Scundròla, cucùu, pòma e tana: giocare a nascondino nel Parco
di Mauro D’Orazi dorry@libero.it
Parzialmente pubblicata su Voce di Carpi nel n 29 del 21 luglio 2011
v 29 14-8-2011
Il Parco con la sua vasta superficie e i suoi tanti alberi e cespugli era l’ideale per il gioco estivo del nascondino, ben conosciuto e praticato a Carpi in tutto il suo territorio col nome di cucùu o pòma. Un gioco ben noto e praticato in tutta Italia con nomi diversi e leggere varianti. In questo gioco c’è piacere e il brivido dell’avventura legato all’atto di nascondersi e scomparire momentaneamente, il contatto con l’ambiente, la stimolazione di udito e vista, prontezza di riflessi e rapidità, il senso tattico e strategico nello studiare i possibili movimenti verso la pòma.
Nel dialetto (per me) “classico” e fino a circa il ’40, il gioco si definiva scundròla; ma tale termine già a partire dagli anni ’60 purtroppo è stato dimenticato ed è caduto in disuso. Infatti noi lo chiamavano comunemente cucùu, un nome che dovrebbe derivare dall’abitudine di quest’uccello di nascondere a tratti la testa per poi riapparire; un moto ripetitivo reinterpretato nei famosi orologi svizzeri. Il bambino dietro un albero, un cespuglio o un muretto si affacciava velocemente allo scoperto con il faccino per studiare la situazione e altrettanto rapidamente si tornava ad eclissare, sperando di non essere stato notato dal cercatore.
I partecipanti si mettevano con molta gravità in cerchio per sancire le regole generali di base e gli accordi preliminari; era meglio essere molto chiari fin dall’inizio, anche perché c’era sempre qualcuno che poi tentava di fare il furbo. Ai miei tempi erano ammessi maschi e femmine, senza alcuna distinzione e numero; anzi le ragazzine erano sveglie, furbe e belle svelte. L’area di gioco molto vasta e corrispondeva all’intero Parco delle Rimembranze.
Si sorteggia poi un partecipante al gioco per stabilire chi duviva stèer sòta; la scelta avveniva con un’apposita còunta a eliminazione salvifica successiva. Si usavano apposite brevi filastrocche che terminavano sempre con un “andèr fòra tòca a tè” e che poi si ripeteva con quelli che erano rimasti. Colui che dirigeva la còunta a ogni sillaba o parola breve sfiorava di seguito col dorso della mano il petto dei concorrenti in cerchio. Spesso c’era qualche imbroglietto nello scandire le ultime sillabe, pronunciate progressivamente in modo sempre più lento, talora con cadenze diverse a seconda degli interessi (amicizie o antipatie) di colui che contava. Così, dopo vivaci proteste e contestazioni, si sentiva ripetere il finale.
Io mi ricordo questa, ma ce ne sono tante altre, spesso con piccole varianti:
Sotto il ponte di Malacca
c’è un bambin che fa cacca.
La fa dura dura dura
Il dottore la misura,
la misura trentatre,
an - dar fuo - ri
toc - ca -- a -- te.
Alla fine della strofetta, la mano si fermava sul colui o colei che l’aveva fatta franca. Il fortunato faceva un passo indietro, tirando un sospiro di sollievo, assistendo poi con curiosità al prosieguo del rito.
Stèer sòta
“Èser o stèer sòta” era un ruolo certo non ambito e non piaceva a nessuno: infatti significava essere soli, in forte tensione, sempre sotto agguato e spesso cocentemente beffati dai vari partecipanti, anche all’ultimo secondo. Gli avversari invece giocavano di squadra e non di rado orchestravano azioni coordinate.
Se a star sotto capitava a una ragazzina, faceva il muso e se ne andava brontolando, ma consapevolmente rassegnata a mettersi, col viso rivolto all’alberone di base, con gli occhi chiusi per non vedere; se era un maschio, faceva finta di essere disinvolto e sicuro di sé.
Il cacciatore con gli avambracci e la faccia appoggiati all’albero (detto pòma o anche tana), le mani davanti agli occhi, senza poter guardare le mosse degli altri, dopo avere contato (uno, due … cento!) per il tempo concordato, ad alta voce, concludeva la litania dei numeri con il detto INAPPELLABILE: Chi é fóra … è fóra! Chi è dèinter … è dèinter! (Chi è fuori e fuori! Chi è dentro è dentro! sottinteso dal proprio nascondiglio), una sorta di rien ne va plus. A quel punto, se non ti eri già nascosto, t’èr frìit … eri fritto.
