Stesura iniziale ott 2010 v 63 del 23-11-2016
Al bròod
e dintorni
(Dialetto in brodo)
di Mauro D’Orazi
con un contributo di Luciana Nora
Revisione del testo a cura
di Graziano Malagoli e Giliola Pivetti
Pubblicato parzialmente su La Voce n 39 del 21-10-2010 e n
50 del 22-12-2011
per contatti dorry@libero.it
Frutto del continuo lavoro di ricerca sul web, con suggerimenti e con il
contributo costante del Gruppo di Facebook “Chi parla dialetto carpṡàan” e del rughlètt di affezionati
del bar Tazza d’Oro alle 7 del mattino e di tanti altri
amici e amiche sempre pronti a portare la loro esperienza personale e familiare
al servizio di un dialetto che deve e può continuare a essere parlato e vissuto.
**=M=**
Norme
di trascrizione e lettura del dialetto
Le norme
di trascrizione adottate dal
“Dizionario
del dialetto carpigiano - 2011”
di Anna
Maria Ori e Graziano Malagoli
Tabella per facilitare
la lettura
a a come in italiano vacca
aa pronuncia allungata laat, scaat, caana
è e aperta (come in dieci) martedè,
sèccia, scarèssa, panètt, panèin
èe e aperta e prolungata andèer, regolèeda, martlèeda, taièe
é e chiusa (come in regno) méi,
mé
ée e chiusa e prolungata véeder, créedit, pée
i i come in italiano bissa,
dì
ii i prolungata viiv, vriir, scalmiires, dii
ò o aperta (come in buono) pòss,
bòll, brònnṡa, pistòun, dimònndi
òo o aperta e prolungata scartòos, scatlòot, malòoch, tròop
ó o chiusa (come in noce) tó,
só, indó
óo o chiusa e prolungata vóolpa, casadóor, móoi, óov, ṡóogh
u u come in italiano parucca,
bussla, dubbi, currer, fiùmm
uu u prolungata bvuuda,
vluu, tgnuu, autuun, duu
c’ c dolce (come in ciao) vèec’ , òoc’
cc’ c dolce e intensa (come in faccia) cucc’, scarnìcc’, cutècc’, palpùcc’
ch c dura (come in chiodo) ṡbòcch, spaach, stècch
g’ g dolce (come in gelo) curàag’, alòog’, coléeg’
gg’ g dolce e intensa (come in oggi) puntègg’, gurghègg’
gh g dura (come in ghiro) ṡbrèegh, siigh
s s sorda (come in suono) sèmmper,
sóol, siira
ṡ s sonora (come in rosa) atéeṡ,
traṡandèe, ṡliṡìi
s-c s sorda seguita da c dolce s-ciafòun, s-ciòop, s-ciùmma,
s-ciòoch
Al bròod e dintorni - Il dialetto
il brodo
Óoo… ! Incóo a
descuròmm dal bròod! (oggi parliamo
del brodo!).
Un
ingrediente e un piatto fondamentale non solo della cucina carpigiana, ma
praticamente di ogni ricettario italiano e straniero. Carpi naturalmente si
caratterizza con i suoi termini locali e i suoi modi dire.
Il
brodo, ci suggerisce l’ormai
indispensabile Wikipedia, è un preparato alimentare in forma liquida ottenuto
dalla cottura di carni o
verdure
con l'aggiunta di spezie,
sale e aromi e utilizzato
per preparare diversi piatti ad esempio minestre,
salse o
risotti.
A Chèerp a gh éera duu dè da bròod: al
giuvidè e a la dmènnga, a Carpi
c’erano tradizionalmente due giorni nei quali molto famiglie facevano il brodo:
al giovedì e alla domenica. Nel giorno festivo, soprattutto dalla fine degli
anni ’50, corrispondenti al boom economico e al più diffuso benessere, il brodo
si abbinava indissolubilmente coi caplètt
faat in ca in simma al tuléer dal reṡdóori.
Il
carpigiano Attilio Sacchetti (Carpi
+2016) ci dà una preziosa traccia per giustificare la tradizione relativa alla
consuetudine che i carpigiani preparassero la minestra in brodo in questi due
specifici giorni. Essa potrebbe ragionevolmente derivare dal fatto che i
macellai non tenevano aperto bottega tutti i giorni come oggi, ma solo il
giovedì e forse la domenica. Ciò per il fatto contingente che, fino agli anni
'30, non esistevano frigoriferi e tanto meno celle refrigeranti o congelanti
per una sana conservazione della carne. Quindi era necessario che i tempi di
macellazione, distribuzione e consumo fossero ristretti al massimo, soprattutto
nelle stagioni calde.
In
tante famiglie, ma non in tutte, perché dipendeva anche dalle disponibilità, alla
domenica mattina si teneva un vero e proprio rito. La reṡdòora, dopo aver posto sul fuoco la pentola con la carne per
il brodo, passava alcune ore in cucina a tirare al sfóoi o la sfóoia (lo
sfoglio) o e a preparare il ripieno. Il brodo era ed è necessario per tante
minestre, ma in particolare per i caplètt, una minestra senza la
quale, nelle famiglie carpigiane, un tempo, non sembrava nemmeno fosse
domenica. Parlo naturalmente di un'epoca dagli anni '60 in poi, cioè da quando,
dopo il boom economico della maglieria, quasi ogni famiglia aveva la
possibilità di poter comprare in abbondanza carne, uova e formaggio parmigiano.
Se invece prendessimo in considerazione il periodo fino ai primi anni '50,
quando la bulètta e le ristrettezze
dominavano, i caplètt si preparavano
per Natale e in poche altre speciali occasioni di feste familiari.
1920
ca – uno splendido sfoglio appena tirato straborda dal piano della tavola
2014 – Una reṡdòora
carpigiana intenta al taglio dello sfoglio
Gesti antichi e immutabili
Gesti antichi e immutabili
Per
fare una bella sfoglia occorrono: ‘na
brèeva reṡdòora, un tevèel (un tavolo, di solito quello della cucina), al tulèer (il tagliere), la canèela (la cannella), al malgarèin per spasèer al tulèer (scopino
di saggina per pulire il tagliere), la
farèina, i óov cun al ròss o la balòota e la cèera o al biàanch, (un gòss
d'aaqua, 'na brancadèina èd sèel e un pò d òoli sono aggiunte controverse), ‘na fursèina per impastèer, azione lenta
e progressiva, dal suugh èd gòmmet, un buràaṡ per fèer arpunsèer al sfòoi primma
èd tirerèel… e pò a “Secònnd la
cadrà!”
Ma
attenzione a non usare burazzi puliti, ma profumati di detersivo! Il profumo
del “bianco più bianco” penetrerà nei cappelletti umidi con un effetto
deleterio, anche nel brodo di cottura.
Più
i cappelletti sono piccoli e più la fama della reṡdòora aumenterà: a Carpi dei cappelletti piccolissimi, fatti a
mano, una vera opera d’arte, li troverete al rinomato Ristorante L’Incontro. Un’esperienza indimenticabile e che consiglio
anche ai più stretti tradizionalisti.
C’è
poi da rispondere alla classica domanda:”Mò
quaand èel pròunt al sfòoi?”
SEMPLICE:”Quaand a la reṡdòora a gh suuda al caradèin dal cuul!”
SEMPLICE:”Quaand a la reṡdòora a gh suuda al caradèin dal cuul!”
