’Na maasa
d bòoti
Prima
stesura 29-09-2011 V 69 28-12-2012
Pubblicato
parzialmente su Voce di Carpi il 13-10-2011, n 40
Norme
di trascrizione del dialetto
Le norme
di trascrizione adottate dal
“Dizionario
del dialetto carpigiano - 2011”
di Anna
Maria Ori e Graziano Malagoli
Tabella
per facilitare la lettura
a a come in italiano vacca
aa pronuncia allungata laat, scaat, caana
è e aperta (come in dieci) martedè, sèccia,
scarèssa, panètt, panèin
èe e aperta e prolungata andèer, regolèeda, martlèeda, taièe
é e chiusa (come in regno) méi, mé
ée e chiusa e prolungata véeder, créedit, pée
i i come in italiano bissa, dì
ii i prolungata viiv, vriir, scalmiires, dii
ò o aperta (come in buono) pòss, bòll, brònnṡa, pistòun,
dimònndi
òo o aperta e prolungata scartòos, scatlòot, malòoch, tròop
ó o chiusa (come in noce) tó, só, indó
óo o chiusa e prolungata vóolpa, casadóor, móoi, óov, ṡóogh
u u come in italiano parucca, bussla, dubbi, currer, fiùmm
uu u prolungata bvuuda,
vluu, tgnuu, autuun, duu
c’ c dolce (come in ciao) vèec’ , òoc’
cc’ c dolce e intensa (come in faccia) cucc’, scarnìcc’, cutècc’, palpùcc’
ch c dura (come in chiodo) ṡbòcch, spaach, stècch
g’ g dolce (come in gelo) curàag’, alòog’, coléeg’
gg’ g dolce e intensa (come in oggi) puntègg’, gurghègg’
gh g dura (come in ghiro) ṡbrèegh, siigh
s s sorda (come in suono) sèmmper, sóol, siira
ṡ s sonora (come in rosa) atéeṡ, traṡandèe, ṡliṡìi
s-c s
sorda seguita da c dolce s-ciafòun,
s-ciòop, s-ciùmma, s-ciòoch
NUOVA EDIZIONE riveduta, corretta e
ampliata
Frutto
del lavoro di ricerca con suggerimenti e con il contributo
costante del Gruppo di Facebook “Chi parla dialetto carpṡàan” e del rughlètt di affezionati del bar
Tazza d’Oro alle 7 del mattino.
Revisione
della grafia del dialetto a cura di Graziano Malagoli
’Na maasa d bòoti
A
leggere le righe che seguono, si potrebbe pensare che Carpi e le terre vicine,
luoghi da cui ho tratto con tante testimonianze di frasi e modi di dire, siano
popolate di gente crudele e senza pietà
Le
violenze evocate sono efferate, potenzialmente violentissime e spesso rivolte
verso i minori.
Viene
in mente, per confrontare l’evoluzione dei costumi, un recentissimo episodio
dove, poveretto, un padre italiano in vacanza fu arrestato in Svezia per aver
strattonato il figlio che faceva i capricci: voleva andare in pizzeria, invece
che in un normale ristorante.
Invece, come quasi sempre succede nel
nostro dialetto, ci troviamo di fronte a frasi, modi di dire e parole usati a
“iperbole”, in una varietà di modi che costituiscono una ulteriore prova della
vivacità del dialetto e della sua capacità di imprimere una straordinaria
efficacia espressiva alle parole. Esagerate minacce che dovevano però poi solo
spaventare e riportare all’ordine il monello di turno. Tuttavia non era
assolutamente escluso che ’na quèelch patòuna l’arivìss a sèggn l
istèss (che una qualche botta a mano aperta arrivasse a segno lo
stesso).
I termini e i costrutti che
proponiamo ne sono una dimostrazione palpabile.
A t daagh un garavàan ch al pèer un uss ch al s sèera. Ti do un pugno che sembra un uscio
che si chiude sulla tua faccia. Anche … I gh
àan dèe un s-ciafòun ch a pariiva ch a se sriss un purtòun. Gli ha dato
uno schiaffone sembrava che si chiudesse un portone
Anche
… a
t daagh un garavàan ch a t prill la ghiggna indrée! Ti do una botta tale da girarti la faccia all’indietro.
A
t in daagh fin sòtt al laṡèini.
Te ne do fin sotto le ascelle.
Vèe
... sta atèinti da n catèer èt in ’na nuvvla (o in ’na fumaana) èd s-ciafòun, da n catèer
l'usiida. Ohh
... stai attento a non trovarti in una nuvola (o in una nebbia) di schiaffoni,
da non riuscire a trovare l'uscita.
Anche:
òccio
da n truvèer èt in mèeṡ a ’na nuvvla d scupasòun o in ’na cunfuṡiòun de s-ciàaf.
simile alla precedente.
