Al
vèedri
(le palline di
vetro)
Ricordi di Lauro Zuffolini –
Carpi 12 luglio 2015
Giocare alle biglie di vetro, o alle palline,
o al vèedri (le vetre, come spesso le
indicherò) termine per i ragazzi più adusi alla lingua originale carpigiana e che
erano poi la maggioranza, è stato per anni anche per me molto più di un
semplice passatempo.
Era un gioco di gruppo che apriva alla
conoscenza di altri ragazzi, per la semplicità e per la diffusione che aveva.
Esso era connaturato a portare ad ampliare di continuo il numero dei
partecipanti, permettendo a chiunque di aggiungersi in qualsiasi momento senza
alterare la sua essenza, ma rendendolo più interessante con l'innalzamento
della posta in palio.
Insomma era un'esperienza di vita alla
portata di tutti.
Si entrava in contatto con tanti ragazzi,
spesso anche più grandi, almeno nel mio caso, dai quali si imparava tutto ciò
che si poteva apprendere dalla strada. Non solo quello che era attinente al
gioco in sé, ma molto di più. Si sperimentavano le situazioni competitive, le
furbate degli altri, le aggressività che sfociavano in violenza non solo
psicologica e verbale, ma a volte anche fisica. Si scoprivano le dinamiche di
gruppo, le interazioni possibili con i prepotenti, oggi denominati bulli, i
leader da strada, circondati dai loro scagnozzi e gregari e da quelli che
semplicemente stavano sempre a guardare senza prendere posizione.
Si coglieva da mozziconi di frasi, quali
erano i rapporti al di dentro delle varie famiglie di quei ragazzi. Cosa veniva
loro vietato o permesso da padre e madre e quali erano le scappatoie che i
ragazzi stessi mettevano in atto per poter fare quello che pareva loro. Si
imparavano i primi rudimenti della problematica sessuale e le prime
informazioni riguardanti le ragazzine, anche se, al tempo delle vetre, il mondo
femminile stava ancora sullo sfondo e l'unica vera femmina con cui ci si doveva
misurare tutti i giorni era ancora la mamma.
Scrivo queste righe attingendo totalmente e
unicamente ai miei ricordi personali, senza aver svolto alcuna ricerca
documentaria.
A quei tempi abitavo dov'ero nato, in via
Brennero (Cantaraana). Della casa in
questione ci sono notizie precise che risalgono al 1150, ma la mia famiglia
affonda le origini nell'ignoto ed è proprietaria di quella casa dal 1917,
quando mio nonno Tito Zuffolini la comprò. Di questo atto possiedo ancora con
cura il rogito notarile. Cantaraana è
nel centro storico di Carpi; una stradina che più centro di così non si può, trovandosi
appena dietro il duomo.
Il tempo delle vetre per me va dal '58 al
'65, con intensità maggiore tra il '60 e il '63, quando avevo dai 7 ai 10 anni.
Il campo da gioco principale era la strada,
senza limitazioni. Sia la carreggiata male asfaltata di Cantaraana, sempre ricca e generosa di buche e squarci nella
copertura, sia i marciapiedi, quelli ancor più sbrecciati e irregolari, con
molte interruzioni a seconda delle varie abitazioni che costeggiavano lungo
quella strada. Un luogo pubblico decisamente vissuto e frequentato da persone
di livello popolare medio basso, andando in giù.
Le automobili di passaggio erano poche e non
disturbavano. Le biciclette erano numerose, ma i ciclisti di allora erano
pacati e comprensivi rispetto all'umanità sempre stressata e incazzata che
popola il congestionato traffico cittadino odierno. I passanti di allora erano
abituati a capire e a tollerare il gioco dei ragazzi in strada, perché era un
fatto normale ovunque.
I vari tipi di
giochi
Io conoscevo tre tipi di giochi con le
vetre. Ecco i primi due, cerchio parlerò in relazione alla frequentazione del
Parco.
Il primo veniva chiamato picc’ e spaana (a picchio e spanna). Si
giocava con una pallina a testa per volta. Si doveva lanciare vicino o lontano.
Molti preferivano stupire con lanci quasi stratosferici per intimidire gli
avversari. Il secondo lanciatore doveva lanciando a sua volta avvicinarsi a
distanza di una spanna per conquistare la vetra dell'altro. Il gioco così si
sviluppava in spazi abbastanza ampi. Se la misura non veniva raggiunta i lanci
si ripetevano. Naturalmente non ci si limitava a giocare solamente col bel
tempo o con l'asciutto, per cui ci si inzaccherava non poco nelle pozzanghere,
nel fango e sulla terra bagnata. Quello era il suo bello: fare le misurazioni
con le vetre immerse in acqua e melma...
