domenica 26 ottobre 2014

A la muccia - addosso - dialetto carpigiano - Carpi - Mauro D'Orazi

A la mucciaa! ( Addosso!)
Un gioco che socializza schiene e pance: Ṡughèer a la mucciaa! (giocare al mucchio).
Non ci sono regole, si lascia tutto alla buona educazione e alla resistenza dei giocatori. Di solito due bambini iniziano con una lotta fraterna o fratricida.
“T’arrendi?”
“ Me no, veh!” e giù botte del tipo: dove prendi prendi, dove ti trovi ti trovi, anche nella polvere come i passerotti quando godono nel fare gli spolveri in una piccola buca.
Quando entrambi i contendenti sono sfiniti, a terra, sudati e impolverati, gli amici con garbo, i nemici con minor garbo, si lanciano sui due poveracci. A la mucciaa!, cioè : addosso! Uno sull’altro, ci si lascia cadere come blocchi di piombo fino a formare una bella pila: più concorrenti ci sono, più la pila, in senso Voltiano, s’arricchisce d’energia. C’è sempre qualcuno, di solito l’ultimo, che prende la rincorsa e si lancia spavaldo a braccia aperte sulla catasta umana mettendo il sigillo finale e comincia a dimenarsi insensibile al grido di dolore che proviene dal basso della suddetta pila. Qualche urlo: ahiahia mi fai male, basta non ne posso più, mi schiacci la pancia, tira via il piede dalla mia faccia… Giunge il momento dello sgroviglio. Ci si srotola lentamente, a fatica, e si resta a terra ansimanti. Sfiniti e puzzolenti. Il gioco è terminato. Bello, sano, atletico, tranne quando è il più grasso del gruppo a saltare per ultimo. A quei tempi, verso i dieci anni, nessuno mi riteneva snello e saltavo per ultimo o penultimo. Poi, con la pubertà, ho perduto i chili e il gusto del gioco.
  A la muccia! (addosso!)
Marco Giovanardi ricorda: "Qualcuno potrebbe pensare che a ?ughèer a batmùrr a fuss sóol 'na facèenda d avèer dal cuul (giocare a battimuro fosse solo una questione di culo). Niente di più sbagliato! Al faciutèin a se gh dèeva la pìiga giùssta agli urècci e l èera determinàant pèr fèrel vulèer (alla figurina si doveva dare la piega giusta alle orecchie, cosa determinante per darlela corretta traiettoria) verso l'obiettivo, la preda ambita, battezzata all’inizio del gioco. Con il tuo dovevi coprire anche di un solo millimetro quadro al faciutèin dificcil da ciapèer. Occorre tener presente che i faciutèin a terra non si potevano rivoltare e di conseguenza bisognava ricordarsi dov'era quello da coprire per vincere tutte le figurine giocate.

A la muccia! Ragàas! Chi ciàapa, ciàapa!

Poi poteva succedere che qualcheduno tra gli osservatori e braghèer, di certo qualche complice in malafede, che erano in capannello tutt' intorno, gridasse la temuta: "A LA MUCCIA!”Era un segnale anomalo di caos, senza più regole… èd chi ciàapa, ciàapa! (di chi prende, prende!)
Non era tollerato, ma dopo di esso tutti si buttavano ad accaparrarsi quante più figurine possibile che erano per terra, senza rispetto per la proprietà altri: una rapina quasi legalizzata.
  È interessante ricordare che i ragazzi più grandi avevo di solito grande disponibilità di vetre, ma nel contempo i loro interessi, crescendo di età, si indirizzavano gradualmente verso obiettivi diversi: ragazze, motorini, ecc … . Allora poteva succedere che, per puro gusto sadico, qualcuno lanciasse l' urlo di richiamo: "A la mucciaa!!”(all’ammucchiata) e, dopo aver atteso che si formasse una massa vociante e spintonante di maschietti agitati, gettavano in aria sulle loro teste, con alti e lenti lanci a parabola, delle vetre in regalo, generando naturalmente delle risse e mischie.
Era un chiaro segnale di passaggio e di evoluzione nella piccola, ma vivissima e dinamica società del Parco delle Rimembranze. Era arrivato il momento dell’adolescenza, della crescita, mentre tanti altri più piccoli continuavano ad avvoltolarsi ancora per un po’ nell’infanzia.

I ”Fratelli” Brugnòoli Noti professionisti in Carpi - dialetto carpigiano - Carpi - di Mauro D'Orazi

I ”Fratelli” Brugnòoli  - Noti professionisti in Carpi
Collazione (di mia invenzione)  di detti esistenti
Per ultimo … un caso davvero particolare è la complessa e polimorfica figura di tale (o tali) Brugnòoli; i modi di dire legati a questo buffo cognome hanno varie sfumature di significati: tutti ironici e per prendere in giro l’interlucutore. In primis si riferiscono a una cosa o una azione di un qualsiasi tipo che una persona non eseguirebbe MAI e POI MAI per nulla al mondo. La figura del Brugnoli avrebbe tutte le caratteristiche per essere quasi una maschera (o una macchietta) sul tipo del dottor Balanzone, ma nonostante la sua presenza nel parlato popolare e nei tanti modi di dire scherzosi, non è mai assurta concretamente a tale dignità di ruolo.
Il problema è che di questi Brugnoli a Carpi ce ne sono due: “A nn al farèvv gnaanch s a m l urdnìss al dutóor Brugnòoli!” ovvero “Non lo farei neanche se me lo ordinasse il dottor Brugnoli! ”, quindi neanche sotto la più cogente e coattiva prescrizione medica.
Oppure ” Gnaanch s a m al dgiss l inṡgnéer Brugnòoli!!”, ovvero “Neanche se me lo dicesse l’ingegner Brugnoli !”, anche in questo caso la persona che pronuncia la frase non eseguirebbe MAI una certa azione, neppure sotto precisa disposizione di un autorevole tecnico - professionista.
Chi sia o chi siano questi Brugnoli non è dato sapere; c’è però da dire che dopo feroci discussioni e interminabili polemiche con amici e parenti su quale fosse la versione giusta (medico o ingegnere ? - “A ca mìa a s è sèmmper ditt acsè!” ... “No! No! NO! Da nuèeter ...a s giiva in cl’èetra manéera!”) ho scherzosamente e saggiamente deciso di battezzarli di mia scelta come due possibili fratelli di origine settentrionale ... liberi professionisti del 1800 o dei primi del ‘900. Sarà poi vero?
Mahh!!?! A n crèdd mìa!! Mò a m pièeṡ pinsèer acsè.**
Esiste poi anche un’ulteriore accezione: per rimproverare una persona che trova difficoltà non giustificata a capire o a fare una piccola e facile cosa talora manuale. Allora lo si apostrofa con ironia … “ Óoo alóora! … Ciamòmm ia l inṡgnéer Brugnòoli!” … “Allora ! ... Chiamiamo un tecnico super specializzato per capire o fare questa piccola e facile operazione che non ti riesce!”.
Non va dimenticato in questo contesto al dutóor Bunéega ch a l curèeva al buuṡ dal cuul cum ch al fuss 'na brutta piéega (il valente dottor Bonaga che curava il pertugio posteriore, credendo fosse una brutta piaga). Una figura di medico emiliano romagnolo per certi aspetti riconducibile anch’esso alla maschera bolognese del dr Balanzone
Sempre proposito invece del dottor Brugnoli, il conoscitore di “cose locali” Franco Bizzoccoli mi ricorda che l’origine di tale misteriosa figura potrebbe essere ferrarese e che al “cafè” solo in occasione del gioco ragionato dello scopone, che ha regole ferree matematico/scientifiche, se si faceva una bella giocata si veniva elogiati con un “ Óo ... mò t ii stèe a scóola dal dutóor Brugnòoli!” (“Ohh ... ma sei stato a scuola dal dr Brugnoli ! ”); ma in caso di tragico errore “S a te vdiss al dutóor Brugnòoli al t darèvv ’na scupaasa!“ (“Se ti vedesse il dr Brugnoli di darebbe una scopaccia!”).
La madre di qualche discolo poteva poi lanciare questa minaccia: “A t daagh 'na s-ciàafa ch a n t la chèeva gnaanch al dutóor Brugnòoli.” Ti dò una tale sberla che non te la toglie nemmeno il dr Brugnoli con la tutta la sua arte e abilità.
**
Altre indicazioni relative ai Brugnoli mi sono arrivate da altre fonti.
Stefania Bellelli (Carpi) riferisce che è esistito un dottor Brugnoli abitante a Carpi fine 800. Mentre dell'ingegnere nulla sa.

sabato 11 ottobre 2014

Personaggi di Carpi di una volta - dialetto carpigiano - Mauro D'Orazi


Personaggi di Carpi


Prima stesura 23-11-2013                                                 V34 del 01-10-2014


Bozza in perfezionamento


Gli altri sognan
se stessi
e tu sogni di loro
     (da un verso di Fabrizio De Andrè)
***

Personaggi di Carpi

 di Mauro D’Orazi

in collaborazione e con le testimonianze
di Franco Bizzoccoli



foto di Lorenzo Barbieri, Alcide Boni, Alcide Palmati, Romano Cavaletti e altri



Norme di trascrizione e lettura del dialetto

Le norme di trascrizione adottate dal
“Dizionario del dialetto carpigiano - 2011”
di Anna Maria Ori e Graziano Malagoli

Tabella per facilitare la lettura

a      a come in italiano                           vacca
aa    pronuncia allungata                         laat, scaat, caana

è e aperta (come in dieci)                        martedè, sèccia, scarèssa, panètt, panèin
èe    e aperta e prolungata                      andèer, regolèeda, martlèeda, taièe
é      e chiusa (come in regno)                 méi, mé
ée    e chiusa e prolungata                      véeder, créedit, pée

i i come in italiano                                  bissa, dì
ii      i prolungata                                   viiv, vriir, scalmiires, dii

ò      o aperta (come in buono)                pòss, bòll, brònnṡa, pistòun, dimònndi
òo    o aperta e prolungata                      scartòos, scatlòot, malòoch, tròop
ó      o chiusa (come in noce)                   tó, só, indó
óo    o chiusa e prolungata                      vóolpa, casadóor, móoi, óov, ṡóogh
u      u come in italiano                           parucca, bussla, dubbi, currer, fiùmm
uu    u prolungata                                  bvuuda, vluu, tgnuu, autuun, duu

c’      c dolce (come in ciao)                     vèec’ , òoc’
cc’    c dolce e intensa (come in faccia)      cucc’, scarnìcc’, cutècc’, palpùcc’
ch    c dura (come in chiodo)                   ṡbòcch, spaach, stècch
g’     g dolce (come in gelo)                     curàag’, alòog’, coléeg’
gg’   g dolce e intensa (come in oggi)       puntègg’, gurghègg’
gh    g dura (come in ghiro)                    ṡbrèegh, siigh

s      s sorda (come in suono)                  sèmmper, sóol, siira
      s sonora (come in rosa)                   atéeṡ, traṡandèe, ṡliṡìi

s-c    s sorda seguita da c dolce                s-ciafòun, s-ciòop, s-ciùmma, s-ciòoch







Gli altri sognan se stessi
e tu sogni di loro
(da un verso di Fabrizio De Andrè)
Personaggi di Carpi

di Mauro D'Orazi

in collaborazione e con le testimonianze
di Franco Bizzoccoli

Un contributo fondamentale a questa ricerca è stata data dal carissimo Franco Bizzoccoli; un amico, un personaggio indimenticabile che putroppo è scomparso il 14 luglio 2014, portandosi via un bel pezzetto di Carpi.
Franco non era uno scrittore, annota Florio Magnanini, il direttore di Voce di Carpi, ma uno straordinario affabulatore. Era capace di riassumere in un soprannome (in un scutmàai), in un aneddoto (in ‘na stòoria), in una definizione (in un dìit), sempre rigorosamente in dialetto, un’intera esistenza, un personaggio, un capitolo di storia cittadina, una situazione familiare. È per questo che difficilmente si trovano tracce autografe dei suoi racconti, ma solo tante testimonianze orali, ascoltate e messe per iscritto da altri.
Fra gli spunti preferiti per le sue evocazioni c’erano le figure tipiche di Carpi, coloro, per contrappunto notissimi, che avevano scelto la marginalità, con modi di vivere e di essere (quasi) spontaneamente alternativi. Tutti questi singolari personaggi attraevano Franco Bizzoccoli per la loro “umanità” senza le mascherature dell’ipocrisia. Ne stimolavano la sua natura di arvèers e gli faceva per certi aspetti ammirare la dignità che conservavano al di là della loro spesso miserevole condizione di vita. Tutto ciò in alternatica a una città del boom incessantemente indaffarata e in preda a un desiderio sprudintèe di successo e di soldi.
***
Franco ha visionato e corretto il testo e i capitoli di questa ricerca, contribuendo a dare un taglio che fosse il più obiettivo possibile. Questo per raccontare persone “speciali” che la gente tende a NON voler mai capire veramente, a causa delle loro inconsuete (e ai più incomprensibili) scelte di vita.



