martedì 27 dicembre 2011

Denaro di Mauro D'Orazi - dialetto carpigiano - Carpi (Modena)


stesura iniziale 17-1-2010                                            v62 del 16-09-2014
Il denaro
a Carpi
e dintorni
Il violaceo

 di Mauro D’Orazi

revisione del testo e della grafia del dialetto
a cura di Graziano Malagoli



Norme di trascrizione e lettura del dialetto

Le norme di trascrizione adottate dal
“Dizionario del dialetto carpigiano - 2011”
di Anna Maria Ori e Graziano Malagoli

Tabella per facilitare la lettura

a      a come in italiano                           vacca
aa    pronuncia allungata                         laat, scaat, caana

è e aperta (come in dieci)                          martedè, sèccia, scarèssa, panètt, panèin
èe    e aperta e prolungata                      andèer, regolèeda, martlèeda, taièe
é      e chiusa (come in regno)                 méi, mé
ée    e chiusa e prolungata                      véeder, créedit, pée

i i come in italiano                                  bissa, dì
ii      i prolungata                                   viiv, vriir, scalmiires, dii

ò      o aperta (come in buono)                pòss, bòll, brònnṡa, pistòun, dimònndi
òo    o aperta e prolungata                      scartòos, scatlòot, malòoch, tròop
ó      o chiusa (come in noce)                   tó, só, indó
óo    o chiusa e prolungata                      vóolpa, casadóor, móoi, óov, ṡóogh
u      u come in italiano                           parucca, bussla, dubbi, currer, fiùmm
uu    u prolungata                                  bvuuda, vluu, tgnuu, autuun, duu

c’      c dolce (come in ciao)                     vèec’ , òoc’
cc’    c dolce e intensa (come in faccia)      cucc’, scarnìcc’, cutècc’, palpùcc’
ch    c dura (come in chiodo)                   ṡbòcch, spaach, stècch
g’     g dolce (come in gelo)                     curàag’, alòog’, coléeg’
gg’   g dolce e intensa (come in oggi)       puntègg’, gurghègg’
gh    g dura (come in ghiro)                    ṡbrèegh, siigh

s      s sorda (come in suono)                  sèmmper, sóol, siira
      s sonora (come in rosa)                   atéeṡ, traṡandèe, ṡliṡìi

s-c    s sorda seguita da c dolce                s-ciafòun, s-ciòop, s-ciùmma, s-ciòoch

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 pubblicato in parte su La Voce feb 2010 


