martedì 27 dicembre 2011

Il cotecchio – modi di dire e usi carpigiani - Mauro D'Orazi Carpi (Modena) Dialetto



stesura iniziale 17 gennaio 2010                                            v 45 del 09-10-2014

Al cutècc’
Il cotecchio

Il cotecchio… al graan ṡóogh dal tróoi 

 Modi di dire
e usi carpigiani
e di dintorni 


revisione del testo e della grafia del dialetto
a cura di Graziano Malagoli

 di Mauro D’Orazi




Pubblicato in parte su Voce di Carpi n 7 del 18 feb 2010


Norme di trascrizione del dialetto

Le norme di trascrizione adottate dal
“Dizionario del dialetto carpigiano - 2011”
di Anna Maria Ori e Graziano Malagoli

Tabella per facilitare la lettura

a      a come in italiano                           vacca
aa    pronuncia allungata                         laat, scaat, caana

è e aperta (come in dieci)                        martedè, sèccia, scarèssa, panètt, panèin
èe    e aperta e prolungata                      andèer, regolèeda, martlèeda, taièe
é      e chiusa (come in regno)                 méi, mé
ée    e chiusa e prolungata                      véeder, créedit, pée

i i come in italiano                                  bissa, dì
ii      i prolungata                                   viiv, vriir, scalmiires, dii

ò      o aperta (come in buono)                pòss, bòll, brònnṡa, pistòun, dimònndi
òo    o aperta e prolungata                      scartòos, scatlòot, malòoch, tròop
ó      o chiusa (come in noce)                   tó, só, indó
óo    o chiusa e prolungata                      vóolpa, casadóor, móoi, óov, ṡóogh
u      u come in italiano                           parucca, bussla, dubbi, currer, fiùmm
uu    u prolungata                                  bvuuda, vluu, tgnuu, autuun, duu

c’      c dolce (come in ciao)                     vèec’ , òoc’
cc’    c dolce e intensa (come in faccia)      cucc’, scarnìcc’, cutècc’, palpùcc’
ch    c dura (come in chiodo)                   ṡbòcch, spaach, stècch
g’     g dolce (come in gelo)                     curàag’, alòog’, coléeg’
gg’   g dolce e intensa (come in oggi)       puntègg’, gurghègg’
gh    g dura (come in ghiro)                    ṡbrèegh, siigh

s      s sorda (come in suono)                  sèmmper, sóol, siira
      s sonora (come in rosa)                   atéeṡ, traṡandèe, ṡliṡìi

s-c    s sorda seguita da c dolce                s-ciafòun, s-ciòop, s-ciùmma, s-ciòoch











