prima
stesura 5-6-2010 versione v14 30-07-2017
La
Pelosa
di Mauro D’Orazi email: dorry@libero.it
Calma! Non si parla di luoghi oscuri
intracosce, che tirano più di possenti carri di buoi maremmani, ma di un gioco
da ragazzi che si praticava sulla sabbia nelle colonie adriatiche carpigiane.
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Anni ’60 - corriere piene di bambini
deportati in una qualche colonia adriatica
La
colonia era una sorta di soggiorno coatto, che permetteva ai genitori di tirare
un po’ fiato, con la scusa che il sole, lo iodio... i fèeven bèin!! Per i soggiorni al mare, la deportazione iniziava
con un viaggio in corriera verso la località balneare adriatica: sacco in
spalla, verso l’ignoto. Era quasi sempre il primo spostamento da solo per ogni
bambino, con tutti i dubbi e le paure del caso; a cominciare dagli spazi
privati che drammaticamente, all’improvviso, non esistevano più.
1960 circa – Colonia adriatica Carpi –
Solieria di Monte Marano
Una
volta arrivati si procedeva con un severo sistema militare: cancelli chiusi,
area recintata tipo Stalag 17 o La grande fuga, suddivisione in squadre
comandate spesso da vere proprie kapo, divisa e cappellino da
“marinaretto-billy”, traumatico uso comune dei bagni, alza bandiera schierati
sull’attenti ogni mattina, mensa collettiva tre volte al giorno, distribuzione
delle posta come nel film La grande
guerra di Dino Risi, un cinemino
su lenzuolo al sabato sera, un dolce marron - budinoso la domenica a pranzo,
ecc...
Si
stava per ore sotto le tende a righe blu e bianche in spiaggia e la cosa che
più era lesinata era proprio quella che ognuno di noi desiderava di più: il
bagno in mare. Al via, dato col fischietto, tutti di corsa in acqua, con
spruzzi e schiamazzi, un brevissimo quarto d’ora di agognato e atteso
divertimento e poi tutti su. Al minimo accenno di nuvole o di mare leggermente
mosso, la sergente maggiore, comandante la piazza, sopprimeva sadicamente
l’abluzione salmastra.
Di
tempo sotto le tende ce n’era tanto e un geniale quanto ignoto sconosciuto
inventò, presumo negli anni ’40, un gioco alquanto singolare e di grande presa:
la Pelosa.
Chi ha frequentato le colonie elioterapiche e balneari
organizzate dal Comune dagli anni ’50 in poi a S Martino Secchia, poi all’Adriatica Carpi - Soliera a Ponte
Marano e
infine a Miramare di Rimini fino anni ’70, ricorderà questo gioco di abilità
alquanto singolare.
La Pelosa era un piccolo “attrezzo” fatto con un
robusto filo di ferro, lungo una ventina di centimetri; da una parte la punta
era smussata e dall’altra era chiusa a occhiello. Eccone un paio, ottenute con
una ricostruzione “di gran lusso” da vecchi raggi da bicicletta; sono opera del
mio amico Graziano
Forghieri
(ch al sa fèer i pèe al mòsschi),
famoso meccanico e campione internazione di vari giochi di abilità, tra cui
quello di cui stiamo trattando.
Il
gioco richiedeva la presenza di
un piccolo campo di poche decine di centimetri di sabbia secca per far
conficcare il piccolo attrezzo di punta, dopo una lunga serie tra le più varie
e strane evoluzioni. I bambini erano seduti gli uni di fronte agli altri a
gambe incrociate, sotto i tendoni a righe bianche e blu. Si giocava "alla
vecchia”(più facile) e "alla nuova”(più difficile) con tutta una serie di
figure che partivano dalla mano, per arrivare alla testa e ritorno. Ecco alcuni
esempi: si appoggiava la punta sulla testa, sulla fronte, su una spalla,
sull’altra; oppure di piatto sul palmo o il dorso della mano o su due dita
aperte a “corna”, ecc...
Si
lanciava il ferretto facendo perno e appoggio sulla punta o sull’intero asse: la Pelosa doveva fare alcune
evoluzioni... dichiarate e piantarsi dritta o quasi nella sabbia dalla parte
della punta. La serie dei tipi di lancio era codificata solennemente all’inizio
della gara.