Il denaro a Carpi
e dintorni
 di Mauro D’Orazi

Non risulta che a Carpi sia mai stata battuta moneta con il nome della nostra città, né ancor meno che siano state stampate delle banconote.
Nemmeno ai tempi fulgidi di Alberto Pio (che pure ne aveva ottenuto il diritto da parte dell’imperatore Massimiliano I nel 1509) si è avuto un conio carpensis; ma sono sempre state utilizzate monete degli stati vicini, anche nel periodo della dominazione estense, fino al Regno d’Italia, quando finalmente la moneta ufficiale divenne la lira.
Ciò nonostante, come ovvio, il denaro ha avuto sempre grande importanza per la vita dei carpigiani, sia per coloro che ne avevano, ma forse ancor più per quelli che non ne avevano.
Pertanto molte parole, frasi e modi di dire in dialetto riguardano questo argomento. Recentemente mi è capitato di usare la parola dialettale sòold (soldi) e ho avuto l’immediata contestazione che a Carpi si usa il termine béesi o béezi. La cosa però non mi convinceva del tutto e ho cominciato a fare delle ricerche con stringenti interrogatori a chi sà èd savéer .
Ma vediamo l’etimologia di béesi che la più misteriosa delle tre e non ha una comune corrispondenza immediata nell’italiano. Il Bezzo è l’italianizzazione di Batzen, una moneta emessa da Berna, alla fine del 1.400. Batz = Bar per orso che è il simbolo della città Svizzera. In Italia fu coniata in vari luoghi e ciò ha portato alla diffusione generica di questo termine per indicare il denaro in alcune nostre regioni del nord. Il bezzo lo troviamo in particolare a Venezia in argento per la prima volta nel 1497. E’ incredibile cosa ci sia spesso dietro una qualunque parolina che noi usiamo come se nulla fosse.
Dopo uno starnuto si è soliti dire "Salute!", ma a Carpi chi ha starnutito aggiunge " ... e béesi!" e a quel punto la frase finale è di solito "... e tèimp da spènndr i " = e tempo da penderli.
Il risultato delle indagini è stato naturalmente più complesso di quello che si aspettava e per individuare la pecunia sono usciti ben sette modi corretti, ma non solo. Innanzi tutto béesi, ma anche sòold e ancora munéeda, ecc …
Ecco alcune frasi esemplificative:
1.    A gh vóol dimònndi béesi = ci vogliono molti soldi.
2.    A suun sèinsa sòold = io sono senza soldi.
3.    L è ’n òmm da munéeda = è un uomo ricco.
4.    Aggiungo poi anche che nella briscola c’è il seme denèer o denèera.
5.    Le lò l è uun ch a l gh à dla pilla = Lui lì è uno che ha della pila. Il detto è di chiara origine bolognese e romagnola, ma negli anni ’70 era certamente usato anche da noi, quale eredità delle vacanze estive in riviera adriatica. Una mia supposizione è che tale termine possa derivare dalle pile di monete dei banchi dei piccoli banchieri scambisti, tipici di alcuni secoli fa, quando in Italia c’erano tanti confini e la necessità di cambi frequenti per fare affari.
6.    Poi ci sono "i quatrèin" = quattrini. E’una moneta usata a partire dal medioevo in varie zone d'Italia. Fu battuta dal XIII al XIX secolo da quasi tutte le zecche italiane. “Mèel e quatrèin chi gh i à, al s i t(è)in” = Mali e quattrini, chi ce li ha, se li tiene.
7.    Con l'introduzione dell'euro, invece, è entrata in disuso la parola fraanch, usata per indicare le lire e quindi una ben definita somma di denaro. Per cui sinquàanta fraanch erano 50 lire; ’na chèerta da miil fraanch (o anche un bòun da mill, oppure bònn da mill con la “u” che quasi non si coglie nella pronuncia) era una banconota da mille lire. C’è chi pensa che il termine derivi dalla moneta francese, ma pare che più correttamente il termine nasca da una moneta austriaca, che riportava l'abbreviazione Franc., indicante il nome dell'imperatore Francesco Giuseppe.
… e fanno sette modi.
In appendice e di importazione, ma spessissimo udito in gioventù, grazie alla frequentazione di persone provenienti dal vicino Veneto è schèi o sghèi. L’interessante etimologia del termine deriva dal dominio austriaco (1815-1866) sul Regno del Lombardo Veneto e dal modo per definire i centesimi con parola “scheidemuenze” (detto con pronuncia italiana) riportata sui centesimi di Kreuzer. Il termine è sopravvissuto sino al giorno d'oggi, travalicando anche le “frontiere” venete, con un possibile uso, sempre in tono scherzoso, anche nelle nostre zone. (1)
E’ simpatico ricordare una frase che ripeteva sempre una domestica veronese Lina che lavorava a Carpi e che a proposito di soldi diceva: "Schèi e oṡèi, finchè a ghe n é, … ciapèe i !" = soldi e uccelli, finché ce ne sono meglio prenderli; circa il significato trasposto della parola “uccelli”, lascio al lettore lavorare di fantasia.
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La mundìa indica invece la monetina spicciola e di scarso valore e considerazione: ho cercato la derivazione del termine e ho trovato due soluzioni possibili basate su una contrazione e gioco di parole. Una da monetaglia e l’altra da ciò che resta di rifiuto dopo una operazione del mondare: in ogni caso sempre una cosa di scarso valore.
Di analogo significato anche la parola rantumàaia = rantumaglia, cioè piccoli residui di spazzatura; passando dall’animato (gruppo di persone, per lo più giovani, riunite a caso e non sempre con scopi definiti, ma leggermente preoccupanti per i benpensanti) all’inanimato delle monetine di scarso valore che ballano per le tasche. Il termine conservava la connotazione peggiorativa; spesso l'uomo di casa smollava gli spiccioli alla moglie con un senso di sollievo, di chi si libera di cose fastidiose.
Sempre per definire che una cosa ha poco rilievo si può dire “Al ne vèel un bu(l)gnìin in ’na lùmma!” = non vale un bolognino, che era una piccola moneta petroniana, in un lume.
foto di Mauro D'Orazi.
Per dire centesimo a Carpi, oltre a centéeṡim, si usava anche il grazioso termine “centiṡmèin (o centeṡmèin)” = centesimino, dalla piccola dimensione della allora monetine di rame con la testa del Re. In questo contesto possiamo ricordare la figura di una maestra elementare (la sig.ina Agnese Bassoli) che insegnò a Carpi dagli anni ’30 in poi e che abitava in Bevdéer, in via Battisti; una donna benvoluta e di corporatura molto minuta, ma anche con seri problemi cronici di salute; la leggenda racconta che era solita contare, con caratteristico tintinnio, i soldini nel suo borsellino. Per questi motivi le fu dato l’affettuoso soprannome di Misstra Centeṡmèina (o Centiṡmèina, o Cintiṡmèina). I suoi alunni avevano anche creato una filastrocca su di lei; ci sono pervenuti da Gianfranco Imbeni solo questi frammenti:” La Misstra Centeṡmèina / còn trii méeter èd bragunsèina/ ch la s dà in faacia la farèina … ” … La Maestra Centesimina/ con tre metri di antichi mutandoni/ che si dà in faccia del belletto bianco …
La misstra Centiṡmèina (Agnese Bassoli)

