giovedì 9 ottobre 2014

La fine del gioco delle palline - Parco di Carpi - Mauro D'Orazi - dialetto carpigiano



Stesura iniziale 6-9-2014                    v04 del 08-09-2014

La fine del gioco delle palline

Verso la metà degli anni ’70 lentamente, ma inesorabilmente il gioco delle palline cominciò a scomparire; negli anni ’80 cessò definitivamente. Difficile stabilire una data; non ci fu un’ordinanza del Sindaco o una spietata legge nazionale: altri divertimenti e passioni più moderne si stavano imponendo.
Se poi aggiungiamo che qualche maestra e genitore ansiogeni temevano l’ingestione delle sferette da parte di bimbi voraci dallo sfintere troppo stretto, avremo un quadro del crudele destino dal nòostri vèedri, dopo oltre mezzo secolo di onoratissima attività.

Mauro Vignoli (Carpi) ha partecipato all’ultima fase e ricorda che nel 1980 circa si giocava ancora al Parco nei pressi dell'ospedale dentro alla vasca vuota dei pesci (che ora non c'è più), quella fatta a esse.
Per le forniture non c’era più il banchino ambulante, ma i distributori di palline a moneta proprio al bar del Parco (oggi Ristorante Clorofilla), inoltre c'erano anche delle macchinette che, con grande abilità, si doveva fare scorrere la biglia in un percorso insidioso di fori, senza che fosse inghiottita dagli stessi. Se si arrivava al traguardo, si vinceva la biglia. La più ambita era la cosiddetta "pancetta", una pallina di ceramica con striature rosastre

Già nei capitoli precedenti ho accennato al tramonto dal bucìini, ma per entrare ancor meglio in questa fase e spiegare questo cambio d’epoca e costumi, riporto un capitoletto del libro “Non c’è più vino” di Gianfranco Imbeni e Florio Magnanini.
Il libro è del 1991 e la chiusura dell’epoca delle palline viene fatta risalire a 17 anni prima, quindi nel 1974. Questa data, se non la cessazione, indica almeno l’inizio dell’inevitabile declino. Questa data potrebbe, a posteri, segnare uno spartiacque fra due evi storici. Lo noto con ironia, ma… fino a certo punto.
Ecco il brano di Imbeni e Magnanini.

La banda della piazzetta

Diciassette anni (1974 n.d.r.) orsono i nostri bambini giocavano ancora a palline. Erano sferette di vetro a venature multicolori (non più, ‘ovviamente, quelle antiche di argilla dipinta) che venivano messe in movimento con il “cricco”, una propulsione determinata dallo scatto dell’unghia del pollice nel contatto con la falange superiore.
del dito medio. Esattamente da diciassette anni a questa parte, quelle “vetre” sono sparite dalla ludologia infantile. Le hanno sostituite mille altri interessi indotti da genitori, maestre, doposcuolisti, cappellani di parrocchia e dal glorioso “Corriere dei Piccoli” che in edicola va esaurito nel giro di poche ore e che pare essere diventato il portavoce ufficiale delle industrie di giocattoli nonché dei “cartoni” giapponesi (realizzati vergognosamente al computer) diffusi dalle reti televisive berlusconiane. Un convegno, tenutosi nella nostra città, ha “evidenziato” l’infelicità dei nostri figlioli, definendoli “belle addormentate” in balia di famiglie superattive, super tecnologizzate e super programmate.
Gli adolescenti sono sovraccarichi di responsabilità, quali noi nemmeno immaginavamo, alla loro età, durante gli incubi più atroci. Esercitano quasi tutti un doppio lavoro. Seguono i corsi della scuola dell’obbligo e - in nove casi su dieci - frequentano corsi musicali, palestre, scuole di danza, di canto, di scacchi, di fotografia.
Le bimbe pettinano le bambolette “Barbie” con l’occhio al proprio futuro di stiliste. I maschietti sfrecciano sugli skate-board oppure montano pazientemente modellini di Ferrari Testarossa radiocomandati predisponendosi severamente a futuri immancabili compiti manageriali. A nove anni conoscono perfettamente le proprie caratteristiche psico-morfologiche che li indirizzeranno a uno sport piuttosto che a un altro. Sanno tutto sulle quotazioni del mercato dei giocattoli; comprano e vendono (e non per finta) con l’abilità consumata dei concittadini adulti. In classe (lo rivela un insegnante della media Alberto Pio) non si alzano dal banco nemmeno per il quarto d’ora di ricreazione: se ne stanno seduti, sbocconcellando una merendina e sfogliando attentamente dispense di divulgazione scientifica. Insomma, un disastro.
Ma c’è, per fortuna, la Banda della Piazzetta. E la conoscono bene gli abitanti e i bottegai degli edifici che le fanno corona. Non è una banda alla maniera tradizionale, beninteso. Non è omogenea, compatta e gerarchizzata, non si identifica con il rione né ha la pretesa di rappresentarlo. E non si contrappone a gruppi di altri quartieri. Non scatena battaglie, non conosce riti di iniziazione, non elabora e persegue piani cavallereschi di conquista territoriale. È, anzi, una banda aperta e flessibile, mobile ed eterogenea. Ma c’è e si manifesta, pur osservando rispettosamente le regole e le norme di stampo elvetico che presiedono alla convivenza co-munitaria. Da qualche tempo ha anche le caratteristiche della banda interrazziale e sovrannazionale. Gli indigeni carpensi si mescolano al negretto del Ghana, all’irrequieto e chiassoso bambino di Santo Domingo, alla francesina figlia di ex emigranti, alla venezuelana ospite della Casa della Divina Provvidenza, al giapponesino della palestra di judo. Persino i cinque bimbi cinesi del ristorante La Grande Muraglia, che stanno sempre insieme, si uniscono talvolta agli altri.
Il gioco della palla, fortunatamente, non è proibito in Piazzetta, e la polizia municipale perdona persino, a carnevale, qualche lancio di mortaretto. I richiami ad alta voce, gli strilli, gli scoppi di risa improvvisi, non sembrano turbare più di tanto il silenzio dei condominii all’intorno, almeno fino al rientro degli inquilini dai lunghi turni di lavoro. Addirittura è possibile assistere, sotto il portico del lato orientale, nell’alto palazzo che fu un tempo l’albergo Venezia, al rito dei “tiri in porta”. E se il pallone va a sfiorare talvolta una Bmw Turbo parcheggiata accanto, il rimprovero si esprime nel semplice scuotimento di testa del pensionato in transito.

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