Al cutècc’  - Il cotecchio

Io non sono mai stato un gran giocatore da carte, non sono tagliato e quando uno lo capisce, è meglio rinunciare. Però di fronte a un’ offerta di fare un partita a cotecchio non so dire di no. Infatti in questo gioco si è da soli, senza la rottura di dover rispondere a un compagno esigente e fastidiosamente critico nei tuoi confronti.
Il giocatore deve dunque rispondere solo a sé stesso e chi sbaglia paga subito e pesantemente gli errori commessi. Una breve premessa sulle regole a Carpi. Si gioca in quattro giocatori con le carte da briscola. Le regole sono simili a quelle del tresette, ma all’inverso; infatti il giocatore perdente è quello che realizza più punti. Lo scopo del gioco è quello di non prendere, ma si ha l'obbligo di rispondere al segno giocato. In ogni caso si deve effettuare però almeno una presa, altrimenti si è perdenti. A volte si possono creare tacite alleanze tra due giocatori per non permettere agli altri due giocatori di effettuare alcuna presa; in questo caso, il punteggio vale doppio. Si può verificare il raro caso di un giocatore che riesce a non permettere nessuna presa agli avversari; il punteggio viene triplicato per i perdenti. Le carte hanno un loro punteggio: gli assi valgono tre e le figure uno, chi fa l’ultima mano si fa carico di tre punti aggiuntivi.
In ogni partita i punti in ballo sono 35 (32 +3). Fino a 14 punti si paga una busca, fino a 17 = due, fino a 20 = tre, fino a 23 = 4, fino a 25 = 5; dopo i 26, ogni punto una busca. Terminata la partita si assegnano le busche solo a chi ha fatto più punti. I primi due che arrivano a 10 busche escono e perdono, ma se un giocatore arriva a 20 perderà solo lui. Il gioco ha tante varianti regionali e provinciali e di conseguenza tanti nomi: traversone, busche, rovescino, matassa, vinci-perdi, ass' e mazza, alla meno, tressette a non prendere, tressette a perdere e ciapa no. Della terribile variante carpigiana con il Pigugnino ne tratteremo alla fine.
La simbologia del gioco sta nel riuscire con abilità e fortuna a schivare i colpi e le responsabilità dell’esistenza umana.
Ma lo scopo sottile e intimo del gioco è il dileggio spietato dell’avversario, fatto sia dagli altri giocatori, ma anche dagli spigolisti autorizzati con diritto di parola. Il dileggio scatta in varie occasioni: quando uno va a venti e paga per tutti, quando uno prende su degli assi, quando uno paga molte busche in un singolo segno, ecc... La derisione ha un esplicarsi corale e progressivo che si protrae nel tempo.
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Il noto scrittore carpigiano Carlo Alberto Parmeggiani ritiene invece, con autorevole parere, che il cotecchio, fra i veri giocatori, debba essere considerato il "gioco delle carogne, ovvero al ṡóogh dal tróoi", per cui ci vogliono delle autentiche e ferrate doti in questo senso. Infatti basta poco per cambiare di nascosto un'alleanza e dare addosso a chi è messo male in arnese, anche se è l'amico con il quale vai a donne, oppure in gita. Il cotecchio è sì, il gioco del dileggio, ma soprattutto è il gioco che genera un diabolico prestigio e stabilisce una gerarchia fra conoscenti o amici. Infatti il "tradito", il perdente, anche se bravo, e che magari fino a poco prima aveva goduto di rispetto e di alleanze sottaciute dai più pavidi e meno capaci, spesso e volentieri si allontana umiliato, da sconfitto, dai tavoli da gioco per giorni, se non per dei mesi interi. Il Parmeggiani ama ricordare, con grande soddisfazione, che quando mandò a venti il più grande giocatore che egli abbia conosciuto (Franco Benzi lo zio di Tito Ligabue, che in terza mano sapeva già chi aveva certe carte in mano), per la vergogna, il poveretto si rifugiò a San Remo per tutta l'estate, tornando poi a coda bassa a settembre inoltrato, deciso a fargliela pagare in ogni modo.
Il vero gioco, per i veri giocatori, dunque non consiste nel salvarsi dai "colpi e dalle responsabilità dell'esistenza umana", bensì nell'imporre la propria supremazia e il proprio prestigio sugli altri e soprattutto sul destino. Ciò anche quando questo non metta in mano che delle brutte carte per la vita. E' filosofia e ferrea matematica applicata, dove una sola momentanea distrazione è sufficiente per perdere il controllo delle giocate altrui e scatenare un tracollo emozionale. Tracollo di cui gli altri, i più avveduti, i più bravi, i più carogna, ne approfittano in meno che non si dica. Questo avviene anche correndo magari a volte il rischio, come talora è capitato, di uscir fuori a far cazzotti. Chi gioca invece per solo salvarsi, lo fa per passatempo ed è spesso definito ironicamente "estroso", poiché dimostra di non capire il gioco, facendo giocate illogiche, se non addirittura strampalate. Ma tanto, dopo qualche "raggio", se costui non è cacciato via in malo modo, lui stesso si alzerà da solo e tornerà a casa, come se fosse andato al cine.
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Ma ecco alcune delle frasi tipiche carpigiane che caratterizzano il gioco dal cutècc’ (… o anche cutègg’ come ci informa Franco Bizzoccoli, rivelandoci la pronuncia arcaica in dialetto intra moenia … nell’antico borgo fra le mura):
Cuacèer = coprire. Bisogna fare almeno una mano (fèer ‘na maan). Se non si copre, si paga una busca, se i giocatori sono due, i punti sono altrettanti, fino al caso massimo e rarissimo dove un singolo giocatore fa cappotto.
Forse al Bar Mercato di Via Alghisi, si urlava .. "Te vèe pò a cuacèer da l'Adéele!"... “Vai poi a coprire dall’Adele! ” . Era una frase ricorrente, con un palese significato di pratica sessuale, essendo questa Adele una nota e frequentata signora mercenaria di Modena, quando uno, nonostante gli sforzi non riusciva a fare una mano.