Si
possono commettere degli errori nelle proporzioni degli elementi dell’impasto;
allora si sta alla saggezza dell’antico detto:”Crèdd èt aaqua ch a n gh sia farèina? (Credi acqua che non ci sia
più farina?)”; oppure viceversa.
Non
dimentichiamo l'aspetto educativo imitativo: la reṡdòora, nonna, mamma o zia che fosse, mentre preparava l'impasto
ne staccava un piccolo pezzo e lo dava al bimbo o bimba presenti in famiglia.
Il bimbo, usando anche lui un mini mattarello, stendeva la piccola sfoglia,
oppure ci giocava come fosse pongo.
Un sfòoi da sètt òov
Citavo
prima la nota battuta secònnd la cadrà!
Ho
poi sempre sentito in casa mia un atroce aneddoto sullo sfoglio, che è
conosciuto col titolo: Già… secònnd la cadrà,
ma s la caasca a vaagh a ca: disse
quell'ospite, , invitato trattenersi a pranzo, mentre stava guardando preoccupatissimo
la reṡdóora, che stava tirando la
sfoglia con una pericolante gocciolona al naso.
Oppure: "S la sta a staagh, s la va a vaagh!” Se
sta su, resto, ma se va giù, vado!
Ecco
una possibile spiegazione: un tizio si trovò a passare per la casa di un amico
che non vedeva da tempo; mentre i due parlavano dei tempi passati, la moglie
del padrone di casa si stava adoperando per preparare lo sfoglio. Quando si è
intenti a questa complessa e delicata operazione, la reṡdòora ha le mani impegnate e sporche di pasta e farina. Si diede
il caso la che poveretta avesse il raffreddore e che le colasse il naso senza
poter intervenire. Così l’orrendo vischioso e denso liquido (miclòun o muclòun) oscillava paurosamente a ogni colpo di cannella,
annunciando un’imminente, quanto inevitabile caduta di un gocciolone dentro o…
fuori lo sfoglio in lavorazione.
I
due uomini parlavano, parlavano, ma l’amico continuava a gettare l’occhio sulla
raccapricciante scena. A un certo punto il marito invitò l’altro:”Mò rèesta chè a disnèer da nuèter! (Resta
qui a pranzo da noi!)”.
Questi
tergiversava e non rispondeva.
”Mò rèesta chè a disnèer!” insistette più
volte.
Al
ché, messo alle strette, il poveretto rispose: ”Bè… a secònnd la cadrà! (a
seconda di dove cadrà: fuori e dentro dall’impasto!).
Questa
è una versione, ma ci sono tante piccole varianti e l’aneddoto è diffuso in una
vasta area.
Ad
esempio, ci sono versioni leggermente differenti sulla frase finale: ”Secònnd cunforma!”, oppure “Cunforma la caasca!”
**
Ma
torniamo al brodo.
Al bròod resta l'elemento primario per accompagnare i
cappelletti, anche se, da qualche anno i gusti e le mode sono cambiati. Non di
rado questa minestra viene anche preparata asciutta, accompagnata dalla panna o
dal ragù.
Però
nella memoria di ognuno di noi restano indelebili le immagini viste e riviste
da bambini, quando la nonna, la mamma o una zia si mettevano sul tavolo di
cucina e poi sui fornelli a preparare il gustoso liquido alimentare, seguendo
tutta una complessa serie di operazioni.
Va
poi anche ricordato che il brodo ha subito anch'esso una sua evoluzione.
Occorre infatti notare che può anche essere preparato con prodotti industriali;
infatti nel XIX secolo, prima un chimico tedesco, il barone Justus von Liebig,
poi uno svizzero italiano, Julius Maggi, con l'invenzione via via perfezionata
dell'estratto di carne, diedero una svolta radicale alle abitudini
gastronomiche. I cosiddetti dadi o estratti sono presenti in ogni famiglia. Il
risultato è estremamente modesto e mediocre, al limite del potabile, ma in
talune circostanze, può anche risultare un prezioso ed efficace aiuto per la
cuoca.
**
Capòun e galèini
ruspaanti pèr al bròod da caplètt e chèerna da gran fèesta
Come ogni piatto tipico e popolare,
ogni famiglia aveva e ha le sue particolari varianti, così come ad esempio per caplètt, turtée o gnòoch fritt.
Quindi, vale ancora una volta la pena di ripeterlo, in questi campi non esiste
un’unica verità, ma tanti usi e tradizioni tutti validi e degni di essere
ricordati. Non bisogna poi
dimenticare che molto dipendeva dal reddito della famiglia e conseguentemente
dalla possibilità di acquisto o disponibilità degli ingredienti,
La
ricetta che segue è una delle tante, con l’aggiunta di alcune varianti che ci
sono pervenute da varie testimonianze
INGREDIENTI:
-
l’aaqua (acqua)
-
un pèes èd maanṡ (un pezzo di manzo) travèersa (traversino) o dupiòun (doppione)
-
al capòun (cappone), oppure ’na galèina (gallina), meglio s l’è ’na galèina vèecia
-
’n òos (osso), gentile dono del
macellaio, segato in maniera opportuna e pieno di saporito midollo
-
’na gaamba d sèeler m. (gambo di sedano)
-
’na caròota
-
’na scarfóoia o dóo d sigòlla o sivòlla
(una foglia o due di cipolla) per dare un senso compiuto a tutta la pozione
-
dal sèel gròos (sale grosso) in ’na misterióoṡa quantitèe ch la s definìss
“Q. B.”(in una misteriosa quantità che si definisce “Quanto Basta”), che
sta poi a significare che bisogna andèer
cun dal bòun sèins (con del buon senso), cioè proprio come dicevano i
Romani cum grano salis. Al sèel gròos l andèeva po’ tridèe in simma
al mèerem cun ’na butigglia néegra vóoda da lambrùssch (il sale grosso
andava poi tritato sopra al tavolo di marmo di cucina con una bottiglia nera di
lambrusco).
Il
brodo può avere varie caratteristiche: bròod
salèe se è troppo sapido, bròod
dsèvved se invece è insipido; bròod
lunngh quando i commensali aumentavano in modo non previsto e la quantità
presente del prezioso liquido sarebbe stata insufficiente per un buon piatto di
minestra per tutti; bròod tirèe se
per l’intensa bollitura e la ricchezza del bollito, diventava troppo
concentrato. In questo caso si può dire l
è un bròod ch a s tàaia cun al curtèel (si taglia con il coltello). Nel
caso fosse ricavato da vari tipi di carne si chiama bròod taièe.
Annotiamo
di seguito alcune varianti con possibili integrazioni, che ci sono state
fornite con testimonianze dirette da parte di varie famiglie carpigiane.
L’indicazione di queste diversità farà certamente nascere polemiche circa la vera
ricetta dal bròod carpṡàan. A
tale proposito bisogna ricordare, come sempre, che ogni casa ha le sue
tradizioni e ognuna di esse in quando tale è vera. Certo ci sono delle tendenze
prevalenti, ma anche in questo campo non
esiste una verità assoluta:
-
un psigòot èd purasèmmi (una manciata
di foglioline di prezzemolo), eventualmente cun
al fuìini taièedi che poi si possono lasciare; i gambetti di prezzemolo
possono anche essere legati con sottile filo al sedano, per togliere alla fine
completamente e velocemente tali verdure
-
c’è chi aggiunge ’na fóoia d mlòor sècca
(una foglia di alloro secco) o chiodi di garofano infilati nella cipolla
-
un spicch d àai (uno spicchio
d’aglio) - elenchiamo questo disgustoso ingrediente per ultimo, perché
riteniamo che esso, assieme alle zanzare, sia stato uno dei pochi errori gravi
commessi del Creatore, forse per comprensibile distrazione, durante i sette
giorni biblici, perché al gh iiva
dimònndi da fèer.
