Preziosa appendice
I giochi, gli svaghi e i passatempi
in campagna
di Mario Cassoli
aggiornamento e revisione del testo di Mauro D’Orazi (2014-15) V07
Riporto un bel capitolo di Mario
Cassoli del suo libro “Carpi: memorie di vita contadina”, edito nel 1980 da
Garuti e Gualdi – Carpi.
Ho apportato alcune lievi
integrazioni, modifiche e aggiornamenti per coordinare meglio il testo con le
mie ricerche; tutto col permesso della figlia di Mario Cassoli, Milena, che qui
ringrazio per la sua generosità e comprensione.
Ho aggiunto anche altre preziose
testimonianze di protagonisti di quei tempi; ricordi che ho raccolto di
persona.
Il periodo trattato è la prima metà
abbondante del secolo scorso e i riferimenti riguardano più la campagna, che la
città.
Da notare poi che molti di queste
attività si praticavano comunemente anche a Carpi – città, con gli
inconvenienti degli spazi più angusti e della repressione, per quelli più
pericolosi e dinamici, degli adulti e dei vigili.
Molti di questi giochi, in
praticati e in uso da secoli, sono purtroppo quasi scomparsi a partire dagli
anni ’80. Mauro D’Orazi
*0*
La vita dei campi, sempre così tesa
e oppressiva, per affrontare la quale tutti erano sottoposti a continui sforzi
fisici e a un lungo logorio psico-nervoso, richiedeva sostanziali pause
ricreative e il bisogno di mutamento, anche se temporaneo, alla normale routine
della vita quotidiana basata sulle abitudini e sulle pratiche imposte dalle
esigenze dell'avanzare del tempo e da quello che il tempo portava con sé.
Gli
adulti avevano una loro tradizione di svago nei giochi, che non sono a
tutt’oggi mutati e che portavano alla domenica e nelle altre festività
all'osteria a giocare a carte oppure al più movimentato gioco delle bocce;
giochi che servivano a porsi in contatto con terzi, a farsi conoscere, ad avere
una propria personalità che si evidenziava con la memoria e la scaltrezza dei
singoli e che metteva la persona in grado di essere giudicata dagli altri.
I
giochi degli adulti erano pochissimi, ben più rilevante è la parte e
l’importanza che i giochi avevano nella vita dei bambini.
Con
il gioco i ragazzi realizzavano con naturalezza se stessi: scaricavano la loro
esuberanza, imparavano a vivere assieme, a mettere in pratica le norme
difficili di convivenza, ad assoggettarsi alle regole del gioco che con i loro
compagni avevano convenuto di rispettare, a comprendere e tollerare il
comportamento o il raggiro o la sopraffazione del più scaltro o del prepotente
di turno. Proprio attraverso il gioco il ragazzo integrava quelle esperienze e
quelle carenze di insegnamento che purtroppo i genitori, per i continui
impegni
lavorativi, non avevano tempo di curare per giungere a quelle finalità
educative che invece più facilmente trovava il ragazzo di città.
Il
ragazzo di campagna disponeva di meno tempo libero rispetto ai suoi coetanei
della città o delle borgate attorno a Carpi, in compenso aveva più possibilità
di svagarsi costruendosi il mezzo per il gioco e utilizzando gli abbondanti
spazi per dare sfogo alla sua esuberanza fisica.
In
questi grandi spazi senza limiti, quali erano il cortile e i campi, trovavano
modo di correre e di nascondersi, saltare, individuando in ogni angolo un mezzo
per trarre divertimento e sfogo dalla loro vitalità. Negli edifici annessi alla
corte, con tutti quei ripostigli che sembravano inesauribili, con tanti
attrezzi e recipienti custoditi, trovavano un teatro ideale per il gioco con
tanto spazio per le loro fanciullesche fantasie.
Raggiunta
l'età della doverosa presa di coscienza e responsabilità, il passaggio dal
gioco al lavoro avveniva con naturalezza. Non dimentichiamo che il ragazzo
sempre era utile perché infiniti erano i lavori ai quali poteva dedicarsi col
minimo sforzo, specie quelli nell'ambito della ''corte". La necessità di
essere utili portava a non interessarsi dello studio e nemmeno alla ricerca
dell'emancipazione. Diventavano prima vecchi che adulti, anche per il fatto che
non v'era tempo per essere istradati. Rimanevano analfabeti, semplici,
timorosi, emotivi, indecisi; fortunatamente crescevano in famiglie numerose e
tra tanti bambini, perciò con il vivere in gruppo si imitavano a vicenda,
aguzzavano l'ingegno aiutandosi l'uno con l'altro nel crearsi i mezzi per
giocare assieme, correre, ridere, scherzare.
I
figli dei contadini erano meno esperti e si trovavano spesso a disagio di
fronte agli altri. Erano pronti nel gioco collettivo, ma erano nullità quando
dovevano rappresentare se stessi singolarmente. Allora il loro modo di
divertirsi assumeva caratteri tutti particolari: perdevano quella vivacità e
quella intraprendenza che manifestavano in gruppo. Guai poi se era presente un
adulto, diventavano subito seri, bui, chiusi e complessati.
Era
più facile che un ragazzo, che viveva nel centro del paese, si recasse a
giocare con quelli della campagna nelle case di quest'ultimi, anziché
viceversa. A parte il fatto che la casa colonica concedeva molto di più di una
piazza o di una via di Carpi, era soprattutto una questione di timidezza e il
trovarsi fuori dall'ambiente non era una cosa semplice. Inoltre il ragazzo
della campagna, come detto, era frequentemente costretto a interrompere il
gioco per dare il suo contributo lavorativo a ogni richiesta perveniente dagli
adulti, o dalla donna di casa o dalla nonna o dalla madre.
La
domenica era tutta dedicata ai giochi: non v'erano interruzioni forzate, si
trovavano con gli amici delle case vicine, erano impegnati al massimo. Si
rispettavano fino a quando tutto filava bene, ma nascevano bisticci e
incomprensioni al solo sospetto di essere stato burlato. E quante volte finiva
in lite e il più timido o il meno veloce si allontanava con un occhio livido !
