martedì 27 dicembre 2011

Scattini che passione !!! Quattro ruotine di storia e passione di Mauro D'Orazi dialetto carpigiano - Carpi (Modena)

Scattini che passione !!! Quattro ruotine  di storia e passione

                                                                  I pattini a rotelle a Carpi e al Parco.

di  Mauro D’Orazi  (con Marco Giovanardi)  bozza NON corretta del  3 set 2010
 
Il Parco delle Rimembranze fu ideato con tre tracciati tondeggianti e concentrici, al centro fu previsto una specie di campo - arena che fin dall’inizio fu destinato, immagino, a manifestazioni di vario genere. Ad esempio per le esibizioni della banda cittadina o anche come campetto di calcio, con partite organizzate da tale Amner Anceschi che raccoglieva fra gli squattrinati partecipanti, qualche soldino per affittare il pallone.
Negli anni ’50, con saggia ispirazione dell’allora sindaco Bruno Losi e dall’assessore Angela Mora, fu progettata e costruita una bella pista di pattinaggio liscia e scorrevole e delimitata da una robusta ringhiera verde perimetrale. Ancor oggi la pista svolge dignitosamente la propria funzione. E’ interessante ricostruire un po’ la storia di questa realizzazione e della gran moda dei pattini a rotelle che conquistò i giovani di Carpi dal primo dopo guerra in poi. Ciò, anche grazie ai preziosi ricordi di Marco Giovanardi e  ad altre testimonianze. Al pari di quella delle “vetre” (al bucìni) è un’altra delle piccole storie della Carpi prima del “miracolo” che merita di essere racconta, prima che vada persa per sempre, attingendo a ricordi e memorie personali.
Alla fine degli anni ’40, i giovani lasciati gli incubi della guerra, avevano una gran voglia di divertirsi e fra le tante novità dilagò anche a Carpi una grande passione per i pattini a rotelle, nella nostra città chiamati “scattini”. Le strade furono invase da turbe di ragazzi scatenati che, a folli velocità, si producevano nelle più spericolate evoluzioni. Si tratta, anche in questo caso, di vicende e mode di cui si perdendo il prezioso ricordo, inghiottite da un passato sempre più lontano e incomprensibile e ignorare da un presente sordo e insensibile a “queste piccole cose”.
La cosa bizzarra è che le parole scattini e scattinare, da noi di uso comunissimo, NON esistono sui dizionari di italiano. Ma neppure si può dire che esse appartengano al dialetto, visto la loro tarda comparsa. Si tratta a mio avviso di parole di gergo locale.
Si può aggiungere anche un ardito tentativo di spiegazione; un caso forse unico nella nostra parlata. I due termini potrebbero derivare direttamente dall’inglese “skate” e “to skate” (pattino e pattinare), a loro volta mutato dall’olandese (rispettivamente “schoen” e “schaatsen”) e dal fiammingo “schatsen”, terre che videro nascere questi attrezzi. L’invenzione è fatta risalire al liutaio belga Joseph Merlin, vissuto nel XVIII secolo), mentre “schettini” sarà anche più corretto, ma traduce semplicemente una pronuncia.
Il termine “scattini” (da cui il verbo “scattinare”) non si trova dunque in italiano. La versione corretta, e riportata dallo Zingarelli, è “schettini” e definisce il gioco o lo sport – in perenne attesa di riconoscimento olimpico – più comunemente noti come “pattinaggio a rotelle”. Nella vulgata carpigiana, tuttavia, gli “schettini” sono sempre stati ignorati a vantaggio di “scattini”, appunto, italianizzazione del dialettale scàtin, con l’annesso verbo scatinèr. 
I primi pattinodromi apparsi in Alta Italia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e che presero a diffondersi ai primi del Novecento si chiamavano infatti skating (pron. skèting). E non è neppure da escludere che sia stato l’americanismo dominante nelle mode e nel costume, subito dopo la guerra, a far sì che a Carpi la vulgata scàtin e scatinèr abbia preso il posto di “pattini” e “pattinaggio”.