*
Ad
esempio, la mia amica Anna Maria Ori, studiosa di storia e usi locali e
coautrice del Dizionario di Dialetto carpigiano, mi dà le seguenti indicazioni
in uso a casa sua: “A me
piace sentire tutto il sapore del brodo, che io faccio molto aromatico: oltre
alle solite cose, carote, sedano, cappone a freddo, copertina di spalla a
caldo, metto con una o due foglie di alloro, la cipolla chiodata di chiodi di
garofano, ’na brancadèina di pepe nero e bianco in grani e uno spicchio
d’aglio della valle - nemmeno da paragonare il profumo con quello che si
compra”
PREPARAZIONE
A tulìi 'na
pgnaata da bròod (prendete una
pignatta da brodo, alta e capiente), la riempite d'acqua e la mettete sul
fuoco. Nei tempi passati avere una tale pentola, specifica da brodo, era quasi
un lusso e molto spesso una famiglia non abbiente ne aveva solo una di pentole,
da utilizzarsi per tutti gli usi consentiti.
*- Il sommo Artusi, autore tardo ottocentesco di un
arcinoto libro di cucina tradizionale, presente da noi in ogni casa, dà questa
indicazione: “Le pentole di terra essendo poco conduttrici del calorico sono da
preferirsi a quelle di ferro o di rame, perché meglio si possono regolare col
fuoco, fatta eccezione forse per le pentole in ghisa smaltata, di fabbrica
inglese, con la valvola in mezzo al coperchio. “-* Oggi abbiamo la pentola a pressione...
Quàand
l’aaqua la bùi (quando l'acqua
bolle), aggiungete la chèerna (la
carne), al verduuri (le verdure) e pò dòop al sèel gròos. Se invece volete
il brodo molto buono, ad esempio pr i
caplètt dal praanṡ èd Nadèel, ciò ben inteso a scapito della bontà della
carne, quest’ultima dovrà essere messa subito in pentola, a acqua fredda,
all’accensione del fornello.
*- Su tale fondamentale tematica sempre l’Artusi dà
questa indicazione: “Lo sa il popolo e il comune sentore che per ottenere il
brodo buono bisogna mettere la carne ad acqua diaccia e far bollire la pentola
adagino adagino e che non trabocchi mai. Se poi, invece di un buon brodo
preferiste un buon lesso, allora mettete la carne ad acqua bollente senza tanti
riguardi. È noto pur anche che le ossa spugnose danno sapore e fragranza al
brodo; ma il brodo di ossa non è nutriente.”
A fèe bùier
(fate bollire) per circa quattro
ore, schiumando ogni tanto il brodo con la mèsscla
furèeda (il mestolo forato, cioè la schiumarola) per levare le impurità
(pezzetti di osso, sangue cotto, eccetera). Un fragrante e caratteristico odore
si diffonderà per la casa. Il brodo è pronto... Ed insieme avrete anche la
carne per il lesso o il bollito, che potrà essere servita con una gustosa sèelsa véerda èd purasèmmi (salsa verde
di prezzemolo tritati).
**
SPIEGAZIONI,
SUGGERIMENTI E VARIAZIONI
Il
taglio di manzo può essere il doppione o il traversino, ma ovviamente si
potranno usare altri tipi. Il volatile richiesto dalla tradizione sarebbe
tassativamente il cappone: infatti quando si parla di brodo si dice bròod èd capòun (brodo di cappone),
senza nemmeno nominare il manzo (che pure va obbligatoriamente aggiunto), ma
con la gallina, specialmente se vecchia di pollaio, il risultato è buonissimo
lo stesso.
I capòun i iin bòun pr al bròod... mò
pèr al rèest i gh àan la "cinciùrrla", ch l è da ṡbaater vìa. La cinciùrrla,
insegnano a Budrione, è materiale grasso e dopo la cottura diventa viscido e
attaccaticcio: ottimo per fare un gustoso brodo, ma poco piacevole da mangiare
e quindi da buttare.
Cosa
importantissima: il cappone o la gallina i
vaan strinèe bèin a móod (vanno strinati bene bene), intendendo che la
pelle va passata accuratamente sulla fiamma di un fornello per eliminare
completamente residui delle pelle; in questo caso una puzza poco piacevole si
dilaterà nell’aria, ma è un sacrificio da sopportare. Sciacquate le carni sotto
acqua corrente fredda, prima di immergerle completamente nell'acqua di cottura
del brodo.
Riguardo
all'acqua ed al sale, ci sono diverse scuole di pensiero: chi dice che va messo
sul fuoco tutto a freddo, chi mette la carne solo quando l'acqua bolle (come
prima di accennava), chi aggiunge il sale subito, chi lo aggiunge alla fine
(perché in cottura il sale indurirebbe la carne). Ognuno dovrà sperimentare a
piacer suo, oppure seguire gli antichi consigli della tradizione di casa
propria.
Per
quanto riguarda le verdure, potete anche non aggiungerle: è una questione di
gusto personale, ma esse danno un accento veramente ottimo al sapore del brodo.
Presso alcune famiglie è d’uso mettere anche una patata, che però ha il difetto
di assorbire un po' la sapidità.
Un
tocco di classe: se potete mettete anche una crosta di parmigiano (ma
attenzione... dopo averla accuratamente raschiata con un coltello nella parte
più esterna). Il gusto del brodo verrà ulteriormente esaltato e la crosta
bollita è buonissima da mangiare, ma ricordatevi di consumarla subito dopo
averla tolta dal liquido, altrimenti indurisce irrimediabilmente.
Se
volete una carne più tenera, potete fare bollire il brodo anche per sole tre
ore circa. Se non vi piacciono troppo i
òoc’ dal bròod (gli occhi del brodo), cioè il grasso del brodo che forma
simpatiche macchie circolari che galleggiano in superficie, potete toglierne un
po' con la schiumarola o con il mestolo. Se assaggiate il brodo durante la
cottura, raccoglietelo con il mestolo nel punto dove sale il bollore: lì è
privo di impurità e c'è pochissimo grasso e quindi potrete tastare il gusto di
fondo. Sempre riguardo alle impurità: prima di utilizzare il brodo va sempre
filtrato con un colino a rete.
Con
cosa si usa il brodo? Innanzitutto coi caplètt,
piatto sovrano delle nostre zone e tipico per le grandi festività annuali.
Questa minestra meriterebbe un capitolo di approfondimento a parte, in questa
sede basterà ricordare che al piin di
caplètt (il ripieno), durante la cottura, darà al brodo un sapore intenso e
indimenticabile.
Infatti
la cottura è un elemento fondamentale per la buona riuscita di questo piatto. I
cappelletti vanno assolutamente cotti nel brodo; vanno immersi nel liquido
bollente e messi poi a fuoco basso (poiché una forte ebollizione intorpidirebbe
il brodo), fino a quando vengono a galla. Quindi si spegne il fuoco e si
lasciano riposare per un minuto, in modo che i sapori del brodo si trasmettano
compiutamente ai cappelletti e viceversa.
È
un punto fermo che il cappelletto si aspetta rigorosamente un brodo di cappone,
denso, di colore giallo come lo zafferano, cioè... e che al bròod, ṡaal cóome un ṡafràan, al sìa d un capòun d ’n aan!