Era un gioco che serviva e stimolava la
ginnastica manuale. Certi ragazzi sfoderavano degli allungamenti tra pollice e
mignolo da lasciare stupefatti, da non crederci; si andava oltre le normali
potenzialità anatomiche. Quando si dice “misurare a spanne” come esempio di un
metodo approssimativo, chissà? Forse è partito tutto da lì...
Le contestazioni erano frequenti, quindi era
necessario ponderare bene con chi valesse la pena di giocare. Certi
personaggetti vivaci andavano evitati, altrimenti si assisteva all'esibizione
di spanne chilometriche e alla negazione di qualsiasi solare e… palmare… evidenza.
Io giocavo soprattutto con il mio amico
d'infanzia, quasi dirimpettaio, Franco Lodi e con Alberto Bencivenni. Più
avanti si aggiunse Mauro Aguzzoli, abitante acquisito tardi a Cantaraana.
Da evitare assolutamente era tale Prisco
Ianniciello, focoso e irascibile bambinetto di origini avellinesi, dotato di
fratello maggiore con cronico prurito alle mani e dedito totalmente e
acriticamente alla sua security personale.
Io ero un bambino tranquillo, con l'inclinazione
naturale addirittura a far da paciere nei litigi altrui. Fu proprio Prisco a
interrompere questa mia vocazione prematura al martirio, centrandomi in faccia
con un consistente getto della sua orribile saliva, quando tentai di placarlo,
mentre stava menando un malcapitato che pretendeva di averla vinta con lui.
Ma il gioco più bello per me da fare in
strada con le vetre era al capurrio.
C'era da mettere in fila sul marciapiede
tante palline, quante i giocatori intendevano puntare. Poi si stabiliva
l'ordine di battuta, in base a chi riusciva a lanciare la sua pallina più
vicino a un oggetto scelto in precedenza. Quindi si trattava di posizionarsi
dall'altro lato della strada e di tentare di colpire la prima pallina della
fila con il lancio di un'altra vetra. Era ammesso anche il tiro di rimbalzo
contro il muro della casa. Chi colpiva la prima facendola uscire dalla fila
vinceva tutte le altre e, se quella che riusciva a colpire non era la prima, si
vincevano comunque tutte quelle poste alla destra di quella centrata.
Dopo ogni tiro c'era un seguito di
imprecazioni, o di grida di gioia, o di contestazioni. L'accusa più frequente
era quella d avèer faat manèina, cioè
di essersi allungati troppo oltre la linea immaginaria, limite invalicabile per
il lancio. Non c'era limite al numero dei partecipanti, si arrivava anche a 10,
e le file, in base anche al numero delle palline giocate, potevano estendersi fino
a più di 2 metri .
Ricordo qualche nome dei ragazzi di Cantaraana: Francesco Cianìin Pergreffi, Fernando suo cugino,
Giorgio Cova e suo cugino Alfio Gozzi e i già citati Franco Lodi, Alberto
Bencivenni e Mauro Aguzzoli. A loro si aggiungevano a volte quelli del
Palamaio, di cui ho in mente tre nomi, Medardo, Viola e Còcciolo e di èeter èd Bevdèer, via Cesare
Battisti.
Il bello del gioco in strada era che poteva
passare all'improvviso un ragazzino sconosciuto ai più dalle vie limitrofe e
domandare: “A s póol ṡughèer?” Posso giocare?
Per essere accettato bastava che rispondesse affermativamente all'unica
domanda:”Gh èet al vèedri?” Hai le
palline? La risposta affermativa
consentiva l’immediata entrata del gruppo di giocatori. Qualcuno, ma raramente,
andava a prestito del prezioso materiale, o almeno ci provava: “Po’ a tii dàagh!” Poi te le darò
indietro.
I gruppi più numerosi si formavano nelle ore
subito dopo pranzo, quando le mamme davano il rompete le righe e il via libera
ai figli per andare a giocare.
Questo creava qualche problema a certi
vecchietti che abitavano nelle vicinanze e che non volevano fare a meno del
loro riposino pomeridiano.
Ricordo la Virginia Buldrini, una vecchina
piccolina ed energica dotata di una voce acuta e stridula con annessi
ultrasuoni che emetteva grida agghiaccianti. Ma anche questo le permetteva di
ottenere solo brevi intervalli di quiete in strada.
Più caratteristico ancora, sia nel nome che
nell'aspetto fisico era Wandemburgo Lodi, solo omonimo del mio amico. Sembrava
uscito da una quadro appeso alla parete di certe ville e raffigurante un
insigne personaggio del nostro risorgimento, con i suoi baffoni bianche
all'insù, la sua folta barba e un abbigliamento consono alle atmosfere di fine
ottocento.