Gilda Lugli (Carpi) ricorda: "La Centiṡmèina (Agnese Bassoli) era una mia lontana parente. Era una donna molto colta e intelligente. Viveva con due sorelle più giovani, tutte signorine; una si loro si chiamava Maria. Andavo a far loro visita accompagnata da mio padre Arrigo. Agnese, mi spaventava un po', perché il suo aspetto era un po' particolare. Aveva il viso bianco di cipria e i capelli molto cotonati. Mi regalava libri bellissimi.
Le sorelle Bassoli erano tutte basse di statura. Agnese, quando la mamma andava a far loro visita, stava tutto il tempo in punta di piedi, perché aveva il complesso dell'altezza. Mia madre era molto alta e lei non gradiva vedersela davanti in piedi. Appena entrava in casa le diceva: - Fernanda, sei troppo alta, accomodati a sedere! - "

Marco Giovanardi (Carpi): "Ooooh la misstra Centiṡmèina! Che personaggio! A volte passava anche da viale De Amicis. Era minuta e sempre vestita di nero, ma la sua caratteristica era che anche nelle giornate di sole portava l'ombrello aperto. Sèmmper da per lée, mai vista a ciacarèer cun nisùun.
E nuèter ragasóo a gh ridivèen adrèe - Mò csa fàala? Ela màata?... cun l'umbrèela avèerta quaànd a n pioov mia? Mhà!!

Gianni Manfredini (Carpi): ”Le sorelle Bassoli abitavano in Corso Cabassi, angolo via XX Settembre, sopra il forno di Rossini.”

Gianna Pagliani (Carpi): "Negli anni '50 io me la ricordo piccola, rotondina, sempre con l'ombrellino e la faccia bianchissima!”