Liti da poco, perché il giorno dopo gli stessi ragazzi si cercavano come se
nulla fosse accaduto. In quei tempi era pericoloso ricorrere ai propri genitori
in cerca di appoggio o di difesa. Raccontare al padre o alla madre di essere
stato picchiato da un amico significava essere nuovamente picchiato: era il
sistema per far capire al figlio la necessità di scegliere tra comportarsi
meglio o farsi furbo.
Anche
nei giorni feriali il ragazzo di campagna, oltre al suo apporto lavorativo così
vario e frammentario, trovava il tempo per lo svago e il gioco.
Trovava
il tempo di arrampicarsi sui gelsi per fare scorpacciate di more, bacchiare le
noci senza essere visto (perché anche le noci erano un cibo per tutti) come
pure riempirsi le tasche di frutta e mangiarla di nascosto. Molte volte queste
arbitrarie mangiate di frutta erano più dovute a fame che a golosità.
Questi
timidi monelli ne combinavano di tutti i colori, non stavano mai fermi, erano
allontanati dall'osservazione degli ospiti di casa. Erano considerati degli
ingenui castigamatti : perciò la loro presenza di fronte agli estranei era
temuta. Erano instancabili nel correre e nel saltare, sempre scalzi e con le
ginocchia che abbinavano lo sporco alle piaghe delle continue cadute. Non era
facile indurli a lavarsi e questo poco importava finché dormivano nel fienile
su un ruvido telone; invece diventava un problema quando il progresso portò in
casa un letto con lenzuola, anche se il materasso era pieno di foglie di
frumentone (scartòoc’ o scartòos).
C’erano
giochi propri dei maschi e altri specifici delle femmine, per cui si giocava
spesso a compartimenti stagni; ad altri giochi invece partecipavano indifferentemente
bambini e bambine. Vi erano giochi di parole e di fatti senza l'ausilio di
oggetti; altri invece erano giochi di suoni, di offesa, di abilità per i quali
i ragazzi costruivano il necessario con il loro ingegno o sull'esperienza di
quelli realizzati dai genitori o dai fratelli più anziani.
La
rassegna dei numerosi giochi avrebbe senz'altro richiesto una maggior
discrezione sulle particolarità e la procedura, ma lo spazio purtroppo avaro
nel nostro programma ci ha consigliato di fare di tutti solo un breve cenno.
Da
un ramo di legno secco, avente un diametro di circa tre-quattro centimetri si
ricavava un cono sulla cui parte appuntita si fissava un grosso chiodo da
scarpe (bròoca). Avvolto attorno da
uno spago, di cui si tratteneva con la mano un capo, veniva lanciato fortemente
sul pavimento e costretto a girare su se stesso per srotolarsi: così facendo,
la trottola (al frull) continuava a ruotare per lungo tempo.
Con
l'omero dello zampetto di maiale si giocava al frull (anche questo
chiamato dai carpigiani come la trottola): al suo centro si faceva un foro e vi
si infilavano i due capi di uno spago con un particolare nodo avvolto all'osso;
mediante un "tira e molla" dello spago, che si arrotolava e si
srotolava velocemente sia in un senso che nell'altro, l’osso continuava a
girare su se stesso sollecitato dal movimento del ragazzo.
Più
ingegnoso era il rocchetto (al caar armèe), già privo del filo
per cucire e tutto seghettato negli orli. Si infilava nel foro assiale un
elastico circolare ricavato da una vecchia camera d'aria di bici, da un lato
l'elastico era fissato da un chiodino e dall'altro da un fiammifero (fulminàant)
o da uno stecchino che rimaneva distante dal rocchetto grazie a una rondella di
cera ricavata da una candela. Il fiammifero veniva caricato in modo da
attorcigliare l'elastico dentro al rocchetto. Posto sul pavimento il meccanismo
girava lentamente fino al completo allentamento dell'elastico.
Un
altro tipo di trottola era quello ricavato da un mezzo rocchetto nel quale era infilato
a pressione un bastoncino in modo che sporgesse appuntito da una parte per due
o tre millimetri; l'altra parte invece doveva rimanere esterna per due o tre
centimetri in modo da poter essere afferrata tra due dita per imprimere un moto
rotatorio e abbandonare la trottola sul pavimento.
Tra
i giochi di offesa, il più economico era il lancio delle frecce di cartone (stufiòun)
ricavate da una striscia e arrotolate a punta da un lato formando un lungo cono
che veniva infilato in una canna del diametro di un centimetro circa e con un
soffio era lanciato nella direzione voluta. A volte la punto del proiettile
avvolgeva uno spillino, così da rendere davvero pericolosa l’arma.
Rincorrere
un cerchione metallico (al séerc’) di una ruota da
bicicletta, era tra i giochi più semplici e salutari dei ragazzi. Non
richiedeva particolari accorgimenti; era sufficiente con un bastoncino spingere
il cerchione nella concavità dove erano fissati i raggi della ruota e correre
veloce lungo i campi.
L'aquilone
(la
cumètta) era un gioco di primavera, quando spirava un venticello
sufficiente a far librare in alto il rudimentale apparecchio di carta. A un
quadrato o a una losanga di carta oleata si fissava un telaio, costituito di
bastoncini incrociati di legno leggerissimo, fissati alla carta con colla
ricavata da farina impastata con aceto e da strisce di carta di uguale tipo, ma
di colori vistosi affinché rendessero il tutto più colorato e più robusto. Con
anelle congiunte, sempre di carta, si faceva una lunga coda. Uno spago fissato
alle estremità della crociera permetteva di fissare al centro il lungo filo che
avrebbe trattenuto e sollevato l'aquilone. La coda, dato il peso, dava al
complesso l'inclinazione dovuta affinché il vento, che aveva la direzione
opposta, gli fornisse la portanza sufficiente a portarlo in alto tenendolo
sollevato.