Questo per un periodo che nella storia cittadina ha segnato i giochi delle generazioni che oggi veleggiano fra i 50 e i 70 anni. E che nelle vite dei singoli andava in genere dai 7 anni ai 13, vale  a dire dal regalo per la Comunione ai primi turbamenti adolescenziali che finivano per condannare gli “scattini” alla soffitta. Dato anche il lungo arco cronologico del suo utilizzo, lo “scattino” era concepito perché se ne potesse regolare il pianale in parallelo con la crescita del piede. Pochi centimetri: ma fra il primo e l’ultimo centimetro di quell’allungamento ci sta il racconto di giochi, di modi di vivere in comunità, di espressioni dialettali, di ragazzi, di bande, di povertà. E di tante cadute e ranòun (trad.: capitomboli) e ginocchia sbucciate.
Oggi quando di parla di pattini vengono in mente preziosi prodotti supertecnologici con scarponcini comodi ed eleganti, tampone di gomma per frenare, mini ammortizzatori, ruote robuste e scorrevolissime dotate di super cuscinetti a sfera; per non parlare poi dei modernissimi esemplari con le quattro ruote in linea.
Ma una volta le cose era erano ben diverse e gli attrezzi subivano la limitata tecnologia disponibile all’epoca per questi allora marginalissimi, anche dal punto di vista economico, settori di gioco e divertimento.
Nelle nostre zone uno scattino erano formato da due rudi piastre sagomate di lamiera in ferro cromata con due nervature che si distendevano per l’intera lunghezza. Queste ultime consentivano di dare nerbo alla precaria struttura e contemporaneamente di far scorrere e poi bloccare, con appositi dado quadrato o esagonale e chiave inglese, le due parti, in modo da mettere a misura l’attrezzo in base alle lunghezza del piede di chi lo utilizzava. Tale modularità era molto utile, anche perché lo scattino poteva facilmente adattarsi al crescere fisico del ragazzino proprietario, oppure in un clima di austerità e risparmio, poteva essere usato a turno da vari fratelli o familiari con caratteristiche podologiche differenti. Due rialzi ferma-scarpa in metallo in punta e una cinghietta di corame attorno al collo del piede assicuravano il serraggio, che restava comunque sempre problematico, in rapporto a una diffusa inconsistenza della suola, dovuta all’usura della stessa.
Naturalmente ogni parte dello scattino era munita di due ruotine costruite con materiale amorfo pallido grigiastro/marroncino o anche in legno e l’attrito era diluito da precari e “tolleranti” cuscinetti a sfere. Tutto il materiale rotabile era costantemente sottoposto a fortissime tensione e conseguente usura. Si ricorda anche il nome di qualche marca di casa produttrice tipo Fulgor (i migliori e i più ambiti), Gioca o Itas, questi ultimi più recenti e tecnologicamente più avanzati.
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Dopo queste premesse storico - tecnologiche, torniamo alla nostra piccola storia locale.
Un altro capitolo degno di nota del nostro amato Parco fu appunto, come prima si accennava, il fatto che ad un certo punto l'Amministrazione comunale decise di costruire la pista di pattinaggio. La causa determinante fu che i cittadini erano stanchi di correre pericoli girando per le strade, dove sciami di ragazzini comparivano sui pattini a tutta velocità, noncuranti dei passanti, ma seguendo le loro temerarie evoluzioni. Verso la fine degli anni ’40 prese piede l'era degli scattini: tutte le bande, abbandonate momentaneamente le palline, si erano munite alla bisogna. Con un totale ed entusiastico coinvolgimento si erano organizzate per questa specialità. C'era il pomeriggio dedicato all'istruzione dei principianti, il momento delle riparazioni, dove si cambiavano le sfere o le si reintegrava. Infati a girer sui sas, sù e zo per al scheli, in mess alla terra . . . eter chè ca sa s'nin perdiva  (infatti a girare sui sassi, su e giù per le scale, altro ché che se perdeva). Poi c’era l'ingrassaggio ed anche l'applicazione di rostri a mo’ di bighe romane, prendendo esempio dai peplum movie americani di quegli anni (è il caso di “Ben Hur” con Charlton Heston)..