Ricordo di Franco

Franco Bizzoccoli, Il MARINAIO, Al marinèer, era un personaggio carpigiano reale, ma che sembravava uscito dall’epica e avventurosa fantasia di Hugo Pratt. A lui ho dedicato il mio secondo libro La Ruscaróola èd Chèerp DUE; questo perché per me Franco rapprensentava il “genius loci” di Carpi, la sua essenza più antica e incorrotta.
La Ruscaróola èd Chèerp DUE

Passare il suo severo esame sul dialetto e sulle tradizioni della nostra città era FONDAMENTALE per me e lui non si è mai tirato indietro, controllando, correggendo e suggerendo. Dovevo superare la sua sospettosa diffidenza, dovuta ai limiti della mia discendenza carpigiana (solo il 50%).
Mi ha raccontato un’infinità di storie:
dal nonno fabbro e massone (che gli fece quasi da padre, essendo rimasto orfano presto), che lo educò alla libertà e al libero pensiero, ai sui tanti viaggi da marinaio in tutto il mondo;
dal palombaro sminatore di porti, alla Legione Straniera;
dal canale di Panama, al “signor Fish” carpigiano in Africa;
dalla lotta contro la bieca dittatura greca, alla frequentazione dei migliori registi e attori italiani degli anni 70- 80, al gioco d’azzardo al fumo di ogni tipo di tabacco; ecc… ecc…

Lo spirito anarchico irriducibile, la sua strenua opposizione alle ingiustizie, al perbenismo del potere e alle menzogne istituzionali lo hanno sempre caratterizzato. Era ciò che si dice a Carpi un arvèers, un rovescio. Socialista, radicale, presidente del Circolo del Libero Pensiero; capace, come minacciosamente spesso minacciava, di influenzare il voto e l’opinione èd sesèint culatèin èd Chèerp (di seisento gay di Carpi).

Puntualmente ogni XX settembre (anniversario della Presa di Roma al Papato) faceva mettere una corona sulla lapide in Piazza posta sul Torrione degli spagnoli, a nome del Circolo del Libero Pensiero Giordano Bruno di Carpi, un misterioso e non ben delineato club libertario - esoterico; un’incombenza, un dovere morale che aveva ereditato dal compianto avv Borelli 30° g .

Una vita densa e avventurosa che me lo ha fatto considerare a buona ragione il nostro “Corto Maltese” carpigiano.
  
Corto Maltese
Il suo narrarre affabulante ci ha sempre affascinato con storie di mare, di viaggi in paesi lontani, di incontri strabilianti, di missioni speciali in Indocina, nei mari del Mediterraneo e in Africa.
Facendo roteare a mezz’aria il suo indice sinistro, ornato con orgoglio dell’anello massonico del nonno (con la squadra e compasso), raccontava, descriveva, pennellava situazioni e personaggi, rievocava, illustrava, ecc… con una ricchezza di particolari che sembrava di essere lì, quando succedevano le cose, mentre la prua della petroliera tagliava l’oceano atlantico o i mari dell’oriente.
Non c’era posto che il nostro marinaio non avesse visitato.
Non c’era persona famosa che non avesse incrociato.
Non c’era cosa o storia che non sapesse sulla nostra città.
E in effetti di Carpi e dei carpigiani al savìiva tutt: vìtta, mòort e miraacool.
Mi ha sempre dato il suo appassionato contributo sulle vicende carpigiane, descrivendo luci e ombre dei vari personaggi, anche i particolari che NON si potevano scrivere.
Mi ha regalo, a me più giovane, nato dopo la guerra, le storie e lo spirito intimo di una “vecchia” città che ormai non c’è quasi più, ma sulla quale è appoggiata la realtà d’oggi, anche se in pochi riescono o possono ricordarlo.
A lui è dedicato anche un modo di dire, quasi una laurea honoris causa meritata sul campo:
Al l à ditt Bisochèel!” (Lo ha detto Bizzoccoli!)
Nel senso che, quanto riferito su una certa faccenda o individuo, era certo la verità e …  e più non dimandare!”, citando Dante.
Anche perché LUI, Franco, c’era! C’era di sicuro, o, se non c’era, si trovava comunque molto vicino!
Non era un uomo perfetto, anzi… aveva mille difetti e diecimila debolezze.
Il caustico Mauro Prandi lo chiamava Frank Monozoccolo, perché “l’altro” lo aveva perso in una qualche concitata concia.
Ma aveva centomila qualità e un milione di pregi; cose, queste ultime, che compensavano abbondantemente il bilancio del suo essere, della positività di uomo di libero persiero e azione che intende lasciare un mondo almeno un po’ migliore di come lo aveva trovato.
Una moglie, due figlie, una madre che ha amato tantissimo; un cagnone, la Tata, mastino napoletano, che era una di famiglia.
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Ci ha lasciato il 14 luglio 2014, il giorno della Presa della Bastiglia, un evento storico di riscatto dell’uomo a cui lui teneva moltissimo. Liberté, Égalité, Fraternité (Libertà, Uguaglianza, Fratellanza) era il trinomio, il motto sacro della Rivoluzione Francese, ma anche il suo.
Nella sua ultima, tragica e dolorosa notte, la frase che ha ripetuto cento volte con insistenza, come estremo lascito ai sui familiari, è stata: “Un solo pensiero mi ha guidato: LA LIBERTÀ!”
                 Mauro D’Orazi 14-7-2014 che si onora di essere stato suo amico.


da VOCE di Carpi
14 luglio 2014 – All'età di 84 anni Franco Bizzoccoli, Il Marinaio, si è spento nelle prime ore di questa mattina, all'ospedale Ramazzini dove era stato ricoverato per un aggravamento delle condizioni di salute. Figura notissima in città, vigile in pensione, Bizzoccoli aveva alle spalle un'esistenza avventurosa, vissuta come marinaio della marina mercantile e come combattente nella Legione straniera tra Indocina e Africa, prima di stabilirsi definitivamente nella propria città d'origine. Spirito libero e anarchico militante, fra i fondatori del circolo del Libero Pensiero, aveva stretto numerose amicizie negli ambienti romani del cinema, a partire dal regista Giuliano Montando e dall'attore Gian Maria Volontè, arrivando a recitare in due film dello stesso Montaldo – "L'Agnese va a morire” del 1976 con Ingrid Thulin e "Il giocattolo”, del 1979, insieme a Nino Manfredi – e "Maledetti vi amerò” di Marco Tullio Giordana, del 1980. Da militante, ebbe un ruolo nel sostegno e nella liberazione di Alexis Panagoulis, l'ufficiale greco imprigionato e torturato dai colonnelli dopo il colpo di stato del 1966. In città era divenuto un simbolo della carpigianità, un custode della memoria, uno degli ultimi testimoni della vita al campo di concentramento di Fossoli dove aveva lavorato da garzone di muratore, oltre a rappresentare un riferimento contro ogni forma di sopruso e un pungolo costante per i poteri locali.



Introduzione di Franco Bizzoccoli

Foto del 1985 - Franco Bizzoccoli
 un prezioso testimone di fatti ed eventi carpigiani

Franco Bizzoccoli (Carpi) esprime una posizione e una testimonianza diretta che ci tiene a distinguersi nettamente da tutte le altre che ho ascoltato sugli “strani” personaggi che descriverò in questa ricerca. Come punto essenziale Franco vuole ricordare e tutelare la dignità di persone particolari, come ad esempio di Mezzanotte. Onesto Lazzaretti, l’uomo sorridente col fiore sul cappello, era un vagabondo, ma non ha mai steso la mano o elemosinato per chiedere la carità, non si è mai … mai umiliato a chi aveva di fronte; così come lui hanno vissuto del loro, pur gramo, lavoro Piccinini (il raccoglitore di cartone), la Mariina Trintèina con suo banco ambulante, l’Amaalia di scatlòot (Amalia Bulgarelli degli scatolotti) o la Corinna èd Bòun (di Boni - sorella del fotografo Severino Boni) che si dedicavano alla raccolta di roba vecchia, stracci e a piccoli piccolissimi commerci, ecc …
Descrivere queste persone con svilimento, cattiveria o superiorità è stato lo stolto vezzo di alcuni carpigiani mediocri che, nella loro ansia interiore di emergere dal grigiore delle loro piatte e spente esistenze, si divertivano in malafede a considerare queste persone delle infime macchiette da deridere con compiaciuto disprezzo per sentirsi vanamente superiori. È un’abitudine contadina del volgo, dell’ignorante, del cretino, dell’illetterato, dell’invidioso che porta a caratterizzare chi è “diverso” o in modo ridicolo o in modo negativo.


1960 ca L'Amaalia di scatlòtt
Amelia Bulgarelli era molto amante del lambrusco ed era assidua frequentatrice dell'Osteria Longarini in San Rocco; dietro in secondo piano Ezio o Erio Goldoni i famosi gemelli identici di pelo rosso.
1975 ca – L’Osteria Longarini in San Rocco,
ormai chiusa e pronta per la demolizione

Romano Cavalletti (Carpi) ricorda: “Da ragasóol, 11/12 anni, a fèeva al garṡòun in ’na butèega èd gènner alimentèer di Forte Roversi e Giuseppina Salvaterra. A la siira a partiiva in biciclètta pèr andèer a Miarèina andànnd pèr San Ròoch. Dal vòolti a s icuntrèeva l'Amaalia: puvrètta! la gniiva fóora da l'usterìa èd Longarini èd fròunt a la manifatuura. Sicóome l'aaqua la nn èggh piaṡiiva mìa dimònndi, l’éera sèmmper un pòo imbalèeda e alóora la gniiva carghèeda insimma al só cariulèin e purtèeda a ca sua.


1960 ca la Corinna èd Bòun (di Boni - sorella del fotografo Severino Boni)

Gloria Pantaleoni (Carpi) ricorda che si pettinava così, perché diceva che se la guardavano davanti... era una, mentre da dietro, con un piccolo pipullo, ... era un'altra.


Bizzoccoli continua la sua ricca testimonianza: La gavetta di Mezzanotte non era un cappello o una ciotola dell’elemosina; quella gamella gli serviva per andare alla cucina popolare per avere la minestra. Era l’ECA, l’Ente Comunale di Assistenza, che forniva questo servizio ed era gestito da Amelio Turchi (detto Turcìin), con Contardo Ferrari che gestiva la cucina. I cuochi erano due: Berto e al pèeder èd Romanciina.

Piazzale Re Astolfo - al ṡóogh dal balòun – alla sinistra della foto a piano terra al posto dell’attuale finestra, c’era un portone con la Mensa del Povero.

Meṡanòot era uno spettatore coprotagonista passivo, ma attento osservatore di questo tipo di società, in cui lui stesso era costretto a vivere. Ma non era il mendicante e tanto meno il clochard parigino: era un vagabondo!

Gli piaceva il vino, ma a nn éera mìa ’n imberiagòos, ma non era un ubriacone.

Meṡanòot non era né ridicolo, né negativo; non apparteneva a queste due categorie. Era un “angelo” che passeggiava leggero fra la folla.
Non chiedeva niente, non ha MAI chiesto niente!

Quàand a gh éera di cretèin che con appagato spregio dicevano: “Óo Meṡanòot … “ col solo scopo di prenderlo in giro, tentando di “nullificarlo”; lui si limitava a rispondere dolcemente con un ineffabile sorriso.

Meṡanòot te n l èe màai visst andèer in biciclètta o muntèer in simma a un baròos o a cavàal; l à sèmmper girèe istèe e invèeren … a pée. Non lo si è mai visto andare in bicicletta o montare un su ub biroccio o a cavallo, era sempre a piedi. D’estate con una giacchetta ṡliiṡa e d’inverno cun un tabàar che gli aveva regalato l’avv. Germano Tunèel (De Pietri Tonelli (repubblicano e anarchico), figlio del fondatore del Ricovero del Viandante.

Il suo percorso era: la Casa del Viandante in Cantaràana, al ṡóogh dal balòun (Piazzale Astolfo) dove c’era la cucina popolare, i giardini comunali con l’incontro con i piccioni, la casa dell’avv. De Pietri Tonelli.
L’avvocato, vedendolo, allora gli domandava: “Onèesto cum andòmm ia?” E gli stringeva la mano. Poi facevano i lavori di giardinaggio insieme. Mentre l’avv. Tonelli studiava o lavorava, Meṡanòot svolgeva qualche lavoretto di pulizia o piccola manutenzione, ma MAI dietro ordine, solo per sua volontà.
Il fondatore Tonelli aveva anche disposto una precisa clausola con la quale si disponeva che il Ricovero del Viandante dovesse essere tenuto in funzione, finché ci fosse stato un’ospite e quindi finché il Lazzaretti fosse stato vivo.
Con percorsi non troppo chiari, negli anni ’60, fu invece di fatto soppresso (anche assieme alla Casa del Povero di Galasso Bezzecchi) e unito ad altre Opere Pie; l’edificio fu venduto a una persona di comodo. Così Mezzanotte dovette trasferirsi al Ricovero Tenente Marchi, che allora aveva sede nel padiglione dietro l’Ospedale, a ovest.
Lì godeva di ospitalità, ma con piena libertà di entrare e uscire dalla struttura.

Meṡanòot al deṡgniiva dal Vrée, luogo natale della moglie, ma era originario di Soliera, aveva abitato Cavezzo e a Rovereto; quest’ultima una località da dove veniva anche al maat Panèin (il matto Panini), che stava in Bevdéer (via Cesare Battisti) e che una volta murò la porta di casa del fratello per dissidi familiari.

Meṡanòot si era sposato con una donna di Rovereto di Novi; rimasto vedovo (si presume), per un certo periodo si accompagnò a Carpi con un’altra donna; non era un’unione di sesso, ma di affetto, di calore umano, di condivisione dell’indigenza; insomma tutto un discorso particolare che sèert sumèer èd Chèerp (certi somari di Carpi), che ironizzavano malamente su questi personaggi, non possono certo capire e non capiranno mai.
Convisse dunque in Cantaraana con una signora che aveva già un figlio, che fu compagno di scuola di Bizzoccoli alla fine degli anni ’30.

Questi personaggi avevano poi dei luoghi franchi, dei portoni particolari, allora sempre aperti, in cui si potevano sedere e appartare: la casa del cinema Fanti in via Mazzini, dove stava la madre di Bizzoccoli, tutte le case di Corso Alberto Pio che davano anche su via Rovighi, cioè le case degli ebrei ecc …
Lì si poteva vedere quest’umanità marginale trovare sosta, un minùut èd rèechie (un minuto di pausa).