Tra
i giochi di gruppo, i più frequenti e duraturi erano per i maschi quelli delle
palline (al buciini). I giocatori erano molti e alcuni, oltre
all'interesse della vincita e all’aumento del capitale di palline in possesso,
avevano come scopo il prestigio, la supremazia sugli altri, ottenuti con
l'abilità e l'astuzia. Il gioco più semplice, mettendo in palio una o più
palline, era pari o dispari, oppure testa o croce con il lancio di una
monetina. Poi vi era il gioco del contare (fèer la còunta). Ogni ragazzo diceva
un numero che veniva sommato agli altri: la risultante era il numero finale
della conta che, partendo da un punto fisso precedentemente stabilito e
indicando ad uno ad uno i presenti, veniva effettuata in senso orario. Il
vincente (colui che si trovava a corrispondere al numero risultante) vinceva
una pallina da ogni partecipante al gioco.
Il
primo gioco delle palline a richiedere una certa abilità era quello di
avvicinarsi a un punto stabilito. Si tracciava una riga sulla terra e il
concorrente che vi arrivava più vicino vinceva le palline degli altri
concorrenti meno abili o meno fortunati.
Poi
vi era il gioco della buca che si doveva raggiungere, avvicendandosi, con
diversi lanci mediante il lancio in avanti della pallina (buciina) con due dita
(una specie del golf). Chi arrivava per primo nella buca, vinceva il numero di
palline messe in palio, in parti uguali, dai concorrenti.
Altro
bellissimo gioco di abilità era quello di lasciar cadere dall'alto la
buciina e colpire quella dell'avversario mirando con l'occhio. Se
colpita, veniva vinta, nel caso contrario spettava cercare di colpire col
medesimo procedimento. Altro gioco ancora (capurrio) si ponevano, in misura
uguale tra i concorrenti, tante palline su una linea lasciando fra di loro uno
spazio concordato di qualche centimetro. Scelto l'ordine dei tiri mediante la
conta, chi colpiva una pallina vinceva tutte quelle poste alla sinistra (o
destra secondo gli accordi) della stessa.
Poi
v'era ancora il gioco del colpire la pallina dell'avversario inseguendola entro
un limite stabilito (in genere un cerchio).
Le
palline di terra cotta, verso gli anni trenta, furono sostituite dalle
multicolori di vetro e poi dalle sfere metalliche di cuscinetti a sfere di
certi motori. I ragazzi stabilivano valutazioni, dando inizio ad una vera
ricerca e di conseguenza ad un continuo baratto. Per una palla metallica se ne
richiedevano anche dieci in cotto o tre di vetro. Le più ricercate erano quelle
grosse delle bottiglie di gasosa, che erano diffuse in certe zone più di città
che nelle campagne, avendo più possibilità di essere reperite; il gioco
avveniva entro tracciati prestabiliti: piste concave o scavate a fosso.
C'era
pure il batti-muro (batmùrr); sbattendo la pallina contro il muro con forza
calcolata, il ragazzo tentava di colpire o avvicinarsi più possibile a quella
posta sul terreno. Se cadeva entro la misura stabilita, vinceva, nel caso
contrario la pallina era vinta dall'avversario. Se al gioco partecipavano
diversi concorrenti, veniva tracciata una linea e chi vi andava più vicino,
vinceva quelle degli altri.
Il
più divertente e redditizio per i colpitori era il gioco del mucchio di palline
(mucìin).
Con il solito cricco (cricch), o anche col normale lancio,
si tirava la pallina (balèina o buciina) con l'intento di
colpire la turètta di una quantità di palline poste a piramide, a
seconda del numero di partecipanti: chi colpiva al mucc' s'impossessava
di tutte le palline. I più sfortunati erano gli ultimi che però si
assoggettavano all'ordine dei tiri stabilito all'inizio con il solito mezzo
della "conta".
Altro
abile gioco delle palline era quello del circuito. Su un terreno battuto si
incavava un circuito intrecciato. Stabilito l'ordine di partenza, ogni
concorrente mediante il tiro col cricco (cricch) faceva correre la propria
pallina su questa pista e con un colpo alla volta cercava di superare quelle
degli avversari e arrivare primo al traguardo. Se la pallina usciva dalla
pista, doveva ricominciare da capo o ritornare da dove aveva fatto l’ultimo
tiro saltando così un turno. Era una specie di gioco dell'oca adattato alle
palline.
Analogo
al gioco precedente era quello dei coperchietti a corona (cuercìin) di bottiglie di
birra o di bibite, che venivano lanciati sempre con il sistema del cricco su
una pista tracciata sul terreno. Come premio finale veniva stabilito un certo
numero di figurine (faciutèin, o faciutèini) o di bottoni.
Per
variare il gioco delle bucini si inseriva anche il gioco dei bottoni che per la
maggior parte si svolgeva con un turacciolo (suvver). Con delle monete
lanciate con la mano, si cercava di colpire e rovesciare il mucchietto di
bottoni posti su un turacciolo e i concorrenti dovevano cercare di avvicinarsi
più possibile ai bottoni perché divenivano vincita della moneta più vicina.
Anche i bottoni erano oggetto di scambi e avevano una loro valutazione. I
bottoni madreperla valevano dieci di quelli a due fori per pantaloni; essendo
la gamma vastissima, era stato creato un loro prezziario.
Altri
giochi simpatici erano quelli del suono. Da una foglia di acacia o da un petalo
di fiore o da una foglia di altra pianta, appoggiata sulle labbra in posizione
tale da farla vibrare con la pressione dell'aria, si otteneva un delicato
suono. Più pressione veniva data, più stridulo era il suono che mediante
variazioni assumeva il tono del violino.
Dal
gambo di un fiore giallo, il tarassaco comune, taraxacum officinalis in latino e pissa a lèet in dialètt, che abbonda a primavera nei
nostri campi, soffiando, si ottiene un costante suono. Quest'erba, essendo di
natura poco resistente e di spessori diversi, non permetteva di farne uso
prolungato; perciò pur essendo ogni gambo di una tonalità diversa, era
impossibile fare suoni multipli come una piccola orchestra.
