martedì 27 dicembre 2011

Insulti socio-politici Dialetto carpigiano - di Mauro D'Orazi - Carpi

  Insulti socio-politici  
                                                 di Mauro D’Orazi
                                                               in collaborazione con Florio Magnanini

                                                                                      V 18   del  25-12-2012
Presentato a Miareina per la 5^ grande cena del dialetto del gruppo di Facebook il 25-11-2011.

Parzialmente pubblicato su Voce di Carpi n 48 dell’8-12-2011

A n v’ofendiidi, a n v la tuliidi, perché a gh n è per tutt. :=))))
             Il dialetto, quando utilizza le definizioni socio politiche, lo fa per esprimere un connotato, psicologico o caratteriale, in qualche caso condotto fin quasi all'insulto. Sempre in modo bipartisan, tuttavia: ne ha cioè per tutti. Troppo radicato infatti nella vita quotidiana, troppo consapevole delle umane debolezze e della caducità di imperi, stati, regimi, personalità e partiti politici per credere più di tanto a ideologie e promesse. La lingua del popolo non ammette sciovinismi, quando si tratta di politica. La pervade piuttosto un sano qualunquismo che, senza arrivare al cinismo tutto romano del ... "che sia Franza che sia Spagna, purché se magna", serviva in passato soprattutto a ricordare che al portatore sano di saggezza dialettale è sempre stato difficile “raccontarla”. Perfino in una terra, come quella emiliana, che di narratori della politica, per non dire di comizianti e trascinatori delle masse, è sempre stata fertile: dagli apostoli del socialismo dei primi anni del Novecento, alla buonanima del Duce, per arrivare alle piazze "calde " del dopoguerra. E a quelle "caldissime", anche a Carpi, del 1960, all'epoca del governo Tambroni, forse l'ultimo, grande episodio di mobilitazione politica di massa e nazionale, prima che la politica si inscatolasse definitivamente dentro il televisore.
Con la politica il dialetto si comporta allo stesso modo che con i difetti o le caratteristiche fisiche o psicologiche delle persone: prende il particolare e lo tramuta in un giudizio generale, in una categoria classificatoria. Il repertorio al quale attinge è, inevitabilmente, quello della Prima Repubblica, durata praticamente dal 1945 al 1992 (Tangentopoli e avvento di Berlusconi. Un lasso di tempo talmente lungo da imprimersi nel vernacolo, molto più di quanto non abbia potuto fare la Seconda Repubblica. Quest'ultima è stata (forse sarà ?) finora troppo breve, perché la sua esistenza potesse incidere nell'immaginario dialettale e troppo dominata dai nuovi linguaggi tecnologici, perché il dialetto potesse attingervi.
Ecco una serie di insulti che traggono la loro negatività, non tanto dalle semplici parole, di per sé normalissime, ma dal fatto di agganciarle strettamente a comportamenti stereotipati di tante persone che a tali categorie appartengono e che più che altro ci sguazzano dentro.
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L’è un prèet dicesi di persona infida che predica bene, ma razzola male, capace di ogni tradimento, pur conservando una sua ineccepibilità esteriore e di forma. 
In caso di divisioni poi la filosofia è questa: Trì pan, dù pròun, ma prima me! (Tre pani, due per uno, il primo a me!
Oppure: Orate per me e per chi etèr s’agh n’è! Splendida frase in carpense misto latino che significa: pregate per me e per gli altri solo se ce n’è.

Botero – Un prete
Anche nella variante per un’equa divisione:
Trì pan,      Tre pani,
dù pròun,   due per uno,
dù a me      due a me
e un a te.    e uno a te.
Al va e s al vin come la cusinzia di frèe. Ci si riferisce a una persona i cui punti fermi … non sono tali.
            
L’è un demoscristiàan può rientrare nella definizione di prima, ma è anche sinonimo di tròoja (nel significato carpigiano); cioè uno capace di tutto e buono per tutto le stagioni. Abile a cambiare opinione alla bisogna; più che mentire … è incline morbidamente a omettere e operare in malafede per il proprio tornaconto, dando a intendere di occuparsi del bene comune.
L’è un cesulàan (o cisulàan) definisce una figura di nauseante bigotto rompiballe, con lo zucchero sopra e il veleno dentro, ecc.
                