Enrico Rancan (Carpi) ricorda: "La Cintiṡmèina era una nipote di una mia bisnonna. Era una delle tante sorelle Bassoli, maestra, sarta, impiegata alle poste. Quando contava i centesimi andava veloce come una macchinetta e per questo era detta Cintiṡmèina. Le Bassoli erano in tante: Agnese, Roberta. Venusta, Aldrovanda, Cornelia, Maria (sarta), Giuseppina, e Venusta (Nella). Poi c'erano anche i fratelli Odone e Romeo.”

Corrado Cattini (Carpi) ricorda che misstra Centiṡmèina è stata la sua maestra in 1^ elementare alle Fanti nel lontano 1938. Era una brava una insegnante, ma era davvero un tipo strano. Andava dietro alla lavagna per risistemarsi. Si aggiustava i mutandoni che le arrivavano coi merletti a mezza gamba e poi prendeva una piccola trousse e si incipriava il viso in modo molto evidente.

Alice Giovanardi (Carpi) - Sua madre Berni Maria era stata allieva dla la misstra Centiṡmèina. Nel 1927 la maestra aveva insegnato ai suoi scolari questa poesia a memoria:
"C'è un omino sotto un fungo
ed il tempo gli par lungo.
Deve andare assai lontano e ad un tratto dice -Ohibò!-
quando mai arriverò?"
Pare che l'omino fosse uno gnomo, ecco perché al stèeva sòtta al funnṡ!
Durante l'estate la maestra l'andava a trovare in campagna e con questo espediente tornava sempre a casa con la sporta piena di frutta e verdure. Per il tragitto sceglieva sempre fossati asciutti, perché pensava sempre di essere inseguita. Usava sempre tre dita di cipria e, essendo di bassa stature, indossava un cappello a tuba per rubare un po' nell'altezza.


Monetine da un centesimo del Regno, detto anche bugnìin.

Citare i centesimi però cadde in disuso con la lira inflazionata, ma oggi c’è stata una leggera ripresa con l’introduzione dell’euro. Euro che forse in dialetto prende la dizione di derivazione classica di “èeVro”. Si attendono conferme a tale riguardo.
Al ne vèel gnaanch un bugnìin! Non vale nemmeno una piccola moneta!
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Per definire un tesoretto in casa sotto a una pietra o lugheè in dal granèer (nascosto in granaio) si usa il termine maghètt. Questa riserva poteva essere usata pèr fèer ’n interèesi (per concludere un affare) o in ’na stricca (in una situazione “stretta” e difficile).
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In carpigiano si davano anche nomi speciali ad alcune banconote e monete ben riconoscibili.

Ecco una banconota da due lire soprannominata cavurèin da Camillo Benso Conte di Cavour che appare in effigie.
Da quell'epoca tutti i pezzi da due lire (anche quelli metallici o col due nella cifra del valore) dalle nostre parti vennero appunto chiamati così.
Anche se il termine oggi è in disuso.

Il dizionario del Neri così si esprime:



Dal Dizionario Modenese di Sandro Bellei:
Cavurèin - s. m.. 1) Moneta e banconota da 2 lire con l'effigie di Camillo Benso conte di Cavour, messa in circolazione per la prima volta dalla Banca Nazionale nel 1866. Sino al 1945, vennero chiamate così tutte le banconote e monete da 2 lire, anche se ormai erano prive dell'immagine dello statista piemontese. 2) Persona di poco conto o di minuscola corporatura. Al vèl un cavurèin, Vale molto poco.

Dal Dizionario carpigiano di Ori & Malagoli:
Cavurèin s.m.arc. 1 antica moneta. 2 cavurrino, carta moneta da due lire raffigurante o meno Camillo Cavour.


In ristretti gerghi familiari, le venti lire d’oro della seconda metà dell’ 800 (il marengo) presero anch’esse, con ironia, il nome di cavurèin, forse per il valore multiplo di 2.