La famosa scena di
Amici miei
Sta
atèinti da n imbaatr èt in ’na fiila d scupasòun, ch a n viin più l uultem !!! Stai attento a non imbatterti in una
fila di scapaccioni, che non arriva più l'ultimo.
S te piàanṡ,
a t in daagh ancòrra. Se
piangi, te ne do ancora.
Viin
chè ch a t daagh un cucch. Vieni qui che ti do un cucco, colpo vibrato in testa
con le nocche di un pugno chiuso; produce un caratteristico suono.
S
te viin a ca e t i èe ciapèedi, mè a t in daagh ancòrra, perchè acsè te t ṡvilùpp!
Se vieni a case e le
hai prese, io te ne do ancora, così ti sviluppi..
Durante
una lite o in risposta a una provocazione: S te gh èe biṡòggn, te viin pò chè!
Se hai bisogno, vieni qui.
**
Ciapèer
èn un scunzubbi. Prendere una forte dose di botte.
Ciapèer
'na menaata.
Prendere una menata
Dèer
ṡò al pènni a un quelchidùun.
Dar giù le penne a qualcuno ... picchiarlo.
Dèer
‘na bèela uunta.
Dare una bella unta, così poi si va molto più “lisci”.
Dèer
’na sfratunèeda. Dare una livellata al viso di qualcuno con l'uso
energico dell'attrezzo da muratore per sistemare e lisciare il cemento
dell'intonaco (la stabliduura) di una parete. La minacciosa frase del gergo
muratorio che si concretizzava con un preoccupante … A te sfratòun ! di solito
rivolto da un genitore nei confronti di un figlio capriccioso e disubbidiente.
Dèer
‘na stranfugnèeda ch a t caambi i conotaati. Dare una “stropicciata” a una persona
talmente potente da cambiarle i connotati.
Ciapèer
’n’orzaata.
Prendere una batosta, ovvero delle botte. Il nome orzata è utilizzato per
designare genericamente molti tipi di bevande rinfrescanti di tipo soft drink e
di origine vegetale, ottenute dalla pigiatura di cereali, tuberi, semi,
noci o frutti. Probabilmente il significato cruento della frase in dialetto
deriva proprio dalla necessità di pestare nel mortaio i suoi ingredienti per
ottenere la giusta miscela per la bibita.
Guèerda
che te n pèssch quèll te n séerch. Stai attento che (non) trovi ciò che
non cerchi.
Òccio
... al mè umarèel te n vaagh in disgraasia. Occhio ... il mio ometto, che tu non
vada in disgrazia.
A
t daagh un mapèin. Ti dò un piccolo pugno.
A
t daagh un rukètt sèkk
(utilizzo a bella posta … le Kappa alla Loris Guerzoni, perché … fanno più
male). Ti do un colpo secco, con le nocche delle dita della mano chiusa a
pugno. Si usa in particolare quella del dito medio ripiegato, dopo aver
effettuato strofinato a cerchio la nocca stessa sul cuoio capelluto dello
“sventurato”.
A
Lèmmed (o Limmid
come si dice a Carpi) Primo Saltini usava questa variante che comprende una
sua densa ritualità ancestrale e primordiale: a t daagh un ruchètt salèe,
cioè a pugno chiuso con il dito medio leggermente più in fuori degl'altri e
prima di darlo si inumidiva la nocca con la lingua e poi la si passava sotto la
suola di una propria scarpa.
Sempre
sullo stesso tema, ma di derivazione onomatopeica (cioè che da un suono deriva
un nome: ad esempio schiaffo da s-ciàaf … lo sferzante rumore che provoca il violento
impatto della mano sulla guancia altrui): a t daagh duu cucch. Ti dò due
cucchi. Sempre con la nocca delle dita o della mano. Il gesto, a seconda
della densità cerebrale della vittima, provoca una tipica emissione sonora
… cucch
cucch … di più o meno grave o alta
notazione musicale.
Lo
scrittore e poeta Oscar Clò ricorda che suo nonno spesso gli diceva: "Vuu t
’na nuuṡ?" (vuoi una noce? ... in bolognese). Poi chiudeva la mano
a pugno lasciando dritto solo il dito pollice che gli appoggiava sulla testa.
Poi, mentre ruotava il ditone, le nocche delle dita si abbattevano sulla sua
testolina. L’intensità dipendeva a seconda che avesse voglia di scherzare o
fosse arrabbiato davvero. E l’effetto si sentiva davvero tutto !
A
gh vrèvv ’na s-ciafadóora elèetrica. Ci vorrebbe una schiaffeggiatrice elettrica, da usare
quando ci sono molti bambini birichini. La frase era adoperata dalla
numerosissima famiglia dei Bellesia di Limidi, formata da decine di componenti,
con la presenza di frotte di bambini vivaci e discoli.