OppureTe vèe pò a cuacèer sòtt al pòordegh èd BorgNóov! cioè in Corso Fanti dove c’è il Vescovado.
Andèer a liss = andare liscio, un termine derivato e preso a prestito dalla briscola. Qui lo si può usare per il gioco di una carta bassa; se lo si fa poi in modo reiterato a s fa al ṡóogh dla lisòuna = si fa il gioco della “lisciona”. Ma espressione più corretta è tirèer al ṡóogh = tirare il gioco, cioè non si prende per diverse mani, in modo da far giocare gli avversari, sperando che le carte girino bene. Si tratta di una tattica furbastra e rischiosa; se le cose andranno male, si pagheranno parecchi punti. L’espressione pighèeres (piegarsi) ha lo stesso identico significato.
Fèer ṡóogh = Fare gioco. Quando un giocatore ha delle brutte carte alte, tenta da solo o in tacita compagnia di non far coprire almeno un avversario, che in tal caso pagherà almeno uno.
Quando hanno già coperto in tre, ed uno di questi cerca di far gioco e di non far coprire il quarto, gli altri due devono tenere ben presente che: “A gh è ‘na règola: a n s dà mìa ‘na maan a fèer ṡóogh pèr uun!= C’è un’altra regola importante ed è quella che quando si fa gioco bisogna sempre tentare di non far coprire due giocatori, facendo loro pagare ben due busche. Se invece solo uno non copre, certamente uno degli altri tre si sarà schivato almeno tre busche di mazzo.
Aas èd travèers = Asso di traverso. Sadica pratica di smollare un asso al poveretto che ha giocato per primo una carta di un seme a cui si è secchi. Di solito la mazzata viene accompagnata da una falsa e melliflua costernazione: “Oh, a m in despièeṡ!
Quando uno cerca di coprire con un asso, lanciandolo in apertura di mano, e semmai un altro ha il tre o il due secco, e quindi è costretto a prendere e farsi quindi l'asso (cosa sempre massimamente indigesta) gli dice, a mò di sfida e di consolazione personale: “Èt cuàac’ pò cun ‘na chèerta più éelta!” = copri poi con una carta più alta -  e quell'altro gli risponderà: “Mò tèeṡ, te gh l avrèe sècch! = ma taci che ce lo avrai secco, il due o il tre (intuendo naturalmente la verità).
ṡughèer ‘na dècima = giocare una carta decima. Dopo un paio di giri con lo stesso seme restano su almeno un paio di carte di quel tipo. Chi le gioca tenta di mettere in difficoltà un avversario, ma se nessuno prende, perché ha sbagliato i calcoli, saranno guai seri per il provocatore.
La decima franca è una carta che non può essere presa dagli avversari, perché è la più alta rimasta in gioco di un seme e nel caso di brutte carte, la sua presenza rende il possessore molto inquieto.
Il colpo della cento pistole - giocata suprema in danno altrui. Si tratta di una ironica citazione dumasiana dal romanzo I tre moschettieri “ Io mi avvicinai a lui, e siccome vidi che offriva cento pistole per un sauro... ebbi perduto il mio cavallo con nove punti contro dieci (pensate che colpo!) “. La frase viene pronunciata con grande e sadico piacere, quando uno sprovveduto giocatore, verso la fine della partita, cala una “decima franca” e si becca tre assi di traverso, perché tutti sono secchi a quel seme. Se si verifica questo drammatico episodio, lo sbeffeggio sarà molto pesante con frasi del tipo: “ Óo, t èe ciapèe trii aas a cavàal a la schiina o ind al gruggn!” = Hai preso tre assi sulla schiena o sul grugno.
Alla fine degli anni ’80, ai tempi d’oro del Caffè Teatro gestito da Vittorio, Giancarlo Tartari, detto Taras, ma anche Delon o Delone per la sua nota avvenenza, nel gioco cotecchio era la vittima designata e costante di ogni partita: quasi tutti gli assi e le decime erano suoi. Da ciò nacque questa frase ironica: “Dio al s sèelva da la siilta e dal tròun e dal dècimi èd Delòun!” = Dio ci salvi dalle saette e dal tuono e dalle decime destinate a Delone.
Ciàapa e pò tóorna = Prendi la mano e torna a giocare lo stesso seme. Regola aurea del cotecchio. In tal modo si cerca di rimanere secchi a un gioco o di non farsi trovare in mano con una decima.
Èsser sècch a un ṡóogh = essere secchi a un seme. Situazione molto favorevole che consente di scaricare di traverso sugli altri, assi o altre carte pericolose.
Andèer a déeṡ = andare a 10. Quindi perdere la partita.
Andèer a vèint = andare a 20. Queste eventualità è davvero il massimo della ignominia. Significa essere l’unico a perdere per tutti. Il dramma per lo sventurato è davvero grande. La notizia farà subito il giro della sala. Chiunque entrerà successivamente nel bar o nel luogo della partita, verrà immediatamente informato del grave fatto, rigirando il dito nella piaga: Óo incóo Giig’ l è andèe a vèint ! = Ohh oggi Gigi è andato a 20. E ṡò èd cal gnòoch a tóor èl pr al cuul = e giù di quel gnocco per prenderlo in giro. Il fatto, soprattutto se al ṡugadóor l è uun d ghiggna = cioè reputato un gran giocatore, resterà per giorni nella memoria e non mancherà chi alla prima occasione gli urlerà: Mò tèeṡ tè che l èeter dè t ii andèe a vèint! = Ma taci, proprio tu che l’altro giorno sei andato a 20.
Guèerda che t ii andèe a Nóov = Guarda che sei andato a nove busche. Al chè lo sfortunato giocatore, con finta e stizzita sicumera, risponde con prontezza: "A n gh è probléema !! DALCERO, al gh è stèe taant aan a Nóov!" = Non c'è nessun problema, tale DalCero (un residente immigrato nel vicino comune dal sud) c'è rimasto tanti anni a Novi di Modena!". Nel senso che gli altri giocatori non si illudano, prima di andare a 10 e perdere .. deve ancora passare un bel po' di tempo.
Dòop Nóov a gh è la Móoia = dopo Novi c’è Moglia. Una frase a doppio senso che in partita deve essere interpretata che quando si è arrivati a nove punti, la successiva e decima busca metterà lo sfortunato o incapace giocatore a mollo (a móoi) nella acqua.