C'era anche chi contava così:
unci, dunci, trinci, quari, quarinci,
miri, miminci, ott, fant, dies ...
e chi è fòra … è fòra
e chi è dèinter … l’è déinter!
Il tutto detto a ‘na gran velocitèe, per catèer un quelchi d'un in castagna, prìma ch as lughìis bèin a mòod.
Oppure
Am barabam cicci cocò,
tre sivètli sul comò,
che facevan all'amòor
con la fiola dal dutòor,
il dottore s'ammalò,
am barabam cicci cocò ...
chi è fòra … è fòra!,
chi è dèinter … è dèinter!
Nascondersi bene!
Lughères. Non esiste in dialetto una diretta trasposizione del nome italiano del gioco (nascondino), perché in dialetto il verbo “nascondersi” si dice lughères.
Davvero arduo capirne l’ascendenza. Secondo l’esperta Anna Maria Ori potrebbe trattarsi di una volgarizzazione del verbo latino locare. Esso ha molti significati, come collocare, dare in affitto, in appalto, in moglie, prestare a interesse, investire denaro. Insomma … mettere al sicuro in loco acconcio, in qualche modo sottrarre alla vista o alla disponibilità di terzi, qualcosa o qualcuno. Chissà? Ci si può limitare a ricordare alcuni modi di dire che contengono l’uso del misterioso verbo: lòghèt o mò va t a lughèr, nel senso di vatti a nascondere. Frasi riferite a chi ha appena fatto una figuraccia, o è stato scoperto in gioco sporco, o più semplicemente aveva vantato grandi possibilità che non hanno retto alla prova dei fatti.
Nel lughères del cucùu si rivelava poi un’ampia casistica di tipi diversi di giocatori. C’era quello egoista, che, trovato un nascondiglio per sé, ne cacciava gli altri, col pretesto che facevano casino e che lo scoprivano; c’era il giocatore immaginoso, che si ficcava chinato dietro i tavoli e le sedie del barettino, fra la gente infastidita; c’era il giocatore incerto, che girava fra un albero e l’altro, senza trovare un cantuccio soddisfacente; c’era quello audace che si metteva semplicemente quasi dietro all’albero, a due passi dalla base, aspettando l’attimo fatale di distrazione del cacciatore e c’era finalmente quello sciocco che si metteva nel posto più facile e intuitivo da scoprire.
Il cercatore a sua volta si poneva con attiva prudenza, astuzia, fantasia e occhio acuto alla ricerca dei partecipanti che si erano nascosti, tenendo sempre ben in vista e a portata di mano la base.
Cucùu nel disegno di un bambino
Come è noto lo scopo del gioco era quello di toccare la poma con la mano aperta, prima del cacciatore, urlando: Sàalvis! (di stupefacente derivazione latina … direi). Quest’ultimo, a sua volta, dopo aver individuato un avversario, toccava la pòma (detta anche la tana) dicendo ad alta voce il nome del ragazzo individuato e il luogo dove lo sfortunato giocatore era stato visto. Il giocatore “tanato” era prigioniero ed eliminato dal gioco attivo; ma anche colui che si salvava doveva da quel momento fare lo spettatore.
A t’ho vist! Vin mò fòra!
A t’ho vìst: vin mò fòra! (Ti ho visto: vieni fuori!). Al primo a essere beccato toccava poi l'onere della conta e della caccia nel giro successivo. Se uno dei partecipanti, pur se scoperto nel suo nascondiglio, riusciva di corsa a precedere e a toccare la tana prima del cercatore, strillando "Sàalvis!" si mette però in salvo. E’ in questa fase del gioco che si dipanavano fini strategie e si mettevano in evidenza le dote atletiche da piè veloce.
Se poi era l'ultimo a salvarsi, poteva farlo a nome di tutti dicendo "Salvi tutti!" o “Liberi tutti!” e il gioco si sarebbe poi ripetuto con lo stesso cercatore … beffato e sbeffeggiato.
Nel Parco la superficie era vasta e una manche di gioco poteva durare anche mezz’ora. Epiche le corse a perdifiato, quando si veniva scoperti per raggiungere per primi l’agognata base.