Sculasèedi
Una
frase che ripeteva spesso una vecchietta che abitava nella mia stessa casa e
che a me, ancora piccolo, faceva sempre piuttosto impressione: “Stà
atèinti ch a t chèev la linngua pèr al cupètt”. Stai attento che ti
levo la lingua dal "coppetto"
(lato posteriore del collo). Un’immagine truculenta che però faceva il suo
effetto.
Ciapèer quìlli èd Sandròun (prendere le
legnate di Sandrone) Negli spettacoli di burattini Sandrone (nota maschera
locale di furbesco sempliciotto) prende sempre un sacco di legnate in testa. Tòcch
! Tòcch! in simma a la masòocla èd lèggn. (sulla testa di legno).
1960 circa – 20
settembre – Festa dell’infanzia.
Spettacolo di
buratti al Parco delle Rimembranze,
tenuto da Plinio
Pederzani, figlio di Riccardo Preti.
A
t daagh ‘na sunèeda ... al dedrée.
Ti do una suonata … alla parte posteriore.
I
gh i àan sunèedi.
Gliele hanno suonate (date).
I m n àan dèe, mò a n ò aanch ciapèe. Me ne hanno date, ma ne ho anche
prese.
A
t daagh un ṡganasòun. A t daagh un manarvèers (ṡmaan arvèers). A t caas 'na
menaata. A t daagh ‘na maan d biàanch. Sempre
botte. Dèer un puggn, un casòot, ’na paaca, un cucch, ’na giòoba, un giubòun,
’na bòota, un
gnòoch, ’na ghéega, ’na ṡmasulèeda, ’na ṡbèerla, ’na ṡlèepa, un
papàagn, ’na ṡvèttla, un cupòun, ’na plutèeda, ’na sagatèeda, ’na
scartasèeda (accartocciata), ’na stranfugnèeda, un
cricch ind al
nèeṡ, un fruntèin e un sottbèech.
A
t daagh di s-ciafòun a duu a duu fin ch i n dvèinten dissper. Ti do tanti schiaffoni, a due a due,
finché non diventano dispari.
A
t daagh un ṡmataflòun (o ṡmatafiòun,
ṡmaflòun) a cavàal i dèint. Ti do una botta sui denti.
A
t daagh un giubòun (o ’na
giòoba). Ti do
una botta sulla schiena dove porti il giaccone.
A
t daagh ’na faata cartèela. Ti dò una bella sberla a mano aperta.
A
t daagh un “guèerda s al riiva e scóolta s al ciòoca”
...
un guarda s attiva e un ascolta se ciocca.
Di una persona di intelligenza limitata, ma
piena di sé, che non conta nulla, ma pensa invece di essere importante, si può
dare questa irresistibile definizione “ad absurdum”: L è un scóolta s al viin e un
guèerda s al ciòoca. Ci si riferisce a uno schiaffone. Analizzando
meglio, però, si tratta di uno che
ascolta se qualcuno viene e che guarda se qualcuno fa rumore. L'esatto
contrario di ciò che si dovrebbe fare un'accorta vedetta.
Lo schiaffo di
Anagni di Manara
Il
nonno sgrida la nipotina: Vóo t ciapèer un ṡguasaròot èd bòoti ?
Vuoi prendere un temporale, un rovescio improvviso - sguazzarotto - di botte?
Un’altra
frase con cui si minacciava i bambini disubbidenti era: Stà atèinti … ragasóol, che te gh ii avṡèin cóome al cuul a la patàaia
- stai attento … ragazzino, che sei vicino a prenderle come il culo alla
camicia. Ultimo estremo avvertimento prima di qualche scapaccione o
sculacciata.
Con
simile significato: Te gh ii da tèes cóome la codga al gràss! Ci sei vicino come la cotica - la pelle - al grasso (sono
strettamente saldate). Quando una minaccia di botte è ormai vicinissima ad
avverarsi. Ed esempio … una sculacciata per un bambino birichino, che non
smette di far arrabbiare la madre.
Te
gh ii a sveein avṡèin cóome
Nadèel a San Stevèen! Quand un l è areint a 'na batuuda o a 'na mnèeda. Ci sei vicino come Natale a Santo
Stefano! Quando uno sta per prendere una battuta o una menata.
Ognuno sgrida chi
può
A
m è rivèe ’na fàata ghéega (o
’na papaagna).
Mi è arrivata una botta molto forte; si usa anche in senso figurato e negativo,
per esempio nel campo dei sentimenti, degli affetti o degli affari.
Maledètta
quèlla ch la va (o
ch l’è andèeda) pèr tèera. Maledetta quella che va (o che è andata) per terra … di
botte o di bastonate. Viene riferito ad azioni contro persone spregevoli che
vengono menate da “terzi”. Ogni fendente, che colpisca l’infame, rappresenta un
atto giusto e sacrosanto, mentre quello che è andato a vuoto viene esecrato con
rammarico.