Il nome di cavurèin fu poi ereditato, sempre scherzosamente, dalle ben più modeste venti lire repubblicane (1956-1970) che mantenevano, quasi lo stesso colore, ma con un metallo ben più vile (una lega denominata bronzital).
La moneta da 200 lire



Ironia della sorte, il nostro Cavour ce lo ritroviamo, sarà un caso, nella moneta da due (ancora… 2) euro del 2010.

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La moneta da 5 lire in argento degli anni ’20 era chiamata nadrèina, con riferimento alla piccola aquila presente al verso.

Qualcuno, in vena di battute, indicava in cav-rèina (a metè strèeda fra al cavurèin e la nadrèina) il valore di tre lire e mezzo.

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I mèel spéeṡ. Questa vota non si tratta di “brutte” parole, ma ci si riferisce solo a denaro a disposizione per spese minute. In questo caso Carpi pareggia niente meno che Parigi col suo argent de poche.
Ma d'altra parte... chi nn i dróova, mèel i spènnd!! (Chi non li adopera, risparmiando e privandosi di piaceri o comodità, mal li spenderà, ad esempio in medicine).
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Una frase cara all’indimenticato Ciccio Siligardi, il cui padre era birocciaio:
i baiòoch di barusèer i ìin di òost e di budghèer e s a gh in vaansa quelchidùun i ìin di fràap e di marangòun. I sudati soldi dei birocciaii erano degli osti e dei bottegai; se ce ne rimanevano andavano ai fabbri e ai falegnami.
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A n gh ò mìa Bernardòun ch al la mèeṡna! … “ Non ho micca Bernardone che la macina (la farina = i soldi) !” … questo rimprovero di solito rivolto da un genitore a un figlio che pretende in continuazione del denaro, nel senso che di soldi ce ne sono pochi e guadagnati con fatica.
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Primma d finìir i mée (o i mio), a fa primma a finìir la gèera in Sèccia! – affermazione da buon carpigiano – prima di finire i miei soldi, fa prima a finire la ghiaia in Secchia.

Oppure se uno fa “il Piangerai” (o il Piangi Piangi) lamentandosi fintamente e penosamente di non avere soldi, gli verrà pronunciata contro la frase rivoltata: Ma sèe! Primma ch a finissa i tóo sòold, a fa primma a finìir la gèera in Sèccia!

Se in primavéera te sèint cantèer un cucch, pèr ’n aan te gh avrèe di sòold pèr tutt. Se in primavera sentirai cantare un cuculo, per un anno avrai soldi per tutti.

Mètter (lughèer) al maghètt sòtta a la préeda. Mettere o nascondere il gruzzolo di famiglia sotto una pietra del pavimento.

Duu sòold èd furmai, due soldi di formaggio; si indica una piccola quantità.
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Vecchie 1.000 lire repubblicane

A n suun minnga fióol èd mill fraanch! Non sono micca figlio di mille lire. Cioè non mi faccio certo allettare da un’offerta così misera.

Mò s t i spindìss tutt in medṡèini!: ma se i tuoi soldi li spendessi tutti in medicine. Frase per mandare alla malora qualcuno, auspicando pure del male.

Camminando, s a s caata di sòold pèr tèera (se si trovano dei soldi per terra)... primma a s èggh mètt un pée in simma (prima gli si mette un piede sopra e poi si dichiara ufficialmente: Gniint a mèeṡ! Tutta ròoba mìa.


Può capitare a un comizio, a una riunione, a un’assemblea che qualcuno arrivi in ritardo e chieda al cinico di turno: “Ma cosa stanno dicendo?” L’interpellato immancabilmente ripeterà la frase: Chi gh n à l è di bòun! Chi n gh n à l è di caiòun! Chi ne ha (di soldi e beni) è dei buoni. Chi non ne ha è dei coglioni. Massima sempre attualissima insita nella sorte umana. Riassume la quintessenza della visione politica, interpretata magistralmente (ancora una volta) dal nostro tagliente e spietato dialetto.

I sòòld e l'amicissia i al mètten ind al cuul a la giustissia: i soldi e le amicizie consentono di trovare soluzioni che aggirano la giustizia. Un detto sempre in auge e attualissimo!!