Qualche volta dopo qualche sgradevole discussione, essendo un po’ tròja già da allora, mi allontanavo in silenzio e andavo a casa, che era in via Galvani, quindi molto vicina al Parco, lasciando il cacciatore a cercarmi per un bel po’ e a litigare con gli altri. E quando l’ora del pranzo si avvicinava o mentre calavano le prime ombre della sera, il meschino restava lì a girovagare con una disarmante sensazione di … non finito.
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Luciana Nora, da sempre appassionata studiosa di etnografia, storia e costumi carpigiani, ricorda che rispetto a questo gioco si possono delineare varie "stagioni di vita": la primissima infanzia, l’infanzia e la preadolescenza. Ecco i suoi ricordi in prima persona:
"Questi periodi li ho vissuti e ho poi potuto osservarli tutti e tre.
Non ho mai giocato al Parco, ma sempre sotto i portici; quelli di Corso Fanti e delle vie Giuseppe Rocca,Via Andrea Costa e Berengario; quando, a differenza di oggi, i portoni delle logge erano aperti e davano su piccole o grandi corti sui lati delle quali si affacciava l’ingresso alle scale che portavano a solai odorosi di legna e di forma ed gramustèin, a pianterreno si sviluppavano cantine, lavanderie e laboratori. Persino le porte delle abitazioni erano aperte. Non eravamo mai soli, sul marciapiede o sotto i portici, sedute su sedie basse, sostavano sempre donne che apparivano anziane e forse propriamente non lo erano, vestite di grisaglie o anche in nero integrale, un fazzoletto annodato in testa, un grembiule e stavano lì per ore impegnate ad intrecciare e a chiacchierare sommessamente. Le avresti dette assenti e invece ogni tanto alzavano la voce per richiamare qualcuno: Fa bèin a mòod che s’te n’al fè brisa, stasira al digh a tòo pèder o a tòo mèder.
Da piccolissima lo spazio entro cui contenere il gioco era ristretto, vi partecipavano sia maschi che femmine e si attuava in presenza di adulti che qualche volta si facevano complici. Ci si comportava un poco come struzzi: nascondendo la testa non si vedeva più né chi ci cercava, né la pòma e si era convinti di non essere visti. Non c’erano inganni e ci si alternava alla conta senza tanti problemi, dato che il gioco si concludeva in breve tempo per poi riprendere e intanto però, osservando le debolezze degli altri, si affinava l’astuzia, ci si faceva più arditi e pian piano si allargava il raggio del gioco.
Direi che a partire dai sei anni, in coincidenza con l’inizio della scuola elementare, quando maschi e femmine venivano rigorosamente separati e non solo per classi, ma addirittura per padiglioni con diverso ingresso, anche nel gioco ci si ritrovava separati e se una bimba fosse stata trovata a giocare con i maschi veniva ripresa e le veniva affibbiato l’appellativo di “masciùus” (maschiaccio). Lo spazio si allargava a tutto il portico su cui si affacciavano tantissime botteghe di artigiani, tutte aperte durante la bella stagione e tutte possibili nascondigli: Brenno il lattoniere, Giovanni al scarpulèin, i depositi di legna e carbone dal Zambéli, al curtil dla Giazèra, al foren dla Bice. C’era l'osteria ed Romildo dove, tra l’altro, mentre si stava nascosti sotto il banco, si cercavano nel cestino i coperchietti delle aranciate San Pellegrino (quelli dorati con la stella rossa), ambiti in dal zogh di cuercìn, praticato quasi esclusivamente dai maschi, ma averne qualcuno poteva essere utile in qualche scambio di “fifi” (figurine) e potevi anche incontrare la Regina che ti regalava un pezzo di colla di baccalà fritta. Poi c’era Prandi che nessuno si sarebbe mai sognato di chiamare marangòun, bensì restauradòor, l’officina ed Paciòun, quèla ed Guldòun e po’ quèla ed Camurr, la butèga ed Canull, al scarpulèin, che al scherpi al li giusteva, ma al li fèva anch’ e dove, in una vetrinetta, c’era permanentemente allestito un piccolo presepe con statuette di bella fattura. La butega dal cartuler Forghieri, seimper pina ed ragasòol chi cumpreven al busteini ed figureini, quaderni, pennini: torrette, gobbetti, Perì, incioster e, lì, un bambino … di più, uno di meno, non se ne accorgeva nessuno e ci si poteva imboscare per nascondersi. Appena di là dal voltone la pasticceria ed San Nicolò, dove se eri buona amica di Maurizio, figlio di Camillo il gestore, entravi facilmente nel laboratorio dal quale quasi immancabilmente uscivi con un scartucin d’artaj (ritagli di paste); subito dopo il salumiere Berra e, con sua figlia Rossella, era possibile nascondersi nel retrobottega, dove capitava di poter anche addentare e ripulire qualche osso di prosciutto.