‘Na vciina cun i cavìi biàanch, la Magheritèina che usava domandare l’elemosina con la frase: “Pèr ‘na pastlèina pèr la mé Armandèina, ch la stà mèel da murìir a l uspidèel!”(per una pastina per la mia Armandina che sta male da morire all’ospedale).

Piccinini che frugava e mangiava le verdure buttate via di scarto; a tale proposito Plicio Pelliciari annunciava: “Il ristorante è aperto!” e aveva Piccinini sotto casa ch al magnèeva in mèeṡ al russch (che mangiava quello che trovava in mezzo agli scarti del pattume).
Ma anche Piccinini non ha mai domandato niente, non ha mai elemosinato!

Anche la Mariina Trintèina col suo banchino su ruote, o l’Amaalia di scatlòot ch l andèeva a véeder (andava a vetri), o la Corinna èd Bòun che, col suo perenne cappello di paglia in testa, andava a stracci.
Questo perché facevano delle attività particolari, che consentivano loro di vivere, pur nella povertà.

Meṡanòot a nn è nisùun! La Marina Trintèina … cla puòosa! L’Amaalia di scatlòot cla sèmma!”
Erano frasi per irridere superficialmente e stupidamente queste persone;
esprimevano il meschino compiacimento del povero nel vedere un altro povero, messo peggio di lui … diverso. Si distorceva la realtà solamente per pura e inutile cattiveria.
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Meṡanòot
Onesto Lazzaretti
vagabondo in Carpi

Note raccolte da Mauro D’Orazi

Revisione del testo di Graziano Malagoli

Mezzanotte!! Meṡanòot ! Onesto Lazzaretti al stèeva in Cantaraana con la convivente e il figlio di lei.
Uomo mite e pacifico, parlava poco ed era quasi sempre solo.
Un nome di battesimo che fu un programma ben rispettato. Un uomo pacifico e ben voluto. Un uomo libero, non un mendicante; non un pezzente, ma un vagabondo.
Ma ve lo ricordate ... che personaggio … sempre col “fiorlino” (cun al fiurlèin) ... sul cappello?

Fu l’ultimo ospite dal Ricòover èd Cantaraana (Ricovero del Viandante di Via Brennero). L’E.C.A. (Ente Comunale di Assistenza) fu l’ultimo proprietario dell’immobile e lo denominò negli anni ‘60 “La Casa del Viandante”. Questa istituzione benefica era stata voluta da Tomaso De Pietri Tonelli (conosciuto come Magnòun Tunèela), vecchio proprietario dello stabile, per ricordare un suo zio sacerdote nel 1800 che si era dedicato in modo particolare ai senza casa e ai girovaghi istituzione.
**
Le notizie su di lui non sono tante e quelle poche esistenti vanno svanendo.
Ho raccolto tutto ciò (poco) che ho trovato e alcuni particolari biografici sono confusi.

Lazzaretti Onesto, figlio di fu Leandro e Chierici Catterina; nato a Soliera il 30/07/1887; coniugato con Rebucci Florinda a Novi di Modena in data 21/03/1931;
deceduto a Carpi in data 28/03/1970.
Come residenza risulta immigrato dal Comune di Cavezzo il 24/11/1931;
residente dal 21/04/1936 in v. Brennero 45 (Casa del Viandante);
 " dal 19/05/1961 in v. Cattani 4 (breve sistemazione provvisoria);
 " dal 30/06/1961 in v. S. Giacomo 2 (Casa di Riposo Ten. Marchi).
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In centro a Carpi, c’era una specie di mensa del povero nell’angolo in fondo al Castello nel Gioco del Pallone, a sinistra subito dopo l’arco delle ex Carceri, guardando con le spalle alla Sagra.

Lì era un punto fisso di rifocillamento per al nòoster Meṡanòot ed è da quelle parti che mi è capitato spesso di intravederlo, mentre girava per il vicino giardinetto comunale o era seduto a godersi il sole su una panchina, come per altro di vede nelle foto.

A questo proposito, senza la sensibilità di Alcide Palmati non avremmo nemmeno la sua pacifica e tranquillizzante immagine, raccolta in alcune foto davvero significative.
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Primi del ‘900 Via XX Settembre, ora via Giacomo Matteotti.
Fotomontaggio di Alcide Palmati con una possibile torretta.


Ecco una poesia di Cinzio Micheli, Micin, su questo personaggio
(la grafia è quella originale del poeta):
 MEZANOT

V’siv mai dmandé acsé, in quatr’e quatr’ott,
chi s’sia cal tip chi ciàmen Mezanott?
An gh’è gninta d’mel, per quest an v’togh la stìma;
... per qui ch’n’al cgnuss, infati, a gh’fagh sté rìma:
Barbéta bianca,
in dal capel i fior,
l’è seimper suridèint
e d’boun umour,
cun una pèla bianca
ch’a fa voja,
e lissa cum’un pann
tolt da la smoja.
Giachèta slisa
e la gavèta in man,
e quest l’è Mezanot
per qui ch’n’al san.
Al s’ved po’ tutt i gioren vers mesdè,
in fila, cun pasinsia certusèina,
a tor la mnestra chelda a la cusèina;
ma dla gavèta, ahimè, an gh’ved mai al fond,
perché pian pian col pass un po’ marchè,
al porta cal puchin ch’al s’è vansèe
ai clomb chi al spetn’in circol sul segrè.
Per st’francescàn filosofo carbsàn
n’esist po’ festa o gioren da lavor;
per lò l’è festa al dè ch’al s’cambia al fior.
Seinsa cunter, s’capiss, che la più bèla
L’è quand’al voda ai clòmb la so gamèla.
E ades che bein o mel v’l’ò presentè,
serchè d’eser gentil sa l’incuntrè,
perché truvèren n’eter fat acsè,
as suda al sèt camìsi in chi teimp chè.
 Micin - Cinzio Micheli
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Anche Ciccio Guerrino Siligardi à dedicato a Meṡanòot una sua poesia, illustrata dal pittore carpigiano Pain (Igino Pagliani).
(la grafia è quella originale del poeta):
 


Curiosità

La fièssca o mòssca

Meṡanòot portava una barbetta bianca a pizzetto; in carpigiano antico questo ornamento del viso prendeva il nome di fièssca (pizzetto al mento), ma qualcuno la chiama anche mòssca.
“Al gh à la fièssca!”
Talora il nome poteva venire deformato bonariamente in … fiaschètta.

 
Illustri personaggi storici col pizzetto:
Vittorio Emanuele II e Napoleone III
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Alcune note, testimonianze e ricordi di carpigiani

Le testimonianze che seguono sono state raccolte direttamente da me; esse si basano su ricordi diretti di varie persone che hanno incontrato il nostro singolare concittadino. Ci posso essere affermazioni anche in forte contraddizione fra di loro, ma non ho voluto scartare nulla. Infatti, al di là di un certo limite, io non sono in grado di appurare le verità sempre più lontane nel tempo e lascio pertanto al lettore l’onere di arrivare alle proprie conclusioni.

Oramai sono più di 40 anni che ci ha lasciato ed è difficile trovare notizie su questo singolare personaggio che Dante Colli nel suo libro “A gh è di bée chèeṡ” - ed. Il Portico 2008 – così definisce:“Mezzanotte una presenza quotidiana che richiamava i carpigiani all’essenzialità della vita e alla bellezza ben simboleggiata dalla costante presenza di un fiore sul cappello.”

Io stesso mi sono poi fatto queste domande e ho trovato solo parziali risposte:
“Ma perché lo chiamavano così? Perché non aveva una famiglia, un lavoro o un reddito anche minimo?”
Non ho trovato dati precisi e netti, ma per fortuna sono emersi ricordi e testimoniane di vari carpigiani, che lo hanno ancora bene in mente con affetto.
Anche mio padre, che era un poliziotto piuttosto duro e non amava certo i vagabondi, quando parla di lui lo faceva con simpatia, apprezzando il suo spirito di uomo libero e nel contempo … onesto.
Oggi, appena chiedo alle persone giuste qualche notizia … IMMANCABILMENTE … queste accennano subito a un sorriso, fra il dolce e malinconico, al pensiero di quella persona così semplice e amabilmente stramba, che nella sua vita certo non deve aver mai fatto delle male azioni verso il prossimo.
Per ciascuno degli interrogati, il primo ricordo è il fiorellino che portava sempre, quasi un omaggio rispettoso alla bellezza e alla perfezione della natura.
Un “fiorlino”

Il soprannome di Mezzanotte pare che molto semplicemente gli derivasse dal fatto che era sempre in giro anche di notte e non andava quindi mai a letto presto, comunque sempre dopo … mezzanotte. Era un tipo solitario, sempre gentile e misurato; di statura media, i tratti del viso erano gradevoli e distinti e si dice fosse figlio di una persona culturalmente elevata per i tempi.
Si guadagnava da vivere con piccoli lavoretti presso le varie famiglie che spesso lo premiavano con un piatto di minestra o con del vino che non disdegnava di certo.

16 novembre 2010 - Mauro Magri: A casa mia nel cortile in viale Nicolò Biondo si fermava spesso, perché mio nonno "l'Americano", aveva sempre del buon salume e dell'ottimo Lambrusco pigiato coi piedi nella nostra cantina a due scale sottoterra. Spesso l'abbiamo portato a casa, perché era in condizioni un po’ precarie ...

10 febbraio 2012 - Emidio Bosco: Me lo ricordo bene, veniva spesso a casa nostra e mia nonna gli faceva rastrellare la ghiaia del giardino poi gli dava un piatto di minestra o di pasta asciutta che lui si faceva mettere nel suo gavettino militare!
1968 Meṡanòot, il barbone romantico che portava sempre un fiore fresco sul cappello, dorme su una panchina del giardino di via Matteotti, dietro al teatro; morì a 82 anni nel 1970 - Foto di Alcide Palmati.

1 febbraio 2012 - William Vaccari
A propòoṡit èd Meṡanòot a vóoi cuntèer èv quèssta !!
Al sóori èd via Menòoti, ch i duviiven imbutiglièer, i àan dmandèe a Meṡanòot èd purtèer 'na damigiàana d vèin al cunvèint còn un cariulèin. A chi tèimp là, primo dopoguerra, al strèedi i nn éeren mìa asfaltèedi e a gh éera ancòrra i giaròun èd fiùmm. Fatalitèe, intàant che Meṡanòot al cucèeva al carióol pèr fèer la cuurva da via Berengario a via Menòoti, ‘na róoda la s è impuntèeda e al carióol l à tòolt al trapìcch. La damigiàana l'è caschèeda e la s è ṡbraghèeda e tutt al vèin l è andèe pèr tèera. Meṡanòot, amante del nettare di Bacco, sèinsa pèerder un secònnd, al s è ṡachèe pèr tèera e l à serchèe èd ricuperèer più vèin ch al psiiva, ciucènnd èl diretamèint d in mèeṡ ai giaròun. Quàand a s diiṡ la prontèssa d riflèes !!!

A proposito di Mezzanotte voglio raccontarvi questa.
Le suore di Carità di via Menotti, che dovevano imbottigliare, domandarono a Mezzanotte di portare una damigiana di vino nella loro sede con un carriolino. A quei tempi, subito dopo il ’45, le strade non erano asfaltate ed erano lastricate coi sassi di fiume. Fatalità volle che mentre Mezzanotte spingeva il carrettino per fare la curva da via Berengario a via Menotti, si impuntò una ruota e tracollò. La damigiana cadde, si ruppe e il vino si sparse per terra. Mezzanotte che non disdegnava di sicuro il “succo d’uva”, senza perdere un secondo, si è steso per terra e ha cercato di recuperare più vino che poteva, aspirandolo con la bocca in mezzo ai sassi. Che prontezza di riflessi!)

8 settembre 2013 - Maurizia Besutti:
Mè a m arcòord, aanch s a iéera cichiina, ch al pasèeva cun la sò gavètta vèers meṡdè e chi psiiva al gh l'impiniiva d un mèsschel èd paasta. Al s ciamèeva ONESTO LAZZARETTI, al stèeva in BORGFURTÈIN, minnga luntàan da ca mìa e mè al vdiiva de spèss. Dal bèeli vòolti dal vièel Nicolò Biondo i al purtèeven a ca sùa, ch a l ne saìiva più andèer èggh da pèr lò.
(Mi ricordo, anche se ero piccola, che passava con la sua ciotola verso mezzogiorno e chi poteva gliela riempiva di un mestolo di pasta. Si chiamava Onesto Lazzaretti, stava in Cantaraana, non troppo lontano da casa mia e lo vedevo spesso. Non di rado da viale Nicolò Biondo lo guidavano a casa sua, perché non sapeva più andarci da solo.)

9 ottobre 2013 – Graziano Forghieri ricorda di essere cresciuto con questa persona; nel primo dopo guerra la sua famiglia abitava in via Mazzini, sopra l’ex Cinema Fanti. Spesso era nel loro cortile a fare piccoli lavoretti: legare le fascine, portare la legna su in granaio usando cesta e carrucola. Spesso la madre di Graziano, Edera Baracchi, lo premiava con un piatto di minestra.
Era di carattere mite e gentile, ma Graziano narra di un episodio particolare.
D’estate col caldo, durante le proiezioni dei film al Cinema Fanti, i gestori aprivano la porta nel cortile interno, per dare un po’ di refrigerio agli spettatori accaldati, proteggendo però la visione da parte di estranei con una tenda pesante; qualcuno del cinema controllava sempre che non entrassero degli abusivi.
Una sera Graziano e suo fratello Lele, che tra l’altro erano proprio nel cortile di casa loro, stavano sbirciando una porzione di schermo dalla fessura della tenda; arrivò d’impeto Beppe Mailli per cacciare i ragazzini bruscamente, in malo modo.
Il caso volle che fosse presente alla scena Meṡanòot, il quale inaspettatamente prese il malcapitato per la camicia, sotto la gola, intimandogli rabbioso: “S te tòcch chi ragàas, a t maas! (Se tocchi questi ragazzi, la metti male!”