Ma il brodo si adopera anche per i parpadlèin
o i quadrètt (i quadretti), o quadertlèin (quadrettini) con anche
l’eventuale aggiunta di fegatini (i simpatici figadèin, un termine che orecchia e richiama i più svariati usi
umoristici), con al taiadlèini
(sottili tagliatelle da cuocersi solo in brodo), con la sontuosa pasta rèeza (pasta ragia o regia), che
non va mai giù di cottura e i passatelli. Tralasciamo volutamente e con un
certo disprezzo le stelline et simila,
davvero orribili e che “sporcano” il brodo.
In alcune case col nome di parpadlèin si intendono invece le farfalline in brodo, che però i
miei chiamavano strichètt, perché
stretti al centro, con due dita, mentre vengono preparati utilizzando appositi
rettangolini di sfoglio.
Stricchetti o farfalline, le dimensioni possono
essere molto variabili.
Un particolare rilievo va da to alla oggi rarissima terduura, conosciuta
anche come tevduura (da
intiepidimento) o tarduura. Si tratta
di una gustosissima mnèestra cunsèeda
che si preparava col brodo rimasto dalla domenica, quello già un po’ torbido e
scurino, con l’aggiunta di tuorli d’uovo sbattuto, del gran parmigiano e una
geniale grattugiata di noce moscata.
La noce moscata è un elemento fondamentale per dare
il giusto sapore; ma bisogna fare attenzione, se si esagera, misteriosamente
cambia gusto e diventa poco gradevole.
Si può fare col riso o con pasta all’uovo minuta, quadrètt, ecc… Una vera squisitezza.
I
parpadlèin o i quadrètt (i quadretti)
Una possibile ricetta potrà essere la seguente:
mentre la pastina bolle nel brodo, si rompono in un piatto fondo delle uova
(calcolarne mezzo ogni commensale), si prepara del parmigiano grattugiato (un
cucchiaio con la colma sempre per ogni convitato) e un grattatina di noce
moscata, secondo i gusti. Si mescola bene e quando la pasta è quasi cotta, si versa
nella pentola e si mescola un po’, poi si scodella. Chi vuole altro parmigiano
potrà metterlo (in previsione sarebbe bene stèer
un po’ indrée cun al sèel ind al bròod).
Ognuna delle minestre descritte potrà essere
rifinita con una bella grattata di parmigiano al momento di essere servita; se
esagererete nella quantità però al cucèer
al farà al fiil (il cucchiaio farà il filo).
**
È sempre stata solida tradizione propinare agli
ammalati queste cosiddette “mnestrèini”,
nonostante la loro alta indigeribilità.
-* L’Artusi a tale proposito ci segnala stupito: “Si
è sempre creduto che il brodo fosse un ottimo ed omogeneo nutrimento atto a dar
vigore alle forze; ma ora i medici spacciano che il brodo non nutrisce e serve
più che ad altro a promuovere nello stomaco i sughi gastrici. Io, non essendo
giudice competente in tal materia, lascerò ad essi la responsabilità di questa
nuova teoria che ha tutta l'apparenza di ripugnare al buon senso.”*-
Nel caso poi si avesse la digestione un po’
problematica e si fosse anche in pieno inverno, il bisnonno Quintino
Compagnoni, ai primi del ‘900, accingendosi alla prima cucchiaiata davanti a
una scodella fumante di minestra in brodo, era solito pronunciare una frase
incredibilmente bella: ’na bòuna mnèestra
in bròod l’umillia la góola e la bràasa al stòmmegh, che si può tradurre
con una salutare azione di calmante assestamento e di benefico tepore per la
gola (soprattutto col freddo stagionale) e in un palpitante abbraccio per le
pareti dello stomaco, grazie all’effetto di una buona e calda minestra,
predisponendo positivamente quest’ultimo anche per successive cibarie.
Ma c’è anche da chiedersi che bisogno c’era di
“aprirsi lo stomaco” in tempi in cui la fame, spesso, era ancora tanta e, in
particolare nelle nostre campagne le occasioni di sedersi a tavola per un buon
pasto completo erano veramente poche: Natale, Pasqua, la sagra del paese e
qualche matrimonio.
Allora si poteva passare dal taiadèeli o ai caplèett,
al lèss, agli arrosti con salse e
giardiniere, qualche fetta di salume di propria produzione, fino alla zuppa
inglese e al nocino finale.
Non possiamo non segnalare anche un’usanza, detta surbìir
nel reggiano- modenese - mantovano, in altre zone surbièer (Parma) o bèvvr in
vin (Lombardia), che spesso lascia assai perplessi gli ignari convitati. Si
tratta dell’uso di versare mezzo bicchiere di lambrusco in una fumante scodella
di cappelletti, o anche altra minestra in brodo. È una tradizione di
antichissima origine contadina, che vanta ancora oggi rari, ma convinti e
irriducibili estimatori. Sorbire significa bere a piccoli sorsi, con brevi
interruzioni fra un’assunzione e l’altra. Al
surbìir perché nasce? Abbiamo due spiegazioni opposte; la prima trova la
sua giustificazione nel fatto che una volta il brodo era particolarmente grasso
e il tannino naturale del vino contribuiva a ovviare alla sensazione viscida
sul palato. Ma c’è anche una tesi opposta e cioè il bicchiere di vino servisse
a insaporire un brodo molto povero e scarso di sapore.
Ancora una volta quando si entra nella tradizione è
davvero difficile appurare la verità, anche perché spesso ce sono più di una.
L’odore che esce da tale mistura fumante è
caratteristico e penetrante, quasi acetico, a mio parere disgustoso. Il
mefitico effluvio, abbinato alla vista della pasta e del brodo ormai violacei,
non di rado provoca fastidio e ripugnanza fra i vicini di tavolo. Costoro,
inorriditi, scherzosamente potranno innalzare e stendere il proprio tovagliolo
a guisa di paratia protettiva, inibendo l’infausta vista della scodella e
accompagnando il clamoroso gesto con espressioni di repulsione e male parole.
Ciò rende comune e quindi non maleducata o irrispettosa, la pratica antica di
scucchiaiare tale piatto o la tazza in piedi e di spalle, velocemente, un po’
vergognosi e ripiegati su se stessi.
Esistono però proverbi e poesie che testimoniano la
caratteristiche benefiche di questo piatto: Chi
mètt al vèin ind la mnèestra, al salutta al dutóor da la fnèestra (Chi
mette il vino nella minestra saluta il dottore dalla finestra).
O anche:
Dòop d
avéer surbìi un surbìir Dopo aver degustato il surbìr
s a t gh èe
un po’ d malincunìia se hai un po’ di malinconia
sèinsa
traar tanti suspìir senza fare tanti sospiri
la t andrà
sèins èeter via! ti andrà senz’altro via!
Dalla poesia
"Al bevr'in vin" di Enzo Boccola da "Rusch e brusch" Ed. Al Fo
Il vino nel brodo, era usato
specialmente, nelle famiglie contadine nelle feste, nelle sagre e nei
matrimoni, veniva servita la prima cotta dei cappelletti con vino, come aperitivo/antipasto,
agli uomini. In genere era il capofamiglia, a decidere quando era a giusta
cottura con un apposito assaggio, e s a l
giva “L’è còota!”, al reṡdóori
i purtèeven in tèevla, e in
quel momento l'assaggio veniva esteso agli altri uomini.