Uno
tra i giochi di vera abilità manuale era la piva. Da una frasca di pioppo o di
salice, quando a primavera la pianta era in pieno germoglio, si tagliava un
rametto di circa venti centimetri di lunghezza, senza polloni, mediante una
battitura tutt'attorno alla scorsa affinché questa fosse distaccata
completamente dal legno. Al tubo di scorza veniva praticato, a pochi centimetri
dall'imboccatura, un foro e all'interno nuovamente posti alcuni centimetri
dell'anima precedentemente tolta, privato però di una fettina, affinché
lasciasse passare l'aria soffiata che, per uscire dal foro, produceva un
fischio. Il fischio variava a seconda dell'aria che conteneva il vuoto della
scorza e che, al lato opposto, a mo' di stantuffo con la parte rimanente di
quella estratta, si frizionava avanti ed indietro ottenendo una variabilità del
suono.
Per
i più piccoli ogni barattolo era un tamburo. Diversi barattoli diventavano una
batteria di rumori assordanti, certamente non graditi dagli adulti. Solo
nell'epoca delle sementi veniva tollerato, anzi consigliato purché fosse
suonato fra i campi delle semine onde spaventare e tenere distanti i passeri.
La
fionda (la sfrummbla) era molto pericolosa, ma i ragazzi che
conoscevano la gravità dell'uso l'adoperavano per la caccia agli uccellini o,
come gesto di mini vandalismo, prendendo di mira i supporti isolanti delle
linee elettriche (bicirèin). La fionda era ricavata da un rametto (al
cavalètt) con biforcazione costante tagliata a Y legando all'estremità della forcella due elastici di circa venti
centimetri, ricavati da una camera d'aria di bici fuori uso, e ai capi di
questi con una tela resistente o una pelle a forma ovale, venivano uniti in
modo da custodire un sassolino. Tirando fortemente l'elastico dopo aver preso
la mira del bersaglio da colpire, poi lasciato andare, la fionda lanciava con
veemenza il proiettile.
Anche
per la freccia vale il discorso della pericolosità della fionda. La freccia di
legno con punta a chiodo o di filo di ferro (molte volte era un raggio di una
ruota di bicicletta o una costola di ombrello, scòddṡa) veniva lanciata
da un arco (èerch) ricavato da un ramo di salice, molto elastico, curvato e
trattenuto da uno spago. Veniva scagliata contro inermi passeri o contro le
malandate porte e finestre delle purtroppo malandate case.
Il
gioco degli "scoppi" era la disperazione degli anziani, sia per la
pericolosità di chi li faceva, sia per il forte scoppio che giungeva quasi
sempre inaspettato. Si potrebbe elencare una lunga serie in quanto erano tanti
i modi per ottenere gli scoppi (ciòoch). Il più comune scoppio era
ottenuto con le piastrelle. In tutte le case coloniche si faceva uso dello
zolfo per la difesa delle viti dai parassiti, una delle materie prime per
questo pericoloso gioco. Si mescolava un po' di zolfo con del potassio (erano
pastiglie medicinali per la cura del mal di gola, quindi facile da reperire) si
poneva la miscela fra due piastrelle (sassi piatti) facili da trovarsi fra la
ghiaia di fiume; poi, salendovi sopra con un piede in modo che il peso del
corpo comprimesse la miscela, con l'altro si dava un colpo alla piastrella più
alta in modo da creare un attrito dei due sassi e il conseguente scoppio della
miscela. Un altro sistema era quello di porre la stessa miscela fra due viti di
ferro filettate o bulloni (bulòun) di uguale spessore congiunte
da un dado che li unisse in un corpo solo. In questa intercapedine tra due
bulloni e il dado si creava una camera di combustione. Questo gruppo di
oggetti, costituitisi in un solo corpo, buttato in alto, nel toccare terra
grazie al minimo gioco che esisteva dalla filettatura, creava la compressione e
quindi lo scoppio della miscela.
Vi
era poi il peggiore della serie; quello con il carburo. Anche il carburo era
facile per i ragazzi sottrarlo dall'uso della illuminazione ad acetilene, unico
mezzo per illuminare le buie case di allora, poi soppiantato dalle lumiere a
petrolio. In un barattolo vuoto, usato per contenere l'estratto di pomodoro,
tolto completamente un coperchio e nell'altro praticato un foro si poneva con
il foro in alto entro una buca e nell'interno proprio perpendicolare al foro si
metteva il pezzetto di carburo. Il barattolo veniva poi ermeticamente chiuso da
terra ben pressata tutto attorno.
Dal
foro si facevano cadere alcune gocce d'acqua tenendo poi chiuso il foro perché
non uscisse il gas. Appena tolto il dito dal foro, con una lunga canna recante
un cerino acceso, si dava fuoco alla miscela che nel giro di pochi secondi,
quando il fuoco entrava nel barattolo, causava lo scoppio proiettando in alto
il barattolo con un forte boato.
Quando
alcune ditte industriali o organizzazioni commerciali, per lanciare e
diffondere o propagandare i loro prodotti avevano creato la ricerca di figurine
(faciutèin)
che erano incluse nelle confezioni dei prodotti, i ragazzi ne avevano tratto
motivo di fare collezioni, scambi e giochi di figurine. Fra queste vi erano le
più ricercate ed introvabili, creando un vero mercato di scambio e di diversi
valori. Il Feroce Sa-ladino fu l'introvabile figurina che spinse tutti i
ragazzi alla sua ricerca. Quanti salvadanai custoditi in luoghi nascosti,
furono rotti per disporre di quelle piccole monete da 5, 10, 20 e 50 centesimi
accantonate nel tempo! I ragazzi, spinti oltre anche dalla golosità dei dolci
prodotti, con quelle monete davano la caccia al pregiato Feroce Saladino. Si
iniziava così tutta una serie di giochi. Il più semplice era quello di buttare
in alto una quantità stabilita di figurine e, secondo il valore delle stesse,
veniva precisato la scelta del primo in figura o cartone (bianco), biàanch
o ròss, ed erano sue tutte quelle che evidenziavano la sua scelta.