Il perché è presto detto. Si organizzavano delle vere e proprie sfide. Si formano due treni di ragazzini che, a gran velocità, tentavano di scontrarsi frontalmente. Ogni formazione era formata da 10 o più elementi. La squadra si lanciava in fila indiana a tutta velocità; nella parte finale ci si chinava restando aggrappati l'un l'altro, mentre gli ultimi due, eretti, continuavano a spingere a più non posso. L'andare sui pattini a gran velocità, chinarsi, ondulando il piede, restare bene attaccati ..  non erano cose da poco; in più si doveva pensare a porre in essere tutti i trucchi per castigare gli avversari.
Alcune bande si erano costruite anche uno scudo di protezione che il primo della colonna, ch’l’era sempre al più matt (che era sempre il più estroso) , teneva infilando l’avambraccio nelle apposite anelle posteriori.
Quando si evitava lo scontro frontale (fatto che per altro non avveniva quasi mai, come le sfide frontali in auto dei film americani anni ‘50), i due treni sfilavano paralleli in direzione opposta, gomito a gomito, si buttava sotto a i pattini avversari un pezzo di corda che bloccava simultaneamente un asse di ruote.  In cla manera chè a gniva un mucc’ ed ginta per tera (in questo modo tutta la colonna nemica si ammucchiava per terra, gli uni sopra gli altri). Non paghi … il duello proseguiva con inseguimenti individuali (come con gli aerei da caccia nei film della 2^ GM): sota i pordegh, in di curtìl, su per al scheli ed la Patria (sotto i portici, nei cortili, su per le scale della premiata Società Ginnica La Patria - oggi solo del Museo Civico). Marco Giovanardi ricorda che fu inseguito da due vigili in corso Fanti; lui e altri due degni compari, semper con patìn in di pèe (sempre coi pattini hai piedi), si infilarono in una porticina sottoportico; salita la scala, al buio, si nascosero in un cessetto in comune (o licet, locale in multiproprietà tipico ed la miseria dell’epoca) a mezzopiano. I vigili arrivarono vicinissimi, ma non li scoprirono.
Minuti di vera vita, intensissimi e indimenticabili. A riviverli, anche dopo tanti anni, al nostro Marco batte ancora forte il cuore per la paura e l’emozione. Sente il vento della velocità, l'odore della povere, il rumore delle ruotine, le urla, le fughe, la paura.
Ogni giorno c’era una nuova avventura da raccontare e rivivere,  sulla quale i ragazzi si soffermavano rumorosamente alla mattina seguente, quando, tutti allineati, si attendeva l’apertura delle scuole Fanti in Piazzale Re Astolfo. A quei tempi prima di entrare in scuola ci si allineava classe per classe nel piazzale, come i plotoni dei soldati all’alzabandiera.

I pattini a rotelle furono dunque un capitolo degno di nota nella vita d’azione dei ragazzini a cavallo fra gli anni ’40 e ‘50. Non si sa con precisione in quale quartiere ebbe inizio la novità dei pattini, ma in poco tempo il fenomeno si sparse a macchia d’olio in tutta la città. I ragazzi della Cremeria in viale De Amicis (che più volte ci hanno accompagnato con le loro storie in questa ricerca) gli scattini li rimediarono presto, forse non per primi, mo quesi sùbit.
Quelli che avevano la possibilità di farseli comprare dai genitori erano pochi; i più se li dovevano guadagnare con lavoretti o andando a raccogliere materiali ferrosi da purtèr da Brani (portare da Brani), il noto raccoglitore di ferrivecchi, a quel tempo in viale Manzoni.
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A tale proposito è simpatico aprire una piccola parentesi su questa diffusa attività di raccolta di un tempo. Fra i tanti, cito un modo di dire legato all’attività di questo prezioso imprenditore d’la ruzna (della ruggine). Quando una persona aveva qualche acciacco, gli si poteva dire scherzosamente: Guerda ch’at port da Brani ! (Guarda che ti porto a rottamare da Brani!); oppure, con tipico umorismo carpigiano, fu creata la parodia della famosa canzone cubana Guantanamera, modificando il ritornello in un irresistibile:
Quanta-lamera. 
Da Brani!! Quanta-lamera.  
Quanta-lamera. 
Da Brani!! Quanta-lamera.  