Quàand
mè mèeder la m dgiiva: “Stà atèinti ch a gh ò ’na faata spiùura al maan!”, mè a
capiiva ch l'éera óora èd dèer èggh un tàai. Quando mia madre mi diceva: “Sta
attento che ho molto prurito alle mani!”, capivo che era ora di darci un
taglio.
Una
madre all’estremo limite della sopportazione invece minacciava il figlio: Cum a
t ò faat … a t desfàagh! Come ti
ho fatto … adesso ti disfo.
Oppure:
Viin
chè ch a te scròoṡ! Vieni qui che ti scrocio!
Oppure:
S
te fuss un calsètt a t desfarèvv e po’ a t turnarèvv a fèer. Se tu fossi un calzino ti disfarei e
ti tornerei a rifare.
La
madre di Valeria Vandelli Campello la minacciava con un … a t daagh un s-ciafòun ch a t mètt
i usèin in fiila. Ti do uno
schiaffone che ti metto gli ossicini (forse i denti) in fila.
A
tale proposito mi racconta Annamaria Loschi che quando c'era aria di menaata,
si chiudeva in fretta in bagno e sua madre, ormai fuori di testa, le sibilava:
"Viin fóora dèd lè ch a te ṡguàast!"
Vieni fuori di lì che guasto!
Ed
lei: "A n suun mìa sèmma!"
Non sono certo scema.
A
15 anni finì poi in collegio.
La madre di Ruggero Po, quando lavava
i piatti, e il ragazzino non faceva a modo, la gh ṡibiiva un ṡmanarvèers
móoi (gli offriva un manrovescio bagnato e quindi più doloroso).
Adèesa
a l diggh al baabo ... acsè te i ciàap. Oppure … Quàand a riiva tò pèeder a gh al
diggh ! Quàanti vòolti a i ò sintiidi !
Adesso lo dico al papà … così le prendi. Oppure … quando arriva tuo padre …
glielo dico. Quante volte l’ho sentita da bambino da mia madre o da mia zia.
Ma
poteva già esserci un’erogazione anticipata: A t daagh duu s-ciafòun ch a t
prill la ghiggna, e quàand a viin tò pèeder al t dà po’al Rèest dal Carlèin.
Ti dò due schiaffoni da girarti la faccia. Poi quando viene tuo padre di darà
il Resto … del Carlino.
Viin
chè ch a t chèev al simiòot!
Vieni qui che ti tolgo dallo stato di gracilità. In tempi passati i bimbi in
tenera età che crescevano male venivano messi nel forno del pane, non più
bollente, perché prendessero una “scalorata” che li aiutasse a superare il loro
stato di crisi. La frase rivolta a un adulto o a un ragazzino assumeva un tono
di “calorosa” minaccia.
I gh àan sunèe da balèer: hanno suonato loro da ballare, nel senso che
qualcuno li ha riempiti di botte e …
hanno ballato, loro malgrado, a questo ritmo.
Per indicare che si è in un momento
di nervosismo e poca pazienza, si può minacciare l’importuno con un … Stà
atèinti che incóo a n suun mìa taant biònnd. Stai attento che oggi non
sono tanto biondo (ma in effetti non lo
era mai stato) e che la mia pazienza è già finita prima di cominciare (appunto …non essendo mai stato biondo).
A
t daagh ’na s-ciàafa che al murr al t in dà ’n’èetra o al t in dà dóo. Ti do uno schiaffo che il muro te ne
dà un altro o te ne da due.
A t faagh gniir al cuul ròss a fòorsa d sculasèedi. Ti faccio venire il culetto rosso a
forza di sculacciate.
A
gh ò dèe ’na ṡvèttla ch a s-ciflèeva (sighèeva) l'aaria. Gli ha dato una sventola che fischiava
(o urlava) l’aria.
Sempre
la madre rivolta al bimbo birichino: Stà atèinti ch a m fa spiùura al maan.
Stai attento che mi prudono le mani.
A
te ṡlunngh al pulgòot.
Ti allungo “al pulgòot", cioè quella zona di capelli che si trova
sopra al collo, fino alla nuca. Ṡlunghèer al pulgòot era ... dunque
una bella tirata di capelli dove fa più male e dove si rifugiavano le pulci!!!
La definizione completa dalla insolita parola è questa: Pulgòot s.m. 1) rachitismo,
malnutrizione : al gh à al pulgòot cresce stentatamente, di bimbo o animale
(lett. ha la malattia delle pulci). 2) lunga zazzera sul collo, tipica delle
soldataglie di un tempo, luogo dove più facilmente si annidavano le pulci :
cavèer al pulgòot - tagliare i capelli sul collo per punizione, FIG. far calare
la boria.