Quando uno è già fuori (10 e passa punti) e due sono a 9, lì lì per uscire, il quarto giocatore potrà fare il furbo e prendere in giro gli avversari: Duu a Nóov e uun a la Móoia. Ovvero due a Novi di Modena e uno alla Moglia (cioè già nell'acqua, col culo bagnato). La battuta... davvero notevole... di origine ottocentesca era sempre citata dall'indimenticabile Mauro Prandi (elegante giocatore) e voleva tracciare un immaginario itinerario, dai riscontri però ben reali, da Carpi al Po. A piacere … sullo stesso tono ci si può sbizzarrire e aggiungere… T ii a la Zanzara, ristorante prima di Novi, al Puunt dla Préeda, per chi viaggia sulle 7/8 busche; mentre chi arriva a 20 busche, pagando per tutti, si indica, superata la Móoia, il mesto arrivo a S. Benedetto Po, con relativa immersione completa e infamante nell’acqua non certo profumata del Grande Fiume.

 Maagna, bèvv e tèeṡ e va a ciamèer Malavèeṡ!” Mangia, bevi e taci e va a chiamare Malavasi.
È una frase usata per far tacere qualcuno e indurlo finalmente a compiere un atto, ad esempio un bambino che continua a parlare anche col piatto pronto davanti e non si decide a mangiare
Malavèeṡ... s la va bèin l è un chèeṡ! Malavasi... se va bene è un caso.
Il Parmeggiani ci aiuta a risolvere il "mistero" di questi modi di dire legati al cognome Malavasi; nei suoi ricordi giovanili di giocatore di cotecchio con persone molto più anziane di lui, Malavèeṡ veniva spesso citato nella locuzione: "Ormàai t ii andèe da Malavèeṡ!" Questo succedeva durante una partita durante la quale un giocatore era ormai sul punto di andare fuori a 10 o, peggio, a 20 busche.
Si intendeva significare che per lui la partita era ormai finita, essendo stato, Malavèeṡ, a loro dire, un antico personaggio carpigiano (1800 ??) che di mestiere faceva al buṡèer, ossia il fossaiolo, il becchino al cimitero di Carpi.