È mia opinione ritenere al surbìir sia una simpatica tradizione, ma anche un vero e proprio
assassinio, sia del brodo che dei cappelletti, in particolare per me che per
assaggiare il vero gusto del brodo non aggiungo nemmeno il parmigiano nel
piatto fumante. Anche se, come è noto, sui gusti non si dovrebbe discutere.
“Mò 'sa surbèelet? Surblòun!” Ma cosa
tiri su? “Sorbellone”?
**
La suppa
Questo
non è certamente un piatto originale e certamente viene preparato un po’
dappertutto. Ma la descriviamo lo stesso la
suppa (zuppa), perchè comunque fa parte della tradizione delle nostre
nonne, abituate a non buttare mai niente e ad utilizzare tutto.
INGREDIENTI:
-
bròod (brodo);
-
paan vèec’ ( pane vecchio, avanzato)
-
butéer (burro);
-
furmàai radùu (formaggio
grattugiato). Nelle nostre zone è sottinteso che si tratta di parmigiano
reggiano.
PREPARAZIONE:
Sfetlèe dal paan vèec’ (affettate del pane vecchio) e mettete le fette sul
fondo di un piatto da minestra. Appoggiate sulle fette 'na nóoṡa d butéer (una noce di burro) e a gh sparpagnèe in simma (spargete sopra) il formaggio grattugiato.
Fatto questo, versate sopra il tutto del brodo bollente, a più riprese, finché
il pane non abbia assorbito abbastanza brodo e nel piatto rimanga del liquido. Magnèe purr a quàater ganaasi (mangiate
pure a quattro palmenti), mò stèe atèinti
d a n scutèerev (ma state attenti a non scottarvi).
SPIEGAZIONI,
SUGGERIMENTI E VARIAZIONI:
Questo
è un modo classico di utilizzare, assieme al pane, il brodo avanzato. È anche
una maniera particolare di preparare altre zuppe più elaborate. Se non avete
del brodo di carne casalingo, andrà benissimo anche il cosiddetto bròod maat (brodo matto, ossia fatto di
dado o anche solo vegetale). La quantità di brodo si può variare a piacere: c'è
chi gradisce una zuppa più solida e chi più liquida. Il burro potete metterlo o
no, a vostro gusto, come potete variarne la quantità (sèinsa eṡagerèer, che dòop a v va su al colesteròolo catìiv). Anche
per il formaggio vale la stessa cosa.
**
LA PANÈEDA (pancotto)
Molto
simile a la suppa, si differenzia
però da essa perché può essere fatta oltre che con il brodo, anche in modo
ancora più misero e cioè con solo dell’acqua.
È
un antico piatto poverissimo presente anche nelle nostre zone, buono per vecchi
sdentati e bambini.
Occorre:
- paan vèec’ 400 gr, quàand a gh in restèeva
- paan vèec’ 400 gr, quàand a gh in restèeva
-
butéer (burro) 50 gr
-
’na fóoia d sèelvia (una foglia di
salvia)
- furmàai
radùu (formaggio grattugiato) in abbondanza... sèmmper pèr mòod èd diir.
Tagliare il pane a fettine e ricoprirlo di brodo di
carne (o aaqua... s a sii pròopria
puvrètt puvrètt), cuocere adagio in padella per 20 minuti circa, fino a
quando il brodo non è stato assorbito. Aggiungere poi burro e salvia e
continuare la cottura per altri 10 minuti mescolando per evitare che si
attacchi al fondo. Ritirare dal fuoco, unire il formaggio, lasciar riposare per
un attimo e servire.
Certo
che... méeno d acsè!!
AL BRÒOD DÒOLS di maiale
Quando
in pieno inverno si macellava finalmente il maiale, le sue ossa erano
conservate al gelo in solaio. Il freddo intenso conservava le ossa per alcuni
giorni. Ogni dì si preparava pertanto il brodo di ossa di maiale che, anche
grazie alla carne residua, aveva un gusto gradevole e particolare... un po’
dolce. Questo liquido era poi utilizzato spesso per cuocervi il riso e la
verza. Un piatto molto saporito che oggi è davvero difficile poter gustare. Ho
avuto la fortuna di partecipare nel corso degli anni a varie “maialate” con un
gruppo di affiatati amici; in quelle occasioni la cara Patty Nicolini, nella
vita provetta infermiera, ci teneva moltissimo a preparare questa insolita
minestra che aveva ereditato da un’antica tradizione della sua famiglia di
Fossoli.
MODI DI DIRE e PROVERBI
Il
dialetto e l’italiano hanno, come in tutti i campi, parecchi e simpatici modi
di dire legati al brodo.
Ne
ricordiamo alcuni.
Ṡlunghèer al bròod (allungare il brodo) - quando una cosa che dovrebbe
essere per sua normale natura...breve, viene resa più lunga e complicata senza
un utile costrutto. Ad esempio nelle trame di Beatiful a se ṡlunnga al bròod dimònndi (si allunga molto il brodo).
A gh vóol dal bròod (ci vuole del brodo) in carpigiano sta a
significare i béesi, i sòold, la munéeda,
insomma il denaro.
Lamintèeres dal bròod graas (lamentarsi del brodo grasso) - situazione in cui
pur essendo nel benessere e nel privilegio, ci si lamenta ugualmente.
Galèina vèecia… fa bòun bròod (gallina vecchia fa buon brodo) - ci si riferisce a
persone di una certa età, ma di provata esperienza, dalle quali perverranno
certamente risultati positivi e proficui nelle più svariate attività umane. Se
però ci si riferisce in modo politicamente scorretto a una donna di una certa
età e con molte campagne di guerra al suo attivo, la frase acquisisce un
significato molto malizioso con una valenza che viene ulteriormente aumentata
da un passo aggiuntivo dal significato oscuro e che lasciamo interpretare ai
lettori... mò primma ch la léeva al bùi!!
(ma prima che raggiunga lo stato di ebollizione... ce ne occorre di tempo
!!).
C’è
poi la domanda classica della moglie al marito: "Fòmm ia da bròod o da sutt ?”
Sottinteso: “Che minestra vuoi? In brodo o asciutta?” Qui niente meno si arriva
a citare Shakespeare e il dilemma Amletico (essere o non essere)... il dramma
di una scelta decisiva e finale, portando il contesto in una realtà casareccia
e contadina. Se il quesito è posto alla sera prima di dormire... procurerà
ansia e conseguente insonnia; se invece l’interpello è mattutino, prevarranno
sconcerto e sgomento. Quale sarà allora l’esito della tormenta scelta ? Non è
dato sapere. Una cosa però è certa che quàand
al marì al rispònnd in ’na manéera, la muiéera l à già decìiṡ pèr cl’èetra.
La
contrapposizione dei due termini (e dei due piatti) sta anche a segnalare un
certa indifferenza di fronte due possibili alternative: a m va bèin da bròod oppure a
suun da sutt e da bròod.
Surblìir al bròod, tirare su il brodo
bollente dal cucchiaio o dalla tazza con un lieve caratteristico rumore delle
labbra, che serve di fatto a far perdere calore al liquido caldo. Il rumore del
tirar su risulta però molto maleducato e fastidioso per chi siede alla stessa
tavola.
Da sutt e da bròod
Tutto
fa brodo! – Questo proverbio, che
bene illustra una certa mentalità italiana, significa che, in certe situazioni,
atti o materiali di svariata provenienza possono aiutare a concludere, di
solito alla bene/meglio, una certa impresa.