Mille lire del Regno
Tutti ricordano la famosa canzone del 1939, poi divenuta anche un film:”   Se potessi avere Mille lire al mese, senza esagerare, sarei certo di trovare tutta la felicità.  ” Allora era uno stipendio che permetteva una vita tranquilla.


   

A Carpi si diceva: Un Milaano. Quando mille lire erano un miraggio per tanti.
’Sa vóo t ṡughèer? Un Milaano o un Milanèelo. Cosa ci vuoi giocare? Un Milano o un Milanello.
Incóo a diir “Un Milaano” a s è antìigh cóome l’èerca d Noè. Oggi a pronunciare “Un Milano” si è antichi come l’arca di Noè.

Per i nomi delle altre banconote si usavano e si usano tuttora dei diminutivi vezzeggiativi, che dimostrano un amore quasi filiale per le carte filigranate
Un pandòoro o un pandurèin i éern i sinchsèint fraanch. Un pandoro o pandorino erano 500 lire, forse per il colore giallo dorato della banconota.

 Uncentinoi éern sèintmilla fraanch. Un centino erano 100.000 lire.

Uncinquantiino erano invece 50.000 lire

I m àan ciucèe un cinquantino! Mi hanno fatto pagare 50.000 lire o oggi 50 euro; colui che pronuncia questa frase riferisce di una azione che è stato obbligato suo malgrado a intraprendere, della quale avrebbe fatto volentieri a meno, e che ha avuto un costo eccessivo disturbando la sua tasca in modo sgradito.

Undeciinoo undéeca erano 10.000 lire,
il secondo si usa anche per gli eVri

Un moderno ventino sono 20 euro, la banconota oggi più diffusa

Infine al violàaceo i iin i sinchsèint èevro. Sono i 500 euro.
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Quando poi uno si affretta a restituire con insistente premura un piccolo debito: accompagna scherzosamente la consegna del denaro con la frase:
A n vóoi mìa di déebit cun di puvrètt! - Non voglio degli infamanti debiti con dei poveretti.

Tìin i sòold e al paròoli pèr quàand i gh volèen! Un consiglio saggio: tieni i soldi e le parole per i momenti in cui sono davvero necessari.
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Altro interessante modo di dire è il seguente: “Mè a giir sèmmper cun dla frèssca in bisaaca” = Io giro sempre con del denaro in contanti in tasca, pronto a cogliere una occasione o un affare. Il termine trova una sua possibile origine negli anni ’60, quando il gioco d’azzardo cominciò molto a diffondersi anche a causa del notevole benessere in cui ci trovava. E appunto nell’insidioso mondo del gioco d’azzardo carpigiano bisognava sempre muoversi con della frèssca. Oltre che frèssca si può dire anche spiùura = prurito; ciò deriva dal gesto conosciutissimo di far strisciare il pollice con l’indice per sapere un prezzo o segnalare la necessità di contante per effettuare una certa operazione. Noti imprenditori carpigiani del boom economico del dopo guerra, cito uno per tutti: Faciòun Gualdi, per significare la necessità di contante per affari e altro, usavano anche la parola “bròod” = brodo, con la frase: “Chè a gh vóol dal bròod e mìa dal ciàacri!”= Qui ci vuole del brodo e non delle chiacchiere!
Al contrario è simpatico notare che per definire la carenza di liquido, il nostro dialetto è davvero efficace con la frase: A gh è na faata sutta!! (c’è una tale “asciutta”!!).