Marco
Giovanardi ricorda una di quelle stupide abitudini pseudogogliardiche che negli
anni ’50 caratterizzano talora, senza un vero motivo, il comportamento del
prossimo:
’Na
vòolta (anni
’50) i
t rivèeven cun ’na s-ciàafa a maan avèerta sul cupètt, ch la fèeva un
ciòoch inconfondibbil. E po’ i t sighèeven in ’n’urèccia: "Quàater dii d
còppa!!
I
ragazzi che invece che avevano i capelli con la sfumatura bassa sul collo e
che perciò non era scoperto, venivano
chiamati i gnagnòun, perché i gh iiven la gnaagna sul cupètt.
I gh àan dèe ṡò al pullghi. Gli hanno
tirato via le pulci da addosso.
A
t in daagh èd sòtta e d sóovra (sóover). Te ne do di sotto e di sopra.
Vóo
t un tintinmèint? Vuoi un “tienilo
a mente”? Splendido nella sua semplicità ed efficacia.
A
t daagh taant s-ciafòun che a t faagh gniir ’na ghiggna ch la pèer ’na tabèela ṡgiarunèeda! Di do tanti schiaffoni che ti faccio
venire la faccia alla stregua di una tabella presa a sassate.
A
t daagh taant s-ciafòun da fèer èt pèerder al nummer d ca. Ti do tanti schiaffoni da farti
perdere il numero di casa.
La
bisnonna di Giorgio R. lo minacciava: Manamàan ch a t ciàap, a te spavìir damàand ’na
cuèerta. Quando ti prendo, ti spaviro
damando una coperta.
A
t daagh un s-ciafòun talmèint fòort che, quàand te ṡmetrèe d girèer, i tóo
vistìi i sraan pasèe d mòoda!
Ti do uno schiaffone così forte che quando la smetterai di girare, i tuoi
vestiti non saranno più di moda.
Sèggn
èt i òos, perchè s a faagh taant a gniir lè
… a ti meṡṡd!
Segnati la disposizione delle tue ossa, perché se vengo lì … te li mischio.
A
gh ò dèe ’na s-ciffla! Una sberla … sibilante e fischiante.
A
t tiir un
manarvèers … uno schiaffo col dorso della mano a
rovescio.
A
t daagh dóo sfibièedi cun la sinngia di pantalòun (dal
brèeghi)! Ti dò due sfibbiate con la cinghia dei pantaloni.
A
t daagh ’na ghéega ... che te t al tiin in ameint pèr
un bèel pèes. Di do una botta che te la terrai in
mente per bel pezzo.
A t dróov al
maandegh dla malgarèina e, fin ch a nn è bulla, a n laas mìa lè! La madre al
figliuolo: Ti adopero il manico della scopa, finchè non diventa bulla, non
lascio lì di dartele. Variante ... fin
ch a n gh in rèesta un pcòun, finchè non ce ne resta un pezzo.
L
è gustóoṡ cóome ciapèer di s-ciàaf a l'òorba. È una cosa,
una situazione, ma soprattutto una persona poco gustosa, sgradevole, così come
lo è prendere degli schiaffi al buio, che non si sa da che parte vengano.
A
t dróov ’na stròopa ind al gaambi! Ti adopero un ramo flessibile, in
genere di salice, (per dolorose, ma non troppo dannose, punizioni corporali)
sulle gambe.
Molto carina questa filastrocca,
picchiettanto sul palmo aperto del bimbo:
La
maan, la maan l'è màata,
La mano, la mano è matta,
la
piccia chi la caata, picchia
chi trova,
la
caata al sò padròun, trova il suo padrone
e
la gh mòola un bèel s-ciafòun! e gli molla un bello schiaffone.
**
La
mèeder èd Primo Saltèin la dèeva ai sóo fióo taanti èd cal strupasèedi ind al
gaambi nuudi, che dòop trii dè i gh iiven ancòrra i silàach. La madre di Primo Saltini
(idraulico) somministrava ai figlioli, per altro sicuramente innocenti, tante
di quelle stropazzate sulle gambe
nude, che dopo tre giorni si vedevano ancora i segni rossi.
Ciapèer
di scupasòun pèr avéer magnèe al cumpanaadegh a la vigliàaca.
Prendere degli scapaccioni a tavola in famiglia per aver mangiato dei
cibi senza pane. Marco Giovanardi ricorda che nel primo dopoguerra (ma anche
più tardi come scrupolo sopravvissuto, anche al boom di Carpi), quando ci si
doveva sfamare in prevalenza con pane e patate (chi abitava in città) era
considerata grave colpa cibarsi del companatico senza pane. L
éera un comportamèint da vigliàach, perchè pèr impinìir la paansa d uun, a s
tuliiva vìa al magnèer a chi èeter fradée. (era un
comportamento vile, perché si portava via del mangiare pregiato agli altri
fratelli e familiari.)