Chi
negli anni ’60 seguiva il mitico Carosello ricorderà la frase, che poi veniva
ripetuta fra i ragazzini "Non è vero che tutto fa brodo, è Lombardi il
vero buon brodo!" Era la canzoncina pubblicitaria del brodo Lombardi che
veniva dopo la scenetta fra un vigile siciliano (“Concilia? Se non concilia, qui a schifìo finisce!”) e un
forestiero. La scenetta si concludeva immancabilmente con il forestiero che
diceva "... Ma sì, tutto fa brodo!". E da qui partiva il motivetto
pubblicitario.
Tròop cóogh... i ruviinen al bròod (troppi cuochi, rovinano il brodo) - Nel senso che
quando ci sono in troppi a voler comandare in una certa azione, l’esito sarà
infausto.
Ssst!! Taṡìi ch a naas un frèe ! (Silenzio! Tacete che nasce un frate), oppure “Padre è
cresciuto un frate!! - Brodo lungo e seguitate!” Sta a significare che la
compagnia, la famiglia o il gruppo si sono allargati, ma le risorse sono
rimaste sempre quelle e quindi bisogna dividersi quello che c’è... diluendolo.
Di
simile significato è la frase: Niina
ṡuunta 'na mèsscla d'aaqua ind al bròod, che Iusfòun al s féerma chè a magnèer!
(Nina aggiungi una mescola d'acqua nel brodo, perchè Giuseppone si ferma
qui a mangiare!). Ricorda com'era grama la vita nei tempi. Se si vuole vi si
può leggere anche un senso di solidarietà: quel che c'era si divideva. Ma non
crediamo che Jusfòun e la Nina
ne fossero così orgogliosi, ma più che altro rassegnati.
Amore
per le scale è come il brodo senza sale - sta a significare
una cosa non completa, non fatta bene, a cui manca qualcosa di essenziale.
Chi
si loda, si imbroda - Spiegazione moderna: l’uso e l’invio di messaggi
eccessivamente auto-promozionali, nuoce spesso a se stessi.
Andèer in bròod èd laṡaagni - andare in brodo di lasagne, se un individuo va in
deliquio per la persona amata. Se poi lo scioglimento è totale, o in caso di
altre defaiances mentali, psichiche,
fisiche e sessuali, si può dire: l è
andèe in bròod(a).
Andare
in brodo di giuggiole - Siamo in ambito vegetale e si fa riferimento al
contenuto zuccherino delle giuggiole, frutto commestibile; il proverbio viene
usato per indicare chi prova, per merito proprio o di altri, la dolcezza di una
forte e incontenibile gioia. Molto in uso sui colle Euganei, dove lo si può
comprare, era un tempo (medioevo) offerto ai potenti come segno di benvenuto.
Per questo quando era offerto ai comuni mortali, questi si rallegravano fino ad
andare anch’essi in estasi. Nella pozione ci si mette anche qualche fettina di
mela cotogna per darle più consistenza. Il problema è snocciolare le giuggiole
(grandi come un’oliva), spremerle ed eliminare dal succo le bucce. Gli attrezzi
moderni non servono molto, ma di pazienza ce ne vuole tanta. Però il risultato
è buono.
Incóo la polìtica l’è cèera cóome al
buiòun di faṡóo (la politica oggi è
chiara come il brodo dei fagioli) una frase di tanti anni fa, ma... senza
tempo.
Èsser ind i faṡóo (essere nei fagioli) significa stentare nel
ragionamento, dopo aver subito per i più svariati motivi di obnubilamento della
mente. “Fagiolame, sfagiolare, fagioleria” sono speciali parole e situazioni
derivate. Il borbottare confuso degli anziani può ricordare il ribollire di una
pentola di fagioli
Fino
agli anni ’50, quando un camaràant
(bracciante agricolo di infima condizione) consumava una minestra in brodo
fuori dalle feste comandate, ciò rappresentava un fatto eccezionale e allora
scherzosamente si diceva: o è malèe al
cuntadèin, o l’è malèeda la galèina!! (O è malato il contadino, o la
gallina).
Al bròod maat còi caplètt, l è un
magnèer da puvrètt (il brodo matto
con i cappelletti è un magiare da poveretti) nel senso che una cosa di qualità
deve essere corredata solo da elementi dello stesso livello, se nò l’è strasinèeda (altrimenti è
sciupata).
Pèer chi gh à al ferdóor: bròod èd
galèina buìint e caplètt. Per chi
ha il raffreddore il brodo caldo con cappelletti ha un sicuro ed efficace
effetto curativo.
Pare
infatti che il brodo di carne sia adatto negli stati influenzali e da
raffreddamento, mentre i caplètt
inducono uno stato di commozione interiore che va a risolversi in un rapido
miglioramento delle condizioni di salute. C'è chi suggerisce però pòoch bròod e dimònndi caplètt, cioè un bèel piàat èd caplètt a sutt.
Al bròod dal cudghìin (il brodo del cotechino) spiritosa e maligna
definizione usata nella Bassa per indicare quando si è in presenza di un
giocatore d’azzardo che perde tutta la sera, ma vince l’ultima mano. L’estrema
vittoria diventa una presa in giro, dovendosi accontentare del solo brodo del
cotechino, salume che arriva anche a identificarsi con il perdente.
Lasèel cóoṡer (bùier) ind al só bròod
! - lascialo cuocere (bollire) nel
suo brodo! Una frase che si dice di una persona che è super convinta di una
cosa molto probabilmente sbagliata o di uno molto scontroso. Inutile discutere
e farla ragionare: solo il tempo e il suo dialogo interiore potranno forse
portarla ad una oggettiva percezione della realtà delle cose e a un possibile
ravvedimento.
Particolarmente
divertente fu una parodia in dialetto “maccheronico - gogliardico” degli anni
’80 della canzone “Cuando calienta el sol” per mano certamente colpevole dei
fratelli Bigarelli e di Dario D’Incerti... “Quando si rovescia il brodo sulla
tovaglia”:
Cuando calienta el sol aquí en la
playa, Quàand
a s arbèelta al bròod in simma a la tvàaia,
siento tu cuerpo vibrar cerca de mí a sèint
la canèela vibrèer sopra de mi ecc...
Ognùun al staaga ind al só bròod (che ognuno stia nel suo brodo) - invito a non
impiccarsi degli affari degli altri o a rimanere nelle proprie specifiche
competenze.
S te n gh èe mìa i sòold pèr la
chèerna, cuntèint èt dal bròod (se
non hai i soldi per la carne accontentati del brodo) un nonsense con l'invito ad appagarsi anche di poco.
T ii cóome la fursèina ind al bròod,
te n servìss a gniinta! (sei come
la forchetta nel brodo, non servi a nulla!)... ci vuole il cucchiaio.
Non passo mica il tempo a soffiare sul brodo, una
frase a significare che si è di fronte a una persona che dice, a parer suo, di
ben sapere quello che fa senza perdere inutilmente del tempo.
Pèr chi gh à la féevra o al ferdóor,
un bòun bròod èd galèina l è quèll ch a gh vóol ! (per
chi ha la febbre o il raffreddore, un buon brodo è ciò che occorre!) – un
valido consiglio della nonna.
Al bròod è cosa buona, mentre la bròoda designa un liquido pessimo, frutto di processi alchemici
nefasti e proveniente da origini indicibili; può per altro essere una brodaglia
senza sapore o, viceversa, con gusto e un odore orribili e disgustosi.
Se
in dialetto si vuole appioppare un torto o una mancanza a qualcuno, quando ciò
NON è vero, si può dire: Tirèer la bròoda
adòos a chi èeter.