10 ottobre 2013 - Carlo Alberto Parmeggiani narra che il vecchio Meṡanòot era molto ghiotto di fischietti in brodo coi fagioli; un piatto che distribuiva l’ECA (Ente Comunale Assistenza, la mensa dei poveri in castello di fronte all’ex OMNI); con un trapano però aveva fatto un buco al centro del cucchiaio che teneva sempre dentro a un taschino della giacca pronto alla bisogna; questo accorgimento gli consentiva di per poter mangiare i suoi fischietti e i suoi fagioli asciutti, lasciando nella gamella il brodo con cui venivano serviti che evidentemente non gradiva proprio.

10 ottobre 2013 - Corrado Cattini mi racconta che all’ECA c’era anche qualche tavolo per sedersi, ma Mezzanotte preferiva consumare il suo pasto all’aria aperta su una panchina dei vicini giardino o dietro l’abside della Sagra, dove c’era una specie di fossato. Il nostro si sedeva al bordo del fossato con le gambe a penzoloni dentro e lì, forse nel punto più antico di Carpi, consumava con serenità la sua razione.
Cartolina dei primi del ‘900 con l’abside della Sagra

11 ottobre 2013 - Gianni Manfredini ci dà una versione diversa dell'aneddoto della damigiana: “Meṡanòot era un tipo veramente singolare; gli capitò di trasportare, con un carrettino, una damigiana di vino piena. La stava portando a casa dell'Avv. De Pietri Tonelli, quando, per causa di un ribaltamento, la damigiana cadde e si ruppe. Imperterrito Onesto si mise a sedere per terra e comincio a raccogliere i cocci grossi del vetro e berne il contenuto. Io da ragazzino rimasi a guardare la singolare scena, che non dimenticherò mai.”
In oltre un suo ritratto era presente al Museo Civico.

11 ottobre 2013 - Umberto Cattini aveva uno zio di Carpi che gli raccontava spesso un aneddoto di Meṡanòot che lo vedeva coinvolto in una sbornia colossale. Aneddoto che seppur breve e forse banale nel suo svolgimento mi è sempre rimasto impresso per l'umanità e la dignità che esprimeva.
Mezzanotte non era certo un ubriacone alcolizzato; ma il vino era uno dei suoi pochi piaceri e ne aveva l'occasione non si tirava certo indietro. Si racconta di Lazzaretti che, nottetempo, non si sa bene in che maniera, ebbe modo di intrufolarsi nei locali della Cantina Sociale, dove fu ritrovato dal personale il mattino seguente, nella vasca del mosto, completamente ubriaco. All'invito rivoltogli di andarsene immediatamente (Tóo t su e va fóora!) lui, con grande garbo e per nulla preoccupato, avrebbe risposto che gli sarebbe piaciuto corrispondere positivamente a tale intimazione, ma purtroppo non era in grado di farlo.

11 ottobre 2013 - Franco Maria Losi:" Io, allora, andavo a scuola dove ora c'è oggi la Biblioteca Loria. Molte volte sostavo nei giardini dietro il teatro. Lì vedevo spesso Mezzanotte, perché veniva a prendere da mangiare alla mensa dietro al castello. Parlava poco. Credo di averlo sentito pochissime volte dire qualcosa. Noi, ragazzini, per farlo parlare, gli chiedevamo spesso del fiore che portava sul cappellino. Rispondeva da par suo: con un sorriso.

12 ottobre 2013 - Tiziano Lugli ricorda che Mezzanotte aveva un suo tour per ricevere il vino; passava alla Trattoria Magnani in via Petrarca, dove gli offrivano 3 o 4 pèecher èd lambrùssch (bicchieri di lambrusco), passava poi alla cantina dei Gibertoni un po' più avanti, per arrivare alla Cantina Sociale, in via De Amicis, dove nei giorni fortunati gli davano una brocca da 5 litri.
Fra via De Amicis e via Petrarca, Lugli e gli amici giocavano a pallone e Mezzanotte cerca di inserirsi, ma in ciarèina (ebbro) spesso al caschèeva pèr tèera. Dopo un po' all'improvviso, sfinito, si buttava nel pratino sotto gli alberi e si addormentava di botto. Dormiva un'ora per terra e poi, quando si svegliava, la sua preoccupazione più grande era quella di raggiungere la propria abitazione, per mettere - solo provvisoriamente - in salvo quanto non aveva ancora bevuto.

14 ottobre 2013 - Dario D'Incerti: "Ricordo quando tornando da scuola (andavo dalle Suore e quindi per me si trattava di attraversare la piazza e i giardini pubblici) all'ora di pranzo lo trovavo spesso seduto sulle scale (che sono uguali a quelle di casa di mia nonna in via Matteotti), intento a mangiare dalla sua gamella un po' di pastasciutta che mia nonna o mia zia Romea, gli avevano dato. Non ricordo di essermi mai chiesto come mai non lo invitassero a tavola, perché il suo aspetto lo rendeva inequivocabilmente "altro" da noi, "borghesi" e di "buona famiglia", ma il fatto che lo si facesse entrare comunque tra le mura di casa, significava che era una persona inoffensiva, bisognosa d'aiuto, di cui non bisognava aver paura.

14 ottobre 2013 - Gianfranco Guaitoli: "Mezzanotte me lo ricordo anch'io da ragazzino che dava da mangiare ai colombi e stava sempre preferibilmente al sole seduto su una panchina. Aveva un pizzetto alla moschettiera e mi è sempre sembrato che facesse il barbone per sua volontà, per scelta di vita."

7 novembre 2013 - Romano Cavaletti mi racconta un aneddoto un po’ più cruento: “Meṡanòot lo incontravo spesso in giro per Carpi, sempre riconoscibile da un fiore fresco sul cappello. Era solito dare da mangiare ai colombi nel giardino dietro al teatro, vicino alla mensa popolare; aveva però con sé un pesante piombo da muratore; quando il piccione gli si avvicinava in perpendicolare … TuK ! … mollava il peso che tramortiva il volatile; sarebbe poi stato cucinato a dovere e mangiato. “


Ecco un filo a piombo d'epoca utilizzato dai muratori per erigere a regola d’arte muri, colonne, ecc ... è accompagnato da un oggetto in legno tarulì sul quale viene avvolta o srotolata, a seconda della necessità, la corda ovviamente legata al piombo per svolgere la sua tipica funzione gravitazionale.

18 novembre 2013 - Giorgio Masini: “Nel 1956 il Comune stava rifacendo le fognature in centro e in via Andrea Costa erano stati depositati, sotto il portichetto, dei tratti di grosse condotte in cemento da collocare poi sotto la sede stradale. Meṡanòot si era abituato, quasi come Diogene, a passare le notti estive a dormire dentro a questi tubi. A sera inoltrata arrivava e aveva il vezzo, camminando, di far scorrere verticalmente la punta del suo bastone sulle serrande delle botteghe sotto il portico, provocando un tipico rumore a ripetizione. Quando lo sentivamo, in famiglia si diceva - Sèint mò che Meṡanòot al va a lèet! (Senti che mezzanotte va a letto!) - ".

25 febbraio 2014 Paolo Vandelli (Carpi): Quàand a ièera cichìin e a stèeva ind la ca dla Taparlèina, pròopia in faacia al Dòom cun al só bèel segrèe, a vdiiva spèss Meṡanòot còn la sò gamèela ch al dèeva da magnèer ai clòmmb ch i l cgnusiiven bèin e ch i n gh iiven mìa paùura de stè umarèel; i gh vulèeven tutt d atóorna pèr magnèer quèel ch al gh dèeva dla sò mnèestra.

Quando ero piccolino e abitavo in Piazza nella casa della Taparlèina, proprio in faccia al Duomo con suo bel sagrato, vedevo spesso Mezzanotte con la sua gamella che dava da mangiare ai colombi. Loro conoscevano bene e si avvicinavano senza paura a questo omino; gli volavano tutti attorno per mangiare quello che gli dava dalla sua minestra.

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In questo quadro del 1965, il pittore carpigiano Giorgio Pedrielli interpreta efficacemente il ritratto Meṡanòot - (proprietà di Mario Brani - Carpi)
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Fine anni ’60 - Meṡanòot mentre dà da mangiare ai colombi nei giardinetti
dietro al teatro comunale – Foto di Alcide Palmati

Il poeta, scrittore e collezionista Alcide Palmati ha dedicato del 1970 questi versi a Meṡanòot, dopo la sua scomparsa, ispirandosi anche alla foto che gli aveva scattati poco tempo prima:
«MEZZANOTTE»
Nel mezzo d'ogni giornata
messa da Dio in sulla terra,
soleva qui venire a pascolare . . .
i suoi colombi, un tale da noi chiamato «Mezzanotte» !
Da dove fosse sbucato un giorno,
che cosa avesse fatto nella giovinezza,
nessuno di noi lo aveva mai saputo.
Passava spesso per le vie
e sotto i portici del nostro paese,
cantando e fischiettando
vecchi motivi della lontana sua giovinezza.
E qui come a una festa,
col fiorellino in bocca o sul cappello,
briciole di pane nelle mani aperte al dono
che pure lui da altri aveva avuto in dono !
Ora non è più !
Addio «Mezzanotte»,
con la tua dipartita qualcosa è morto nel nostro cuore !
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Sempre Micin con un’altra sua poesia su Meṡanòot
(la grafia è quella originale del poeta)
UN TRAPASS
A l eter dè a s n andè
la faat fagot
cal tip che a Cherp
il ciameven Mezanot;
cal tip dal piss d argint
da tutt cgnussù.
S n andèe in surdèina
acsè, cum l era gnù;
cun lò a spariss l'ultma
bela figura.
Un ver amigh di fior
e dla natura.
Infati al gh iva al begh
che, brut o bel,
tutt l aan purtèva un fior
in dal capel.
S n è andèe, puvret,
in dla stagioun più chera:
al teimp dla fiuridura,
in primavera.
Per lò, partir seinsa
pser vedr i fior,
dev eser stè a na peina
un gran dulor ...
Se incoo stè vias te l fè
seinsa capel
e al naster tutt sguarì
dal fior più bel
in doo te vè adessa, di fior
ti n cat a miera!
E in mèes a di prèe
d'eterna primavera !
Perchè quel ch a sta lassù,
ch l a nota i tutt i trapass,
sta pur sicur ch a n
sbaglia mai al pass!
   Micin


Pipi e il Bar Scacco Matto

di Fabrizio Pederzoli e Mauro D’Orazi

Foto di Alcide Boni
revisione a cura di Graziano Malagoli e Giliola Pivetti
stesura iniziale 01-01-2013 v26 26-03-2014

Alla fine degli anni ’70, Sergio Pederzoli era il titolare del Bar Scacco Matto (***) di Viale Guido Fassi che, con il Bar Stadio, rimaneva aperto praticamente tutta notte (orario di chiusura dalle ore 1,00 alle ore 4,00 con le pulizie del locale nell’intervallo).
Il Bar Scacco Matto doveva il suo nome a praticanti e maestri nel gioco degli scacchi, ma era frequentato da molteplici categorie di persone: turnisti del lavoro, cacciatori e pescatori che facevano colazione al mattino presto, medici ed infermieri del vicino Ospedale di Carpi.

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1976 Pipi (Fantini) in Piazza con l’inseparabile pipa e il cappello da spasèin
(foto di Alcide Boni)

Tra le tante persone negli orari più strani frequentava il bar un personaggio caratteristico tale Alfredo Fantini, da tutti conosciuto come Pipi (o Pippi) Fantèin. Era facile incontrarlo tutti i giorni in piazza e vicino al Comune, con la pipa in bocca (da cui il soprannome) con un consunto e lurido berretto grigio, calcato in testa, “simil vigile”, ma che era poi un dismesso da spazzino regalatogli da chissà quale burlone. Spesso si dilettava a dirigere con ampi gesti delle braccia un traffico di veicoli che non esisteva se non nella sua mente, con una grande passione per ... il buon e abbondante bere.

1980 Pippi dirige la Banda cittadina di Carpi (foto di Alcide Boni)
All’evenienza si dedicava con perizia a dirigere anche la banda cittadina in giro per le strade della città. Aveva il viso paonazzo e la punta del naso ancor più arrossata, segni più che evidenti di recenti e ripetute bevute.
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1976 Pipi dirige il traffico in Corso Cabassi cun al s-ciflèin da viggil (foto di Alcide Boni)
**=M=**
Una mattina all’alba entrò nel bar Scacco Matto col naso già particolarmente arrossato ed esclamò:
"Ciao Sergio, daa m un bicéer d biàanch, mò èd cal bòun! (Dammi un bicchiere di bianco, ma di quello buono!)"
Nei bar del tempo era consuetudine mescere a singoli bicchieri vini e anche bibite economiche gasate. In quest’ultimo caso si trattava dell’indimenticabile spuma, prodotta in improbabili gusti e sgargianti colori anche a Carpi dalla ditta Casarini, Marri & Mazzucchelli in Via Trento e Trieste.

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Marche di spuma

La spuma è una bibita analcolica soft drink a base di acqua gassata, zucchero, quantità variabili di caramello e aromi vari (tra cui, succo di limone, infuso di scorze di arancia, rabarbaro, vaniglia, spezie varie); il termine, generico, risale ai tempi in cui esistevano molti produttori locali di bibite gassate, per cui il nome delle singole marche era meno importante di adesso. Il termine è equivalente all'anglosassone "soda"..