Il
lancio dell'aeroplano di carta era il gioco dei più piccini. Se lo costruivano
da soli, era un piegare e ripiegare un foglio di carta, più resistente
possibile. Il lancio avveniva dall'alto, da una finestra del piano superiore o
da un albero. Gioco modesto, ma molto piacevole e tanto diffuso.
Sempre
di carta e mediante piegatura simile a quella dell'aeroplano venivano costruite
le barchette e poste sull'acqua dei numerosi recipienti sistemati sulla corte.
Fortunato chi aveva nei pressi qualche ruscello in cui porre alla deriva le
barchette di carta ed in questi casi di così preziosa possibilità di gioco,
l'ingegno li portava a realizzare le barchette in legno, applicandovi anche
qualche vela di tela. Il ruscello diveniva un vero campo di competizione delle
molteplici barchette che gareggiavano tra di loro, tante volte oggetto di
scommesse e di grandi discussioni.
Nell’aia,
più comunemente chiamata corte (cóort), era facile trovare nelle
mattinate serene di una domenica primaverile un gruppo di adulti e qualche
giovane ben messo di statura, che giocavano a bigaara: lanciavano a
turno un sasso piatto da una certa distanza con l'intento di colpire al
sacàagn, un frammento di pietra di forma a parallelepipedo messo in
senso verticale, sopra il quale erano state poste le monete che i concorrenti
avevano stabilito di mettere in gioco. I soldi spettavano a quelli o a quello
che col proprio sasso era andato più vicino alle monete sparse all'atto del bersaglio
colpito.
Con
una ruota (róoda), ottenuta affettando un ramo d'albero di un certo
diametro, alla cui scanalatura esterna veniva arrotolato uno spago, si creava
quel simpatico gioco chiamato "jo-jo" che ebbe tanto successo verso
gli anni trenta. La róoda èd lèggn fu sostituita dalle bobine dei nastri delle
macchine per scrivere che in quei tempi prendevano sempre maggiore diffusione.
A queste rondelle o bobine si lasciavano cadere e prima che si fosse srotolato
l'intero spago con un secco colpo allo spago trattenuto ad un capo si
sollecitava il riavvolgersi e questo movimento di scendere e salire durava, con
una cadenza costante, quanto si voleva.
In
ogni spiazzo delle borgate o della cittadina, come pure nelle ampie aree delle
case di campagna si raggruppavano ragazzi amici o occasionali per dare due
calci ad una palla. Avere una palla di gomma o addirittura un pallone di cuoio
era un privilegio di pochi. Ma una palla si faceva anche con stracci legati e
racchiusi con una pezza e spago a forma rotonda. Le porte, erano sempre
improvvisate e delimitate da sassi, oppure dal maglione o dalla giacca di
ragazzi. La gioia immensa era prima di tutto essere inclusi nel gruppo;
immaginarsi poi la soddisfazione di chi imbroccava un tiro da goal.
Il
progresso, la propaganda di regime fascista, i successi della nazionale
italiana in campo internazionale, le palle sempre più robuste e alla portata di
tutti, mossero i giovani a sviluppare il gioco del pallone. E sempre più
frequente appariva in ogni angolo di Carpi e della campagna il vero pallone di
cuoio con camera d'aria. In ogni borgata o gruppo di case coloniche si
fondevano le iniziative di gruppo per gareggiare con quelli della borgata
vicina. Erano vere gare con l'applicazione di regole che venivano diffuse dalle
scuole. La maggior attenzione al gioco del calcio, purtroppo, provocò
l'abbandono dei vecchi giochi che si tramandavano da generazioni a generazioni.
Un
gioco quasi musicale era quello del suono creato dal pettine. Si premeva il
resistente pettine che usavano gli adulti, per i bambini vi era la pettinina (petnèina)
per sistemare sempre ruvidi e poco curati capelli. Si fasciava il pettine con
una carta sottile (per la precisione chiamata velina) che faceva da ancia e poi
lo si faceva scorrere sulle labbra come un organino, trasformando il motivo
canticchiando a sotto fondo in un tremolane suono orecchiabile.
Nelle
giornate primaverili o nei filòos serali, mentre le donne
facevano la treccia di truciolo, i ragazzi prima di essere presi dal sonno
trovavano la forza di giocare ancora. Erano giochi semplici che non recavano
disturbo agli adulti, anzi piacevoli a tutti. Fra i tanti ricordiamo le bolle
di sapone che alla luce della lumiera a petrolio o dell'acetilene brillavano
con riflessi diversi rompendosi contro i molteplici attrezzi che abbondavano
nella stalla. In una bottiglia o barattolo (scatlòun) veniva sciolto
dal sapone (savòun) e con una cannuccia, spesso di paglia, veniva
leggermente aspirato e poi delicatamente spinto col proprio fiato all'esterno
sprigionando miriadi di bolle.
Altro
elementare e divertente gioco era quello dello spago cioè la séega
muléega. Con la partecipazione di un secondo ragazzo, intrecciando uno
spago a forma di stella, non facile da descrivere, si tirava alternativamente due
capi alla volta dei quattro che lo componevano, dando l'impressione di svolgere
un lavoro di sega.
Un
altro gioco (anch'esso non facile da spiegare) e sempre di spago era la
panarèina, cioè un susseguirsi di forme che componevano a seconda
dell'abilità, l'immagine della madia, poi del tagliere ecc. ecc. Attraverso
queste mosse si ritornava a rifare le prime e via di seguito sino ad una
distrazione che avrebbe arrecato un groviglio di intreccio e perciò la
conclusione del gioco.
Poi
la lunga serie dei giochi con le carte, cioè le carte da gioco, quelle in uso
nella zona di Carpi e precisamente le piacentine.