Ciò non toglieva però che quando lo spazio del gioco era erroneamente ritenuto fuori dal controllo degli adulti (ci sono sempre state le bacchettone che andavano a riferire ai genitori) si contravvenisse volentieri alla regola della separazione. Avevamo imparato a contare e anche a sillabare e colui che avrebbe dovuto cercare gli altri era sorteggiato con una conta:
Sot/to il pon/te di Ve/ro/na,
c’è u/na vec/chia sco/reg/gio/na,
di sco/reg/ge ne fa tre,
a con/ta/re toc/ca pro/prio a te//.
Mi rammento del grande, cosiddetto casermome di via Berengario, ex tintoria Menada del gruppo SIT. Su questo edificio si sentiva spesso ripetere:“Tùta roba lasèda in éreditèe da Bertèes, quel che quand al féva i cumisi l’era bòun ed dir che i bési in fan brisa la felicitèe: “L’ORO E’ FANGO!” e un quelchidun, al l’iva miss in vàca, perchè al gh’ aviva rispost: “Bhèemmo alora, s’le acsé, butmen bèin ’na sbadileda!”
Là, nel casermone dove gli adulti erano molto affaccendati, maschi e femmine si incontravano ed era davvero uno spasso giocare a cucùu.
Ci si nascondeva da soli o, più spesso, in coppia: due femmine, due maschi. In coppia ci si faceva più arditi. Il mobilificio di Marchesi, la riseria Beretta (e poi Baetta), l’officina Garuti e Gualdi, la Litografica dove, come grafico, lavorava anche Guerrino Coppi, il grande magazzino di stracci di Faglioni … L’alta ciminiera, mobili, balle, sacchi, scatoloni, rottami, assi accatastate, angoli bui, due o tre automobili, due furgoni, spesso i camion che caricavano riso, macchine da lavoro. Là eravamo veramente in tanti e il gioco aveva dei tempi lunghissimi, fino al punto che chi era addetto alla conta e alla poma e quindi a cercare i compagni, non raramente veniva aiutato specialmente da chi, avendo fatto poma, non temeva di ritrovarsi poi nel ruolo di cercatore. Si arrivava al punto di sentirsi chiamare: - Dai Luciana, vieni fuori! Sei l’ultima! Se riesci, fai poma per tutti! - Sì, perché, non per dispetto, mi capitava di perdermi ad osservare il lavoro di pennello di Guerrino, quello di Tangerini, e anche il sacchetto di francobolli che mi tenevano da una parte la figlia di Garuti e la signorina Beretta.
Poteva capitare che quando finalmente si usciva per ritornare al gioco si trovassero i compagni impegnati in qualche altro gioco.
Sei, sette, otto, nove anni e, intorno ai dieci, quando si aveva ancora tanta voglia di giocare, ma qualcosa stava cambiando, anche il giocare a cucùu mutava nel suo significato. Si arriva a nascondersi in coppia, non più solo femmine con femmine e maschi con maschi, ma un maschio con una femmina e là, nel nascondiglio avvenivano le prime dichiarazioni:- Vuoi essere la mia morosa?- Erano amori da preadolescenti più che platonici, entro i quali un stretta di mano durante una corsa, una carezza sui capelli, l’esporsi di uno per difendere l’altro, davano emozioni fortissime e forse irripetibili.”
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La poetessa Luisa Pivetti ricorda anche lei questo gioco: era una bambina di campagna, nata e cresciuta tra prati verdi e filari di alberi da frutto. Ha gioito intensamente di questo divertimento praticandolo, non al Parco o sotto i portici del centro, ma fra ragnatele e travi umidicce della vecchia "barchessa" vicina alla casa dove abitava.