L’è un comunista! o un faSista! Con tanto di punto esclamativo, sono da considerarsi offese almeno per il pronunciante. Uguali, reciproche e contrapposte: pronunciate quasi sempre con odio, dalla parte avversa per mettere in negativa evidenza i macroscopici difetti e nefandezze del partito nemico.
Per capire un po’ il clima del dopoguerra, si può ricordare che Togliatti pronunciò la seguente frase al Comitato Centrale del PCI, nel dicembre 1949: “L’anticomunismo sta diventando il marchio dei deficienti”.

                
Catòolich fèels e Comunista sfegatè cun i peraocc’. Definizioni simmetriche di pretta matrice emiliana e con connotati alla Guareschi, che hanno accompagnato il dopo guerra più acceso, cogliendo l’essenza antropologica dei due fronti: la doppiezza cattolica (fede e prassi, preghiera e atti, ambivalenze anche nelle relazioni interpersonali) e la sorda ottusità ideologica del comunista (cecità di fronte all’evidenza, propensione alla sopraffazione verbale, assenza di spirito critico e auto ironia).
L’è un saragatiàan. Offesa per significare un traditore (del popolo e della classe operaia). Divenne sinonimo di “venduto” e malfattore. Colpiva chi andava incontro all’ingrato destino degli “eretici”. Coniata dai militanti comunisti dopo la scissione (pro Patto Atlantico) di Giuseppe Saragat (1898-1988) dal PSI nel 1947 (Scissione di Palazzo Barberini) da cui nacque il PSLI - Partito Socialista dei Lavoratori Italiani -(i cosiddetti “piselli”) e poi il PSDI … i social democratici.
L’è un scranèer. Seggiolaio, occupatore di sedie. Epiteto in voga negli anni dal 1970 al ’90, rivolto dal popolino comunista ai socialisti del PSI di Craxi, sempre pronti ad allearsi indifferentemente con DC o PCI pur di ottenere ogni sorta e abbondanza di incarichi politici. I peggiori si ritroveranno quasi tutti con Berlusconi a occupare altre sedie.
L’è un bonomiàan - Bonomiano. Costoro erano i coltivatori diretti che aderivano alla Coldiretti fondata dal DC Paolo Bonomi (1910-1985). I contadini “rossi” comunisti chiamavano con disprezzo in questo modo i coltivatori “bianchi”, accusati di avere ogni sorta di privilegio, grazie all’appartenenza a questa allora potentissima organizzazione, tradizionale cinghia di trasmissioni democristiana.
Il pagliaccio Scaramacai (19559-66) di Pinuccia Nava
Mò va' là Scaramacai! È un’espressione che prende spunto dall'allora noto  pagliaccio di un programma televisivo per bambini degli anni ‘60, e rivolta genericamente a persona ridicola o, nella fattispecie, ad avversario politico il più delle  volte comunista.

Al fa al sindacalista. Succedeva che talora questa figura non fosse troppo apprezzata, per l’inefficacia verbosa del suo vano operare. Un parlare inutile e inconcludente, denominato già dagli anni ’70 … sindacalese (piattaforma, vertenza,  concertazione, rivendicazione, portare avanti una linea unitaria o un discorso, aprire un tavolo - a n s’è mai savù chi portiss po’ al scràani - ecc … ). Per sferzare queste vacuità di fatto, si sentiva dire questa breve, ma simpatica filastrocca nonsense, tipica di certo “rimare” volutamente irrispettoso tradizionale delle nostre zone:
Al fa al sindacalista …?!?!
Un gh i taja e n’èter a l gh i pista.
… E ‘n èter  ancòora a l gh i armis-cia.
(Fa il sindacalista! Uno glieli taglia e un altro glieli pesta. E un terzo ancora glieli mischia).
Però per mettere tutti pari, secondo la tradizionale usanza a prendi in giro del nostro dialetto, al posto di “sindacalista” si può però mettere a piacere una qualsiasi categoria il cui nome che termini  in … ista. La valenza sarà in ogni caso assicurata.
      
Chi arrivava con ritardo in un luogo di un comizio e chiedeva al vicino di cosa stesse parlando l’oratore con tanta enfasi e fervore, poteva cinicamente sentirsi rispondere: Chi gh n ha l è di bòun! Chi n gh i n ha l’è di cajòun! Chi ne ha (di soldi e beni) è dei buoni. Chi non ne ha è dei coglioni. Massima sempre attualissima insita nella sorte umana. Riassume la quintessenza della visione politica, interpretata magistralmente (ancora una volta) dal nostro tagliente e spietato dialetto. Qualcuno amareggiato aggiunge: I gh ha la ghignèera, come al cuul!

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