A
tale proposito anche il Baffo, noto esperto di apparati radio e simili e
gestore della baracchina estiva nel Parco della ResistenSa, ricorda: “Mè
mèeder, ch l’éera ’na maruchiina, la m dèeva di cupòun ch la m fèeva vèdder al
stèlli, se a meṡdè a magnèeva dal salàam o dal furmàai sèinsa paan. E pò, de
spèss, l éera aanch paan vèec' staladìi”. (Mia madre, che veniva dal
sud, mi dava degli scappellotti che mi facevano vedere le stelle, se a
mezzogiorno mangiavo del salame o del formaggio senza pane. E spesso di si trattava di pane vecchio).
Peraltro
anche a casa mia mi sono sempre sentito rimproverare, (sèinsa di scupasòun,
però), perché mangiavo il formaggio senza pane. Mio padre, che da ragazzo aveva
sentito la fame, tutte le volte mi rimproverava, anche quando la situazione
economica della famiglia era ormai prospera. Era un retaggio MORALE, quasi un
offesa alla povertà. Anche tenere il pane rovesciato era irrispettoso. Un uso
che io seguo ancora scrupolosamente anche attualmente.
Ma
i tempi cambiavano e viceversa quando non volevo mangiare qualcosa e non stavo
bene, mi veniva invece raccomandato:"Dai! mangialo ... anche senza pane! Aanch
s te n gh èe faam" (anche se non hai fame).
E
fare briciole? Anche questo era biasimevole. Mai e poi mai ṡbriṡlèer al paan!
(sbriciolare il pane). Fare troppe briciole spezzando il pane, era come
metterlo rovesciato sulla tovaglia, in tante case era un tabù. "Persino
Gesù scese da cavallo, per raccogliere una briciola di pane!" Raccontava
la vecchia zia, minacciosa e intimante col dito indice alzato.
"Te n
sarèe màai ’na sgnóora! " (Non sarai mai una signora). Con questo
ammonimento la madre sgridava la figlia che faceva tante briciole sulla
tovaglia.
Il
rispetto per il lavoro, per la fatica che c’erano dietro al cibo era
fortissimo, con connotazioni, anche religiose, che convivevano con qualunque
idea politica.
OGGI
sono tutte categorie SCOMPARSE e incomprensibili per i consumatori di merendine
e di estatè.
Stà bèin
atèinta, perchè te vèe sòtt a un cavàal biàanch!
òccio
… te vèe sòtt a un cavàal biàanch. Frase principe in carpigiano per minacciare.
Andare
sotto un cavallo bianco era in effetti un'eventualità molto rara. I cavalli
erano pochi e per di più quelli bianchi ancora meno. Tuttavia quando uno portava
il prossimo al limite della pazienza, quest'ultimo, giunto allo stremo della
sopportazione, lanciava questa minaccia preoccupante. Ciò a significare più o
meno: “Di solito è difficile e eccezionale che tu subisca delle singolari
conseguenze del destino, ma se continui ... a causa delle sciocchezze che
compi, prenderai una dura lezione con dolore fisico da me o da altri. Quindi … laasa
lè !!! Mòola !!!"
Mia
madre per scherzo minacciava la nipotina Teti,
la figlia di mio fratello, affidatale
qualche pomeriggio, che faceva la birichina: Stà atèinta, perché te vèe sòtta
un cavàal biàanch!" e lei rispondeva impertinente " E tu sotto uno nero!" … Pèinsa
mò tè che paùura ch la psiiva avéer èggh.
Sempre
mia nipotina Teti era preoccupata per angherie, intromissioni e interventi a
sproposito di sue amichette spocchiose. Tutte cose di lieve entità, ma che in
una ragazzina possono rivelarsi addirittura drammatiche e angosciose. Allora le
ho rivelato la frase magica da indirizzare direttamente alla rompiscatole di
turno e valevole anche a memoria futura per i casi della vita che
inevitabilmente incontrerà nei prossimi anni: Stà m su da dòos! Un
concetto Inequivocabile e conciso; sunto di un certo modo deciso di affrontare
il prossimo invadente che bisogna ch al staaga al sò pòost e a
la lèerga.
Òccio
… te vèe in disgraasia.
Attento che vai in disgrazia. La madre di Angela minacciava: Stà
atèinta, ragasóola, te vèe sòtta un caar! A t daagh duu ṡmataflòun ch a t giir
la ghignèera!!" Stai attenta, ragazzina, che finisci sotto un
carro … ti do un ceffone che ti gira la faccia.
A
l’ò squanternèeda!
L’ho squinternata, distrutta … Tipica vanteria di maschietti il giorno dopo con
gli amici al bar. Sarebbe interessante sapere però anche la versione
dell’interessata.
