Paan, cumpanaadegh e sacralità del desco
di Mauro D’Orazi
Gennaio 2012
v 31 del 18-9-2012
Frutto del lavoro di ricerca sul web, con suggerimenti e con il contributo costante del Gruppo di Facebook “Chi parla
dialetto carpSàan” e del rughlètt
di affezionati del bar Tazza d’Oro alle 7 del mattino e di tanti altri
amici e amiche sempre pronti a portare la loro esperienza personale e familiare
al servizio di un dialetto che deve e può continuare a essere parlato e vissuto.
Il pane in passato, un po’ meno
oggi nell’opulenta società occidentale, ha sempre rivestito un carattere quasi
sacro nel sostentamento della famiglia. Esso era il simbolo del lavoro che
produceva il frutto o il reddito indispensabile per alimentare le famiglie
molto numerose di un tempo.
**
A partòom da dimondi luntàan … purtèe pasinSia: la sacralità del
pane e del frumento necessario alla sua produzione ha origine lontanissima nel
tempo. Addirittura risalente al Neolitico, quando le prime tecniche di
coltivazione cominciarono ad affrancare le antiche popolazioni di cacciatori e
raccoglitori dall’incubo delle carestie.
Secondo la mitologia greca fu
Demetra, dea delle messi, - Cerere per i Romani - a donare all'uomo i cereali,
in particolare il frumento da cui appunto si ricava la farina per panificare.
Da sempre il pane ha avuto una sacralità che nel mondo greco prima e romano poi
era legata alla fecondità della terra, tanto che Demetra era celebrata durante
i riti dei misteri eleusini e ad essa veniva offerto il pane Thargelos
preparato con la prima farina dopo la mietitura durante le feste rurali che
nell'antica Grecia si svolgevano da metà maggio a metà giugno, epoca della
raccolta del grano. Nella cultura e religione cristiana il pane assume
centralità legata all’ultima cena e alla metafora del corpo di Cristo: «Questo
è il mio corpo.» e con l'identificazione ostia-corpo di Cristo si compie un
processo di sublimazione del pane che da alimento diventa anche mezzo di
comunicazione capace di trasmettere significati profondi. «Dacci oggi il nostro
pane» recita la preghiera base della religione cristiana-cattolica: dove pane è
sinonimo di cibo, perché nel cuore del Mediterraneo, dove tale religione si è
sviluppata, la cultura del pane ha avuto origine e diffusione. Così questo
alimento è un tema ricorrente nella simbologia cristiana. Come esempio basterà
ricordare che ad Adamo - scacciato dal Paradiso - fu imposto: «Ti guadagnerai
il pane con il sudore della fronte».
**
Anche il Fascismo non sfuggì al
sacrale rispetto del grano e del pane; lo dimostrano le eclatanti Battaglie del
Grano a partire dal 1925 che, per altro, portano in sei anni all’autosufficienza del
nostro Paese. Indimenticabile e nel contempo terribilmente ridicola l’immagine
nei film Luce del Duce Trebbiatore (a fàagh
tutt mè), che, a torso nudo, capellaccio e occhialoni da motociclista anti
polvere, grida al macchinista di avviare il ciclo di lavorazione di un’enorme
trebbiatrice e contemporaneamente comincia a spostare grosse abbracciate di
spighe.
1938 Aprilia - Il Duce trebbiatore
L’epicità raggiunse l’acme con le
scritte murali del tipo:
·
È l'aratro che traccia il solco, ma è la
spada che lo difende. E il vomere e la lama sono entrambi di acciaio temprato
come la fede dei nostri cuori.
·
Non
sprecate il pane quotidiano.
·
Pane, lo
so, per averlo provato, che cosa vuol dire la casa deserta ed il desco nudo.
·
Rispettate
il pane: sudore della fronte, orgoglio del lavoro, poema di sacrificio.