Allora era normale che ci fossero varie persone che andavano in giro con carrettino per raccogliere metalli e cose vecchie da conferire e vendere a peso presso la nota ditta. Io ricordo un omino che era soprannominato Rangìn, cioè che si arrangiava, dedicandosi forse anche a raccolte non proprio autorizzate di beni altri. Carlo Alberto Parmeggiani racconta che Rangìn passò per antonomasia nel linguaggio infantile e adolescenziale col detto "T’ì propria un Rangingìn Colombo!", inteso come epiteto ammollato a persona lesta nel minuto e amicale freghereccio, sempre in voga nel nostro Principato. "Rangigìn" è pure un termine dialettale che indica il piccolo esile ragnetto che sciabatta lungo le pareti della casa, indice peraltro di sanità dei muri, già che se altrimenti fosse, con l'umidità la ragnatela, che il Rangigìn si perita di fare, sarebbe in proporzione pesante come un tendone del Circo Medrano.

Ho conosciuto anche Danilo Federzoni, buonissima persona, che, propenso a un uso non proprio moderato del lambrusco, quando tornava a casa sotto il portichetto di via Matteotti, si sentiva interrogare, inesorabilmente, in modo indiretto con questa frase impertinente, immancabilmente pronunciata dai F.lli Forghieri (biciclisti), che avevano la loro bottega sull’itinerario di rientro del nostro: “El pasèe Danilo ?? (E’ passato Danilo ? ovvio … passato di vino)”. Famosi gli annunci, a grossolana rima baciata, urlati per le strade da Radames per avvertire del suo imminente passaggio: “Doni! Doni! A gh’è al strasèr!! Gh’iv di cavìi, di oss, dal fèr ?? (Donne! Donne! C’è il robivecchi! Avete dei capelli - trecce tagliate -, delle ossa o del ferro ??)”
Il robivecchi ‘Nibal era poi un tipo un po’ strano, parlava a voce alta con se stesso ed era un lento di comprendonio. Una volta dei ragazzini per fargli uno scherzo prepararono sul suo consueto itinerario di raccolta un bel pezzo di tondino di ferro dopo averlo scaldato. Lo sventurato vide l’ambita preda e subito con la mano si chinò a raccoglierlo, ma lo lanciò subito urlando: “Mò che calor ‘Nibal! Mò che calor!” E quando vide i ragazzi che sghignazzavano con rabbia ringhiò: “ A sì bèin .. a … a sì bèin … (siete bene) “ e i ragazzi: “ Sa gh’è a Sibèin (Cibeno frazione di Carpi” e lui: “ A … a sì bèin di cajòun !!” (Siete bene dei coglioni!!).
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Il modo di arrangiarsi dei ragazzi di allora, su cui ci siamo soffermati già varie volte in questa ricerca sulla società di quegli anni, era molto diffuso; era la pratica normale, quasi di sopravvivenza; infatti quasi nessuno aveva la “pappa pronta”.
A tale proposito è interessante l’aneddoto di vita del mirandolese Vittorio Gavioli, raccontato da Vincenzo Galizia di Modena su Incontri BPER n 63-2000, che si può intitolare “Andar per ghisa”.  Egli narra che negli anni ’60 nella città della Mirandola, a noi vicina, c’era grande attesa e gioia per un importante avvenimento: si sarebbe inaugurata la pista di scattinaggio. Erano un po' tutti in agitazione ma, in particolare, i ragazzi perché, evidentemente, si presentava un evento che, ancor prima del suo verificarsi, dava luogo a tutta una serie di sfide su chi sarebbe stato il più veloce sui pattini a rotelle. In centro, nella vetrina dei desideri del negozio di “Carlone”, facevano già bella mostra di loro alcune paia di scattini e i ragazzi si accalcavano davanti per fare approfondite considerazioni tecniche, ma anche sul come rivolgersi ai genitori per convincerli all'acquisto. Vi erano due tipi di pattini a rotelle, quelli da 3.500 lire, che erano quelli togo (performanti), ovvero di pregio, e quelli da 2.800 lire che erano i lofi, ovvero gli scadenti. 
Il povero Vittorio, dalla recente carriera scolastica infelicissima, si attentò a chiedere al padre i soldi necessari. "St’an tì stè bucièe ! … Zsucà ! (Quest'anno sei stato bocciato! Zuccone !) Quando sarai promosso a s’in ciacararà! (se ne parlerà !) ", fu la secca risposta del risentito genitore, che ho tradotto in dialetto carpigiano.