I
m àan dernèe !
Mi hanno rovinato, sfiancato. Io pensavo che l’origine della parola fosse più o
meno “derenato”, cioè … “con la
schiena rotta all'altezza delle reni”; ma mi hanno fornito un’interpretazione
più complessa che per dovere riporto. Il termine deriverebbe,
sorprendentemente, dal linguaggio marinaresco dove "derno o in derno"
è un modo di alzare la bandiera nazionale (annodandola su se stessa) e che
indica che ... si è in difficoltà estreme e che si ha bisogno di aiuto. Al
lettore l’ulteriore ricerca e la scelta della giusta soluzione.
I
m àan spaplèe cóome un caaco!
Mi hanno ridotto a poltiglia come un caco.
Con
analogo significato … I m àan stlèe ! oppure A iò
ciapèe ‘na stlèeda. Che non vuol
dire mi hanno “stellato”, ma distrutto, affaticato. Si è dunque preda della stufiiṡia
(stanchezza), stato che può derivare da fatti fisici, ma anche psicologici o
morali. Ad esempio dopo un incidente, una menata, una balla, una forte perdita
al gioco, una serie di lutti o disgrazie, ecc …
A
n ò ciapèedi fin sòtt al laṡèini.
Ne ho prese tante, ma tante … fin sotto le ascelle.
Al
gh à casèe ’na faata campaana.
Gli ha dato un pesante schiaffone, probabilmente “campana” deriva dal fatto che
l’urto ha fatto risuonare e vibrare in modo consistente la povera vittima.
I
gh àan faat la cuaciina.
Allo sprovveduto veniva teso un agguato di sera o in un luogo oscuro,
buttandogli a sorpresa una coperta in testa e poi veniva preso a botte o a
legante. Nel periodo fascista e post fascista, quando si voleva castigare
qualcuno dell'una o dell'altra parte, senza correre il rischio di essere
riconosciuti, i gh butèeven un tabàar in simma a la tèesta e pò ṡò lèggna da òoreb.
Così coperto, il malcapitato certo non poteva riconoscere chi gh iiva faat la cuaciina.
A
Campogalliano si dice anche: i gh àan dèe ’na cuartàasa! Copertaccia: sinonimo di cuaciina.
**
Non
può mancare il “Tabacco del Moro “ in questa cruenta raccolta. Un modo di dire
che è usato in tante zone d’Italia
A
t al daagh mè al tabàach dal Mòoro
o anche Morro (con la doppia erre per accentuare la violenza
dell’atto)! Ti do io il tabacco del Moro !
Significa:
Ti dò un sacco di meritate botte! Adesso
ti sistemo io ! Te le dò di santa ragione per una giusta punizione! Può anche
significare l’aver subito una pesante sconfitta: l à ciapèe al tabàach dal Mòoro !
Il tabacco del Moro
in confezione moderna
E’
un modo di dire che deriva da un'espressione francese “passer à tabac”, che il nostro dialetto ha personalizzato
con una famosa marca di tabacco trinciato da fiuto o da pipa, fine e costosa,
appunto "Il Tabacco del Moro". Ciò differenza di quelli che,
arrivando dalle piantagioni spagnole centrali e meridionali, si chiamavano come
i paesi d'origine.
Dalla rivista francese
"Beaujolet" apprendiamo: Dans
le langage maritime, un "coup de tabac" était un violent coup de vent
qui risquait d'abîmer le bateau. Ensuite, au XIXe siècle, le nom
"tabac" a pris le sens de "volée, coup". Sa racine "tabb" signifie
"battre, frapper". "Passer à tabac", veut donc dire frapper
violemment une personne.
Questo
tabacco provocare sensazioni orali decise e prendeva nome dal disegno di un
giovane Moro sulla confezione, probabilmente da uno degli schiavi che
lavoravano nelle piantagioni di tabacco in America
Ma
c’è anche chi interpreta la frase in questo modo: trattandosi anche di tabacco
da masticare, per il suo gusto forte e pizzicante, poteva rappresentare … un
pugno … proprio in bocca.
Curiosamente,
il detto, noto in vasti territori, a Casirate, in provincia di Bergamo, prende
la seguente variante: "Ta
'l dó mé al tabàr da 'l Moro - ti do io il tabarro del moro,
cioè un sacco di botte. Tabarro
… dunque, non tabacco
… e il Moro era un omaccione che portava sempre un bastone con sé nascosto
sotto il tabarro!