Anche
il bambino più piccolo, in possesso delle sue forze, se gli capitava fra le
mani un mazzo di carte, tentava di costruirsi il suo castello di carte. Tra i
bambini diventava una gara il dimostrare che il castello dell'uno era più alto
di quello dell'altro. Due carte appoggiate verticalmente fra di loro in modo
che restassero in piedi e altre orizzontali più quelle d'appoggio per crearsi
un piano di sostegno, elevavano sempre più il castello. Nasceva l'invidia e di
conseguenza un voluto colpetto al tavolo o meglio al piede del tavolo, il che
era più facile da giustificare come fosse stato un involontario urto. Anche un
improvvisato ed incontrollabile colpo di tosse costringeva l'amico a
ricominciare tutto da capo.
Il
gioco dell’asino (èeṡen) veniva effettuato da quattro o cinque ragazzi, maschi o
femmine, e anche da adulti che si divertivano molto a osservare le reazioni dei
più piccoli. Mescolate per bene le carte venivano ripartite in parti uguali tra
i partecipanti. Dal mazzo intanto era stata tolta una carta che per la maggior
parte non veniva resa nota e che scompaginava le coppie delle quaranta carte.
Ogni giocatore accoppiava le proprie carte con uguale numero o figura, per
esempio un asso con un asso, un due con un due, un re con un re, ecc. Dopo
questo spoglio un giocatore dopo l'altro dava la possibilità al compagno
vicino, tenendo coperte le carte, di tentare nel prendere una carta, di
accoppiarne una delle sue e scartare la coppia e a sua volta di dare al
giocatore di destra la stessa possibilità. Nel susseguirsi di diversi giri, le
carte avrebbero finito col trovare la loro gemella e i giocatori a rimanere
quindi senza carte, ad eccezione di quello sfortunato che rimaneva con quella
carta dispari, essendo l'altra stata tolta all'inizio. Quindi rimaneva "
asino ".
Il
gioco della cava-camicia (chèeva o léeva patàaia) si gioca
in due a ciascheduno dei quali va metà mazzo da giocare una carta alla volta.
La base fondamentale del gioco sono gli assi, i due e i tre. Le altre figure o scartini
che fossero, non avevano nessuna importanza. Iniziato il gioco ogni giocatore
rovesciava sul tavolo una carta alternandosi con l'avversario; se la carta era
uno scartino o una figura, si proseguiva fin quando da uno veniva posta una
delle carte fondamentali. Se era un tre, l'avversario doveva porre di seguito
tre sue carte. Se queste erano insignificanti al gioco, tutte quelle sul tavolo
venivano prese e accodate alle sue dal vincitore. Nel caso contrario, cioè se
tra le tre carte poneva una significativa, supponiamo un due invertiva la
possibilità di vincita e se nelle due carte che era obbligato di rovesciare vi
erano due scartini le carte spettavano al giocatore in possesso del due. La
carta che tante volte decideva era l'asso, perché era difficile trovare in una
sola carta proprio una che interrompesse il gioco. Tutte le carte passavano con
l'andar dal gioco al più fortunato, a quello che, come si dice nel carpigiano è
riuscito a cavèer la patàaia, cioè a togliere tutte le carte
all'avversario. La cosa particolare del gioco è che esso, nel suo svolgimento e
seguendo le regole, non richiede nessuna abilità da parte dei giocatori e il
vincente o perdente sono già determinati al momento della distribuzione dei due
mazzetti da 20 carte.
Il
gioco che appassionava molto i bambini, era rubamazzo il primo passo verso i
giochi più interessanti e impegnativi che, con il suo sorprendente gioco
dispettoso serviva anche alla formazione del carattere ai ragazzi,
indispensabile nel gioco delle carte, sia per la buona sia per la cattiva
sorte. Si giocava maggiormente in due; in quattro si svolgeva con l'interesse a
coppia. Sul tavolo venivano rovesciate quattro carte e tre a ciascuno dei
giocatori che ricevevano uguale distribuzione ogni qualvolta finiva la mano. I
giocatori uno alla volta, sempre nell'ordine da sinistra a destra, dovevano
prendere dal tavolo la carta uguale ponendo il proprio mazzetto rovesciato in
modo che fosse possibile agli avversari vedere; perché un giocatore, nel caso
che avesse avuto una analoga carta, avrebbe rubato il mazzo unendolo al
proprio. Vinceva quello che alla fine ne aveva di più. Era veramente un gioco
sorprendente che molte volte, proprio nell'ultima mano quando si stava gioendo
per la vittoria, l'avversario ti prendeva il mazzo perché la sorte gli aveva
dato una carta uguale a quella scoperta del mazzo e te lo rubava proprio al
termine del gioco.
Al ṡóogh ciamèe béestia partecipavano ragazzi, adulti maschi o femmine che
desiderassero trascorrere un po' di tempo come svago divertendosi veramente. Il
gioco molto diffuso ancora oggi, aveva svolgimento sul principio della
briscola. Si distribuivano ai concorrenti tre carte ciascuno e si rovesciava
sul tavolo una carta per indicare la briscola; rimanevano in gioco quelli che
avevano le briscole, in particolare quelli che avevano le più alte. Potevano
scartare le carte insignificanti nella speranza di trovare altre briscole. Chi
non partecipava al gioco, perdeva la sua posta e chi finiva senza prendere una
mano delle tre, doveva raddoppiare la posta. La posta veniva divisa in tre
parti perché potevano essere tre giocatori diversi a vincere ciascuno una mano.
Si doveva rispondere al gioco iniziale; cioè, se la prima era una briscola, si
doveva rispondere briscola, se era un altro gioco si rispondeva a quello
iniziale.
Poi
v'erano i giochi con le carte che intrattenevano gli adulti nelle osterie nelle
giornate festive o ind i filòos invernée. Giochi che non sono mutati affatto nel
tempo e sono: brìsscola, trisèet, masèin, cutècc’, scòppa o scopòun.