La spuma al cedro era forse la più richiesta, ma c’erano anche all’arancia, al ginger, al chinotto e al limone. Ne esisteva poi una speciale bianca al moscato: una vera ciofeca, mal colorata, che tentava disperatamente di ricordare il vino dolce.
Sergio, preoccupato di gestire la situazione che è sempre critica quando c’è la presenza di un ubriaco in un locale pubblico, rispose a Pipi:
"A m è sóol rivèe ’na partiida èd vèin biàanch. Adèesa a t al faagh sintìir, acsè te m dii pò cum al t sèmmbra. (Mi è appena arrivata una partita di vino bianco. Adesso te la faccio sentire e poi mi dici come ti sembra)".
Pipi prese il bicchiere, ne osservò il colore già poco convincente, ma il sapore lo era ancor meno. Seppure ubriaco, dopo averne appena sorseggiato un poco, con una smorfia si rivolse al gestore, piuttosto arghgnèe (imbronciato, disgustato):
"Sergio! Pèr pòoch te l aabi paghèe, i t àan ciavèe! (Per poco che tu l’abbia pagato ti hanno fregato!)"

1982 Alfredo Fantini detto Pipi in un ritratto di Matteotti Franco, detto Correggio
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(***) Pietro Arcolin ricorda bene il bar Scacco Matto, avendolo frequentato fin dagli anni iniziali con la famiglia Bulgarelli, i vecchi Adelmo e Elisa, il figlio Francesco che diede il nome al bar. Era il 1964 e tennero l'esercizio fino al ‘72; poi passò alla famiglia di Sergio Pederzoli. Lì si sono formati i gruppi di scacchisti di Carpi: il dott. Pollastri, Pedrielli, Massari, Marco Giovanardi, Pietro Arcolin, Amadei, Guaitoli. Parteciparono a molti tornei e vincendo a Reggio Emilia un torneo nazionale a squadre per non classificati. L'apertura mattutina delle 4 portava a incontri "meravigliosi" di personaggi di tutti i tipi più strani e particolari. Pederzoli istituì anche ogni anno una gara podistica per gli avventori,con mangiata finale.
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Alcide Boni (autore delle foto) ricorda che Alfredo Fantini era detto Pippi. Negli anni '70, frequentava tutti i bar del centro, avendo un'autonomia breve, a causa dell'alto consumo al chilometraggio. Una mattina andò al Caffè Teatro, al banco c'era il papà di Vittorio Garzon, Danilo, un uomo piuttosto rustico e dai modi decisi. Gli chiese col suo idioma di origine veneta:" Cossa ti vòl, Pippi? (Cosa vuoi ?)” E lui: "Daa m un cafè corèet graapa!" (Dammi un caffè corretto con grappa!)” Ma Danilo, constatando il suo stato etilico più che evidente, gli rispose che non glielo avrebbe servito corretto, ma solo normale.
"Fa gniint! Dà chè listèss! (Fa niente! Da qui lo stesso)" Allora Danilo gli preparò il caffè; Pippi mise una mano nella tasca del suo sudicio e sdrucito cappotto e tirò fuori una bottiglietta di grappa semi piena e poi borbottò:"Bèe! S te n m la dèe mìa tè ... la coresiòun, a gh la mètt mè! (Se non me la dai, la correzione ce la metto io !)” Così corresse abbondantemente il caffè e se lo bevve soddisfatto e tranquillo.

1974 - Danilo Garzon serve un Martini a un allegro avventore del Caffè Teatro
“No Martini! No party!” (foto di Alcide Boni)
**M**

L’aneddoto di Pipi al Bar Scacco Matto ricorda molto quello di Guaitlòun.
Difficile dimenticare la figura di Erio Guaitoli, tipografo e gran brava persona. Negli anni ’70 lo si riconosceva facilmente dai capelli bianchi e dall’eterno purillo blu scuro che indossava. Gli piaceva raccontare di essere stato allievo della scuola professionale di don Benatti (sottolineando e calcando: cal bòun … però!! - per distinguerlo da altri omonimi), un ottimo sacerdote che operò a Carpi in aiuto dei ragazzi nei primi del ‘900, facendo in modo che imparassero una professione artigianale, che li avrebbe tolti dall’indigenza nella vita adulta senza arte, né parte.
Don Benatti cal bòun

Erio narrava con allegra e divertita rassegnazione alcune vicende capitate al padre Guaitlòun, dovute alla allora molto nota debolezza del genitore nell’eccedere col lambrusco.
Prima della guerra si tenevano sempre al già citato teatrino LUX le rappresentazioni di una commedia a cura del Circolo di Filodrammatica di Carpi. Quella sera il teatro l éera piìin a martlètt, senza un posto libero. La scena si ambientava in un osteria; naturalmente tutto era finto, compreso il vino che era una brodaglia chimica di color rosso. Erio era un valente attore dilettante e faceva la parte dell’oste. A un certo punto arrivò dentro al teatro, nella semioscurità della sala, un omone in tabarro traballante, che cercava invano da sedere. Era suo padre Guaitlòun … già in ciarèina (ubriaco). Vide sulla scena un tavolo e qualche sedia libera. Con andatura molto incerta, fra le risate del pubblico, piano piano raggiunse il palcoscenico, scalando con fatica i gradini che lo separavano dalla platea. Finché, fra il divertimento generale, esclamò fra lo stupito e il soddisfatto: Mò vè! Mò vè … ch i àan avèert ’n’usterìa nóova! (Ma guarda che hanno aperto una nuova osteria). Al tòoṡ ’na scraana, al dà un cóolp cun la maan al tabàar e al s mètt a séeder. (Prende una sedia, da un colpo con la mano al tabarro per assestarlo e si siede, senza riconoscere il figlio truccato). Óoo ! Ṡuvnòot purtèe m mò da bèvver! (Giovanotto! ordunque portate da bere!). Il figlio, imbarazzatissimo, pensò di assecondarlo, sperando che poi se ne andasse via, ma non trovò niente di meglio che versare l’intruglio di scena. Il vecchio prese il bicchiere e cominciò a bere lentamente, ma dopo pochi istanti sputò fuori schifato il liquido e poi diretto all’oste lo ammonì: Óoo al mè umarèel, stèe mò atèinti che cun cla ròoba chè … cum a ii avèert a … srèe!!! (Caro il mio omarello, state attento che a servire questa schifezza, come avete fatto presto ad aprire questo nuovo locale, altrettanto velocemente dovrete chiudere). Naturalmente venne giù il teatro.

Sempre Guaitlòun nel ’44 era uno dei pochi che non rispettava il coprifuoco imposto dagli occupanti; tuttavia i tedeschi, incontrando questo uomo barcollante e pensando certamente ai loro usi e costumi beverecci, erano molto tolleranti. Una sera lo incontrano sotto al portico di piazza e il nostro fece loro: Spetèe mò ch a v caant ’na romaanṡa! (Aspettate che vi canto una romanza) e quelli divertiti “ Ja! Ja!”
Con ritmo cadenzato e voce baritonale … allora attaccò:
Ooh rondinella pellegrina / che vai ballando sera e mattina / chi maagna al pèerṡegh / al chèega la rumèela! (Chi mangia la pesca/ deve poi cagare la romella!). Ubriaco sì, ma non tanto da non far loro un auguraccio simbolico e in prospettiva molto doloroso.

Quando Erio si sposò, pèr diir la bulètta ch a gh éera, per dire quanti pochi soldi c’erano allora, partì in viaggio nozze in bicicletta con la moglie sulla canna. Meta: al Vrée (Rovereto di Novi), dove il prete del luogo li avrebbe ospitati. Giunti a destinazione, era il giorno della festa del paese e c’era moltissima gente. A un certo punto Erio notò un fitto assembramento con gente che sghignazzava: al centro del nutrito rughlètt (gruppo di persone) era suo padre Guaitlòun che ubriaco fradicio teneva un irresistibile concione alla folla …



Prima stesura 11-11-2013                 V 19 del 26-03-2014
Galileo da Sant’Antonio Sozzigalli
Scope per tutti!
L’ultimo venditore ambulante di scope
a cura di Mauro D’Orazi
collaborazione al testo di Graziano Malagoli e Anna Maria Loschi

Galileo (detto anche Leo) Bruschi era nato a San Possidonio, ma viveva a Sant’Antonio Sozzigalli …
Volava anche a Carpi sotto i portici con la sua bici attrezzata e il carriolino; pedalava con slancio alzandosi sui pedali, spesso con la testa girata all’indietro per rispondere, da par suo, alle battute dei miei concittadini, poco propensi ad accettare gli “strambi”.
Pedalava e urlava in dialetto e in italiano con la sua voce forte e potente per offrire le sue mercanzie ormai fuori dal tempo granèedi, malgarèini, spastòun, in particolare le scope e gli spazzoloni, con grevi, quanto efficaci battute a doppio senso … appunto sullo “scopare”.
Tutti prodotti marginali che in una Carpi del superboom, dei pidocchi rifatti, delle 1.001 Mercedes e dei tanti supermercati non avevano più alcun senso; ma lui c'era lo stesso con la sua bici con i cassoni dietro, stracarichi di cose che prendeva presso l’incredibile bottega del “Qui c’è tutto!”… ma proprio tutto: la leggendaria Righètt èd Limmid.
Se non ricordo male penso di averlo visto in attività fino alla prima metà degli anni ’80 (morì nel 1992). Più che vendere amava scambiare. Se prendevi una scopa, te ne offriva subito una seconda: “Tóo aanch quèssta! Prendi anche questa!”.
Come facevi a dirgli di no, anche se non ne avevi bisogno?
C'era sempre qualcuno che lo prendeva in giro, lo provocava bonariamente, ma lui aveva la risposta prontissima e alla fine … al fèeva su giurnèeda.
Si alzava ancora una volta in piedi sui pedali, uno scatto e via verso un’esistenza forse grama, ma libera.
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Ecco, su questo singolare personaggio, una magistrale nota di Guido Malagoli, originario di Modena, ma insegnante elementare a Soliera (dove risiede) per tantissimi anni:

“Caro Dorry, voglio darti una foto che un fotografo di Soliera, Giuliano Teritti, ha regalato a me, dopo che avevo scritto quattro righe su un personaggio "speciale" che abitava a Sant Antòoni Susigàal: Galileo, l'uomo delle scope e dell'ombrello, l'uomo che domandava a tutte le donne se volevano sposarlo e che si accontentava di qualcosa da mangiare, una camicia, due guanti ... un regalo qualsiasi e se comperavi una scopa … ti rilasciava una ricevuta scritta su una paginetta di quaderno.”
Galileo

Anni ’70 Galileo e la sua aziendina in bici - foto di Giuliano Teritti
Se Fellini lo avesse conosciuto, lo avrebbe certamente scritturato come comparsa ne "La strada" insieme a Giulietta Masina. Se De Sica lo avesse conosciuto, lo avremmo visto volare in cielo, verso il Duomo, insieme ai tanti barboni del "Miracolo a Milano".

Io lo ricordo così. Esile ed affilato nel volto, mani grandi, occhi pungenti e indagatori in uno sguardo dolce. Grandi guanti sfilacciati, il berrettone di lana, un po' sciarpa e un po' passamontagna, le maniche lunghe fino alle dita o corte al polso. E la sua bicicletta. Chiamarla bicicletta è riduttivo. Era la sua casa, l'ufficio, il laboratorio, esposizione e vetrina, banco di vendita.

Un mazzo di scope, spazzoloni e piumini, ben legati da solida fune, sporgevano verso l'alto da ampi tasconi laterali di legno appesi alla bicicletta o al carriolino con tanto di targa e insegna dipinta a mano, che aveva adottato negli ultimi anni. In caso di pioggia o di sole cocente, apriva il grande ombrello nero che restava diritto ed irremovibile per l'accorta e calibrata tensione di alcune cordicelle collocate nei punti giusti. Le antenne paraboliche e rotanti dei Voyagers spaziali sono poca e semplice cosa al confronto. Uomo Galileo, venditore ambulante. Che gran nome ti hanno dato! Lui era "importante!". "Questa è dura, questa va bene. Prendi questa che è giusta. Prendine due."

Conoscitore di scope e di uomini. Meno di donne. Ne cercava una per fare la sua compagna: "Aanch vèddva!". Quando gli volevi dare più soldi, si scherniva, insisteva per darti il resto e se non lo aveva, ti scarabocchiava una ricevuta. Ricordo i suoi biglietti - ricevuta arabescati con un tremolante pennarello rosso: anticipatore coscienzioso della riforma tributaria "Visentini", l'odierna petulante ricevuta fiscale.
La sua vita è stata lezione per noi, uomini del suo tempo che ci affanniamo a costruire "eventi" particolari, a far carriera, a competere con gli altri e non facciamo che disordinare la nostra vita opulenta. Per lui esisteva il mondo e le sue leggi eterne e cosmiche come il levarsi del sole e il tramonto. Anche il lavoro che aveva scelto, gli assomigliava stupendamente: era amico di se stesso e in sintonia con gli altri.
Ti ricordo spesso, amico Galileo, galantuomo. Tu e tutti gli altri "Ligabue" di queste nostre contrade avete capito la magia delle cose, silenziosi sognatori. Non avete sofferto l'inferiorità, le nevrosi, il fallimento, ma avete costruito ogni giorno di più la trama della vostra vita interiore. Se San Pietro avrà bisogno di spazzoloni, scope e piumini, sa a chi rivolgersi.
 Guido Malagoli
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Primo Saltini (Limidi e Carpi) ricorda: "Era di Sant’Antonio (Sozzigalli); veniva anche a Carpi a fare rifornimento per poi rivendere il suo materiale a Sozzigalli e andava anche ind al ca a vènnder al sóo malgarèini e simili; al fèeva al porta a porta come si direbbe adesso! Passava sempre davanti a casa mia negli anni dal 1956 al ‘61 nelle ore più impensate con il suo carico sulla bici e tante volte trainando il carriolino ricolmo di tutto quel che aveva da rivendere. Era una persona cordialissima e di solito sorridente, anche se dava da intendere che avesse sempre la testa tra le nuvole. Cosa che non era sempre vera. Non si arrabbiava mai, anche alle frasi un po' “pese” che tutti noi ragazzini al suo passaggio gli lanciavamo per canzonarlo. Lo ricordo con affetto, così come nella foto, con la berretta di lana piantata in testa."

