di Mauro D’Orazi
in collaborazione con Florio Magnanini
V
18 del 25-12-2012
Presentato a Miareina per la 5^ grande cena
del dialetto del gruppo di Facebook il 25-11-2011.
Parzialmente pubblicato su Voce di Carpi n 48
dell’8-12-2011
A n v’ofendiidi, a n v la tuliidi, perché a
gh n è per tutt. :=))))
Il dialetto, quando utilizza
le definizioni socio politiche, lo fa per esprimere un connotato, psicologico o
caratteriale, in qualche caso condotto fin quasi all'insulto. Sempre in modo
bipartisan, tuttavia: ne ha cioè per tutti. Troppo radicato infatti nella vita
quotidiana, troppo consapevole delle umane debolezze e della caducità di
imperi, stati, regimi, personalità e partiti politici per credere più di tanto
a ideologie e promesse. La lingua del popolo non ammette sciovinismi, quando si
tratta di politica. La pervade piuttosto un sano qualunquismo che, senza
arrivare al cinismo tutto romano del ... "che sia Franza che sia Spagna, purché se magna", serviva in
passato soprattutto a ricordare che al portatore sano di saggezza dialettale è
sempre stato difficile “raccontarla”. Perfino in una terra, come quella
emiliana, che di narratori della politica, per non dire di comizianti e
trascinatori delle masse, è sempre stata fertile: dagli apostoli del socialismo
dei primi anni del Novecento, alla buonanima del Duce, per arrivare alle piazze
"calde " del dopoguerra. E a quelle "caldissime", anche a
Carpi, del 1960, all'epoca del governo Tambroni, forse l'ultimo, grande
episodio di mobilitazione politica di massa e nazionale, prima che la politica
si inscatolasse definitivamente dentro il televisore.
Con la politica il dialetto si
comporta allo stesso modo che con i difetti o le caratteristiche fisiche o
psicologiche delle persone: prende il particolare e lo tramuta in un giudizio
generale, in una categoria classificatoria. Il repertorio al quale attinge è,
inevitabilmente, quello della Prima Repubblica, durata praticamente dal 1945 al
1992 (Tangentopoli e avvento di Berlusconi. Un lasso di tempo talmente lungo da
imprimersi nel vernacolo, molto più di quanto non abbia potuto fare la Seconda Repubblica.
Quest'ultima è stata (forse sarà ?) finora troppo breve, perché la sua
esistenza potesse incidere nell'immaginario dialettale e troppo dominata dai
nuovi linguaggi tecnologici, perché il dialetto potesse attingervi.
Ecco una serie di insulti che
traggono la loro negatività, non tanto dalle semplici parole, di per sé
normalissime, ma dal fatto di agganciarle strettamente a comportamenti
stereotipati di tante persone che a tali categorie appartengono e che più che
altro ci sguazzano dentro.
**
L’è un prèet dicesi di persona infida che predica bene, ma razzola
male, capace di ogni tradimento, pur conservando una sua ineccepibilità
esteriore e di forma.
In caso di divisioni poi la filosofia è questa: Trì pan, dù pròun,
ma prima me! (Tre pani, due per uno, il primo a me!
Oppure: Orate per me e per chi
etèr s’agh n’è! Splendida frase in carpense misto latino che significa:
pregate per me e per gli altri solo se ce n’è.
Botero – Un prete
Anche nella variante per un’equa divisione:
Trì pan, Tre pani,
dù pròun, due per uno,
dù a me due a me
e un a te. e
uno a te.
Al va e s al vin come la cusinzia di frèe. Ci si riferisce a una
persona i cui punti fermi … non sono tali.
L’è un demoscristiàan può rientrare nella definizione di prima, ma
è anche sinonimo di tròoja (nel
significato carpigiano); cioè uno capace di tutto e buono per tutto le
stagioni. Abile a cambiare opinione alla bisogna; più che mentire … è incline morbidamente
a omettere e operare in malafede per il proprio tornaconto, dando a intendere
di occuparsi del bene comune.
L’è un cesulàan (o cisulàan)
definisce una figura di nauseante bigotto rompiballe, con lo zucchero sopra e
il veleno dentro, ecc.
L’è un comunista! o un
faSista! Con tanto di punto esclamativo, sono da considerarsi offese almeno
per il pronunciante. Uguali, reciproche e contrapposte: pronunciate quasi
sempre con odio, dalla parte avversa per mettere in negativa evidenza i macroscopici
difetti e nefandezze del partito nemico.