Un’altra bella e tagliente frase ad effetto che si indirizza al disgraziato perdente da parte di uno della combriccola, ma assente al momento della disfatta e al quale è stata prontamente comunicata la lieta notizia, anche tramite cellulare, è questa:
Óo, a iò sintìi che su a la Sèera a tiira di bée vèint! A gh è da tgniires estricch!” (Oooh, ho sentito che su a Serramazzoni tirano dei bei venti - 20- ! C’è da tenersi ben stretti). Pur colto di sorpresa, prontamente lo sciagurato risponde … minaccioso e assetato di rivalsa: “ Stà atèinti … ch a n gh ò mìa la memòoria cuurta!” (Stai attento che non ho la memoria corta e prima o poi avrò la mia crudele vendetta!).
Nel caso vincano partita dei giocatori non reputati particolarmente abili, a scapito di personaggio esperti e blasonati, questi ultimi masticheranno molto amaro (per lesa maestà) e noteranno acidamente: “L’aaqua la va a la Sèera!” (l’acqua, contro natura gravitazionale, va dalla pianura a Serra Mazzoni che è in collina!)
Si può ricordare una scenetta che spesso si ripeteva nei caffé del centro e della piazzetta, fino agli anni '80, durante il gioco del cotecchio, allorquando un giocatore, chiamiamolo Mario, faceva una giocata delle più balzane e chi ci capitava sotto, Carlo, reagiva in questo modo:
Carlo: Tè te n sèe gniint... T ii ’n ignoràant!
Mario: A nn ofènnder mìa... Ignoràant te l vèe po' a diir a tò surèela!
Carlo: Óo, mòRRo... Mè a n t ò mìa oféeṡ... A n t ò mìa ditt t ii un cretèin!... A t ò sóol ditt t ii ’n ignoràant... ch a vóol diir che "Sei uno che ignora"...
E in quel modo si ristabiliva una pace armata al tavolo dei giocatori.
Il noto Mauro Prandi, raffinato giocatore di cotecchio, quando aveva a che fare con un tavolo di avversari non ritenuti particolarmente valenti, così sentenziava: "A gh è più pèss che aaqua!" (Ci sono più pesci che acqua, ne senso che è facilissimo gettare la rete o l'amo e fare una ottima pesca).
Può disgraziatamente capitare a cotecchio di sbagliare clamorosamente una giocata o di rifiutate, pur avendo il seme in mano (peccato massimo). Lo sventurato si può giustificare: "A gh iiva 'na chèerta frudèeda!" cioè .. avevo una carta foderata, nascosta e appiccicaticcia perfettamente sotto un'altra e quindi... invisibile.
L’ineffabile e permaloso Mauro Prandi, già sopra ricordato, dopo aver sapientemente manovrato le carte, alla 6^ mano calava la "decima tremenda"; uno dei giocatori buttava con disappunto sul tavolo tutte le carte che aveva ancora in mano e prendeva su tutto con aria mesta. Al ché il nostro Mauro infieriva: "Plucc'... la ranèina ind al palpùcc'!" (… la ranina nel palpuccio - pantano!)