Siriano Masetti (Carpi) ricorda: "Aveva un modo tutto suo di come propagandare i suoi prodotti: scope, ecc ...; poi, altro reparto: saponi, ecc ...; poi, altro reparto. L'ho sentito anche una volta dire col parroco di Sozzigalli, Don Erio Eleuterio Gazzetti, che gli sarebbe voluta anche una moglie. Voleva forse che mettesse qualche buona parola. Abitava a Sozzigalli ed era assistito dal Comune di Soliera, che lo aiutava anche per l’approvvigionamento delle famose scope.

Francesco (Gheri) Abruscato (Carpi) è stato in contatto con Leo: ”Eravamo fra il 1982 e ’83, fui assunto provvisoriamente ai Servizi Sociali del Comune di Soliera e uno dei miei assistiti era proprio Galileo. Un tipo davvero originale … quasi un “Ligabue”, per fare un paragone calzante.
Quando vendeva la sua roba si presentava così:
- Siori e siore, BUONGIORNO! Sono Galileo e canterò per voi!
Poi si metteva a cantare una sua speciale e sincopata versione di Bella Ciao, ripetendo ossessivamente alcune parole del testo e facendo poi un saltino come per sbloccare un disco incantato.
Oltre alla sua nota attività di venditore di scope, si dedicava, a Carpi e a Soliera, anche a ungere le serrande negozi per agevolarne lo scorrimento. L’operazione veniva svolta alla buona e dietro piccolo compenso o offerta di generi vari.
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Maura Stradi (Soliera) si ricorda che nel sua cittadina c'era, nel dopoguerra, un venditore di castagnaccio, di pasquèina e di mistòochi (o mistuchiini) che andava in campagna a vendere la sua merce calda ai contadini e aveva attrezzato la bici per la bisogna; purtroppo non abbiamo delle foto. Era soprannominato al ṡio (lo zio) .
Aveva una robusta bicicletta con due panieri di vimini di forma ovale col manico (duu còoregh) uno davanti e uno dietro, ovviamente su due portapacchi, dove teneva le sue specialità: gnocco di castagne, pasquina, zucca cotta al forno e patate dolci americane. Al gnòoch, alto 5 centimetri, era tagliato in profumati blocchetti cubici, delizia dei bambini più fortunati che lo comperavano prima di andare a scuola. Ricopriva i cesti con un panno nero, tipo militare (non si conosce il coefficiente di pulizia). Era un tipo magro, gioviale, giostrava il mestiere con allegria, amico dei bambini. Chi lo ricorda dice che nel dopoguerra poteva avere una sessantina d'anni. Qualcuno mi ha riferito che aveva anche un piccolo commercio di scarpe usate, legate alla bicicletta, che raccoglieva nelle case e portava in giro per eventuali acquirenti.
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Altri personaggi solieresi e località limitrofe, dediti al commercio ciclistico erano al Gaalo, specialista in granatine, e Ciapanuvvel, per prodotti di merceria.
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 Il più antico personaggio di cui abbiamo una foto: Cacàan
1975 ca – Bici del custode NON autorizzato – Piazza di Carpi – portico del vescovado. Si tratta di Alfredo, fióol dla Marìa Ruṡnèinta e fradèel d Aristide. Foto di Alcide Boni
1985 - nella foto di Acide Boni vediamo Barile (il primo ragazzo di Don Zeno Saltini), spazzino comunale, al lavoro in Piazza a Carpi.


 Sempre Barile negli anni ’20 insèmm a la Clementòuna cun la pippa in bòcca




Al cariulèin da ròobi vèeci o da strasèer
di solito trainato da una bicicletta.
In questa foto degli anni'70 nel giardino di S. Nicolò Silvio Cavazzuti, detto Ciocolatèin, che faceva il calzolaio in via Sbrillanci. Nei momenti liberi faceva anche il robivecchi.
Rivestiva anche l'importante incarico di “segretario” di Orcede Bellotti che faceva lo scrivano all'anagrafe del Comune in centro e anche alla Poste, quando erano nel cortile del castello … naturalmente.
L'inverno lo passava all'ospedale e Ciocolatèin gli portava la roba da cambiarsi e altre cose. Orcede, il cui vero nome era Rodolfo Po, aveva un modo tutto suo di presentarsi, faceva una piroetta e diceva circa così: "Eccomi sono Orcede Bellotti! A n suun né bèel, né brutt a sunn Blòot!” Era un vero personaggio e su di lui si conoscono decine di aneddoti e battute.
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L’attuale società è impostata sull’usa e getta, sullo spreco; si tende a dare poca importanza alle cose, al loro riuso o conservazione.
Un criterio di spreco che assolutamente non esisteva fino agli anni ’60, quelli precedenti al nostro cosiddetto boom economico, dove nulla veniva buttato via e quando una cosa era proprio inutilizzabile veniva presa da una strana e pittoresca categoria di persone: i robivèeci. Personaggi molto particolari che diventavo presto molto noti sia in città che in campagna.
Si raccoglieva di tutto: i metalli in primis, ma anche vetro, lana da materassi, capelli di donne in trecce tagliate, mobili vecchi, ecc …
Costoro giravano, come si vede in varie foto di questa ricerca, per le strade cun uun barusèin (carriolino) spesso trainato da una bicicletta; andavano sia a la séerca (alla cerca), che su precisa chiamata. Spesso segnalavano la loro presenza con urla o frasi con brevi e geniali cantilene, che li ponevano subito all’attenzione delle persone. Venivano anche incaricati di leggeri o piccoli trasporti, in alternativa ai birocciai che invece curavano i carichi pesanti.
Con l’avanzare del progresso qualcuno arrivò anche a motorizzarsi con idonei motocarri a pianale marca Alpino o successivamente Ape Piaggio. Molto spesso con cane senza guinzaglio, li seguiva docilmente e senza creare guai.
I robivèeci hanno avuto anche loro una specifica evoluzione e finale scomparsa; hanno girato per Carpi fino agli anni ’80, dedicandosi negli ultimi tempi alla raccolta dei numerosi cartoni che venivano lasciati di fianco ai cassonetti. Erano gli scatoloni di scarto dei tantissimi laboratori di maglieria, confezioni e terzisti in genere.
A un certo punto, però, quasi improvvisamente, con la dipartita fisica degli ultimi rappresenti di questa singolare categoria, queste figure sono completamente sparite.
In una società a misura umana, i robivèeci e i strasèer svolgevano tante piccole attività di raccolta e supporto, dalla quale traevano un sostentamento non proprio sostanzioso, ma che permetteva loro di vivere una povertà dignitosa e non di rado di consentire ai figli un’istruzione che poi avrebbe consentito loro un’esistenza diversa.
Il materiale ferroso e i metalli pregiati: rame, ottone, ecc … venivano rivenduti a peso alla Ditta Brani, che aveva la sede con un ampio spiazzo di deposito in Via Manzoni, in precedenza in via Andrea Costa.
Fine anni ’60 - Piccinini il Piazzetta con carrettino e cartoni

1974 Piccinini in via XX Settembre

Primo Saltini (Carpi) ricorda un detto carpigiani: “è più vèec’ Picciniini o la sò camiiṡa! è più vecchio Piccinini o la sua camicia che indossava da tempo immemorabile, rigorosamente senza lavarla.
Luisa Pelliciari (Carpi) ricorda che Piccinini era detto Piccio; rovistava tra i rifiuti del cassonetto del mercato e quando suo padre, Plicio, tornava dall'ufficio, gli chiedeva la Repubblica per leggere le quotazioni di Borsa. Gli interessava tutto quello che riguardava l'Economia.
Gianni Ferrari (Carpi) racconta: Piccinini al gh iiva 104 aan quàand l è mòort, al dgiiva agl'inferméeri della casa protetta ch al gh iiva di anticorpi cóome di caar armèe tedèssch.

Luigi Burani (Carpi): Ho conosciuto Piccinini ... mi portava il cartone in via Nuova levante; sotto il piano del suo carriolino c’era sempre una bottiglia di vino pronto per i momenti di sete.

Tiziano Pace Depietri (Carpi) ricorda che si andava a lavare nel canale in via Ugo da Carpi; si dice che dopo la sua morte siano stato trovati parecchi soldi.

Daniele Bussetti ha bene in mente che da piccoli eravamo i diretti competitor di Piccinini e dei suoi colleghi; la sua banda di ragazzi, che aveva la base nella vecchia falegnameria in fondo a via Bixio, si accaparrava i cartoni per prima.
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Io ricordo di averne incontrati parecchi di questi strani individui; la loro presenza era costante nelle nostre strade. Mi viene in mente ad esempio un omino, piccolo piccolo che si chiamava Ognibene e che era soprannominato Rangìin, cioè che si arrangiava, forse perché propenso a dedicarsi anche a raccolte non proprio autorizzate di beni altrui.
Lo scrittore Carlo Alberto Parmeggiani racconta che il termine rangìin o rangingìin passò per antonomasia nel linguaggio infantile e adolescenziale col detto "T ii pròopia un rangingìin colòmmbo! Te graàat e te scaap vìa cóome un clòmmb! (Gratti e scappi via come un colombo)”, inteso come epiteto ammollato a persona lesta nel minuto e amicale freghereccio, sempre in voga nel nostro Principato.
A margine ci piace ricordare che rangigìin è pure un termine dialettale che indica il piccolo esile ragnetto che sciabatta lungo le pareti della casa, indice peraltro di sanità dei muri, già che se altrimenti fosse, con l'umidità la ragnatela, che il rangigìin si perita di fare, sarebbe in proporzione pesante come un tendone del Circo Medrano.

C’era poi Radamèeṡ, forse il più noto; aveva il viso rotondo con un naso importante, pochi capelli e cappello di paglia (al paiarìss), di statura medio alta e con un po’ di pancia.
Arrivava col suo carriolino, gridando i suoi famosissimi i suoi gli annunci pubblicitario vocali, a grossolana rima baciata, urlati e cantilenati lungo le contrade per avvertire del suo imminente passaggio:
Dònni! Dònni! A gh è al straseèr!! Gh ii v di cavìi, di òos, dal fèer, dal pèesi da marchéeṡ, dal véeder? Mè a tòogh su tutt … dònniiiiii!!?? (Donne! Donne! C’è il robivecchi! Avete dei capelli - trecce tagliate -, delle ossa o del ferro, degli assorbenti usati, del vetro?? Io prendo su tutto .. donneeee !!)”.
Curioso notare come anche a Modena usassero una frase del tutto simile: “Straz, oss e cavì, beli dann s a gh n avì!
Radamèeṡ mandava un messaggio semplicemente stupendo ed efficace; così tanto che, nonostante il tempo passato, esso è ancora ben presente nella memoria di molti concittadini.
Chissà quanti di questi bizzarri personaggi hanno attraversato le strade di Carpi? Gente certamente non comune, che vissero esistenze di sofferenza e di fatica, ma anche di grande libertà, senza padroni, senza orari, gioendo alla fine della giornata di una semplice bottiglia di vino in qualche osteria o bar.

Ettore Pinazzi (Carpi) ricorda che il calzolaio in centro Biondi prendeva in giro Radamèeṡ e gli diceva: "T ìì pròopria un tibidàabi!". Parola inconsueta anche per il dialetto che significava... ciocapiàat.
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In queste foto degli anni ’70 di Alcide Boni, vediamo la biici dal vendidóor èd rumlèini; si tratta Ercolino Palmieri detto appunto Rumlèina o Rommel con riferimento al noto generale tedesco. In piazza, al cinema, allo stadio al vindiiva i sóo scartusèin (vendeva i suoi cartoccini) fatti a cono con carta di giornale riempiti con i semi di zucca salati.
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1960 - Ecco la foto del deposito di Mario Galli detto Mariòun - robivecchi detto anche Baabo Bèelo e Nèeṡ (e)schiss, o anche solo Schiss, per lo strano naso che appariva schiacciato, monco, quasi che glielo avessero mangiato.