Ma ben presto arrivò la guerra e
per molti italiani questo tragico evento è unito strettamente al ricordo della
fame, della paura e della povertà. Infatti sono molto più tristi e senza
speranza le immagini degli Orti di Guerra dei primissimi anni ’40, quando anche
le aiuole pubbliche venivano utilizzate per vane e improbabili coltivazioni di
grano e il pane era razionato con la tessera annonaria.
Orti di guerra alla stazione ferroviaria di
Modena - Tessera
annonaria anni ‘40
Ogni persona a seconda dell'età e del lavoro, riceveva
una tessera di carta stampata (tessera annonaria) con sopra dei bollini. Ognuno
di essi permetteva di comprare, un certo giorno preciso, ad un certo prezzo, un
certo genere alimentare. Per esempio nel 1941 la quota di pane a persona era di
200 gr al giorno, saliva a 300 gr per gli operai e a 400 gr per chi era addetto
a lavori pesanti. Nel marzo 1942 ci fu una riduzione di 50 per ciascuna quota. Negli
ultimi mesi di guerra per le famiglie italiane procurarsi il cibo rappresentò
la maggiore preoccupazione.
Questi ricordi di mio padre sulla fame patita e la
voglia di pane, continuamente ripetuti, hanno accompagnato il periodo iniziale
della mia vita e mi hanno lasciato, pur non avendo vissuto per duro periodo, un
rispetto assoluto del pane.
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La
presenza costante del pane nella cultura di tutti i tempi e di tutti i popoli ha
conferito a questo alimento una sacralità che costituisce anche un impegno
quotidiano sia per la conservazione (dalla vecchia madia al moderno congelatore)
che per l'uso dal paan vecc’ (duro o
stantio). E per questi aspetti la cultura contadina ci insegna molto
trasferendoci l'impossibilità di buttare il pane che, quando proprio non può
essere mangiato o usato per altri cibi, può sempre alimentare molti animali
domestici.
Ognuno di
noi può fare propria un’affermazione che ci viene dal passato: «Il pane è un
dono generoso della natura, un cibo insostituibile... Si addice ad ogni ora del
giorno, ad ogni età della vita, a ogni persona. È così connotato all'uomo che
ce ne nutriamo, si può dire, fin dalla nascita e non ce ne stanchiamo mai fino
alla morte».
Non per
niente di una brava, onesta e disponibile persona si dice … l è bòun come al paan (è buono come il
pane).
Mentre un magnapaan
(o un rubapaan) a tradimèint è colui che se lo accaparra ingiustamente e con artati
inganni.
Anche il
motto social politico “ Pane e Lavoro” la dice lunga, anche se qualcuno
tenderebbe a scantonare un po’ sul secondo.
Di una
attività pur umile e modesta, ma di sicuro, quanto limitato reddito si dirà: L a t darà sèmmper un paan ! Ti darà
sempre un pane.
È
indispensabile per il viandante che deve essere attrezzato del necessario: Paan, gabaan e bastòun per i caan.
(Pane per sfamarsi, un lungo cappotto con cappuccio per il freddo e la pioggia
e un bastone per difendersi dagli animali e talora dagli umani).
Forno di campagna all’esterno
Commovente
e profondamente religiosa era la frase pronunciata prima di mettere la pagnotta
nel forno, quando la rezdòora la
tagliava leggermente a croce: “T poss
cherpèer!” Che tu possa crepare e cuocerti bene, affidando li sorti della
cottura finale del prezioso alimento nelle misericordiose mani divine.
La croce sul pane
**
Con il pane si può realizzare un
pasto completo: dall'antipasto di crostini al dolce (torte e soufflé); la
nostra fantasia si può sbizzarrire, perché il pane (come l'olio o il burro) non
può mancare in nessuna casa: è una presenza rassicurante che merita il più
profondo rispetto.
Ci sono però sempre state delle
regole, che definirei morali, per consumare il pane e il cibo in generale.
Naturalmente anche la cultura
locale e il dialetto sono intrisi di
immagini, esempi, modi di dire che ben interpretano il sentimento su questa
tematica.
