Stesura iniziale
24-07-2015
V05 del 31-07-2014
La movida carpigiana èd ‘na vòolta
di Mauro D’OraSi
Quando all’inizio del 1500 il Principe Alberto III Pio
decise di fare dello spazio retrostante al
ṡóogh dal balòun (oggi Piazzale Astolfo) una grande piazza, ornata da un
lungo portico, certo non si immaginava che dopo 5 secoli avrebbe creato un
problema di vivibilità di questo spazio immenso e praticamente ingestibile
nella sua totalità.
Un problema molto serio che le recenti Amministrazioni
comunali hanno risolto bypassandolo astutamente e concentrandosi su quello
splendido gioiellino che è diventata Piazza Garibaldi, alias Piazza delle Erbe,
o più semplicemente la Piasètta.
Piazza dei Martiri, già Piazza Vittorio Emanuele, sembra
essere diventata un peso insostenibile, dove l’horror vacui trionfa fra cronici nulla facenti, sparuti pensionati,
stanlòun (sottanoni) e assurdi velami
femminei di culture che ci sono lontanissime. Qui Aristotele incontrerebbe il
fallimento della sua nota teoria affermante che "la natura rifugge il
vuoto" (natura abhorret a vacuo).
Eppure non era stato così fino a pochi decenni fa; mi è
gradito e facile ricordare i supremi camerieri Gianni, Valerio e Alcide (a cui
si aggiungeva un giovanissimo Donato, poi Bar Tazza d’Oro) che, in giacca
cremino chiaro chiaro, farfallino e pantalone scuro, prestavano un servizio
inappuntabile al Bar Roma. Due ampie distese di sedie e tavolini erano a
disposizione di un vasto pubblico, che nelle serate estive gremiva questo
ambito ritrovo. Dal banco della gelateria, la Nilve (brava, bella e sfortunata
ragazzi) preparava dei gelati eccezionali e una panna montata che teneva in
piedi il cucchiaino.
“Alcide per favore ci porta due spagnole (coppa di gelato
di crema, nocciola, panna, amarene Fabbri e un biscottone piantato in cima).
Grazie!”
Dopo pochi minuti, serviti come al Danieli di Venezia, l’inappuntabile Alcide Luppi arrivava col vassoio ricolmo delle delizie richieste con impazienza. A corredo c’era un bicchierino d’acqua che conteneva gli speciali cucchiaini a paletta, perfetti… per una degna consumazione di un prodotto di tale eccellente qualità.
Dopo pochi minuti, serviti come al Danieli di Venezia, l’inappuntabile Alcide Luppi arrivava col vassoio ricolmo delle delizie richieste con impazienza. A corredo c’era un bicchierino d’acqua che conteneva gli speciali cucchiaini a paletta, perfetti… per una degna consumazione di un prodotto di tale eccellente qualità.
Ma non c’era solo il Bar Roma in Piazza, basta guardare una
qualsiasi cartolina dell’epoca; scendendo in direzione sud avevamo il Bar
Armagni, col titolare Gerry, il Bar Dorando e in fine “il bar dei comunisti”…
il Milano, sede di interminabili discussioni politiche e dove si appurava con
puntigliosa precisione chi ghìis la tèesta
più gròosa (chi avesse effettivamente la testa più grossa).
Dall’altro lato c’era poi il Caffè Teatro con la famiglia Garzon
(Danilo, Maria e Vittorio), divenuto negli anni ’80 punto interclassista di incontro
della gioventù carpigiana e ritrovo preferito della mia compagnia piuttosto
eterogenea.
La cosiddetta movida nel secolo scorso era cosa tutto
sommato semplice e coincideva con momenti particolari: le serate estive, la
domenica pomeriggio e dalle 11
in poi alla mattina dei giorni festivi.
Quelle mattine si usciva per prendere il giornale, per la
messa (chi ci teneva) e per prendere il pacchettino di paste da Mailli, che
venivano confezionate, dopo una fila di almeno 20 minuti, con l’apposita
cordella. Alla fine di questa veniva creato, da abili e avvezze mani, un apposito
anello per infilarci il dito medio. Se il dito non si segava, questo sistema
consentiva un facile ed “equilibrato” trasporto a casa per il pranzo
domenicale.
I carpigiani non si tiravano certo indietro da queste
frequentazioni del centro e della Piazza. Il benessere, appena acquisto dopo un
passato èd bulètta pèr dimònndi
(povertà per molti), consentiva questi piccoli e piacevoli lussi.
Nelle sere estive una passeggiata, un giro in bici, un film
al cinema estivo Italia (poi Super70), una fetta di cocomera da Benci nel
Parco.
Si andava a letto presto e non si faceva casino.
Non c’era un complessino o un DJ ogni 20 mt, che
intrecciando osceni bum bum, perepèe, unzz, unzz,
pott, pott… trasformano
anche le migliori intenzioni di rivitalizzare il centro in una bolgia acustica
indecente e offensiva del bon vivre.
Io e gli amici, invece, passavamo le sere in modo attivo e
dinamico, vagabondando da un posto all’altro, facendo garini con le moto,
caricando sventurate ragazze; era bello arrivare in Piazza con auto e moto,
parcheggiare comodamente davanti al bar, senza oppressive isole pedonali. Chi
aveva un mezzo nuovo era contento di farlo vedere e di farsi vedere, sempre con
la mai sopita brama di conoscere e affascinare nuove e belle fanciulle. Scopo
ultimo e sempre tranquillamente confessato, quanto mestamente disatteso per i
drammatici rifiuti ostinati delle controparti.
“Dèela via primma ch
a sìidi di ruṡgòun! Primma ch a paasa la stagiòun!” diceva rabbioso qualcuno, dopo
l’ennesima cocente delusione (Datela via prima che diventiate dei torsoli
mangiucchiati di mela, prima che passi la stagione!).
Rimpianti ? Un po’… di sicuro! Noi ragazzi degli anni
settanta abbiamo vissuto forse il periodo più fortunato e più bello dell’intera
storia italiana. Ci siamo divertiti tutti, chi più chi meno, senza guerre e
anche con un po’ di soldi.
Oggi, guardando la nostra grande piazza deserta, a vìin un bèel magòun, viene un bel po’
di amarezza, soprattutto d’inverno, proprio quando chi la vuole chiusa, se ne
guarda bene di uscire di casa e ne sta bello caldo sul divano, cullandosi nella
soddisfazione di pensare e dire: ”AAH… Ma
che BELLA la Piazza chiusa! È dei pedoni!”
Pròopria ‘na bèela
sudisfasiòun! Va mò là!
Ma è tempo perso spiegare questi concetti a certi… verdi
pisello.
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