Al gh iiva la sua aziendina, come si vede nella foto, in via Catellani, angolo viale dei Cipressi, èd frount a l ingrèes secondaari dal scóoli e dal curtìil di frèe èd San Nicolò – di fronte all’ingresso secondario delle scuole medio A. Pio, dove adesso lì è stata costruita una casa moderna.
Precedentemente a questa collocazione, svolgeva la sua attività in via Nova, in un locale confinante con l’osteria di Cimbro Saetti.
L andèeva in giir cun al sò cariulòun, al carghèeva de tutt! Era sempre in giro col suo carriolone a pedali a trasportare cose di ogni genere.
Al pariiva uno scheletro con su di straas, sembrava uno scheletro con addosso degli stracci; era macilento, ma aveva due braccia cun la dòppia nervaduura; nella sua vita non deve aver goduto gran ché .
Mi ricordo che nel 1961 venne a casa nostra in via Galvani 18 per caricare la cucina economica, ormai inutile dopo la messa in opera del termosifone; mi impressionò sia per la strana faccia e l’esile corporatura, ma anche per la forza delle sue braccia. Da solo caricò la non leggera stufa sul carriolone; ho crudelmente davanti agli occhi, come fosse adesso, la sua espressione sbuffante di dolore, il suo corpo come scricchiolare, gli occhi strabuzzare, quasi a voler uscire dalle orbite … mentre con grande sforzo effettuava questa operazione.
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Il mestiere di stracciaio anche nella ricca Carpi è durato parecchio; con la sua bici e il suo carriolino prendeva su di tutto: stracci, ossa, capelli e in cambio poteva dare sapone, soda, pettini e aghi, occorrenti per le massaie.
Le giovani per racimolare un po’ di soldi tagliavano i lunghi capelli per venderli a quell’uomo che le consolava, dicendo loro: “Dàai che in pòoch tèimp i tóornen a crèsser! (Coraggio che i poco tempo tornano a ricrescere!)”
Trecce tagliate

Gianni Manfredini (Carpi) racconta che Mario Galli, durante la visita del Duce a Carpi nell’estate del 1941, fu mandato a controllare la linea ferroviaria per evitare eventuali sabotaggi. Durante tale servizio, essendo posizionato vicino ad una vigna per tutto il giorno, mangiò molta uva; al rientro sulla corriera era seduto sopra … sull'imperiale. Ma all'improvviso lo colsero grandi dolori di pancia: gli scappava e fu costretto a farla dove si trovava ... il tutto cominciò a colare dall'alto verso il basso, sopra i finestrini della corriera.


Anni ’70 questa donnina spinge a fatica il suo carriolino alla fine del mercato del giovedì in piazza a Carpi; abitava in Cantaraana e aveva una sorella che la aiutava; per Santa Lucia mettevano sempre il loro banchetto mobile con tanti giochi con sotto il portico di Corso Fanti.

 
1975 ca Carpi - Al cariulèin èd Miimo. Foto di Alcide Boni
Il mezzo era adatto al trasporto di cose vecchie e carichi vari
Anni '70 N H Fermo Grillenzoni detto Mimo o anche Sigòlla; era aiutante del prete del cimitero di Carpi (sullo sfondo delle immagini), prima don Sala e poi don Berni; era solito inveire con "Ch a t vèggna ... !! " quando veniva preso in giro gridandogli ... Sigòlla, con riferimento a un arlóoi buugh (un orologio farlocco) che gli era stato rifilato in un lontano passato.
Anni ’70 - Mimo assistente di don Sala
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Ecco come lo ricorda Voce di Carpi
con il contributo di Franco Bizzoccoli
VOCE del 30 giugno 2011
L'addio a "Mimo" ultimo personaggio della Carpi dialettale - Grillenzoni aveva 84 anni
Carpi - Si sono svolte sabato 25 le esequie di Fermo Grillenzoni, nobiluomo discendente di uno dei casati più antichi della città, scomparso a 84 anni. Alla famiglia Grillenzoni, citata nel catasto urbano del 1472 e i cui esponenti hanno ricoperto anche cariche pubbliche, è intitolato un settore dell'Archivio storico comunale dove sono conservati documenti relativi all'amministrazione dei beni, carteggi e stampe dal 1311 alla seconda metà dell'Ottocento. Lui, Fermo Grillenzoni, era figlio di Luigi, titolare di una bottega da fabbro dietro la Cattedrale, dove sorge ora la Bottiglieria e nella quale lavorava con gli altri due figli, Pietro e Romano, tutti raccolti in un soprannome familiare - i Giubèin - di cui si ignorano le origini.
Il solo che, per le sue condizioni di salute, non lavorò mai nella bottega da fabbro fu proprio Fermo. La prossimità della bottega paterna ne fece un frequentatore assiduo del Duomo e un beniamino del vescovo Virgilio Federico Dalla Zuanna, prima di diventare quella figura di chierichetto portatore di croce, immancabile complemento alle esequie affidate a don Dante Sala. Proprio in quella veste la sua immagine resta scolpita nel ricordo di generazioni di Carpigiani, consapevoli che con la scomparsa di Fermo Grillenzoni, per tutti Mimo, se ne va l'ultimo dei personaggi tipici espressi dalla città.
***
"È morto il mio amico Mimo" ricorda Franco Bizzoccoli non senza un velo di commozione nella voce e nello sguardo, mentre evoca il compagno degli anni dell'adolescenza e l'abituale frequentatore di casa sua, dove per anni, alle 7 del mattino, si è recato a informarsi su che cosa ci fosse per pranzo, annunciando la propria preferenza per cappelletti in brodo, pollo e salsina di contorno, oltre al bensòun e un bicéer èd vèin. Gli anni del ricordo sono quelli precedenti lo scoppio della guerra, quando l'estate radunava davanti al Duomo torme di ragazzi di quello che non era ancora il centro storico, perché non c'era la periferia e Carpi era tutta lì. A suo modo, Mimo l'aveva ben chiaro questo tratto urbanistico, se è vero che ancora anni dopo, davanti ai componenti del gruppo di artisti, intellettuali e mormoratori che tutti chiamavano "Cremlino", li salutava uno a uno con un deferente "Adìo, sgnóor Bisi. Adìo sgnóor Plicio", finché non arrivava a quello cui negava il saluto "... perché te t ii dla Cagnóola, te nn ii mìa èd Chèerp!" (perché sei della Cagnola - via Sergio Manicardi, non sei di Carpi!) con riferimento alla via Sergio Manicardi, unica contrada fuori del perimetro un tempo occupato dalle mura cittadine.
Tornando a quelle estati dell'anteguerra, dal Duomo i ragazzi si avviavano verso porta Barriera e poi alla ferrovia e, imboccato lo stradello Corbolani, raggiungevano la Lama, il lido della Carpi del tempo e di tanti anni successivi. Lungo quell'itinerario, in corso Cabassi li spaventava l'abbaiare di Turco, il cane della famiglia Cortesi che solo con Mimo si ammansiva.
Sì, perché Mimo aveva addosso quella diversità psichica che gli conferiva una strana capacità di comunicare, pur nelle sue difficoltà espressive. Era la stessa caratteristica che lo faceva ben volere dalla cerchia degli amici, ferocemente determinati a proteggerlo da tutti gli intrusi che di quel ragazzo un po' strano avessero voluto farsi gioco. Solo a loro, insomma, e a nessun altro, era permesso combinargli qualche scherzo, perché sapevano anche volergli bene.
Quello, fra gli scherzi, che ha fissato per sempre il personaggio di Mimo, è la storia della cipolla.
Accadde la volta che il padre gli regalò l'oggetto dei suoi desideri, atteso per anni: un orologio da polso. Prese a mostrarlo agli amici con orgoglio, fino a che uno di loro, che i ricordi di Bizzoccoli identificano in Nereo Gibertoni detto Bagiòot, gli buttò lì un beffardo "... m l è ’na sigòlla" (ma è una cipolla, appunto, sinonimo di orologio di poco valore).
Fu come se gli avessero demolito un sogno. Andò su tutte le furie, prorompendo in urla e invettive irriferibili e per anni diventerà un gioco collettivo e un po' crudele gridargli dietro "Miimo, sigòlla!", sapendo che quella sola parola bastava a mandarlo in escandescenze. Quando poi lo si vedeva aprire con don Sala i cortei funebri in abito da chierichetto e con la croce, il gioco acquistava connotati ancora più perfidi, perché sussurrargli Sigòlla in quei momenti significava infrangere in un colpo solo la composta solennità delle esequie e provocare una inarrestabile sequela di imprecazioni che lambivano anche il Cielo. Per non dire delle reazioni fisiche, come quella volta che, per punire il malevolo sussurratore della parola maledetta, lo inseguì con il crocefisso brandito come un randello.
Con Don Sala infatti faceva liti furibonde, anche durante i funerali e mentre faceva finta di dire le preghiere giurava degli accidenti al prete.
Fino agli ultimi anni ha mantenuto la caratteristica di prorompere all'improvviso in uno sbraitare quasi tenorile che durava per interi tratti di via Berengario o corso Fanti mentre vi transitava in bicicletta o a piedi. Vi si avvertiva qualche cosa di diverso dalla semplice reazione a una provocazione stupida: era come l'urlo disperato e inoffensivo di un uomo buono, diverso e indifeso che ora non c'è più.
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Vanni al spasèin tutte le mattine presto tiene pulito con alto senso del dovere e cura amorevole Corso Alberto Pio e dintorni. Parla spesso ad alta voce … da solo; ma parla a se stesso, come mi ha gentilmente comunicato, rispondendo a una mia domanda diretta (Mò cun chi ciacàar èt, Vanni?)
Forse dovremmo farlo più spesso anche noi …

Descrizione: C:\2.jpg



Prima stesura 22-04-2012                   V28 del 20-06-2014

 La Mariina Trintèina

di Mauro D’Orazi

gentile revisione di Giliola Pivetti e Graziano Malagoli


Eccola … la famosa MARINA in una rara foto del 1963 di Alcide Palmati, all’inizio di via De Amicis a Carpi. La Marina rientrava a casa spingendo il suo carrettino di mercanzia varia verso Cuntrèeda Teranóova, o L’Uultma (Via Giordano Bruno) indù la stèeva d ca

La Mariina Trintèina (Trentini di cognome) rappresenta un ricordo indelebile nella mia memoria; la vedo ancora spingere il suo carro sotto il portico di Corso Fanti, inveendo pesantemente contro chi la prendeva in giro. Vale la pena di ricordala con la testimonianza di alcuni carpigiani, proprio perché ha rappresentato quasi un’icona della nostra città. E come spesso ipocritamente accade per questi personaggi scomodi, che si detestavano, ridicolizzavano, sbeffeggiavano, quando erano in vita, si arriva poi a ricordarli quasi con affetto tanti anni dopo la loro morte. Un processo mentale auto assolvente, più che altro rivolto a una nostalgica rievocazione di se stessi e non al “disgraziato” di turno, che apparteneva a una categoria dalla quale si era ben contenti di essere lontani.
In noi ragazzini degli anni ’50 e ’60, la sua inquietante figura è rimasta fortemente impressa nei nostri lontani ricordi: alta, secca, sempre vestita di nero con il fazzoletto dello stesso colore in testa.
Ci faceva molta paura a vederla e le stavamo a debita distanza; non di rado prendeva delle balle orbe e tirava delle sequele ben articolate di briscole, soprattutto contro i monelli cattivi che, con tutta la pungente crudeltà tipica nella loro natura, le facevano degli scherzi feroci o la offendevano. Da giovani spesso si è inutilmente crudeli. Una volta alcuni ragazzi le tolsero il fermo di una ruota del carretto, con l’esito disastroso che possiamo ben immaginare. Al barusèin a cavàal a su, tutti al malgarèini pèr tèera e di siigh e dal madònni ch a s-ciflèeva l’aaria.
Marina abitava in contrada Terranova (L’Uultma – Via Giordano Bruno), altro luogo di profonda carpigianità; stava subito dopo la bottega da lattoniere di Ardiglio (Cavasùu) Cavazzuti, fratello di Ersiglio e Doviglio. L’artigiano era famoso per la messa in opera di un fugòun da bugadèerain lèggn. La saracinesca di questa antica attività si può ancora vedere tale quale, chiusa ormai da decenni. Fra qualche anno, con la prima ristrutturazione scomparirà di sicuro.

Pare fosse anche attirata dal fascino di un allora noto enologo carpigiano, che devotamente ogni settimana andava riverire e nel contempo a farsi omaggiare di qualche bicchiere. “Diooo… Ciirooo, mò… s t ii bèel!” era solito dirgli.
Teneva banco il piazza al giovedì e alla domenica (solo recentemente si è passati al sabato). La sua postazione era di fronte al quella del fabbro Bizzoccoli che si collocava sotto il torrione degli spagnoli, proprio ai piedi della lapide per Presa di Roma – XX settembre 1870.

Ho cercato fra la gente ricordi personali sulla Marina, ottenendo tante tessere per un mosaico un po’ frammentato, che dà però un profilo verosimile, anche se approssimativo e superficiale del personaggio. Sono convinto che l’interessata non si sarebbe mai immaginata una sua rievocazione.