La sua sfortuna era che alloggiava
all'ultimo piano della casa dotata del miglior tratto di marciapiede di tutta
la via, per cui le palline venivano posizionate regolarmente sotto le sue
finestre.
La sfortuna nostra era che, dopo aver preso
coscienza di cosa fosse il Risorgimento italiano, vedendo apparire il suo mezzo
busto alla finestra in alto e aver udito il suo grido di battaglia, egli
perentoriamente ci versava addosso una bacinella di acqua fredda. Più di una
volta arrivò giù anche il recipiente insieme al liquido. Ma noi ragazzini non
difettavamo di scatto, ben coscienti del pericolo che era sempre incombente.
Poi c'è da dire che aveva tutto sommato il sonno duro e non era scontato che
andasse sempre a finire male. Di sicuro Wandemburgo era efficace con le sue
argomentazioni e riusciva a far sospendere i giochi o a farli terminare del
tutto.
Le vetre erano anche oggetto di scambio. Le
più pregiate erano i cavalieri, palline opache a sfondo bianco con striature a
vari colori vivaci, che ne valevano 7 di quelle trasparenti normali. C'era chi
le esibiva e le scambiava, senza metterle in gioco.
Poi c'erano i buuli, vetre più grosse, che erano da 2, 3 o 4 di quelle normali,
a seconda della loro dimensione.
Il contesto sociale
In ogni casa allora c'erano dei bambini, dei
ragazzi e anche degli anziani. Sembra strano dirlo, ma il paragone con la
situazione delle famiglie odierne ci rivela che attualmente non è più quasi mai
così. Le mamme lasciavano andare i figli, sapendo che non correvano soverchi
pericoli in strada e che le mamme degli altri, come loro stesse facevano,
davano un occhio anche ai ragazzi degli altri, perché si sentivano in qualche
misura mamme di tutti i ragazzi.
Questa non è retorica, ma la pura e semplice
realtà di allora. Oggi, vuoi per il traffico, che rende impossibile non solo
stare in strada, ma quasi anche passarci, vuoi per l'individualismo egoistico
di quasi tutti, vuoi perché di mamme a
casa quasi non se ne trovano e vuoi infine per paura dei pedofili, nessuna
mamma lascerebbe uscire di casa il figlio, permettendo che si organizzi il
gioco come gli pare e come viene e chissà dove. Oggi si può portare solo i
ragazzi a lezioni a pagamento prenotate a ore di calcio, tennis, nuoto, danza,
pattinaggio, scherma, musica o quant'altro, presso strutture e associazioni
istituite allo scopo. L'alternativa pare essere solo l'uso solitario e quasi
solipsistico di cellulari, tablet o pc; in questo momento la stessa TV sembra
essere superata.
Io abitavo a metà della via. Mi bastava
aprire la porta di casa ed ero già nel cuore della sala giochi.
Ogni tanto una mamma si affacciava alla
finestra e gridava il nome del figlio per una qualche necessità. I più
fortunati venivano richiamati per consumare la merenda, un bel panino con
salame o burro, mica uno snack. Oppure ogni tanto qualcuna appariva sulla
soglia di casa a controllare. Tutte si conoscevano tra loro e conoscevano i
figli delle altre. Le chiamate si facevano più fitte e generali verso l'ora di
pranzo o di cena per reclamare la presenza a tavola o quando si faceva sera e
scendeva il buio, che sanciva la conclusione obbligatoria dei giochi. Ma
nessuno si perdeva mai. Al massimo ritardava un po' il rientro a casa.
***
Il Parco,
l’università della pallina
Io sentivo dire che al Parco si giocava alle
vetre. Il Parco allora era uno solo, quello davanti all'ospedale. Ma a quei
tempi coprire la distanza da Cantaraana
al Parco era come prefigurare un viaggio intercontinentale, verso terre
sconosciute. Perché spingersi tanto in là, quanto ogni strada era un campo di
giochi? Giocare alle vetre al Parco era però un mito, come giocare a calcio a
S. Siro.
Non ricordo chi un giorno mi invitò ad
aggregarsi a un gruppo diretto al Parco. Chiesi il permesso a mia madre. Me lo
accordò con la raccomandazione di stare attento e di tornare presto.
Da quel giorno ci ritornai in seguito da
solo, con in tasca il budget di vetre che ero disposto a investire in
quell'avventura sconosciuta, in mezzo a quella bisca vetrosa a cielo aperto. In
tante mattine estive mi pigliavo su, uscivo da viale De Amicis, dove la mia
casa ha un secondo affaccio, arrivavo fino a via Volta, giravo a sinistra e
avevo già la visione del Parco davanti ai miei occhi. Forse non si tratta
nemmeno di un chilometro, ma per me, che ero un bambino tranquillo e mia tròop ṡgalvìi (non troppo preparato
a riconoscere le tante trappole della vita), significava molto nella conquista
della mia autonomia nel mondo.