Intanto praticamente tutti erano ormai in possesso dei loro scattini. Soltanto lui e l’amico del cuore Mario erano ancora, è il caso di dire, a piedi. Ma furono assistiti dalla fortuna perché, parlandone con un ex compagno di scuola, che aveva lasciato gli studi per mettersi a lavorare in una officina, ottennero un suggerimento che si rivelò assai prezioso.
"Perché non andate a ghisa ? - disse loro - al strasèr (lo stracciaio) ve la pagherà ottocento lire al quintale", soggiunse.  "Ma … come si fa?" domandarono sorpresi.  "E' facile! Voi andate nella zona di scarico della fonderia, in mezzo a quelle montagne di polvere nera, ci sono sempre residui di ghisa, basta prendere un setaccio e una calamita e il gioco è fatto. Le calamite ve le do io !"  concluse, avvicinandosi a uno scaffale dal quale estrasse due pesanti ed anneriti aggeggi a ferro di cavallo, smontati dall’impianto elettrico di chissà quali vecchi motori a scoppio.
Detto fatto. Tutte le sere, dopo l'orario di chiusura della fonderia, i due ragazzi esploravano e setacciavano i mucchi neri dei cascami di lavorazione. La ricerca, pur disagevole, era però produttiva e riuscivano a riempire polverosi ed anneriti sacchi di iuta.
"Ma che giochi fai durante il giorno ?" gli chiedeva preoccupata la nonna, quando Vincenzo rientrava a casa più nero di uno spazzacamino, malgrado i suoi disperati tentativi di ripulirsi alla meglio. Il ragazzo tergiversava … imbarazzato.
Alla fine riuscirono a comprarsi gli scattini, ovviamente quelli lofi da 2.800 lire e poterono scorazzare insieme agli altri sulla nuova pista.  La cattiva qualità dei pattini, tuttavia, non permetteva loro di competere in velocità con gli altri, tant'è che decisero di chiedere al negoziante quanto ci sarebbe costato il cambio con quelli togo .  "Sono usati - considerò lui - ve li cambio se aggiungete mille lire".
Si trattava di riprendere il lavoro di calamita e setaccio.  La nonna però, che aveva nel frattempo capito da dove veniva quel singolare annerimento, mossa, a metà fra amore “nipotale” e compassione, gli diede, prelevandoli dal suo prezioso libretto postale, le mille lire necessarie.

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Tornando al tema e a Marco, egli riuscì, utilizzando preziosissimi mezzi propri, a comprare i suoi primi scattini, barattandoli dolorosamente con dei giornalini di Gim Toro e di Sitting Bull (che oggi sono valutati una cifretta!!). Ma il vero problema arrivò dopo, perchè per indossarli, a ghe vliva dal scherpi ed curamm cun al bord (ci volevano le scarpe di cuoio con il bordo resistente) per l'aggancio. Provò allora a legarli con vari giri di corda … mò gnint da fèr!  Poi finalmente arrivarono anche le scarpe giuste e fu grande l'emozione di poterli indossare e finalmente partire con il gruppo.
Qualche fortunato che possedeva della robuste scarpe da calcio, limava i tacchetti e le dedicava solo agli scattini, ottenendo così un accettabile e robusto insieme.
Molti della banda erano già bene attrezzati, ma c'era anche un certo numero di ragazzi che erano appiedati e accompagnavano gli altri correndo. Quanto ai novellini, che ancora non avevano avuto il tempo per imparare, venivano spinti, in una sorta di ruoli iniziatici progressivi, da coloro che erano senza pattini. In questo modo comunque anche i più poveri, si ritagliavano e si garantivano un ruolo: “OOHH piann . . piannnnn!! Fermètt!  Moola … Và viaaaaa!"  Mochè,  lorr i continuevèn a cuc’èr a tuta canèta e dopp i finiven tutt per tera,  grupèe e mucièe su! (Invano, questi continuavano a spingere a tutta forza, finché non finivano tutti per terra in un unico mucchio.

