martedì 27 dicembre 2011

Porci e somari di Mauro D’Orazi dialetto carpigiano - Carpi (Modena)

Porci e somari  di Mauro D’Orazi  02-12-2010   dorry@libero.it

Questo è un aneddoto vero. All’inizio del ‘900, un contadino venne dalla campagna in piazza a Carpi per il mercato, eccezionalmente si portò dietro la moglie, che doveva acquistare alcune pezze di tela e altre cose per usi domestici. Il nostro, prima di separasi dalla moglie e andar a fer di interesi cun di mediadòr, le disse: “A se vdòm po’a mezdè … a l’Ustaria di Trì Porc”. La bettola era un modesto locale in via Berengario. Essa era gestita da tre omoni molto in carne, belli rotondi e dai modi piuttosto grossolani: un al rudghèva, n’etèr al scursèva e l’ultèm al spudèva. Insomma il tono complessivo del locale non era certo di alta raffinatezza. Tant’è che i carpigiani, cun sò buchini santi, affibbiarono loro il maleducato nomignolo, che ben si confaceva però alla situazione.
Ebbene … la donna, che non era pratica del posto, individuò incerta il locale, e prima di scendere i due gradini all’entrata, infilò titubante la testa. Erano le undici e mezza e vide i tre gestori, con i loro grembiuloni bianchi, non certo immacolati, che erano lì a tavola a mangiare … prima di servire la gente.
Timorosa e ingenua allora chiese a uno di essi: “Ch’al scusa bon om … ela questa l’Ustaria di Trì Porc?” Uno dei tre, con una smorfia, dopo aver dato una rapida occhiata agli altri due, si alzò dal tavolo e le rispose: “Mò sé, sgnora! La vegna mò deintèr, ca som chè ch agh manchèva la nimèla!!”
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Anche questa storia è vera e risale alla fine del 1800. Una mattina di una calda d'estate un birocciaio di Carpi, oltre a vari lavori di fatica, vendeva anche al mercato delle dozzinali, ma delicate terraglie. Quel giorno prima di mettere giù la mercanzia, si era fermato a bervèr 'na fujètta, in un'osteria dell'attuale Corso Fanti, una delle principali strade della città, allora pavimentata con un fondo a ciottolato. Lasciò parcheggiato davanti al locale il carro pieno del fragile carico con il somaro alle stanghe.
Mentre stava per bere l'ultimo sorso, restò col bicchiere a mezz'aria, perché da star dentro all'osteria, aveva visto un uomo di spalle silenziosamente avvicinarsi al somaro e poi accostarsi al suo orecchio, come a sussurragli qualcosa e la bestia, di solito calma e mansueta, partire di scatto e a tutta spinta col carico traballante e sussultante dietro.
Il poveretto mollò il bicchiere (al pechèr), uscì in un baleno e urlando come un forsennato, corse dietro all'animale e alla mercanzia. " 'Sa t'hani dìtt !! Mò 'sa t'hani dìtt!! Fermèt … Fermèt … Sa t'hani dìtt !! Sa t'hani dìtt !!" … si spolmonava ansante e trafelato: pensando, per assurdo, a chissà quali offese o minacce potesse aver ricevuto la bestia.
Finalmente, riacciuffato il somaro, constatò con una rapida occhiata i danni irreversibili a buona parte della merce cun tùtt i piatt e i piatlèin stremnèe a pcòun tùtt in meza a la strèda; ma vedendo che l'animale era ancora nervoso, gli venne l'intuizione di guardare dentro all'orecchio. Con grande stupore e rabbia trovò un mozzicone di toscano ancora acceso, che il bontempone, senza timor di Dio, aveva messo con mano empia e crudele.

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Sempre in quell’epoca … siamo nella bassa che più bassa non si può e la vicenda ha luogo in un pomeriggio di estrema calura, 40 e passa gradi, senza un filo di vento, tra fine luglio e i primi d'agosto; con uno di quei caldi che solo noi padani conosciamo e che tolgono ogni forza e ogni voglia. Il dialogo si svolge fra due braccianti al lavoro nei campi arsi e assolati. I due camminano caracollanti lungo un caradòun ed campagna … sfiniti.  Sono stremati al punto che a un certo momento uno dei due chiede all'altro: “Vhèe … prestèm 'na scureza!" (prestami una scoreggia). Era così distrutto dalla canicola che non aveva nemmeno l’energia per quel piccolo sforzo.

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