quelle poste alla destra di quella centrata.
Dopo ogni tiro c'era un seguito di imprecazioni, o di grida di gioia, o di contestazioni. L'accusa più frequente era quella d avèer faat manèina, cioè di essersi allungati troppo oltre la linea immaginaria, limite invalicabile per il lancio. Non c'era limite al numero dei partecipanti, si arrivava anche a 10, e le file, in base anche al numero delle palline giocate, potevano estendersi fino a più di 2 metri.
Ricordo qualche nome dei ragazzi di Cantaraana: Francesco Cianìin Pergreffi, Fernando suo cugino, Giorgio Cova e suo cugino Alfio Gozzi e i già citati Franco Lodi, Alberto Bencivenni e Mauro Aguzzoli. A loro si aggiungevano a volte quelli del Palamaio, di cui ho in mente tre nomi, Medardo, Viola e Còcciolo e di èeter èd Bevdèer, via Cesare Battisti.

Il bello del gioco in strada era che poteva passare all'improvviso un ragazzino sconosciuto ai più dalle vie limitrofe e domandare: “A s póol ṡughèer?”  Posso giocare?  Per essere accettato bastava che rispondesse affermativamente all'unica domanda:”Gh èet al vèedri?” Hai le palline?  La risposta affermativa consentiva l’immediata entrata del gruppo di giocatori. Qualcuno, ma raramente, andava a prestito del prezioso materiale, o almeno ci provava: “Po’ a tii dàagh!” Poi te le darò indietro.

I gruppi più numerosi si formavano nelle ore subito dopo pranzo, quando le mamme davano il rompete le righe e il via libera ai figli per andare a giocare.
Questo creava qualche problema a certi vecchietti che abitavano nelle vicinanze e che non volevano fare a meno del loro riposino pomeridiano.
Ricordo la Virginia Buldrini, una vecchina piccolina ed energica dotata di una voce acuta e stridula con annessi ultrasuoni che emetteva grida agghiaccianti. Ma anche questo le permetteva di ottenere solo brevi intervalli di quiete in strada.
Più caratteristico ancora, sia nel nome che nell'aspetto fisico era Wandemburgo Lodi, solo omonimo del mio amico. Sembrava uscito da una quadro appeso alla parete di certe ville e raffigurante un insigne personaggio del nostro risorgimento, con i suoi baffoni bianche all'insù, la sua folta barba e un abbigliamento consono alle atmosfere di fine ottocento.
La sua sfortuna era che alloggiava all'ultimo piano della casa dotata del miglior tratto di marciapiede di tutta la via, per cui le palline venivano posizionate regolarmente sotto le sue finestre.
La sfortuna nostra era che, dopo aver preso coscienza di cosa fosse il Risorgimento italiano, vedendo apparire il suo mezzo busto alla finestra in alto e aver udito il suo grido di battaglia, egli perentoriamente ci versava addosso una bacinella di acqua fredda. Più di una volta arrivò giù anche il recipiente insieme al liquido. Ma noi ragazzini non difettavamo di scatto, ben coscienti del pericolo che era sempre incombente. Poi c'è da dire che aveva tutto sommato il sonno duro e non era scontato che andasse sempre a finire male. Di sicuro Wandemburgo era efficace con le sue argomentazioni e riusciva a far sospendere i giochi o a farli terminare del tutto.

Le vetre erano anche oggetto di scambio. Le più pregiate erano i cavalieri, palline opache a sfondo bianco con striature a vari colori vivaci, che ne valevano 7 di quelle trasparenti normali. C'era chi le esibiva e le scambiava, senza metterle in gioco.
Poi c'erano i buuli, vetre più grosse, che erano da 2, 3 o 4 di quelle normali, a seconda della loro dimensione.