Circa la necessità di frèssca, non potrò mai dimenticare il grande Vittorio Garzon, gestore fino agli anni ’80 del Caffè Teatro in piazza a Carpi. Spesso era costretto a servire personaggi che non avevano certo fra le loro virtù la sobrietà e la continenza alcolica. Era quindi necessario evitare che bevessero … per dimenticare.
Alla richiesta di un allora noto personaggio, costantemente in ciarèina (ubriacatura) , di avere una lattina di birra … Vittorio lo guarda due secondi fisso negli occhi, mentre col burazzo (2) asciuga, con movimento lento e professionale, il milionesimo bicchiere; libera una mano dalla usuale occupazione, la mette davanti agli occhi lucidi dell’avventore stralunato e la fa muovere lentamente, ma molto lentamente, da sinistra a destra e gli scandisce, staccando distintamente le sillabe:
Sten .. de .. re !!!” sottinteso “ la moneta fresca sul bancone”, prima di concedere e servire quanto gli veniva richiesto.
                                         Mauro D’OraSi  

  
Al munidèini degli anni ’50 e ‘60
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Carenza di pecunia

Per indicare mancanza di denaro si può dire d èsser in bulètta. Per trovare la spiegazione di questo modo di dire, che significa versare in precarie condizioni economiche, non avere una lira, anzi un euro, occorre prendere il discorso alla lontana. Infatti anticamente si chiamò bolla il sigillo in ceralacca che i governanti applicavano sui loro atti ufficiali: si ebbero, così, le bolle imperiali, regie e quelle papali. In seguito si chiamò bolletta (piccola bolla) qualunque documento emanato dagli uffici pubblici: telefono, gas, luce, ecc … C’era l’usanza di esporre in pubblico la lista dei nomi (bolletta, documento emanato da una pubblica autorità) di coloro che erano falliti, in teoria, quindi, privi di denaro; essere su queste liste significava di essere in una situazioni disagiate.
Un "piè" è monetina. "A nn avéer gnaanch un piè " significa essere in bolletta sparata e non avere nemmeno una monetina da poter spendere, " un lavóor da duu piè " è una cosa di poco valore.

Tanto pochi sono … i soldi, quanti viceversa sono i modi dire per denunciarne la loro mancanza:

A suun in bulètta sparèeda (o duura o al contrario spaplèeda) - sono in bolletta sparata (o dura o disfatta); il modo di dire potrebbe avere un’origine dialettale tipica deelle nostre zone. “Sparata” è l’italianizzazione del vocabolo modenese “sbareta” (sbarrata) divenuto, attraverso vari cambiamenti fonetici e ortografici, “spareta” e... “sparata”. Una bolletta sparata, cioè “sbarrata”, è nulla e di conseguenza priva di qualunque valore.
Boletaari! S te n gh èe mìa i sòold … stà a ca!! - Poveraccio! Se sei senza soldi stai a casa e non farti compatire!
A suun a sutt - sono asciutto.
A suun a gaat - sono a gatto.
A suun a pòmma - sono al traguardo, alla fine.
A n gh n ò mìa uun ... ch al digga duu - non ho una lira che ne dica due.
A suun òoreb cóome un quàai - sono orbo come una quaglia (ma non solo a briscola); o in bulètta cóome un quàai.
A suun armèeṡ in brèeghi d téela - sono rimasto in braghe di tela, nel freddo inverno.
A n gh ò mìa un scuud - non ho uno scudo.
A n gh ò gnaanch i òoc' pèr (da) piàanṡer – non ho nemmeno gli occhi da piangere.
L è un mumèint ch a s chèega sutìil - è un momento che si mangia poco e le conseguenze sono scarse.
In piazza a Carpi si sente urlare verso qualcuno che ai tempi del boom girava con un macchinone anche se era pieno di debiti: Tróoia… cambialèer… pèega i déebit! - furbacchione impunito, … paga i tuoi debiti!
Quando una persona, per evitare imbarazzanti incontri con i creditori, percorre accortamente stradine secondarie in orari desueti, si dice che al gìira a schivadéebit (gira a schiva debito).
Al gh à più déebit che cavì iin tèesta: ha più debiti che capelli in testa.
A gh ò al burslèin (o al catuèin) vóod! - ho il borsellino vuoto.
A gh ò al tralèedi ind al bisaachi, o ind al portafóoi, o catuèin! - ho le ragnatele in tasca, o nel portafoglio, o nel borsellino.
A suun in dòom! - sono senza niente sul sagrato del duomo, senza casa a chiedere elemosina o assistenza.
A suun puvrètt cóome un surghìin in céeṡa! – sono povero come un topo in chiesa.
A suun in ’na lèttra. Sono in una lettera; singolare espressione sono spacciato, anche economicamente. Deriva dalla lettera che lo Stato inviava alle famiglie con la notizia del un loro congiunto era caduto durante la 1^ Guerra Mondiale.
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Presenza di pecunia