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Nota storica, testimoniatami da Attilio Sacchetti: negli anni ‘70 nella sede del Club del Corso di Carpi era presente un grosso campanello di bronzo del diametro di 8 centimetri (scartato in chiesa per l'avvento delle Messe post conciliari); il barista avvisava con rigorose scampanellate quando uno sfortunato o incapace ṡugadóor era andato a 20 punti: provocando uno sbeffeggio generale.
Franco Bizzoccoli ricorda però che tale usanza fu ereditata dal cafè ustarìa “Garibaldi” in Piazzetta. Un locale che fu a lungo il più vecchio di Carpi. Nei primi del ‘900 il ritrovo fu dotato, per lo stesso scopo, di un apposito un campanello, regalato da don Bertani dla céeṡa dal Crisst al gestore Gigìin Caròobi. In altri locali, in mancanza, si picchiava rumorosamente sui bicchieri.
**=M=**
In altre conventicole venivano, ma anche oggi, vengono tenuti specifici diari giornalieri, redatti con minuziosa cura su appositi registri o quaderni con annotati i vincitori delle Maglie Nere.
Ecco le foto eccezionali del “Registro Nero dei 20 punti” usato nella bottega di Tito Ligabue di Viale Carducci negli anni dal 1996 al 1998 e tenuto con certosina cura da Carlo Alberto Parmeggiani.

     