Il contesto sociale
In ogni casa allora c'erano dei bambini, dei ragazzi e anche degli anziani. Sembra strano dirlo, ma il paragone con la situazione delle famiglie odierne ci rivela che attualmente non è più quasi mai così. Le mamme lasciavano andare i figli, sapendo che non correvano soverchi pericoli in strada e che le mamme degli altri, come loro stesse facevano, davano un occhio anche ai ragazzi degli altri, perché si sentivano in qualche misura mamme di tutti i ragazzi.
Questa non è retorica, ma la pura e semplice realtà di allora. Oggi, vuoi per il traffico, che rende impossibile non solo stare in strada, ma quasi anche passarci, vuoi per l'individualismo egoistico di quasi tutti, vuoi perché  di mamme a casa quasi non se ne trovano e vuoi infine per paura dei pedofili, nessuna mamma lascerebbe uscire di casa il figlio, permettendo che si organizzi il gioco come gli pare e come viene e chissà dove. Oggi si può portare solo i ragazzi a lezioni a pagamento prenotate a ore di calcio, tennis, nuoto, danza, pattinaggio, scherma, musica o quant'altro, presso strutture e associazioni istituite allo scopo. L'alternativa pare essere solo l'uso solitario e quasi solipsistico di cellulari, tablet o pc; in questo momento la stessa TV sembra essere superata.

Io abitavo a metà della via. Mi bastava aprire la porta di casa ed ero già nel cuore della sala giochi.
Ogni tanto una mamma si affacciava alla finestra e gridava il nome del figlio per una qualche necessità. I più fortunati venivano richiamati per consumare la merenda, un bel panino con salame o burro, mica uno snack. Oppure ogni tanto qualcuna appariva sulla soglia di casa a controllare. Tutte si conoscevano tra loro e conoscevano i figli delle altre. Le chiamate si facevano più fitte e generali verso l'ora di pranzo o di cena per reclamare la presenza a tavola o quando si faceva sera e scendeva il buio, che sanciva la conclusione obbligatoria dei giochi. Ma nessuno si perdeva mai. Al massimo ritardava un po' il rientro a casa.
***
Il Parco, l’università della pallina
Io sentivo dire che al Parco si giocava alle vetre. Il Parco allora era uno solo, quello davanti all'ospedale. Ma a quei tempi coprire la distanza da Cantaraana al Parco era come prefigurare un viaggio intercontinentale, verso terre sconosciute. Perché spingersi tanto in là, quanto ogni strada era un campo di giochi? Giocare alle vetre al Parco era però un mito, come giocare a calcio a S. Siro.
Non ricordo chi un giorno mi invitò ad aggregarsi a un gruppo diretto al Parco. Chiesi il permesso a mia madre. Me lo accordò con la raccomandazione di stare attento e di tornare presto.
Da quel giorno ci ritornai in seguito da solo, con in tasca il budget di vetre che ero disposto a investire in quell'avventura sconosciuta, in mezzo a quella bisca vetrosa a cielo aperto. In tante mattine estive mi pigliavo su, uscivo da viale De Amicis, dove la mia casa ha un secondo affaccio, arrivavo fino a via Volta, giravo a sinistra e avevo già la visione del Parco davanti ai miei occhi. Forse non si tratta nemmeno di un chilometro, ma per me, che ero un bambino tranquillo e mia tròop ṡgalvìi (non troppo preparato a riconoscere le tante trappole della vita), significava molto nella conquista della mia autonomia nel mondo.

Là si praticava soprattutto il gioco del cerchio, al sèerc’. Si segnava un cerchio per terra con le dita in una zona diserbata, vi si collocavano dentro la circonferenza le palline che si decideva di puntare a testa; poi, con precisi cricchi, bisognava colpirle con la propria per farle uscire dalla riga e così aggiudicarsele. Il cricco si otteneva sfregando lateralmente il dito indice o quello medio contro il pollice, facendo leva e prendendo così la forza necessaria per il colpo vicino o lontano dal bersaglio. Alcuni posizionavano invece indice o medio sotto il pollice per avere lo stesso effetto. Io preferivo la posizione laterale usando il dito indice. Più diffusa era quella laterale col medio.
Ricordo ancora la delusione dei ritorni a casa dopo consistenti perdite e con poche vetre in saccoccia, ma anche gli entusiasmi dei giorni vittoriosi per avere aumentato il mio capitale. Evitavo sempre di restare a secco del tutto. Mi piaceva giocare, ma non avevo dentro di me il tarlo del gioco, che mi obbligava ad andare sempre avanti fino alla fine.