Là si praticava soprattutto il gioco del
cerchio, al sèerc’. Si segnava un
cerchio per terra con le dita in una zona diserbata, vi si collocavano dentro
la circonferenza le palline che si decideva di puntare a testa; poi, con
precisi cricchi, bisognava colpirle con la propria per farle uscire dalla riga
e così aggiudicarsele. Il cricco si otteneva sfregando lateralmente il dito
indice o quello medio contro il pollice, facendo leva e prendendo così la forza
necessaria per il colpo vicino o lontano dal bersaglio. Alcuni posizionavano
invece indice o medio sotto il pollice per avere lo stesso effetto. Io
preferivo la posizione laterale usando il dito indice. Più diffusa era quella
laterale col medio.
Ricordo ancora la delusione dei ritorni a
casa dopo consistenti perdite e con poche vetre in saccoccia, ma anche gli
entusiasmi dei giorni vittoriosi per avere aumentato il mio capitale. Evitavo
sempre di restare a secco del tutto. Mi piaceva giocare, ma non avevo dentro di
me il tarlo del gioco, che mi obbligava ad andare sempre avanti fino alla fine.
Il colpo d'occhio all'arrivo al Parco era
sempre impressionante per me. In una zona centrale senza erba e in mezzo agli
alberi si concentravano vari gruppi di gioco, a contatto di gomito quasi gli
uni con gli altri. Infatti anche gli spazi erano contesi, a volte aspramente e
per assicurarseli occorreva arrivare per tempo la mattina. I gruppi erano
abitualmente sempre vocianti e le contestazioni fitte e frequenti, anche se
dipendevano spesso dalla caratterialità dei giocatori all'opera.
Quindi, dopo un po' di esperienza, si poteva
scegliere a quale gruppo aggregarsi. Io cercavo attentamente, Per quanto mi era
possibile, cercavo attentamente di valutare e prevedere, evitando i ragazzi più
esagitati e furbacchioni.
Espressioni di gioco
Ricordo alcune espressioni tipiche del
gioco.
Pìic' era il verso
onomatopeico che emetteva il giocatore la cui vetra centrava quella nel cerchio
facendola uscire.
Busca
léeva
era la richiesta di pulire la pista dai residui di foglie e rametti che
potevano ostacolare la traiettoria precisa del tiro del giocatore.
Busca
làasa
era il grido preventivo di un altro giocatore per impedire questa operazione di…pulizia.
Esisteva infatti questa sorta di diritto di veto, purché anticipasse la richiesta eventuale del
giocatore al tiro.
Quando nascevano contestazioni e la pretesa
ingiusta di un prepotente si imponeva, di fronte al suo successivo tiro
sbagliato c'era spesso qualcuno che commentava, rigorosamente con la solennità
della lingua italiana: “San Giovanni non vuole inganni!” Rivelando anche così
una diffusa fiducia nella giustizia divina da parte dei giocatori di vetre,
delegata in questo caso al santo addetto al settore in questione.
E quando qualcuno protraeva all'eccesso le
sue proteste ingiustificate, veniva bollato con l'epiteto lapidario: “T ii fiól ‘d 'na véedra!'”. Sei figlio
di una pallina!
Le misurazioni
Le misurazioni davano luogo alle principali
litigate. Per stabilire l'ordine di tiro si lanciava ognuno la sua pallina alla
base di un albero e chi la mandava più vicino aveva diritto di precedenza nel
tiro. Da lì nascevano grandi discussioni, per differenze a volte millimetriche,
ma decisive, perché chi prima tirava, più trovava il cerchio pieno di vetre ed
era più facile cogliere un bersaglio.
Altre frequenti contestazioni erano
originate dalla valutazione se la pallina era totalmente uscita dal cerchio o
se toccava ancora la riga. L'esito di queste discussioni dipendeva solo in
parte dal dato oggettivo. Per lo più era dovuto alla forza... contrattuale, o
brutale dei contendenti.
Come nella vita, del resto…
Al Parco ho incontrato e ho avuto a che fare
con tanti ragazzi, il cui ricordo è in gran parte svanito.
Chissà, forse con una seduta di ipnosi
potrebbe riaffiorare. Io ero molto selettivo e un po' chiuso, allora, ma
apprezzavo molto questo aspetto democratico dei giochi delle vetre.
Rimane un bel ricordo complessivo, dove ho
riversato l'amore innato che ho per ogni tipo di gioco, che non sia a scopo di
lucro.
E che mi ha fatto assaggiare tanti aspetti
della vita che mi avrebbero atteso inesorabili.
Di sicuro, almeno ne sono uscito più ṡgalvìi e ṡladinèe (scaltro e rodato) di quello che ero prima.
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