Bròod èd galèina e vèin èd cantèina i
iin ’na graan medṡèina (brodo di
gallina e vino di cantina sono una gran medicina) sugli effetti salutari dei
due liquidi.
Faacia da parpadlèin in bròod (faccia da quadretti in brodo) - rara e curiosa
espressione carpigiana che potrebbe definire il colore del viso giallino tenue
di una persona non in perfetta salute.
S a caat chi à invintèe la fadiiga, a
gh vóoi fèer un brudètt - se trovo
chi ha inventato il lavoro, gli voglio fare un brodetto... con costui. Una
celebrazione che non promette nulla di buono.
La
nonna di Maurizia Besutti (Carpi) faceva i passatelli e
li dava da mangiare solo alle partorienti cun
al bròod bòoun, ch i puliiven al stòmmegh e i fèeven laat. I passatelli con
il brodo buono che pulivano lo stomaco e aiutavano a far venire più latte
Al giiva Francòun: "A m
archmaand... un brudèin alṡèer cun dèinter duṡèint caplètt!!" Diceva Francone:”Mi raccomando... un brodino leggero
con dentro duecento cappelletti!”.
Quanto non c'era tanto da mangiare: “Bèevv dal bròod, ch a t fa gnìir di bée
galòun!” Bevi del brodo, che così ti verranno dei bei fianchi!
Oggi sarebbe quasi una bestemmia!
A curr al
bròod!
(C’è grande abbondanza!)
Bèvver al bròod d’oca (Essere credulone)
Bròod graas. (Affare vantaggioso)
Bròod lùnngh (Discorso interminabile e confuso)
Gniint in bròod! Un bèel gnintéin in
bròod! (Un bel nulla!)
Concludiamo con una irresistibile battuta
dell’attore cabarettista Mario Zucca:
“Quando ero piccolo, mia nonna mi portò a mangiare in una trattoria all'aperto.
Cominciò a piovere. Ci misi tre ore a finire il brodo.”
**=M=**
Anni ’60 – la
reṡdóora si appresta a scodellare i cappelletti in brodo
per Natale o
per Pasqua
Appendice
Ecco un bel contributo personale di Luciana Nora, già direttrice
della sezione etnografica del Museo di Carpi.
Broòd èd capòun a Nadèel
12-12-2011 Luciana Nora
Bròod èd capòun a Nadèel, bròod èd galètt a Paasqua. Non un cappone e un galletto
qualsiasi, bensì un cappone e galletto allevati in casa per almeno tre mesi:
così si era certi che avrebbero mangiato al meglio. Vivi, ce li portava a casa
una contadina, legati per le zampe venivano pesati con la stadera del nonno
Giannetto, poi passavano in una stia ind al granèer. Il cappone arrivava
a casa nel primo autunno, il galletto dopo la Befana. Dopo Pasqua,
sacrificato il galletto, arrivava una coppia ed faravòuni ciacaròuni. Gli
davamo da mangiare al pastòun che preparava la nonna. Dopo aver quotidianamente
accompagnato la nonna a pasturarli, a cinque anni ero in grado di salire in
granaio e farlo da sola.
Al granèer era allora frequentatissimo: da fine
estate si riempiva di odorosa legna, poi arrivavano i pòmm dèelsem, i pòmm ranètt, i
pòmm cudòggn, i piir butéer, al nèespi in mèeṡ a la pàaia, qualche
grappolo d ùa muscatèela tachèeda al plòun, ch la pasiiva, ma l’armagniiva
bòuna fiin a Nadèel. Atàach ai fiil da stènnder, la nonna
appendeva collane èd s-ciapèedi (fette di
mele lasciate a essiccare, dolcissime e usate come balsamo per la tosse e il
mal di gola). Dallo scaffale d’angolo vicino alla scala proveniva un
intenso profumo di aceto che si stemperava avvicinandosi alla montagna di mele.
Il mercoledì, con i panni stesi dopo il bucato, e per un giorno
intero, dominava il profumo marsiglia dal savòun Gaal. Da fine giugno e
per una ventina di giorni, dominava su tutto l’intenso profumo della camomilla
che il nonno raccoglieva e metteva ad essiccare distesa su la chèerta ṡaala.
Facevo quelle scale di corsa non si sa quante volte al giorno: -
Luciana, da brèeva, vaa m a tóor ’na spurtlèina d pòmm, vaa m a tóor un po’ d
lèggna -… correvo volentieri in quello che era anche un mio spazio di
gioco, dove, ben vestita, riuscivo ad intrattenermi anche se faceva freddo, un
freddo mitigato dal caani fumaari.
Scomparso il nonno, anche il granaio per un anno intero era
caduto in lutto. Il babbo aveva tentato di conservare i ritmi di sempre ma si
avvertiva lo sgomento e anche i profumi sembravano fortemente attenuati. Per un
anno la stia è rimasta vuota. La balaansa e al caani da pèss del
nonno rimanevano in un angolo, una presenza muta che induceva al silenzio e ad
azioni quasi in punta di piedi.
Sul balcone rimanevano i vasi dove il nonno metteva qualche
pianta di pomodoro che nessuno aveva tolto e che si erano piegate alla neve e
rinsecchite poi al sole estivo. Il babbo aveva portato dentro solo i vasi di
gerani che poi la nonna ha ripreso in cura e ha cercato di conservare finché ne
è stata capace.
La stia ha ricominciato a vivere l’anno successivo con un
cappone. Il Natale, seppure in tono dimesso, tornava ad essere celebrato. La
nonna aveva ripreso a fare sfóoia e caplètt, la
sèelsa véerda e quèlla èd crèin pèr i lèss, i turlèin fritt cun
al piin èd savóor: erano i suoi graditissimi regali. La tavola della
sala da pranzo della nonna non si è però mai più apparecchiata per Natale,
perché lei un anno scendeva da noi ed un altro si portava dallo zio Bruno. Ho
avvertito in maniera forte quel cambiamento e confesso che ho provato per la
prima volta il sentimento di gelosia.
L’ultimo pennuto che si è ingrassato nella stia del granaio è
stato un galletto: avevo sette anni e forse la decisione di terminare quella
consuetudine è derivata da una mia tremenda ribellione al momento di
sopprimerlo. Mi era sempre stata risparmiata la macellazione ed era stato per
caso che mi ero trovata ad essere presente nel momento in cui, con il galletto
appeso per le zampe ad un anello infisso nel muro del cortile, la nonna assieme
a sua sorella Ida si apprestavano a sgozzarlo. La mia reazione le aveva
fermate, tanto che il galletto era ritornato nella stia con la promessa che la
sera stessa lo avrebbero poi riportato in campagna dalla contadina, che ce lo
aveva venduto.
Una pietosa bugia a cui avevo voluto credere, anche se per Pasqua
al
bròod di caplètt e l aròost erano buoni come sempre.
La nonna però da quel momento credette bene fosse utile portarmi
alla realtà e gradualmente mi introdusse a quella che credeva dovesse essere
una tradizionale competenza femminile: mi portava con sé al mercato quando
comperava un pollastro o una gallina: gli tastava il gozzo che doveva essere
vuoto, poi il petto, analizzava le zampe, meglio se di penna chiara. Legata per
le zampe, la portava a casa viva. Non mi riusciva di guardare quando le tirava
il collo, ma poi l’assistevo quando la scottava ind al paróol dal fugòun
del cortile, la spennava, la puliva e quindi preparava tutto il resto.