Esistono anche molte altre frasi per indicare lo stato di ricchezza; eccone alcune altre significative:
L è piin d sòold ... cóome un caan piin d pullghi. È pieno di soldi come un cane pieno di pulci.
A l gh à taant sòold ch a siiga l'aaria. Ha tanti soldi che urla l’aria.
A l gh à taant sòold ch a n sà indù mèttr i. Ha tanti soldi che non sa nemmeno dove metterli.
L è uun cha al gh à manéera. È uno che ha possibilità finanziarie.
Al gh à di mèeṡ. Ha dei mezzi.
Al stà dimònndi bèin. Sta molto bene.
L è uun ch al póol. È uno che può.
L è uun ch al gh n à. È uno che ne ha.
Al gh à dla graana. È uno che ha della grana.
Al gh à al pòorch a l’òora. Ha messo il maiale al sicuro, all’ombra, dopo la macellazione.
Al n tèmm mìa la bulètta. Non teme la bolletta.

Naaser cun al cuul ind al butéer: nascere col sedere nel burro. Ci si riferisce a persone benestanti e con cospicui mezzi economici.
Panetto di burro

L è nèe cun la camiiṡa. È nato con la camicia.

Fèer i sòold cun al cuul: fare i soldi facilmente e senza merito particolare.

Stèer a (in) cuul buṡòun: stare a culo proteso o sporto. Quando si è chinati o si flette il tronco, rimanendo a gambe dritte. A Carpi questa espressione sta anche a significare che una persona senza tanti meriti riesce a ottenere cose importanti (soldi, successi, vittorie, ecc ) senza fare più di tanto sforzo e addirittura in posizione poco favorevole.

Ruby rubacuori a … cuul buṡòun
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In dialetto il termine ricch si riferisce solo come significato dell’essere abbondante di un abito o di un tessuto; infatti per indicare una persona facoltosa si dice l è un sgnóor.

Al pèer al caan d un sgnóor (cun l òos in bòcca): sembra il cane di un signore con un osso in bocca; questa frase è riferita a chi, non di grandi mezzi o stile, riesce a vestirsi "bene" per un’occasione, ma non avendo comunque, né finezza o distinzione, viene apostrofato crudelmente in questo modo. Si sbeffeggia dunque una persona che si crede elegante, ma non lo è, diventando persino ridicola.

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Note
(1) Circa le influenze venete nel nostro dialetto servono a farci riflettere e capire meglio da dove veniamo. Gli influssi veneti infatti sono antichi; non tutti sanno che i Pio combatterono per e contro Venezia, che erano patrizi veneti dal 1405, che avevano il diritto di sedere nel Maggior Consiglio, che hanno frequentato Venezia almeno fino metà Seicento. E’ facile ipotizzare che soldati della Serenissima, una volta finito il loro servizio, possano essersi stabiliti qui. Saltando poi i secoli, basti ricordare i numerosissimi veneti immigrati a Carpi e dintorni negli anni Cinquanta del secolo scorso.
(2) Burazzo: italianizzazione dall'emiliano-romagnolo "buràz", dall'italiano arcaico "buratto", telo di stoffa grezza e di trama rada utilizzato per abburattare, cioè per setacciare la farina. A Carpi è un termine che si usa per strofinaccio, asciuga piatti e usi vari di cucina.
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