Per capire un po’ il clima del
dopoguerra, si può ricordare che Togliatti pronunciò la seguente frase al
Comitato Centrale del PCI, nel dicembre 1949: “L’anticomunismo sta diventando il marchio dei deficienti”.
Catòolich fèels e Comunista
sfegatè cun i peraocc’. Definizioni simmetriche di pretta matrice emiliana
e con connotati alla Guareschi, che hanno accompagnato il dopo guerra più
acceso, cogliendo l’essenza antropologica dei due fronti: la doppiezza
cattolica (fede e prassi, preghiera e atti, ambivalenze anche nelle relazioni
interpersonali) e la sorda ottusità ideologica del comunista (cecità di fronte
all’evidenza, propensione alla sopraffazione verbale, assenza di spirito
critico e auto ironia).
L’è un saragatiàan. Offesa per significare un traditore (del popolo
e della classe operaia). Divenne sinonimo di “venduto” e malfattore. Colpiva
chi andava incontro all’ingrato destino degli “eretici”. Coniata dai militanti
comunisti dopo la scissione (pro Patto Atlantico) di Giuseppe Saragat
(1898-1988) dal PSI nel 1947 (Scissione di Palazzo Barberini) da cui nacque il
PSLI - Partito Socialista dei Lavoratori Italiani -(i cosiddetti “piselli”) e
poi il PSDI … i social democratici.
L’è un scranèer. Seggiolaio, occupatore di sedie. Epiteto in voga
negli anni dal 1970 al ’90, rivolto dal popolino comunista ai socialisti del
PSI di Craxi, sempre pronti ad allearsi indifferentemente con DC o PCI pur di
ottenere ogni sorta e abbondanza di incarichi politici. I peggiori si
ritroveranno quasi tutti con Berlusconi a occupare altre sedie.
L’è un bonomiàan - Bonomiano. Costoro erano i coltivatori diretti
che aderivano alla Coldiretti fondata dal DC Paolo Bonomi (1910-1985). I
contadini “rossi” comunisti chiamavano con disprezzo in questo modo i
coltivatori “bianchi”, accusati di avere ogni sorta di privilegio, grazie all’appartenenza
a questa allora potentissima organizzazione, tradizionale cinghia di
trasmissioni democristiana.
Il pagliaccio Scaramacai (19559-66) di
Pinuccia Nava
Mò va' là Scaramacai! È un’espressione che prende spunto
dall'allora noto pagliaccio di un
programma televisivo per bambini degli anni ‘60, e rivolta genericamente a persona
ridicola o, nella fattispecie, ad avversario politico il più delle volte comunista.
Al fa al sindacalista. Succedeva che talora questa figura non fosse
troppo apprezzata, per l’inefficacia verbosa del suo vano operare. Un parlare
inutile e inconcludente, denominato già dagli anni ’70 … sindacalese
(piattaforma, vertenza, concertazione, rivendicazione,
portare avanti una linea unitaria o un discorso, aprire un tavolo - a n s’è mai savù chi portiss po’ al scràani
- ecc … ). Per sferzare queste vacuità di fatto, si sentiva dire questa breve, ma
simpatica filastrocca nonsense,
tipica di certo “rimare” volutamente irrispettoso tradizionale delle nostre
zone:
Al fa al sindacalista …?!?!
Un gh i taja e n’èter a l gh i pista.
… E ‘n èter ancòora a l gh i
armis-cia.
(Fa il sindacalista! Uno glieli
taglia e un altro glieli pesta. E un terzo ancora glieli mischia).
Però per mettere tutti pari,
secondo la tradizionale usanza a prendi in giro del nostro dialetto, al posto
di “sindacalista” si può però mettere a piacere una qualsiasi categoria il cui
nome che termini in … ista. La valenza sarà in ogni caso
assicurata.
Chi arrivava con ritardo in un
luogo di un comizio e chiedeva al vicino di cosa stesse parlando l’oratore con
tanta enfasi e fervore, poteva cinicamente sentirsi rispondere: Chi gh n ha l è di bòun! Chi n gh i n ha
l’è di cajòun! Chi ne ha (di soldi e beni) è dei buoni. Chi non ne ha è dei
coglioni. Massima sempre attualissima insita nella sorte umana. Riassume la
quintessenza della visione politica, interpretata magistralmente (ancora una
volta) dal nostro tagliente e spietato dialetto. Qualcuno amareggiato aggiunge:
I gh ha la ghignèera, come al cuul!
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