Abbiamo ricordato lo scattino standard era molto spartano, non aveva lo scarponcino e non aveva freni, e ciò, data la velocità, le acrobazie e i salti era un grosso handicap per questi ragazzi autodidatti. Si rimediava mettendo con forza il pattino destro di traverso, subito dietro a quello sinistro che manteneva la dirittura di marcia. Dopo tanto frenare però alcune ruotine cominciavano a essere non più tonde, ma di forma poligonale. Ma poco male ! L’officina della banda collocata a cielo aperto sul marciapiede all’inizio di Viale De Amici era spesso in funzione. Lì era il posto dove si smontava e di assemblava di tutto, si rimpiazzavano le ruote e le sferine perdute. Queste ultime di solito si recuperavamo da Brani dai mozzi delle vecchie biciclette. Di profondo spessore filosofico - meccanico, erano le infinite e accese discussioni se era meglio cambiare tutte le sfere con quelle più grandi o se, invece, consentivano più velocità quelle piccole. Un grande enigma mai pienamente risolto.
C’era poi da trovare i pignoni conici che combinassero giustamente con le altre parti meccaniche. E si provvedeva addirittura al montaggio dei rostri ed filferr (di filo di ferro) per danneggiare gli avversari nei passaggi ravvicinati.
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I primi scattinatori comparvero a Carpi negli anni ’20 e fra di essi erano noti il padre di Raimondo Benzi, Checco Brani, il padre di Mario e l’inglès che era un omino piccolino che era stato a Londra vari anni (da cui il soprannome) e che gestiva una bancarella di libri alla “Catena”, sotto il portico di Piazza.
Finita finalmente la Guerra, già subito dal 1946, questa passione riprese con grande fervore; vista la diffusione del fenomeno sulle strade, a un certo punto l’Amministrazione comunale cominciò a preoccuparsi per le sempre più numerose lamentele da parte di commercianti e cittadini che, rischiando la propria incolumità, non di rado venivano coinvolti, loro malgrado, nei rocamboleschi inseguimenti nelle pubbliche strade.
A tale proposito va anche ricordato che uno dei luoghi preferiti per le sfide era l’ampio e asfaltato viale della stazione, allora molto meno trafficato, ma pur sempre pericoloso. Appena finita la guerra vari ragazzi, ad es: Mario Brani, Giorgio Adani, Magnani, ecc … si trovano spesso a fare delle gran volate competitive lungo questo bel viale.
In un primo momento venne messo a disposizione di questi ragazzi poco governabili il locale “Madera”, una sala da ballo in fondo a Corso Roma, angolo Viale Garagnani - Via Arletti, allora di proprietà dei Sereni e oggi sede di un ristorante. In quell’ambito, grazie a un bel pavimento levigato ci fu un ulteriore perfezionamento delle tecniche autodidatte del pattinaggio. I ragazz i sfreceven a dal velocitèe da mat (i ragazzi sfrecciavano a velocità pazzesche), ma quando c’era il capitombolo, o per collisione o per disattenzione, i’n feven gnanch na piga (non facevano nemmeno una piega)  ...  si riprendeva subito e viaaa …
Il Madera era aperto per il pattinaggio due giorni alla settimana e un fattore molto importante consisteva nel fatto che il locale/palestra era frequentato anche da qualche ragazza.
L’intensa attività di pattinaggio al Madera, preceduta la sera prima da balli da sala, provocava sul campo la diffusione nell’aria di una impalpabile polverina e i ragazzi quando tornavano a casa, dopo ore di rullaggio, avevano le sopracciglia e i capelli leggermente imbiancati: ma niente paura! non era altro che il borotalco sparso sulla pista dai ballerini per strisciare meglio.
In un secondo momento il locale Madera fu destinato a usi diversi in ambito sportivo e il Comune finalmente decise di costruire la pista al centro del Parco, con l’intento di radunare i ragazzi e toglierli dalla strada.
La covà (La coda). A metà degli anni ’50 Graziano Forghieri frequentava anche lui la pista tutti i giorni. Si legava a fatica gli scattini a delle suole quasi insistenti e bucate, ma non desisteva. Allora era il più giovane in mezzo a un gruppo di ragazzi già cresciuti: Brani, Abele Luppi, Salvarani, ecc … Questi si agganciavano per fare il treno nella pista del Parco e a Graziano toccava l’ultimo posto, a causa della più giovane età. Il treno partiva, un giro due; la velocità aumentava  .. 10, 15, 30 kmh a un certo punto per la forza centrifuga la coda cominciava a sbandare sempre più verso l’esterno della pista, finché il nostro sventurato scattinatore sbatteva violentemente contro la paratia verde in legno e volava fuori.