A questi oggi si sono inseriti sempre con maggior insistenza i giochi con le
carte da tarocco e da ramino; tra questi predominano la scala quaranta,
rilancino, poker e ramino. Il gioco delle carte anche nei tempi di magra di
epoche remote ben conosciute, oltre al gusto del gioco stessi, trascinava
dietro la scommessa e quella della vincita, che nelle osterie era la tradizionale
bottiglia di vino o qualche bicchierino di vermouth o di liquore. Nelle stalle
era frequente invece il giocarsi un coniglio, un tacchino o un cappone e in
questi casi il gioco preferito era il mazzino. Giocavano ore e ore e tante
volte sin al mattino tardi, fin quando non si era ben delineata la vincita
dell'intera posta.
Per
le ragazze e i giovanotti le carte erano, come lo sono ancora oggi, mezzi per
leggere il pensiero, per sapere il futuro. Le cartomanti erano care e non
sempre ci si poteva rivolgere loro per chiedere come era il futuro amoroso.
Allora
ci si accontentava sulla riuscita dei solitari, a cui si rivolgeva il pensiero,
la domanda, il desiderio, di essere corrisposto dalla persona a cui erano
rivolte le premure e le attenzioni amorose. I solitari erano tanti, i più
facili erano quelli dell'otto oppure del cinque; il più difficile era quello di
Napoleone.
Sempre
di gruppo vi erano i giochi semplici, ai quali partecipavano anche le bambine,
cioè quelli che non richiedevano l'apporto di attrezzature o meccanismi, come i
quattro cantoni, a nascondino (pòmma o cucùu), mosca cieca e
giro - girotondo, mentre per i soli ragazzi era diffuso il salto cavallina (pasquòoli).
Al
sèelt èd la cavalèina era
infatti un gioco molto diffuso tra i bambini, anche perché per poter giocare
non serviva proprio nulla nel senso che un gruppo di ragazzi si trovava e
bastava dire: “Giochiamo alla cavallina!”.
Un
volontario allora si metteva inginocchiato con le mani per terra e a turno si
faceva saltare dai compagni vocianti che lo sormontavano di corsa sulle spalle
come fosse un quadrupede. Più pericoloso era se il primo si appoggiava al muro
e gli altri a turno saltavano con tutta la forza possibile sulla schiena di chi
lo aveva preceduto. Il rischio di gravi lesioni era serio.
Le
bambine si divertivano con i giochi più aggraziati, in genere più sedentari,
fatti soprattutto di imitazioni, di fantasia e di parole, di loro piccole
ispirazioni di fare la mamma e di fare il mangiare.
Le
bambole le facevano loro con l'aiuto della mamma o di una sorella maggiore;
erano di stoffa imbottita di stracci, di cenere o di segatura, gli occhi, la
bocca e il naso erano ricamati con filo di colore diverso dal tessuto, e con
quelle semplici bambole trascorrevano ore di gesti e di recitazione. Agli
adulti ricorrevano solo per farsi fare quello che per loro era impossibile come
per esempio: un letto di filo di ferro o un seggiolone (scranòun) di legno.
Apparve finalmente nelle vetrine il bambolotto di celluloide, il cui costo era
alla portata di tutti e questo giocattolo trasformò il passatempo delle
femminucce che confezionavano da sole i vestitini con pezzi di stoffa usata, le
scarpette, la berretta ecc., ponendole più vicino alla realtà.
Con
i vasetti, le scatole che contenevano gli unguenti e i medicinali e altri
piccoli oggetti creavano l'ambiente in cui vivevano, la casa, il mangiare e il
lavare, poi man mano che crescevano, trasformavano il gioco nella realtà,
iniziando a lavare i grandi fazzoletti rossi da naso e cuocendosi le prime uova
al tegamino.
Nelle
giornate di sole anche le bambine correvano indiavolate come i maschi, assieme
con le coetanee delle case vicine, un giorno qua e l'altro là; le case erano
tutte uguali perciò non temevano la trasferta e di conseguenza non temevano la
timidezza. Il gioco che prevaleva era la "settimana" (la
stmaana). Disegnavano sul terreno battuto un grande rettangolo che
frazionavano in sette quadretti con indicato il giorno della settimana; alla
domenica lasciavano spazio doppio. In questi quadri lanciavano seguendo
l'ordine dei giorni, una piastrella (sasso piatto) che raccoglievano entrando
nel recinto saltellando su una gamba sola senza appoggiare l'altra e senza
pestare i tracciati. In caso di una infrazione compreso il lancio sbagliato del
sasso, dovevano, al loro turno, ricominciare da capo.
Un
simpaticissimo gioco di gruppo e di abilità visiva era il gioco del cerchietto
(al
séerc') che prima che fosse venduto nei negozi era fabbricato dalle
stesse bambine con rametti di salice. Con un bastoncino lanciavano il cerchio
verso una collega che, con uguale bastoncino doveva infilare al volo il cerchio
lanciato e a loro volta rilanciarlo ad altra bambina.
Era
piacevole vedere le bambine saltare la corda; un gioco grazioso e nel contempo
faticoso. Vi era quello di gruppo e quello per la ragazzina sola. Quello di
gruppo si svolgeva nel seguente modo: due bambine ad ogni capo di una corda
lunga tre o quattro metri che, allentata, facevano girare ad arco. Quando la
corda saliva in alto, entrava - nel gioco una delle bambine che saltellando
permetteva alla corda di passarle sotto i piedi e che continuava a saltare fin
quando, urtava la corda, interrompeva di roteare. A quel punto subentrava là
seconda e poi la terza, alternandosi con quelle che avevano il compito di fare
girare la corda.
Il
gioco singolo della corda è il normale salto che ancora oggi si osserva nelle
palestre e nei campi sportivi per fare fiato, dimagrire ed entrare nella forma
sportiva. Le bambine erano maestre di questo gioco prendevano i capi della
corda, se la facevano passare ad arco sulla testa saltandola a piedi pari o a
passo saltellante quando sfiorava la terra, imprimendo tante volte delle
velocità incredibili sincronizzandosi nel movimento con il passaggio della
corda come se corressero a grande velocità.