Metèer a tèevla al paan o metèer
la famja a tèevla (mettere il pane in tavola o mettere la famiglia a sedere
a tavola) erano frasi che significavano che il capofamiglia o la moglie avevano
guadagnato o rimediato il sufficiente per dar da mangiare ai loro cari. E alla
fine del pasto, al rezdòor,
alzandosi da tavola, poteva dunque dire sospirando profondamente, tra il
soddisfatto e preoccupato: “Bèin!! ... e
anch incòo a i om magnèe!! ... Dmaan a vdrèemmm!“ (Bene! Anche per oggi
abbiamo mangiato! Domani vedremo!).
E nel caso ci fossero stati
abbondanti cibo e vino: “S l’ à va mèel
… cla vàaga, sèmmper acsè!” Se va male che vada sempre così.
Il pane però era in ogni caso l’elemento
portante della dieta e mangiato da solo era paan biòos: definizione che significava consumarlo da solo senza
companatico.
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1960 Forno di città
C’erano poi delle regole ferree che
anche oggi sono presenti in molte famiglie, nonostante progresso, il benessere
e l’abbondanza: retaggi e scrupoli indeboliti fin che si vuole, ma che sembrano
(e meno male) non voler scomparire.
Ciapèer di scupasòun per avèer magnèe al cumpanaadegh a la vigliàaca. Prendere degli scapaccioni a tavola in
famiglia per aver mangiato dei cibi senza pane. Marco Giovanardi ricorda che
nel primo dopoguerra (ma anche più tardi come scrupolo sopravvissuto, anche al
boom di Carpi), quando ci si doveva sfamare in prevalenza con pane e patate
(chi abitava in città) era considerata grave colpa cibarsi del companatico
senza pane. L era un comportamèint da
vigliàach, perchè per impiniir la pansa d un, a s tuliiva via una parte
della razione a chi eter fradèe. (era
un comportamento vile, perché si portava via del mangiare pregiato agli altri
fratelli e familiari).
Una volta era ferma tradizione
che la gente mangiasse tutto con il pane, anche con i cibi più diversi. Anche
con l’arrivo del benessere c’è chi ha conservato per sempre questa antica
abitudine di consumare un minimo di
companatico con tanto pane, anche con la pasta asciutta, le patate lesse o con
la frutta.
Gianfranco
Imbeni, eccelso e caustico dipingitore di carpigianità, opportunamente mi
rammenta, a proposito di "sacralità del desco", i versi ottonari di
quel protodemocristiano che fu il Manzoni: "Sia frugal del ricco il pasto, / ogni mensa abbia i suoi doni; / e il
tesor negato al fasto / di superbe imbandigioni / scenda amico all'umil tetto:
/ faccia il desco poveretto / più ridente oggi apparir" (Il Natale, inno
sacro).
Imbeni ricorda anche che
quand'era ragazzo lui, il mettersi in bocca del puro companatico veniva
condannato e impedito dai grandi come un "magnèer a braama ed paan". Il che, per logica conseguenza, lo
autorizzava, quanto al pane, a consumarlo a volontà.
A bramarlo e divorarlo … sì
! Ma trattandolo con buon rispetto. Ed era sempre pronta, a nostra
edificazione, la leggenda di Gesù Bambino che scivola giù dalle braccia
della Madre e dall'asinello durante la fuga in Egitto, per raccoglierne
delle briciole abbandonate per terra.
**
Anche il Baffo, noto esperto di
apparati radio e simili e gestore della baracchina estiva nel Parco della
ResistenSa, rivive la sua esperienza familiare: “Mè mèeder, ch l era na maruchiina, l am dèeva di cupòun ch am fèeva vedèer
al stèeli, se a meSdèe a magnèeva dal salaam o dal furmàj seinza paan. E pò, de
spess, l era anch pan vecc' staladìì”. (Mia madre, che veniva dal sud, mi
dava degli scappellotti che mi facevano vedere le stelle, se a mezzogiorno
mangiavo del salame o del formaggio senza pane. E spesso di si trattava di pane vecchio).