Riporto
una classica frequenza di tiri anni ’50 “alla vecchia”.
Fase
1: si partiva con Pelosa puntata sul palmo della mano e col dito indice
sull'anello; si imprimeva una rotazione di 360° (al giir dla mòort) e la Pelosa si doveva piantare
bella dritta nella sabbia.
Fase 2: al prill l éera da fèer sul mignolo e su tutte le altre dita fino
al pollice.
Fase 3: si ripeteva sul dorso della
mano, poi si passava al gomito, alla spalla, al mento al naso alla fronte e sulla
testa, per finire in posizione in piedi, quando si doveva piantare la Pelosa nella sabbia
lanciandola con una rotazione di 180° a guisa di coltello da lanci.
Chi sbagliava al dviiva paghèer penitèinsa...
(doveva pagare penitenza).
In
colonia il gioco era naturalmente proibitissimo (cosa del resto non lo
era in colonia?) per vari motivi: perché si smontavano senza pietà pezzi di
recinzione, distruggendo la rete divisoria in fondo al cortile, vicino alla
casa del bagnino Serafino, e poi perché c’era pericolo per gli occhi, anche se
non ho mai sentito di nessun incidente. C’era poi un terzo motivo che spiegava
la determinazione posta dalle occhiute vigilanti che erano
incaricate della sorveglianza, del sequestro e della immediata
distruzione dei preziosi attrezzi, ottenuti con sprezzo del pericolo, destrezza
e duri sforzi. Si trattava della efferatezza della penitenza: un rito giovanile
- tribale... spietato, quanto atteso da tutti i presenti al gioco, che si
accomodavano compiaciuti per godersi lo spettacolo. Quanto prima il giocatore
commetteva un errore nella prevista serie di lanci, tanto più dura era la
penitenza che gli altri compagni preparavano e viceversa.
È
proprio nella penitenza che risiede forse l’origine del curioso nome “Pelosa”,
dovuto al fatto che la baṡlètta (il
mento) si sporcava di sabbia e il ragazzino sembrava avesse la barba. E perché
il mento si sporcava ? Perché quando uno sbagliava il lancio e la Pelosa non si conficcava
dritta secondo i canoni, c’era la penitenza da fare. Non posso tralasciare di
annotare che, da più testimonianze, mi è stata suggerita un’altra ipotesi di
derivazione ben più maliziosa dell’origine del nome, dovuta anche alla forma
dell’anella, tondeggiante e schiacciata: come è facile intuire stiamo parlando
di una simbologia legata al sesso femminile. Una tesi suggestiva, ma mio parere
molto meno provabile.
Il
più volte citato Carlo Alberto
Parmeggiani si rivela dubbioso sulle congetture sopra esposte, suggerendo
una terza interpretazione, che riporto per solo dovere di informazione, ma che
mi pare ancor più inverosimile:”Le ipotesi che ti hanno suggerito mi
sembrano un po' troppo forzate, visto che il gioco della Pelosa è un gioco di
bambini. Io propenderei invece per un'ipotesi del tipo che evoca una coda di
animale (cane o gatto o porcello addomesticato) con tanto di ricciolo alla
fine, che si "impelucca”o si "imPelosa", allorché, umidiccia di
saliva, viene estratta dalla sabbia come penitenza imposta al maldestro
giocatore.”
In
ogni caso gli avversari dello sventurato perdente nascondevano la Pelosa sotto un mucchietto
di sabbia, sprofondandola con un pugno. A questo punto lo sventurato doveva
ritrovare e scoprire il ferretto: in ginocchio e con le mani dietro alla
schiena. Si usava, prima il mento, poi prenderla con la bocca o con gli
incisivi, lavorando, se possibile, anche col soffio. Una volta spianata la
montagnola di sabbia, ci si alzava in piedi con l’anello del ferretto in bocca
e infine bisognava mollare la
Pelosa; questa si doveva piantare dritta, altrimenti era
tutto da rifare. Nelle versioni più sofisticate si poteva stabilire anche un
tetto per i colpi di mento e i soffi concessi.
Da
altre testimonianze risulta anche questa variante: in alcune compagnie di
ragazzi già all’inizio del gioco si nascondeva la Pelosa sotto una montagnola
di sabbia; ogni giocatore per partire doveva estrarre coi denti il ferretto,
mordendolo per l’anella.