Lì, in quel luogo, zeppo di attrezzi agricoli in disuso, viveva il piacere del nascondiglio sicuro, quasi sempre irraggiungibile dai suoi compagni.
Era anche lo spazio per i primi approcci amorosi, davvero innocui, ma pregni di emozioni e trasgressione.
Da lì, si poteva anche sbirciare "la monta taurina", visione vietatissima ai bambini, ma proprio per questo da essi tanto desiderata.
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In appendice a questa tematica riporto alcune citazioni e note di vario genere per ulteriori approfondimenti e proficue riflessioni.
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Sempre in tema di nascondino, mi piace ricordare un'antica storia ebraica del 1700 che riempie di speciale simbolismo anche questo semplice gioco:
Quando rabbi Avraham, il figlio del grande giusto, il Magghìd di Mezritch, era un bambino, talvolta giocava con un amico a nascondino. Un giorno, il piccolo Avraham corse piangendo da suo padre. “Cosa è successo?”, gli chiese questi, preoccupato. Il bimbo spiegò allora, fra i singhiozzi, che, quando era toccato a lui cercare il suo amico, nel giocare a nascondino, aveva guardato dappertutto e non si era dato pace fino a che non lo aveva trovato. Quando invece era toccato all’amico di cercarlo, era rimasto nascosto così a lungo e ... tutto per niente! Il suo amico se ne era tornato a casa, senza essersi dato neppure la pena di cercarlo per un attimo! Con immensa sorpresa del bambino, a quelle parole, anche il padre scoppiò in lacrime, unendosi al pianto del figlio! Subito questi gli chiese: “Papà, perché piangi?” Gli rispose allora il Magghìd: “Anche Dio è addolorato! Egli si nasconde, affinché gli Ebrei Lo cerchino, e se lo facessero, certamente Lo troverebbero, ma noi ci dimentichiamo di Lui e non Lo cerchiamo!”
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L’origine della parola “pòma” non chiarissima; sembrerebbe significare una estremità tondeggiante, parzialmente sferica da trattare con facilità con la mano: ed esempio … la forma di un pomo (mela), il pomello del campanello, il pomo dell’ombrello, il pomolo della porta, ecc … Siccome la base del gioco è spesso un albero, forse si fa riferimento a un grosso nodo della pianta stessa che veniva battuto a mano aperta rispettivamente per far prigionieri o liberarsi.
In dialetto carpigiano si sente spesso utilizzare, accompagnata da un profondo respiro, la frase èser a pòma (essere a pòma). Così come quando si gioca a cucùu e dopo un impegnativo percorso ci si libera battendo la mano sulla tana, la frase carpigiana esprime il senso di essere arrivati positivamente, sani e salvi, alla fine di una vicenda impegnativa, di un viaggio complicato, ecc …
Interessante, molto curiosa e per certi aspetti attualissima se riferita a certi sport attuali è la definizione che ne dà Francesco Cherubini nel suo Vocabolario di mantovano - italiano del 1827, segnalando un robusto gioco mantovano che si può quasi definire come l’antesignano del moderno hokey su prato, nato in Inghilterra solo a fine ‘800:
“Zugar a la pòma di Mantova, o semplicemente a la pòma. Specie di giuoco che si fa a presso a poco nel modo seguente: Uno dei giocatori tira una pallottola di legno in piana terra perché giunga a un dato punto dove stanno molti altri giocatori divisi in due partiti, i quali con certi bastoni, alquanto ricurvi in cima, danno alla pallottola con tutta forza dei colpi, quei d'un partito per allontanarla dalla meta, e quei dell'altro per rimandarvecela e così va in lungo questo giuoco, in cui di sovente infervorati i giocatori, in luogo di dar alla palla, si danno delle mazzate sorde fra loro, convertendo spesse volte lo spassatempo in litigi e in guai. - Esso perciò, e perché anche è pericoloso per gli astanti e passaggeri, è vietato dalle leggi.
- Questo giuoco poi della pòma è da alcuni trasportato a denotar quell'altra specie di giuoco che si fa dai fanciulli sopra una piazza ove, segnata una data linea in terra, e messi da una parte e dall'altra altrettanti giocatori, si vanno ad assalire, e nel battersi e divincolarsi, quello dei giocatori che rimane prigioniero è perdente.”