Per altro anche a casa mia mi
sono sempre sentito rimproverare, (sèinsa
di scupasòun, però), perché mangiavo il formaggio senza pane. Mio padre,
che da ragazzo, durante la guerra, aveva patito la fame, tutte le volte mi
rimproverava, anche quando la situazione economica della famiglia era ormai
prospera. Era un retaggio MORALE, quasi un offesa alla povertà. Anche tenere il
pane rovesciato era irrispettoso. Un uso che io seguo scrupolosamente anche oggi.
Ma i tempi cambiavano e viceversa
quando non volevo mangiare qualcosa e non stavo bene, mi veniva invece
raccomandato:"Dai! mangialo ... anche senza pane! Anch s te n gh è mia faam." (anche se non hai fame).
E fare briciole? Anche questo era
biasimevole ci ricorda Anna Maria Ori. Mai
e poi mai sbrislèer al paan! (sbriciolare il pane). Fare troppe briciole
spezzando il pane, era come metterlo rovesciato sulla tovaglia, in tante case
era un tabù.
Come prima si ricordava: "Persino
Gesù scese da cavallo, per raccogliere ‘na
briisla ed paan!" Un leggenda educativa che la vecchia zia rievocava con
tono minaccioso e intimandola col dito indice veementemente alzato ai bimbi che
stavano mangiando
An gh è dubbi t en spòos un puvrètt, te fèe tròopi briisli oppure
te spusèe un
sgnòor!!! (Non c’è dubbio
che tu non sposerai un poveretto, fai troppo briciole oppure, a nozze avvenute
… hai di certo sposato un signore che ti permette di consumare il pane). Con
questi ammonimenti la madre sgridava la figlia che faceva tante briciole sulla
tovaglia.
Altro avvertimento simile rivolto
a chi sbriciola troppo il pane a tavola: T
en diventerèe mai un sgnòor! Non diventerai mai ricco.
Un’altra cosa proibitissima per i
bambini l era scavèer cun i dì in di
filòun dal paan per magnèer sòol al mujaan. Era normale che ai bambini
piacesse più la mollica della crosta e si impegnavano a scavarla col dito nei
filoncini. Esternamente il pane sembra intonso, ma quanto il capo famiglia lo
prendeva in mano e si accorgeva dello scempio erano urla e minacce. A n s
pòol mia strasinèer acsè al paan!! Non si può rovinare così il pane.
Magnèer al paan cun na maan sòola. Uno splendido modo di dire,
suggeritomi dal prof Antonio Martinelli, che viene riferito a una persona che
conduce perennemente una vita molto indaffarata, tale da non consentirle di
sedersi tranquillamente a tavola e mangiare il pane con due mani. Il concetto
si addice bene anche ai tanti occupatissimi carpigiani che, negli anni ’60 in
pieno boom economico, non pensavano ad altro che a produrre, a vendere e a
guadagnare.
Mia madre negli anni ’60, a
benessere raggiunto, preparava per me e mio fratello dei panini imbottiti per
la merenda. Usava al paan mòunta-sù
all’olio del Forno di Chiesi in Corso Fanti. Ivo Chiesi era un uomo burbero
amico di mio padre, una persona di poche parole che a noi bambini metteva un
certo timore reverenziale, anche perché era il presidente del Tiro a Segno di
Carpi.
Paan mòunta-sù
Il nome della chioppetta deriva
dal fatto che si usava un oblungo rettangolo di pasta, lo arrotolava
contemporaneamente da entrambi i lati (che così montavano su - da cui il nome) e
le due “pallottine” così ricavate i
gnivèen strichèedi su (venivano
unite) di traverso con una leggera e sapiente pressione. Al monta-sù è un tipo pane con mollica morbida e crosta sottile,
prodotto fin dal Quattrocento nel nord Italia. Gli ingredienti sono farina 0,
acqua, sale, olio e lievito; amalgamati tra loro, danno vita a un impasto
soffice, simile a quello delle baguettes francesi dalle quali, con tutta
probabilità, trae le sue origini.