Il colpo d'occhio all'arrivo al Parco era sempre impressionante per me. In una zona centrale senza erba e in mezzo agli alberi si concentravano vari gruppi di gioco, a contatto di gomito quasi gli uni con gli altri. Infatti anche gli spazi erano contesi, a volte aspramente e per assicurarseli occorreva arrivare per tempo la mattina. I gruppi erano abitualmente sempre vocianti e le contestazioni fitte e frequenti, anche se dipendevano spesso dalla caratterialità dei giocatori all'opera.
Quindi, dopo un po' di esperienza, si poteva scegliere a quale gruppo aggregarsi. Io cercavo attentamente, Per quanto mi era possibile, cercavo attentamente di valutare e prevedere, evitando i ragazzi più esagitati e furbacchioni.

Espressioni di gioco
Ricordo alcune espressioni tipiche del gioco.
Pìic' era il verso onomatopeico che emetteva il giocatore la cui vetra centrava quella nel cerchio facendola uscire.
Busca léeva era la richiesta di pulire la pista dai residui di foglie e rametti che potevano ostacolare la traiettoria precisa del tiro del giocatore.
Busca làasa era il grido preventivo di un altro giocatore per impedire questa operazione di…pulizia. Esisteva infatti questa sorta di diritto di veto, purché   anticipasse la richiesta eventuale del giocatore al tiro.
Quando nascevano contestazioni e la pretesa ingiusta di un prepotente si imponeva, di fronte al suo successivo tiro sbagliato c'era spesso qualcuno che commentava, rigorosamente con la solennità della lingua italiana: “San Giovanni non vuole inganni!” Rivelando anche così una diffusa fiducia nella giustizia divina da parte dei giocatori di vetre, delegata in questo caso al santo addetto al settore in questione.
E quando qualcuno protraeva all'eccesso le sue proteste ingiustificate, veniva bollato con l'epiteto lapidario: “T ii fiól ‘d 'na véedra!'”. Sei figlio di una pallina!

Le misurazioni
Le misurazioni davano luogo alle principali litigate. Per stabilire l'ordine di tiro si lanciava ognuno la sua pallina alla base di un albero e chi la mandava più vicino aveva diritto di precedenza nel tiro. Da lì nascevano grandi discussioni, per differenze a volte millimetriche, ma decisive, perché chi prima tirava, più trovava il cerchio pieno di vetre ed era più facile cogliere un bersaglio.
Altre frequenti contestazioni erano originate dalla valutazione se la pallina era totalmente uscita dal cerchio o se toccava ancora la riga. L'esito di queste discussioni dipendeva solo in parte dal dato oggettivo. Per lo più era dovuto alla forza... contrattuale, o brutale dei contendenti.
Come nella vita, del resto…
Al Parco ho incontrato e ho avuto a che fare con tanti ragazzi, il cui ricordo è in gran parte svanito.
Chissà, forse con una seduta di ipnosi potrebbe riaffiorare. Io ero molto selettivo e un po' chiuso, allora, ma apprezzavo molto questo aspetto democratico dei giochi delle vetre.
Rimane un bel ricordo complessivo, dove ho riversato l'amore innato che ho per ogni tipo di gioco, che non sia a scopo di lucro.
E che mi ha fatto assaggiare tanti aspetti della vita che mi avrebbero atteso inesorabili.


Di sicuro, almeno ne sono uscito più ṡgalvìi e ṡladinèe (scaltro e rodato) di quello che ero prima.