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Molto molto piacevole e ironica è poi questa
“Tattica e strategia del nascondino”
("Táctica y estrategia de la escondida" tratta da Crónicas del Ángel Gris di Alejandro Dolina, 1987 traduzione di Lorenza Pozzi) che aggiungo, come apporto culturale, per meglio capire lo spirito intimo del gioco.
Non si conoscono molto bene i veri scopi della Società Amici del Nascondino. Ma è sicuro che questi scopi non si realizzarono.
Ciononostante, ormai qualche anno fa, l’ente preparò l’edizione di un libretto intitolato Regolamento, tattica e strategia del gioco del nascondino. In quel momento, il lavoro risvegliò acute controversie.
Oggi che gli animi si sono calmati, abbiamo voluto presentare l’argomento ai nostri lettori, che sicuramente ignorano la maggior parte dei dettagli di questo gioco in via d’estinzione.
Capitolo I: del numero dei giocatori
Può giocare a nascondino un numero qualsiasi di giocatori. Il minimo è uno. Bisogna però far presente che in questo caso il gioco è particolarmente noioso: l’unico giocatore cerca se stesso o –cosa che è ancora più tediosa- cerca altri giocatori inesistenti fino a che si scoraggia e abbandona il gioco.
Con due partecipanti si guadagna un poco in azione e si può dire che il clima ideale si ottiene quando intervengono più di sei e meno di venti persone. Bisogna anche avvertire che risulta sommamente imbarazzante giocare con più di ottanta giocatori. Quelli che stanno sotto (i cercatori) sbagliano i nomi di quelli che si nascondono e il più delle volte si vedono obbligati a tenere un registro scritto nel quale si trovano le persone che sono già state scoperte e quelle che rimangono ancora in luoghi sconosciuti. E inoltre, è facile dedurre che quanto più alto è il numero di giocatori, tanto più faticoso sarà trovare nascondigli vacanti, con il conseguente appannamento del gioco.
Capitolo II: il luogo dove si gioca
Il nascondino si può praticare tanto in luoghi aperti quanto in chiusi anfratti. E’ sempre preferibile scegliere orari notturni, poiché le tenebre migliorano la qualità dei nascondimenti.
Così, se si deciderà di giocare in case o appartamenti, converrà spegnere le luci. E risulta indispensabile fornire un chiarimento fondamentale: prima di iniziare il gioco è necessario esplicitare i limiti geografici della sua estensione. Al di fuori di quelli, sarà proibito nascondersi.
Alcuni eresiarchi sorvolano su questa annotazione e ci troviamo quindi di fronte ad un gioco il cui limite è il mondo intero. E così molti giocatori si nascondono in quartieri lontani e persino in altre regioni, ritardando la conclusione della gara fino al punto di rovinarla completamente.
NOTA: il libretto non menziona l’interessante opinione di Manuel Mandeb, che credeva il nascondino un gioco senza limiti. Per il pensatore arabo il nascondino perfetto doveva essere giocato da tutta la stirpe umana, suo scenario era l’universo e la sua durata, l’eternità. Così, il proposito finale della Storia può consistere nella nascita di un Predestinato, che si incaricherà di liberare tutti i compagni in un atto che segnerà la fine dei tempi.
Capitolo III: conclusione del gioco
Il nascondino non ha vincitori né vinti. Per questo la conclusione del gioco deve essere fissata in modo arbitrario, ma esplicito. Molte volte i giocatori abbandonano la gara senza avvisare nessuno e molti partecipanti tenaci rimangono nascosti per ore, senza che nessuno si preoccupi di cercarli.
I membri di questa Società conoscono perfettamente alcuni celebri casi di ostinazione. Vale la pena menzionare l’impresa del giovane Luis C. Cattaldi, che rimase quattordici mesi nel cardine di una porta di via Moron, allungando il collo con cautela in direzione della Tana. Gli abitanti della casa se lo trovavano davanti quando uscivano e a volte gli passavano qualcosa da mangiare. Finalmente Cattaldi tornò a casa sua, grazie ai consigli di una commissione di questa stessa Società.
Capitolo IV: svolgimento del gioco
L’idea fondamentale del nascondino è che tutti i giocatori si nascondano, ad eccezione di uno, che avrà il compito di cercare tutti gli altri.