Mia madre divideva le due parti,
le tagliava per il lungo e le imbottiva o di salame o di una stupenda
cioccolata alla gianduia Novi, che si comprava presso il Forno Sacchi di Corso
Alberto Pio per 500 lire in un bellissimo barattolo rettangolare di plastica
con il tappo rosso con riportato a rilevo N O V I. Questo contenitore era poi
quello che utilizzavo per conservare le mie palline di vetro.
Salame e gianduia Novi nel barattolo di
oggi
Per rientrare in tema, una volta,
avrò avuto poco più di dieci anni, successe che non avevo assolutamente fame e
sconsideratamente buttai i due panini nel secchio del pattume. Ma li avevo
nascosti male e i miei genitori se accorsero. Fu una vera tragedia e fui
processato sommariamente e con grande severità. Mia madre: “Butèer via al paan? L è un pchèe còuntra nostèer
Sgnòor! Peinsa a tutta la giinta ch l a mòor ed faam!” (Buttare via il
pane! E’ un peccato contro Dio! Pensa a tutta la gente che muore di fame!). Mio padre diceva che il pane non si butta mai: il pane è sacro e va rispettato. Ascoltai la solenne sgridata a
testa bassa e mi sentii un verme.
**
Questo scrupolo sul pane mi è
rimasto ancora oggi e a casa mia ben difficilmente lo si sciupa, ben aiutato in
questo anche dal famelico golden
Lucky di mio fratello, che per un crostino vecchio o una mollica indurita farebbe
qualsiasi cosa, dimenticando ogni minima dignità.
Cave
panem Pane fatto
in casa
Circa il pane vecchio è quasi
superfluo dire che non veniva certo buttato. Poteva essere grattugiato (paan rasèe) per impanare altri cibi o
fare l’addensante, assieme al formaggio, per le polpette, oppure lo si usava
alla mattina dopo a pezzetti dentro la tazza di caffelatte. Indimenticabile il toch toch che si produceva col cucchiaio,
battendo la superficie ancora dura di un crostino da affogare nel latte.
In altre case si mangiava la panèeda preparata col pane vecchio bollito e dentro due spicchi d'aglio per
insaporirlo, un po’ di sale e una lacrima d'olio.
Oppure
la classica suppa in bròod (zuppa in
brodo) col pane tagliato a fettine
immerso nel brodo bollente.
Da tutti questi episodi di vita che
ho vissuto direttamente o che mi hanno raccontato, si evidenza il grande
riguardo per il lavoro, per la fatica che c’erano dietro al cibo. Questo senso di
rispetto era fortissimo, con connotazioni, anche religiose, che convivevano con
qualunque idea politica, bianca, rosso e nera che fosse.
Da ricordare anche che quando a
tavola capitava di incrociare casualmente le posate, sempre la zia mi diceva:
"Guasta cla cròos lé … cla pòorta
méel!" (Guasta quella croce che porta male). Sarno Rossi ricorda che tutt'ora
se gli capita di incrociare o vedere qualcuno che ha le posate sovrapposte, in
silenzio, senza clamore, gli viene d’istintivo di guastare la croce, non per
superstizione, sciocchezze a cui non crede ASSOLUTAMENTE, ma per rispetto alla
SACRALITA’ della tavola a cui prima si accennava.
OGGI tutte queste categorie sono SCOMPARSE
e incomprensibili per i consumatori di merendine e di Esta-tè.
Tipiche qualità di pane locale
1910 ca Apertura Forno Camurri. La
donnona è Eugenia in Camurri; Amos Camurri seduto sulla cesta è il nonno di
Cristina Bonaretti.
1920 Piazza Garibaldi drogheria e forno
a legna di Ernesto Morandi; in attività sino anni 1960.
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