Ancora
una volta ci troviamo di fronte a un gioco del nostro passato semplice, di
grande divertimento, a costo nullo e dove era ben presente un certo tasso di
crudeltà... tutte cose oggi quasi impensabili.
Tornati
a casa, qualcuno tentò di portare il gioco al Parco, ma con effimero successo.
Certo! il filo di ferro finalmente abbondava, ma mancavano l’ambiente,
l’atmosfera e soprattutto... la sabbia adatta. Meglio dunque le tradizionali
palline.
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Altri
giochi da spiaggia.
La pulèinta (La polenta)
Un
gioco sempre con la sabbia, ma non certo cruento come la pelosa, era la pulèinta. Due o più giocatori, maschi e
femmine, formavano una piccola montagna di sabbia, mettendo sulla sommità una
bandierina o uno stecchetto. Uno dopo l'altro con la mano si prendeva via
delicatamente un po' di sabbia. Subito a mano piena, poi via via pochi granelli
col dito. Perdeva chi faceva cadere la bandierina o lo stecchetto. Questo gioco
deve proprio il suo nome alla polenta, perché tutti, mentre si era a pranzo o a
cena, ne prendevano a turno una fetta fumante, ma all'ultimo resta solo il
tagliere vuoto.
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Al furtèin (il fortino)
In
colonia al mare si praticava anche un bel gioco balistico con la sabbia e l éera ciamèe... al furtèin (il
fortino).
C'erano
due squadre e ognuna costruiva, con un intenso lavoro ingegneristico, un
fortino, a 2-3 metri
di distanza, l'uno di fronte all'altro. Il fortino era in pratica un piccolo
argine alto circa 30 cm
e lungo 150 cm.
Ogni squadra perforava la sabbia umida con il dito, creando 10 buchini, ovvero
10 soldati, sul lato più nascosto all'avversario. Un arbitro controllava che i
fori fossero davvero 10 e non qualcuno di più. A turno si colpiva la muraglia
avversaria con un sasso o un pugno di sabbia bagnata; i soldati corrispondenti
ai fori che venivano coperti dallo scivolamento della sabbia erano eliminati.
L'arbitro sanciva la qualità di vittima. Perdeva chi rimaneva senza soldati.
Alcune varianti permettevano al comandante, battezzato prima, di avere due vite
e una volta coperto lo si poteva miracolosamente rigenerare.
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Grazie
a Marco Giovanardi, Graziano Forghieri e
Carlo Alberto Parmeggiani.
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Pubblicata
parzialmente su La Voce
di Carpi – il 10 giugno 2010
Questo commento è stato eliminato da un amministratore del blog.
RispondiEliminaMi ha aiutato a ricordare un gioco della mia infanzia grazie mille
RispondiEliminaNe sono felice
RispondiEliminaProprio stanotte mi è venuto in mente questo gioco, son passati di anni, io ne ho 52 . Ero in colonia a Pesaro erano i primi anni '70.
RispondiEliminaGrazie!
Grazie a te . Anche io lo giocavo in colonia
RispondiEliminaDi dove sei?
RispondiEliminaIo giocavo a questo gioco negli anni 70 nelle colonie romagnole ma mi sembra che noi lo chiamassimo "" pipis""
RispondiEliminaIo sono di Roma, e ho cocciuto questo gioco nella seconda metà degli anni 50, quando sono andato in colonia a Cattolica; ma non ne ricordo il nome , forse soltanto ferretto.
RispondiEliminaGrazie, ho un bellissimo ricordo di quel gioco.
RispondiElimina1952 da Modena andai in colonia a Riccione, avevo 7 anni e trascorsi un
mese al mare, ricordo pochissime cose di quel periodo ma il gioco della plosa é
ancora vivo nella mia mente.
Un cordiale saluto
Salvatore
Ah, grazie! Tale e quale facevamo quel (vietatissimo) gioco nel mese che passai, luglio 1958, alla grande colonia Carmen Frova di Jesolo (oggi demolita). Non ricordo però come lo chiamassimo, "Pelosa" direi di no. Una variante, se ricordo bene, era piantare l'astina su un mucchietto di sabbia e poi grattarla attorno a turno, perdeva chi faceva cadere l'astina.
RispondiEliminaDimenticato di firmare il commento di cui sopra: Michele Sartori.
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