I ragazzi più abili si esibivano da soli e frenavano in curve strette svirgolate sulla pista con stridori da far accapponare la pelle. Quanto alle “figure”, solo dopo aver acquistato una certa padronanza del mezzo, si poteva effettuare le curve inclinandosi e collocando con eleganza un piede davanti all’altro, anziché fèr spadir i déint (sgradita sensazione che si può liberante tradurre con un far venire i brividi ai denti in bocca, ma che in senso letterale il termine dialettale significa lo sfilacciarsi di un drappo; sempre con significato simile la sensazione di sentirsi i denti allegati, quando si è alle prese con frutti acerbi, ma anche di rumori stridenti che produce un sentore  spiacevole per cui sembra di avere i denti legati) agli astanti con il rumore prodotto dalla strisciata a pattini paralleli indirizzati con convulse pressioni sulle caviglie. O effettuare una giravolta su se stessi per poi procedere disinvoltamente all’indietro con leggero moto ondulatorio per imprimere la velocità voluta. O approfittare delle apposite pedane collocate qui e là per ingobbirsi nella rincorsa, prendere slancio e decollare in salti di qualche metro. Per tutti, provetti o principianti, bastava comunque la minima asperità del terreno per provocare cadute rovinose rimaste nella memoria. 

A quei tempi chi usava gli scattini si distingueva per i vistosi crostoni alle ginocchia: dovuti ai numerosi ranòun, un curioso termine che sta a indicare nel nostro dialetto una caduta clamorosa, quanto eclatante.
La pista del Parco era all’inizio di pubblico accesso e venne subito occupata da questi scalmanati. Col loro comportamento violento, però scoraggiavano quelli che intendevano pattinare normalmente.
Quando una scuola di pattinaggio provava ad entrare in pista, si poteva assistere a scene del genere: l’istruttrice volteggiava con grazia e leggiadria al centro della pista, insegnando il movimento. Tutti i ragazzi erano appoggiati al parapetto di contenimento e osservavano attenti e quando gli allievi ad uno ad uno provavano a ripetere l’esercizio, ecco che, senza il minimo rispetto, qualche ragazzaccio si buttava sulla pista scimmiottando gli allievi, ma con una perfezione e sicurezza nelle rotazioni e salti da far invidia alla maestra stessa.
La situazione divenne insostenibile e a un certo punto fu poi negato l’accesso alle bande di quartiere alla pista del Parco, ma ormai la stagione delle bande sui pattini, come rapidamente era nata, finì. Si era ormai dopo il 1955 e Carpi stava cambiando profondamente … e anche il “piccolo mondo” dei pattini subì delle profonde trasformazioni
Da allora in poi di ragazzi con gli scattini sulle strade non se ne videro praticamente più, mentre varie società sportive, nei successivi decenni, iniziarono centinaia di giovani a questo bellissimo sport che mise in mostra anche dei veri talenti nostrani. Negli anni ’60, oltre a Fabio Gobbi, ne ricordo uno per tutti … Romano Reggianini, forse il migliore, vincitore di tanti premi, virtuoso acrobata, veloce in pista come su strada asfaltata; ora è un noto titolare di azienda di successo, collezionista di auto d'epoca e indiscusso promotore di gare ciclistiche di prim’ordine.
La costruzione della pista di pattinaggio nel Parco fu di grande aiuto per gli allenamenti dal 1959 in poi della prima squadra di pattinaggio della nostra città; la società sportiva si chiamava allora "Sandro Cabassi Carpi ". Il team era coordinato dall’instancabile e generoso Walter Galliani, al biciclista ed via Roma, che tra l’altro era consigliere comunale con una specie di delega allo sport; infatti a quei tempi non c’era ancora un apposito assessorato alla bisogna. La “Cabassi” partecipò con grande successo alle Olimpiadi dei piccoli azzurri organizzata da Uisp e Csi insieme ad Imola per il Centenario dell’unità d’Italia. Reggianini, con l’aiuto di una squadra eccellente, fece il primo posto nei 500 mt, 1.500 mt, 3.000mt e 10.000 mt.