Per dare tempo alla scelta del nascondiglio e alla corretta installazione di ciascuno nel proprio, chi sta sotto (il cercatore) nasconderà il viso contro la parete, come se stesse piangendo, e rimarrà in questa posizione per alcuni secondi. La conta di questo lasso di tempo la effettuerà il cercatore stesso, recitando a voce alta i numeri naturali in serie, fino ad arrivare ad una cifra stabilita in anticipo (per esempio, 50). Per avvertire che ha finito di contare, dovrà declamare un paio di versi rivelatori. I più usati sono “Punto a capo, si arrangia chi il nascondiglio non ha trovato”. Il luogo dove chi sta sotto (il cercatore) realizza questo rituale ha nome di Tana. Inizia poi la parte più divertente. Il cercatore percorre il campo di gioco e perlustra i luoghi dove sospetta ci sia qualcuno. Quando scopre qualche giocatore nascosto, esce correndo verso la Tana, la tocca e grida: “Tana libera per Fulano”. Dovrà sempre riferirsi alla persona scoperta in modo che sulla sua identità non ci siano dubbi. Questo punto è molto importante, come vedremo anche in un altro capitolo.
A sua volta, il giocatore scoperto può abbandonare il rifugio e correre fino alla Tana cercando di toccarla prima del cercatore. Se ci riesce, sarà lui a gridare “Tana libera” e agli effetti del gioco sarà come se non fosse stato trovato.
D’altra parte, tutti i giocatori possono abbandonare improvvisamente il nascondiglio e correre alla Tana anche quando non sono stati scoperti. Ma se il cercatore li sorprende nella loro escursione e li anticipa nella corsa alla Tana, li si considererà stanati.
Il primo dei giocatori che avrà perso la corsa alla Tana riceverà – come castigo - l’obbligo di contare nella partita seguente. Ciononostante, c’è un’ultima risorsa: l’ultimo dei giocatori che rimane nascosto può anticipare il cercatore e gridare “Tana libera per tutti i miei compagni”.
Quando accade questo, il cercatore dovrà contare di nuovo.
Naturalmente, si può facilmente intuire che il partecipante capace di culminare con successo questa giocata riceverà l’ammirazione e il rispetto di tutti.
Capitolo V: diverse tattiche
Esistono cercatori conservatori e cercatori audaci.
I primi non si allontanano mai dalla Tana. Cercano, in generale, di aspettare che qualcuno commetta un errore o cerchi di cambiare nascondiglio. Questa razza cospira contro la qualità del gioco.
Invece il cercatore audace abbandona le vicinanze della Tana e si avventura fino ai confini del campo. Si arrampica sugli alberi, entra negli armadi e rastrella minuziosamente i campi. Certo, corre sempre il rischio di venir sorpreso dai giocatori che si sono nascosti nella zona opposta. Ma il gioco diventa vivace e pieno di sfumature. Abbondano le corse, i sotterfugi e le sorprese.
Esistono anche i cercatori furbi che fingono di dirigersi a destra per tentare quelli che si nascondono a sinistra. In un certo momento, escono sparati fino all’altro settore ed è in questo modo che sorprendono molti giocatori principianti che abbandonano prematuramente il loro nascondiglio.
Anche tra quelli che si nascondono, ci sono scuole distinte. Alcuni preferiscono i nascondigli semplici ma di facile uscita, come le soglie delle porte. Altri li scelgono complicati e di uscita difficile: le fronde degli alberi, il fondo del cesto dei vestiti etc. Ci sono anche quelli che ruotano il loro nascondiglio e cambiano posizione mentre osservano i movimenti del cercatore.
I migliori sono gli squisiti, che inventano rifugi che solo loro conoscono e non li rivelano mai. Questa classe di giocatori è la più temuta da quelli che contano, perché molto spesso liberano tutti i compagni.
Ciononostante, il nascondiglio non deve mai essere impenetrabile. A dire il vero, il nascondiglio perfetto termina con il gioco.
Nel 1959, in un nascondino che si fece in Villa del Parque, l’avvocato Gerardo Joseph si nascose in un modo tanto efficace, che non fu più visto da nessuna parte. Ancora oggi molti suoi amici percorrono il quartiere gridandogli di uscire.
Un racconto riuscito di Edgar Allan Poe sostiene che il nascondiglio migliore sia quello che sta alla vista di tutti. In questa narrazione, tutti cercano infruttuosamente una lettera che in realtà era sempre rimasta alla portata di tutti.