Non posso dimenticare quando nell’estate del 1964, trovandoci
insieme a Cesenatico, la nonna decise di preparare il pollo al limone e nella
macelleria ci trovammo di fronte ad un busto di pollo del tutto pulito. La
nonna ebbe a dire: - Luciana, è pròopria cambièe al mònnd! A t ò
insgnèe taanti ròobi ch i n sèervissen più a gniint.-
È vero, il mondo è cambiato, ma le tante cose che mi sono state
insegnate sono tutte presenti e quotidianamente concretizzano quelle assenze
delle quali sono consapevole di essere continuità. Il Natale, in un’accezione
laica, seppure non scevra di religiosità, è una di quelle scadenze tra le più
evocative dove chi pure non c’è più, non se n’è mai veramente andato e tutto,
come il ciclo solare, si rinnova.
**=M=**
Quadretto
di Natale
L’assaggiatore del
cappelletto
di Mauro D’Orazi - Carpi
prima stesura il
24-12-2011 V 25 del 31-01-2013
Mi
piace ricordare il fatto che in occasione del pranzo di Natale vengo sempre
chiamato in cucina per svolgere un compito di altissimo livello: si tratta di
assaggiare un cappelletto di prova. Già alcune ore prima avevo dato il mio
preventivo parere sul pesto e sul brodo. Ma adesso, giunti alla fine del
complesso percorso, mi viene offerto un cucchiaio con un esemplare fumante. Con
delicatezza, anche per non ustionarmi, lo assaggio. Mi piace che sia ancora
abbastanza consistente e che il dente affondi con una leggera, ma ben
percettibile resistenza. Ne tasto la compattezza, schiacciandolo delicatamente
coi molari... due secondi di assoluto silenzio, sguardo estatico e ispirato
rivolto all’infinito, in diretto collegamento esoterico con le anime e lo
spirito genuino delle reṡdóore di ogni tempo.
Gli occhi delle cuoche mi guardano
spalancati, fissi e preoccupati... in attesa. “L è còot!! Chèeva!! “…
pronuncio in modo solenne, col cucchiaio alzato e benedicente. “Si proceda
all’immediato scodellamento!”. L’antico e benedetto rito ha inizio: tutti si
siedono e si preparano ad allungare i piatti. La reṡdóora (“Atèinti! A gh è la pgnaata buìinta!”) colloca la grande pentola
fumante sulla tavola e con un capiente mestolo comincia a servire. Una catena
di piatti comincia a muoversi con adeguata ritmica cadenza, per agevolare
l’operazione; passano di mano in mano, prima vuoti e poi pieni. “Attenzione a
non rovesciare il brodo!” è la raccomandazione. Finché ognuno ha davanti la sua
minestra. “Chi vuole il formaggio grattugiato ?” Finalmente si mangia e i
cucchiai si immergono avidi e veloci nei piatti che prestissimo saranno di
nuovo vuoti.
Un mistico silenzio regna nella sala,
rotto solo dallo scuciarèer ind i piàat
(scucchiaiare nei rispettivi piatti).
Qualcuno, ad alta voce dichiara
ufficialmente: “Óo i iin dimònndi bòun st
aan! Aanch al bròod! L è d capòun, ruspàant, cumprèe da un mè amìigh cuntadèin
in campaagna! Al m al tiin pròopia
per mè tutt i aan! Al furmàii dal pisst, po’…, l è d primma qualitè! “Un 36
mesi” specèel d un caṡeifissi cun duu
nummer, pròopria giusst giusst pèr fèer di graan caplètt.” Una serie di
conferme segue immediata, con espliciti e convinti movimenti assertivi delle
teste. Le bocche, infatti, NON parlano, impegnate nella degustazione. Le
cuoche, che Dio al li bendissa in
seculaseculòorum, sorridono soddisfatte; chi ha procurato con esperienza e
astuzia i preziosi e pregiati ingredienti... anche.
Chi mangia... ancor di più. Ehee sì!! Sono rari e preziosi simili momenti
di gioia collettiva e condivisa. Bisogna goderseli in piena consapevolezza:
un prezioso dono offerto alle nostre esistenze troppo spesso piene di affanni,
preoccupazioni e dolori.
Circa l'uso di informaggiare il
cappelletto è antica e irrisolta questione. “Bròod èd galèina buìint e caplètt... mò s te n gh mètt ’na branchèeda èd furmàai in simma... pèr mè... te
ruvìin incòosa.” Questo è un punto fermo per il consumatore tradizionale,
che aggiunge il pregiato elemento locale per completare e arrotondare il sapore
del piatto.
Invece c’è chi, come me, lo evita con
motivata decisione: questo perché si desidera gustare puro e originale, sia del brodo, che del cappelletto.
Se il brodo è buono, preferisco sentirne
a pieno il gusto originale e vederlo bello, giallo e limpido cun un quèelch òoc'; ma... la mia è una
posizione di consapevole minoranza. S a
gh mètt al furmàai a vóol diir ch a nn andòom mìa dimònndi bèin e c'è da
correggere qualcosa che è scarso e modesto.
Per evitare che i cappelletti non serviti
i se spapèelen (si spappolino), è
assolutamente necessario che vadano subito tirati su dal brodo con apposito
attrezzo forato e a richiesta serviti per un bis con aggiunta di successiva
mestola di solo brodo ancora bello caldo.
Chi
potrà resistere a un secondo piatto di questa prelibatezza ?
***
L’unica ombra di tristezza, sta nel
guardarsi intorno e accorgersi con sgomento dei posti vuoti ai bordi del
lungo e ricco tavolo natalizio. Qualcuno
non c’è più!!... o con la mancanza del
corpo fisico o a causa della mente, ormai smarrita fra
orribili nomi tedeschi di crudeli e orribili malattie! Cerchi il loro sguardo,
la loro voce: ma non ci sono... NON ci sono. L’assenza di questi cari si fa
sentire nel profondo dei nostri sentimenti, sembra spezzare il cuore e l’anima;
ma nel pensiero sono e resteranno più che mai in mezzo a noi.
E
sì!... qualcuno se ne è
andato troppo presto o se si è allontanato così,... lentamente, quasi senza
lasciarci il tempo di rendercene conto in modo davvero consapevole. Se osserviamo
il cielo dalle finestre della grande sala imbandita, ci piace pensare che anche
loro ci guardino.
Spesso li ricordiamo la notte, quando
fissiamo il buio e le stelle... una data, una voce, una frase, uno sguardo, una
carezza, una sgridata, una canzone, un luogo, un cibo, un odore, un’auto, un
film visto assieme...
Mà :=(((...
Ch a s pièeṡa
o no, biṡòggna andèer avaanti... mò ch
fadiiga... i mè ragàas !
**
Hanno
gentilmente e appassionatamente collaborato: Mario Attolini, Giuseppina
Bertolazzi, Iolanda Battini, Mario Attolini, Franco Bizzoccoli, Anna Maria Ori,
Graziano Malagoli, Franca Camurri, Anna Bulgarelli, Attilio Sacchetti, Giliola
Pivetti, Carlo Alberto Parmeggiani, Patrizia Manicardi, Gianfranco Guaitoli,
Vanni Previdi, Oscar Clò, Marco Giovanardi, Stefano Giovanardi, Giorgio R.,
William Lugli, Florio Magnanini, Luciana Nora, Odette Baracchi, Norberto Losi,
Maurizia Besutti, Nello Caliumi, Erminio Ascari, Gloria Pellacani e Ettore
Farina, Emilio (Millo) Cerretti e Dario D’Incerti.
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grazie