Egli, assieme a Gianni Giovanardi, dipendente comunale ed ora in forza alla Protezione Civile, Giuliano Setti, Giovanni Forti, Giovanni Cattini e tanti altri costituirono la squadra più forte e temuta di tutta l’Emilia Romagna.
Questi compagni aiutarono Reggianini a conquistare un rispettabile quarto posto in una prova dei mondiali svoltasi a Carpi nel 1962. La prova si svolse praticamente sullo stesso tracciato del Circuito Ciclistico delle Palme,  che si corse, organizzato poi proprio dal nostro, per tanti anni su Viale Biondo e Viale Carducci con i raccordi di Via Volta e di Viale De Amicis.
Praticare il pattinaggio agonistico era allora abbastanza costoso e di grande aiuto per i più boletari (scarsi di mezzi) fu Alcide Palmati, al quale i ragazzini si rivolgevamo, frequentando il suo originale negozio di antichità e cose strane, situato sotto il portico del vescovado, per avere i vari ricambi, tipi di sfere, ecc …
Nonostante la sua fama ed pèla (termine dialettale per indicare una persona un po’ … tirata), lui era sempre pronto ad aiutarli con grossi sconti e ad aspettare nei pagamenti. Evidentemente si identificava nelle aspirazioni dei ragazzi e nella loro voglia di vivere.
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Gianfranco (Gigia) Sgarbi ci racconta già di un epoca successiva in pieni anni '60.  Suo padre, grande meccanico e appassionato di tutto ciò che di muoveva in velocità con le ruote, gli raccontava delle ore passare al Madera. Nel' 64 Gigia ebbe i primi pattini in regalo e per 3-4 anni “frustò” (consumò) la pista del Parco, affrontando e provocando continue sfide contro tutti, preannunciando i futuri e numerosi garèin (gare di moto sulla pubblica via, proibitissime, fra giovani) che poi avrebbe vissuto in moto e auto. 
Conserva ancora a casa 4-5 medaglie d'oro, ed lamèra pitureda (lamiera dorata), vinte nelle gare di velocità alla tradizionale Festa dell'Infanzia che si teneva la Parco in settembre per la chiusura della stagione estiva. Gigia non era certo un esteta delle figure artistico -acrobatiche, ma quad a gh'era da deregh a pistèr, an s'tireva mìa indrèe ed sicur (ma quando c'era da mettercela tutta in velocità, certo non si tirava indietro). Non ho avuto coraggio di chiedergli se una delle sue trentacinque fratture (subite nell’arco di un lungo periodo di vita di ardimento) sia stata causata dal pattinaggio.
Gli attrezzi che usava erano naturalmente ipertecnologici, per il periodo, e ricorda che addirittura provò in anteprima delle nuove ruotine in gomma, ma esse offrivano troppo "grip" sulla pista del Parco e decise di restare sul legno.
Finito quel periodo di grande passione, non ci fu più seguito, anche perchè l’amore per moto e motori (trasmessagli dal DNA paterno) gli riempì quasi totalmente la sua sfera di passioni. Oggi i suoi figli ne hanno un paio a testa, pattini moderni con le quattro ruotine in linea; ma l'uso effettivo è stato di poche decine di minuti in tutto ... oggi ci sono troppe alternative concorrenziali ...
Quanto me .. siamo alle solite … umètt (ometto) dalle mille occasioni perdute. Mi sentivo una spiccata predisposizione per andare sugli scattini in velocità, certamente avrei passato ore e ore sulla pista del Parco, ma ci fu il blocco totale disposto dai miei: “NO ! T’et fè dal mèl!” PUNTO !! E così dopo un paio di fallimentari e precari tentativi segreti con attrezzi presi in prestito al momento, desistetti. Quando forse avrei finalmente potuto, aj era già chersù (ero già cresciuto) e una grande passione aveva già conquistato anche me  … anima e corpo: la moto ! Alla quale dedicai con fervore ben trent’anni di vita.
Ma questa l’è ‘n’etra storia …

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