**=M=**
Un giocatore di grande capacità come Fabiìn Carretti mi racconta, in confidenza, di avere l’abilità di ricordare e contare a mente le carte giocate e i punti nei mazzi di ogni giocatore, via via che le mani si dipanano. Ciò consentente di calcolare e calare con precisione i semi e le decime, cose fondamentali per non pagare o quanto meno pagare il meno possibile. Con la situazione sempre sotto controllo e con un appropriato smistamento degli assi e delle figure, l’astuto personaggio tenta sempre, quando è possibile, di far raggiungere lo stesso punteggio a due o tre avversari in modo che paghino, come da regola, doppio o triplo.
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Veniamo al cotecchio con il Pigugnino, che individua il fante di spade. L’etimo della parola pigugno non è chiara e, nonostante le ricerche compiute, sono arrivato al massimo all’ipotesi in cui il Parmeggiani suggerisce l’origine forse da pigòun. Un termine che nel dialetto della bassa indica il picchio, che fa i buchi negli scuri con grave disapprovazione e stracancheri al suo indirizzo del padrone che se li è pagati. E’ gioco di carte diffuso soprattutto in provincia di Modena, in particolare a Spilamberto e dintorni. Viene anche chiamato pigugno o pico (o, più raramente, pigo) oppure pigòggn e pigugnìin nei vari dialetti della zona. Prende il nome dal fante di spade (o di picche), che è appunto "il Pigugno" e che riveste un ruolo importante nel gioco. Ogni zona ha le sue regole, io narrerò SOLO del “mio cotecchio” che si giocava a Carpi negli anni ’60 al Parco (delle Rimembranze) èd fròunt a l uṡdèel = di fronte all’Ospedale Ramazzini e negli anni ’70, ai tempi delle medie, coi miei amici Millo, Giorgio, Giuseppe, Giamba, Biccio, ecc … . Se non ricordo male mi sembra che le uniche differenze fossero che anziché a 10 e 20 busche, si uscisse a 11 e 21.
A Carpi oggi tale versione è caduta in disuso, ma non ho mai capito il perché.
Al Parco due giocatori si mettevano a cavalcioni delle panchine bislunghe di cemento biancastro coi puntini neri (ancor oggi esistenti) e gli altri due di fronte ai lati lunghi, appoggiati in bilico sulla canna della bicicletta. Il gioco era molto duro e nulla veniva perdonato. Un contorno di ragazzi più giovani seguiva con attenzione e soggezione le partite dei più grandi. Tutti sempre attenti che non arrivasse il Vigile, cosa che provocava una veloce sparizione del mazzo (che altrimenti sarebbe stato subito sequestrato) e un fuggi fuggi generale. Pare fosse proibito giocare a carte, ma sinceramente non ho mai capito il perché.
A Carpi le regole, a netta differenza delle altre zone, sono uguali identiche al normale cotecchio, ma con in più l’incomodo del Pigugnino che deforma e modifica sostanzialmente il gioco e le sue strategie. Il fantino vale sempre due busche che sono a carico di chi lo fa malauguratamente proprio, tale giocatore può quindi essere diverso da chi paga le normali busche del giro; nel caso un giocatore non copra vale uno.
Gran parte del tempo delle partite era impegnato nelle operazioni del dare e del non prendere la famosa carta, in più c’era sempre il pericolo costante d ingugnèeres al Pigugnìin = ovvero … l’ingugno del Pigugno da parte di chi lo aveva in mano: una umiliazione davvero drammatica, dalla quale era difficile riprendersi psicologicamente con prontezza.
Ma in generale anche quando si rifilava il famigerato fantino, con meticolosa e chirurgica precisione, al giocatore messo peggio, si provocano sentimenti di odio risentimento e vendetta.
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Al Parco era anche in uso la crudele tradizione dal cutècc’ cun la scaarga (cotecchio con la scarica). Lo sventurato che andava a 20 doveva pagare pegno. Veniva fatto sedere a cavallo della panchina, gli si dava in mano il mazzo mischiato e coperto. Mentre, chino, scopriva una carta alla volta alla ricerca del Pigugnino, crudelmente gli altri giocatori lo battevano a mani aperte sulla schiena, finché la carta maledetta non veniva trovata. Mi è capitato solo una volta di assistere alla sconcertante scena, avevo 13 anni, ma mi è rimasto impresso in modo indelebile nella mente.
A m viin i ṡgriṡóor, sóol a pinsèer èggh !.
Fabiìn Carretti mi ha confermato la cosa, ricordandomi che lui era uno dei protagonisti di questa feroce usanza e che spesso in tre si mettevano d’accordo per giocare tutti contro tale Billy Dotti per farlo arrivare a 20 punti e somministrargli, con sadismo giovanile, la pena corporale prevista.
Sempre al Parco negli anni ’60, le partite venivano accompagnate da un sovradimensionato contorno di parolacce e di bestemmie, ciò per dimostrare che chi giocava era già “grande”; si usavano anche frasi grevi e stupidamente ridondanti del tipo: “A n t à da gniir domilla caancher, mas-cìin e femnèini, acsè i faan raasa e a t in viin un milièerd!
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E’ poi da segnalare, non a Carpi, ma in zone limitrofe, l’insana e idiota variante, nata in tempi più moderni, del così detto "Pigugno Etilico". Essa prevede l'assunzione di bevande alcoliche, in corrispondenza delle tradizionali busche; questa variante che in tutto e per tutto resta identica al gioco originale del luogo, si è diffusa particolarmente negli ambienti scolastici o generalmente negli ambiti comunitari.
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Il Parmeggiani riguardo al Pigugno modenese, che a Carpi non si gioca quasi più e comunque con altre regole, se non per le feste di Natale, in cui si ha a che fare con donne e con bambini, ritiene che ciò sia accaduto perché a Modena e dintorni sono più "gentili" e meno assatanati (c'è chi dice più effeminati), dato che il loro modo di contare i punti, ossia le "busche" da pagare, è molto più attenuato e meno esoso. Infatti, fra i geminiani, che tu copra o non copra, che tu faccia 15 o 18 oppure 21, o 24, o 35 addirittura è sempre quella sola unica "busca" che tu paghi e che magari aggiungi al Pigugno, che ti è stato scaricato con lieve cattiveria o aggiungendoci una scusa. E quindi, a conti fatti, viene meno tutto il macheggio di alleanze sotterranee e di giocate strepitose da vero stratega, per far pagar di più chi hai deciso di punire o di mettere alla gogna. Cosa che invece a Carpi, città di commercianti, gagà, arrabbiati e avventurieri, continua ad avere un certo suo valore.
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Conclusione
I giochi del cotecchio e in particolare del Pigugno si devono usare se hai una persona con cui vuoi disgustarti. Un amico mi ha raccontato che un'estate coinvolse il padre e dei vicini di casa a giocare a pigugno; giocarono parecchio e sèinsa remisiòun. Un giorno, dopo l'ennesima partita finita ad aas èd travèers, uno dei vicini sentenziò: "St'èetra vòolta a ṡugòmm pò cun i curtée piantèe insimma a la tèevla … !”… “Quest’altra volta giochiamo poi coi coltelli piantati sul tavolo !”
Scherzava o diceva sul serio ???
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NOTE:
* Il vocabolario della Gallia Cisalpina e celtico di Pietro Monti - 1836 - Cisalpine Republic - 139 pagine dà il seguente significato al nome del gioco:
Cotecchio = legno tarlato / fradicio.
Forse per indicare il lento, ma continuo aggravarsi della situazione legata al punteggio dei giocatori (???)
Si attendono conferme.


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