Ecco alcune testimonianze che ho raccolto
Primo Saltini ricorda: “Era quasi un divertimento per noi ragazzini di allora, passargli vicino e sussurrarle: Imberiagòosa! Un’ingiuria che immediatamente scatena una litania furente di madonne, cancheri ed epiteti vari. Tutto un vocabolario gergale interessante che poi si poteva ripetere insieme agli amici, sghignazzando. In più la seguivamo, quando andava verso i giardini a fare pipì (all’antica maniera delle donne padane); la faceva stando in piedi e dandosi una asciugatina con il vestito! Eravamo proprio dei delinquenti.”
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Alfredo Copelli abitava in via Marco Meloni e nel retro della casa c’era un cortile con una tettoia. Spesso la Marina si fermava lì a dormire per scuasèer la baala (per smaltire le dosi alcoliche), così come era… cun al barusèin abbandonato con tutte le povere merci.
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Ersilio Spezzani rammenta che le piaceva anche bere un buon quartino di vino, ma forse anche di più. “Tante volte chiedeva a noi ragazzi se le andavamo a prendere il vino, perché a lei non lo davano all’osteria vicino a San Rocco. Puvrètta !! La fèeva cumpasiòun, già da ragàas … , mò aanch adèesa, dòop taant aan, a pinsèer cum la viviiva, la t fa pinsèer che la solituddin l’è ’na graan tristèssa.
La pariiva catiiva, mò l’éera sóol ’na pòovra dònna, sèinsa nisùun intóorna ch la iutìss.
I éeren mumèint dificcil aanch alóora, sperèmm ch i n tóornen più, aanch se a m sèmmbra che incóo a nn andèmma pèr gniinta bèin.
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Anche ad Annamaria Loschi la gh fèeva ’na faata paùura … Aanch perché a n s capiiva gniinta d quèll ch la dgiiva. Essere vecchi e poveri era ed è una vera disgrazia.
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Anna Bulgarelli ha bene in mente la Mariina Trintèina, abitando nella sua stessa contrada: “Io sono nata e cresciuta in via Giordano Bruno e me la ricordo bene. A noi bambine incuteva un certo timore: così alta e vestita di nero, spesso alterata dal vino. Ma quando era lucida e la incontravo uscendo di casa, mi riempiva di complimenti e mi diceva con grande dolcezza “Indù vèe t pricipèssa?”.
Una volta la nipote la stava aspettando da ore in via Giordano Bruno, più o meno preoccupata. A un certo punto la vide arrivare senza il carrettino, dimenticato chissà dove, la girèeva d galòun penosamente ondeggiando con un piede sul marciapiede e uno sulla strada. “Bè mò … Cuṡ ée la? ’Na baala nóova?” commentò amareggiata la nipote, commentando lo strano incedere della zia ubriaca.
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Anna Maria Ori: “Ricordo vagamente la Mariina Trintèina, perché non mi ha mai né spaventato, né intenerito, né (lo ammetto) interessato, ma era una specie di arredo urbano di cui semplicemente prendevo atto. Mi dispiace di non averla osservata con più attenzione, in pratica di non averla vista, anche se entrava nel mio raggio visivo.”
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Gilda Lugli: “Mia madre, Fernanda Bertolazzi, mi raccontava che la Marina era di buona famiglia, ma che a un certo punto suo fratello aveva preso le distanze da lei.
Quando avevamo la ditta di legnami in via Carducci, la Marina entrava dal retro in via N. Biondo e cercava di venderci la sua mercanzia. Mi faceva paura, ma anche tanta pena …”
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Enrico Rancan, al fióol dal pròofugh: “Ce l’ho in mente, ma ero veramente piccolo. Suonava a casa mia, in viale Nicolò Biondo, per offrire la sua mercanzia e mia madre, per mandarla via in fretta, le comprava sempre qualcosa. A me piacevano le carrube, che evidentemente lei vendeva, e che ho conosciuto proprio per questo.
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Margherita Panzani: “Io me la ricordo bene, abitavo in Corso Fanti e lei passava, vestita sempre con un grembiulone nero e un fazzoletto in testa, col suo carretto pieno di scope, secchi, spazzole e tante altre cose. Molte volte si fermava, chiamava mia nonna e chiedeva il permesso per andare al gabinetto che era in cortile, gabinetto che era poi un buco, con sopra un coperchio. Altre volte, semplicemente, in piedi apriva le gambe e faceva la pipi li dove si trovava. Non mi faceva paura e la nonna mi diceva che non era cattiva.”
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Mauro Marri ha bene in mente questa strana donna; sua nonna, infatti, comprava i giochi da lei per i nipoti, quando erano buoni, il che succedeva molto raramente. La Marina era… avanti: faceva già il porta a porta tanti anni fa.
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Giorgio Goldoni: la Marina mi chiamava duturèin (dottorino), perché fin da cicch a purtèeva i ucialèin (perché fin da bambino portavo gli occhialini).
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Alfiero Malavasi: Mò al “bèel” dla Mariina l éera che, anovr la pisèeva, la s mitiiva sóovra ‘na buchètta (caditoia) in strèeda, l’avriiva al gaambi e… vìa!
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Giorgio Masini ricorda che la Marina la fèeva al giir dla Via Crucis pèr agl’usterìi èd Chèerp (faceva il giro della osterie di Carpi con soste premiate). Ad esempio non era difficile vedere il suo carrettino parcheggiato davanti all’osteria dla Cagnóola (all’inizio di via Manicardi). Si era a metà degli anni ’50 e lui e altri bambini erano soliti giocare nel vicino Parco; quando la vedevano arrivare per il “rifornimento”, spesso si lanciavano contro di lei per prenderla in giro e le urlavano crudelmente:
Imberiagòosa! Imberiagòosa!
Lei si arrabbiava molto, estraeva ’na malgarèina dal suo carretto e, sacramentando, la brandiva e correva dietro ai monellacci: ”Andèe vìa! Andèe vìa! Schifóoṡ! Ch a v vèggna milla caancher… !!!


Aveva però con sé un cagnetto bastardino e tignoso; la poveretta lo aveva aizzato contro i bambini, tant’è che il botolo afferrò il povero Giorgio a un polpaccio e ci volle un intervento deciso di un passante per fargli mollare la dolorosa e “accanita” presa.
Il nostro, urlante e piangente, fu subito portato all’ospedale per l’antirabbica e da allora ha sempre visto i cani con un certo timore.

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In questo quadro del 1965, il pittore carpigiano Giorgio Pedrielli
interpreta efficacemente il ritratto de la Mariina Trintèina
(proprietà di Mario Brani – Carpi)
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Ecco un’incisiva immagine che ci lascia Luciana Nora.

La Mariina

Se la Filimede fu un personaggio caratterizzante di via Cantarana, l’esprimersi della quale aveva come confine le contrade attigue, ci fu anche un’altra figura femminile particolarissima, completamente fuori dagli schemi, conosciuta in tutta Carpi per via del fatto che svolgeva un’attività ambulante: la Mariina Trintèina ch la stèeva in cuntrèeda Teranóova.
Aveva un carro a due stanghe che tirava lei stessa, con il quale portava le sue mercanzie per tutte le contrade carpigiane. Una struttura corporea segaligna, vestita di un nero stinto che aveva virato al grigio: un fazzolettone annodato al collo, i cui lembi estremi venivano usati per asciugare il sudore della fronte e del petto, sottana lunga e larga quasi fino alla caviglie che, estate e inverno, spuntavano nude da larghe, nere scarpe maschili.
Dalle maniche arrotolate fino ai gomiti, uscivano le braccia secche e nervose. Le mani erano lunghe e nodose le mani su cui, dopo una sosta, come erano soliti fare gli uomini, sputava, per poi sfregarsele, prima di riagguantare le stanghe del suo carro e riprendere il suo giro.
I capelli grigi, dritti dal taglio pari appena sotto le orecchie, qualche volta tenuti indietro da un cerchietto metallico, incorniciavano un volto austero, rugoso, dai tratti sottili. Un’ambulante strana che passava senza segnalarsi e bandire la propria merce. Aveva sul carro dal pianale piatto dal malgarèini e dal ramaasi, ’na quèelch traapla pèr sòrregh, un po’ di pentolame e varie altre cose. Na spéecie d Righètt èd Limmid ambulante… in miniatura.
Il tempo aveva tinto di grigio anche il carro. Sicuramente girò per Carpi fino alla prima metà degli anni ’60. Se la ripenso oggi, anche il mio ricordo si spoglia dei colori e vira al grigio come in un film in bianco e nero e in parte perde la voce. Incontrarla era un fatto pressoché quotidiano. Almeno a me, ma sono certa di non essere stata la sola tra le mie coetanee, la sua comparsa incuteva qualche timore, specialmente sollecitava un interrogativo: Ma chi era la Marina?
La fantasia infantile poteva associarla a una qualche strega o, più improbabile, a una fata. Avevo capito dove aveva una posta per il suo carro in una delle mie visite alla zia Ernesta, che abitava in Cantarana. Entrando in quella contrada da Santa Chiara, sulla destra, poco più in là del palazzo sede del cappellificio Losi, lì doveva far sostare il carro la Marina. Era pomeriggio inoltrato e uscendo da quella corte affollata da una quantità di famiglie, ero rimasta folgorata sull’ingresso, perché, in quella strada stretta, mi ero ritrovata a un passo dalla Marina che stava anovrando il suo biroccino. Mi ero fermata ad osservarla, forse cercando qualche risposta.
Di lì a qualche minuto, ebbi a vederla sollevare un poco la sottana, divaricare ampiamente le gambe e, come si usava dire a quel tempo, spènnder aaqua in mèeṡ a la strèeda. Mentre realizzavo mentalmente che doveva essere senza mutande, fui scrollata da un rauco e perentorio: Vèe, tè, ragasóola, ‘sa gh èe t da guardèer? N èe t màai visst spènnder aaqua?” No! Non avevo mai visto farlo in quel modo. Ero poi filata via come un fuso.
Col tempo però i timori erano arrivati a dissolversi, fino ad avvertire un certo fascino per quella figura femminile particolarissima, la cui filosofia doveva ritrovarsi pienamente nel dantesco “non ti curar di loro, guarda e passa”. Filosofia praticata fino a quando, come una sorta di maledizione, uscì la canzone intitolata a Marina, che divenne, taant pèr ṡuntèer al raam a la mèsscla, una sorta di perfido dileggio che i ragazzi e anche qualche stupido adulto, usavano cantarle per farla uscire dai gangheri. Marina usciva allora dal suo silenzio, prendeva una scopa dal suo carro e, brandendola, imprecava: Dio chè! Dio là! Viin ché vigliàach. S a t ciàap a t la ṡbrèegh ind la schiina!
Non so quando e come Marina sia uscita di scena, ma spesso mi è ritornata alla mente, particolarmente quando, tra le mie letture anni Settanta, ho incontrato Le streghe del Nagual di Carlos Castaneda. Mi piace pensare che, chissà, in quel suo continuo e faticoso peregrinare, più che dettato dal bisogno di un’esistenza grama, Marina cercasse e avesse trovato l’essenza dell’essere.
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Francesco Bezzecchi, detto Il Mimì, ricorda che la Marina comprava le scope (al malgarèini) dal suo principale Francesco Pacchioni, il mestichero (vernici e colori) di fianco al cinema Fanti, in via Mazzini, che gestì per molti anni una rivendita di colori e affini. Allo speciale prezzo di costo che le veniva praticato, la Marina applicava poi il suo guadagno di venditrice ambulante.
La Marina spesso andava all’osteria di Cimbro in via Matteotti sotto il portico, e dopo due o tre bicchieri, apriva le gambe e faceva la pipí sotto il tavolo. Arrivava Pippo (Saetti, figlio di Cimbro, in seguito noto e valente ingegnere e arredatore) che, con la segatura e la scopa, puliva senza fiatare.
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La poetessa Luciana Tosi ricorda di averla vista diverse volte, ma a quei tempi lavorava duramente, faceva almeno 10 ore al giorno e a n gh éera mìa taant tèimp de stèer a guardèer chi pasèeva
Si ricorda una la donna alta, un po’ curva, con un abito lungo e scuur, al carètt cun dal staanghi acsè lunnghi. Aveva una figlia di nome Norma.

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Infine ‘na poVeṡìa degli anni ’60 di Micin (Cinzio Micheli) dedicata alla Marina, la grafia è quella dell’autore.

LA DONA ED TERANOVA

Col prim sol, po’ fin a sira,
per le vie della città,
la Marina, gira, gira,
col carretto se ne và.

Và gridando: sùca fina!
pir e persègh, figh e mlòun,
cun nà vòs ardònda e pìna
da desdèr tutt al riòun.

Ma un brutt dè, s’oscura al mond,
vengon giorni tristi, amari,
dove tutt un po’ s’counfond
se sbarchèr s’vol al lunàri.

Fu così che quel carretto,
invece ed sùca o portogall,
di portare fù costretto
quel ch’tuliva su “NIBAL”.

Passa un giorno, passa l’altro…
poi il boom viene della lana
dove Carpi, per lo scaltro,
l’è dvintéda nà cucagna.

Lei di nuovo butta all’aria
tutt, baraca e buratein,
e di merce, la più varia,
l’impiniss al barusèin.

Marletèin, candeli usedi,
automatich, pan d’savòun,
e (chisà dove scuvèdi)
scatli d’luster d’Furmigòun.

Per stà dòna ed Teranova, (Terranova = Via Giordano Bruno o l’Uultma)
al baròs l’è seimpr’ impgné,
le un po’ tutt la mett in ovra
seinsa bsér la qualité.
Anche Ciccio Guerrino Siligardi ha dedicato alla Marina un ricordo in versi, illustrato da un disegno del pittore carpigiano Igino Pagliani, detto Pain (grafia dell’autore)
Disegno del pittore carpigiano Igino Pagliani, detto Pain.

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Una parentesi di concordanze mantovane: Maria Onta.

Durante le mie perenni ricerche di nuovo materiale per le miei scritti sul dialetto e sulla cultura locale, mi capita di trovare cose interessanti e inaspettate, non proprio carpigiane, ma con chiare matrici di identità del tutto simili e comuni.
In questo caso ho trovato traccia di una figura femminile nella vicina Mantova (città “lombarda”, così come quanto può essere considerato lombardo il parmigiano reggiano).
Si tratta di tale Maria Onta che ha incredibilmente tanti tratti in comune con la nostra Marina carpigiana.

Maria Onta di Mantova - Caricatura di Imerio Vischi

Maria Onta
di Enrica Canneti - Mantova

"Maria onta" coi carton,
lòbia sbusa e stivalon,
condanada dal destin
a cüciar al caretìn
cargà 'd carta e 'd roba strasa
ch'la catava sü par Piasa.

La pasava le sò not
in Miarè, in on casòt,
fat ad lata, là d' par lè
con i gat ad cò di pè.

La faseva conpasion,
ma è sta dit che in dal paion,
con carton e carità,
al "magòt " gh'era logà!

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Chissà quanti di questi bizzarri personaggi hanno attraversato le strade di Carpi! Gente certamente non comune, che vissero esistenze di sofferenza e di fatica, ma anche di grande libertà, senza padroni, senza orari, gioendo alla fine della giornata di una semplice bottiglia di vino in qualche osteria o bar e di un semplice giaciglio su cui dormire.

1910 ca Borgoforte - via Matteotti, allora via XX Settmbre