**
Infine
essendo in Italia non possiamo trascurare queste frasi pregnanti e di base del
normale vivere nella nostra società civile: Andèer dèinter (o avaanti) cun ’na
patòuna, o un scupasòun, o ’na
scupaasa. Andare dentro o avanti con una provvidenziale manata o spinti
da uno scapaccione, ottenendo un vantaggio forse non proprio meritato, rispetto
a tutti gli altri. La frase poteva essere usata quando negli anni ’50 la
maschera del cinema o del locale da ballo faceva entrare gratis qualche
ragazzino, accompagnando il generoso gesto con una bottarella a mano aperta sul
coppetto del beneficiato, che veniva gratuitamente spinto in sala.
Ecco come l’esimio poeta carpigiano
Ubaldo Urbini descrive nel 1884,
in una gustosa poVeṡia, questa situazione, dove un ragazzo,
facendo il furbetto, tenta inutilmente di entrare senza pagare in un luogo dove
di teneva un evento a pagamento:
Deintr
a scupazòun
- Ehi, cal digga: al
bigliett? … Lò … cal sgnurèin …
- Ritorno! - Cosa ? - Sono uscito adesso …
- S'l'è di ritorno, al mustrarà al
scuntrèin.
- Certo, l'ho qua … cioè … dove l'ho messo
?
-
Forse
in bisaca … ch a l le serca bèin …
-
Oh
! l’ho smarrito. Ciò mi accade spesso:
son
tanto astratto ! … - Allora, al mè carèin,
am
in despiès, ma entrar non è permesso.
-
Ché?
Si diffida della mia asserzione?
-
Mò
gnanch direl per schèrs: gh al al bigliett?
-
Insolente!
N’avrai dura lezione.
-
Va
la, va la ch a t cgnuss, bèl bagaiett!
-
Sbraja
pur fort, ricorr in Diresiòun,
ma
ché dèinter t en vin mja a scupasòun.
di Ubaldo Urbini – da “Mò seint” - 24 agosto 1884
Da
qui l’immagine si è ampliata anche col significato, oggi molto in voga, di
essere stati assunti senza fatica in posti di pregio, anche senza avere i
titoli necessari. Tutto ciò solo per il fatto di essere stati raccomandati da
parenti o da persone appartenenti a congreghe importanti. Tutto ciò
sopravanzando dei più meritevoli.
Raccomandazione:
“Stai tranquillo ci penso io …”
**
Col
contributo di Marco Giovanardi, Graziano Malagoli, Oscar Clò, Luigi Lepri,
Florio Magnanini, Dario D’Incerti, Carlo Alberto Parmeggiani, Anna Bulgarelli,
Franca Camurri, Jolanda Battini, Primo Saltini, Giuseppina Bertolazzi, Teti
D’Orazi, Lele e Graziano Forghieri, Carlo Ferrarini, Cristina Bonaretti,
Luciana Tosi, Ruggero Po, Valeria Vandelli Campello, Marco Rossigni, Angela
Andreoli, Enzo Crescenzio Luongo (Il Baffo),
Giorgio R., Monica Giuseppetti, Patrizia Manicardi, Odette Baracchi, Stefano Mc
Peter, Ricky Dondi, Lara Bertesi, Alessandra Costantino, Annamaria Loschi, Enrico
Morselli, Elena Po, Vanni Previdi, Giliola Pivetti, Ruggero Sassi, Carla Bruna,
Susetta Arletti, Maddalena Zanni, Roberto Saetti (Jacksie), Camurri Giancarlo, Andrea
Albertazzi e Jango Grandi.
**
Da
aggiungere
Quando
da piccoli si piangeva per nulla, la madre ammoniva: Gnòola! Gnòola! Te ridd pò quàand
te te spóoṡ! (Lamentati
pure, riderai quando di sposerai.
Gnòola!
Gnòola! adèesa a t daagh duu s-ciàaf acsè te gnòol pèr quèel!
Camurri
Giancarlo
..a te stablìss atàach al murr cun un suvver!!!
Camurri
Giancarlo
..a t caas ’na maseèda cun un s-ciavaróol!!!
-
chèels
ind al cuul
-
a
t ṡbrèegh al filòun dla schiina, sfilunèer
-
s-ciàanch
i braas
-
a
t faagh vèdder al stèlli
-
‘na
ṡnucèeda ind i maròun
-
ṡbraghèer
i dèint
-
a
t chèev i òoc’, i cavìi,
-
a
t s-ciàanch ègl’urècc
-
a
t scuurt i cavìi
-
ciapèer
’na petnèeda
-
desfèer
-
ṡbraghèer
al gaambi (gergo calcistico)
-
ṡbraghèer
al cuul (pluriuso)
-
ṡbraghèer
i còoren
-
sfundèer
la schiina
-
fiachèer
i braas
-
insuchèer
-
mètter
in ṡnuciòun
-
ciapèer
pr al cravatèin
-
ciapèer
pr al còol
-
a t fóogh, a t stròos
-
muṡghèer
-
a
t tiir o despìcch o ṡlunngh al còol
-
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