Questa teoria potrebbe essere valida per i racconti polizieschi, ma non serve per il nascondino. Infinità di giocatori han preteso di passare per scaltri fermandosi a un metro della Tana con espressione noncurante. Il risultato è sempre lo stesso: il cercatore guarda meravigliato e poi, quasi con stupore, mormora: “Tana libera per il Pololo, che è qui fermo”.
Capitolo VI: infrazioni, errori e malintesi
Può accadere che il cercatore scopra un giocatore nascosto, ma equivochi la sua identità. Questo è molto frequente nei giochi notturni. Quante volte si grida: “Tana libera per la Amanda”, dopo aver visto Julian!
Il regolamento permette a Julian di denunciare l’errore al grido di Sangue! Questa espressione deve essere tradotta come Reclamo!, o meglio ancora Obiezione!
Se la pratica si protrae e si comprova l’equivoco, il cercatore dovrà contare di nuovo.
Lo stesso espediente potrà essere utilizzato quando si sospetta che il cercatore spia o quando si verifica qualche fatto esterno che rende difficile la normale prosecuzione del gioco (per esempio una grave lesione di uno dei giocatori o l’arrivo improvviso di un tipo che bisogna salutare).
Capitolo VII: nascondigli individuali e collettivi
Molti sportivi preferiscono nascondersi da soli. Altri, invece, si compiacciono di condividere il loro rifugio, in particolar modo con persone del sesso opposto.
Questa ultima variante è molto ben vista nei circoli eleganti e costituisce un’eccellente opportunità per approfondire amicizie e persino per suggellare storie d’amore.
La cosa più appropriata è scegliere un nascondiglio lontano dalla Tana. Il luogo deve essere piccolo per ottenere una vicinanza incoraggiante, oscuro per invitare alla confidenza e ermetico per evitare di venire sorpresi.
Manuel Mandeb riferisce un’esperienza personale nel suo libro I miei amori frustrati. Vediamo:
«In tre anni di giocare insieme a nascondino, non avevo mai avuto l’occasione di condividere un luogo con Beatriz Velarde. C’era sempre qualcuno che arrivava prima di me. A quanto pare, Beatriz aveva i suoi nascondigli prenotati per vari anni.
Una notte di primavera, nel vicolo della Stazione Flores, mentre contava il russo Salzman, vidi che Beatriz entrava da sola nella casa gialla e abbandonata che si trova in un angolo. Le andai dietro e riuscimmo a sistemarci sotto un focolare in rovina.
C’era molto buio e riuscii a notare il suo respiro di chewingum Adams. I sobborghi dei suoi capelli salutavano la mia bocca.
– Ti desidero – le dissi soavemente. – Dimmelo meglio – rispose Beatriz Velarde.
Cominciai a pensare a qualcosa di ingegnoso, quando entrò il russo Salzman e brutalmente sancì la fine della mia storia. – Tana libera per il Turco e Beatriz. – Sangue, sangue – gridai io e ero certo, anche se non mi credettero.
Non riuscii più a restare solo con Beatriz e quella fu l’ultima volta che giocai a nascondino.»
Il libretto della Società Amici del Nascondino presenta alcuni altri capitoli di interesse inferiore: i vestiti più convenienti, utilizzo di automobili in marcia, occultamento nel mezzo di una famiglia in cammino, ecc.
In questi giorni in cui ormai la Società si è sciolta e i bambini preferiscono altri intrattenimenti più scientifici, non è mai troppo raccomandare calorosamente la pratica del nascondino. E’ molto tempo che questo umile cronista non trova l’occasione per mostrare la sua destrezza in una disciplina tanto appassionante.
Se qualche pietoso lettore desiderasse invitarmi a giocare, accetto con piacere. Anche se mi sembra ormai troppo tardi.
Sono appassionato di cultura e dialetto delle ns zone - Carpi e la Carpigianità, Il dialetto e tutto ciò che viene da Carpi e zone vicine. Ho scritto vari libri le "Ruscaróola èd Chèerp " 1 - 2 e 3, "Scutmai" soprannomi di famiglia - "Ricordi a Carpi fra il 1953-45" e poi tanti articoli e ricerche. Non sono però uno stupido campanilista o un fanatico localista, ma aperto al confronto con amici e dialetti di zone vicine. la cultura, le tradizioni, il dialetto NON scompaiano dorry53@libero.it
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