Quando
il tempo non permetteva di giocare all'esterno, il gruppetto si trasferiva in
qualche ambiente al coperto, come il portico, la barchessa o la stalla. Si
ponevano a sedere in fila tenendo le mani congiunte; una prescelta, poi tutte a
turno, infilando con le proprie mani quelle delle amiche, lasciava cadere un
sassolino o il ditale in quelle di una bambina in modo però da non far capire,
ove aveva lasciato l'oggetto; l'amica prescelta doveva poi indovinare. Se la
bimba sbagliava, veniva penalizzata secondo il metodo classico di dire – fare –
baciare – lettera - testamento, scegliendo la pena che le veniva poi imposta
dall'amichetta che aveva posto il sassolino o il ditale. Se indovinava prendeva
il posto a sedere di quella che aveva il pegno.
La tambarèina o ciaparèina. Gioco vorticoso col il quale ci si
prendeva fortemente per le mani o i polsi e si girava alla massima velocità
fruttando la forza centrifuga; avvicinandosi e allontanandosi l’uno con l’altro
si variava la velocità.
La tambarèina
Uno, due, tre... Stella! Un bambino teneva la testa
appoggiata ad un muro e si copriva gli occhi con le mani. Gli altri bambini gli
stavano dietro, molto distanti dal muro. Il bambino o la bambina con gli occhi
coperti contava "uno, due, tre... Stella!" e mentre lui parlava gli
altri dovevano correre e avvicinarsi il più possibile al muro. Finito di
contare il bambino si girava di scatto e se vedeva qualcuno muoversi lo
rimandava indietro di tre passi. Lo scopo del gioco era quello di avvicinarsi
senza essere visti al muro e di riuscire a toccarlo. Il bambino che riusciva a
toccare il muro doveva gridare: "Stella!"
Aveva vinto e prenda il posto di quello che contava.
Rùuba
bandèera, ruba
bandiera. Si formavano due squadre contrapposte e a ogni giocatore si assegna
un numero, viene delimitato un campo di gioco di eguale metratura per entrambe
con una linea centrale di divisione e linee di fondo oltre le quali si
schierano i giocatori. Il giudice teneva una bandiera o un fazzoletto in mano e
si piazzava sulla linea centrale e ad alta voce chiamava un numero. I giocatori
ai quali era stato assegnato il numero chiamato correvano verso la bandiera il
più velocemente possibile per strapparla al giudice e riportarla oltre la linea
di confine della propria squadra senza farsi toccare.
Se però il
giocatore senza bandiera toccava con la mano l’avversario, prima che
raggiungesse la sua meta, il punto era della sua squadra
Il bello
veniva quando i corridori avevano la stessa velocità di corsa, perché arrivano
entrambi vicino al fazzoletto nello stesso momento. A questo punto quindi
bisogna cercare con finte e occhiatacce di distrarre l'avversario e si stava
col braccio sinistro alzato a cingere virtualmente il rivale, perché se si
veniva anche solo sfioratisi perdeva il punto. Così come si perdeva il punto se
si toccava il rivale senza che questi avesse preso la bandiera.
Il tutto
ovviamente senza oltrepassare la linea di divisione del campo. Il giocatore che
è toccato viene eliminato e dopo un certo numero di prove prestabilite vince la
squadra che rimane con più concorrenti.
i Quatàr Cantòn - i Quattro Cantoni
I
quattèer cantòun, i quattro
cantoni. Per terra veniva disegnato un quadrato e quattro giocatori dovevano
occuparne gli angoli, mentre un quinto stava al centro. Quest’ultimo doveva
cercare di occupare uno dei quattro angoli, mentre gli altri tentavano con
arditi spunti di corsa di scambiarsi il posto. Se l’occupazione riusciva, chi
aveva perso il posto doveva andare a sua volta al centro del quadrato e il
gioco ricominciava. Si poteva giocare
disegnando il quadrato in un aia, oppure in Centro a Carpi si poteva giocare
nel cortile d’onore del Castello dei Pio. Il problema era che c’era sempre
qualche vigile in agguato che perseguitava i giocatori.
Il
gioco dell'indovino (indvinèel) per la maggior parte
veniva svolto durante l'inverno nelle stalle essendo esclusivamente sedentario.
Una ragazzina bendata, con l'aiuto della sensibilità delle sole mani, toccando
in un tempo abbastanza breve, il capo delle compagne doveva indovinare chi era.
Le compagne erano sedute in fila e se non indovinava la prima poteva tentare la
seconda, e via tutte le altre. Restava bendata sino a quando non aveva
azzeccato, in tal caso arrivava al termine della fila le bimbe si scambiavano
il posto. Se invece indovinava veniva sostituita dalla collega; se aveva
tentato di indovinare sbagliando doveva dare un pegno al gruppo o subire una
penitenza, come il restare in un angolo in ginocchio fino a quando non veniva
liberata dall'errore di un'altra.
Altro
gioco bendato era mosca cieca. Una bimba si metteva al centro di un gruppetto
di coetanee, poste a cerchio, e doveva toccare una ragazzina che cercava di
scambiarsi il posto con un'altra amichetta. Il solo rumore la portava a tentare
di toccare nella speranza di poter prendere il suo posto.
Analogo
gioco era i quattro cantoni (i quàater cantòun). In un locale
giocavano cinque ragazzi o ragazzine, uno per ogni angolo più uno al centro.
Quello al centro doveva toccare i compagni che cercavano di scambiarsi il
posto. Se era toccato, doveva cedere il suo angolo all'avversario e sostituirlo
al centro del locale. Per questo gioco era necessario un locale ampio che desse
possibilità di movimento. I ragazzi di città (Giorgio Maccari, Vanni Previdi,
ecc …) lo giocavano nella cornice perfetta del Cortile d’Onore del Castello dei
Pio, perseguitati del custode del castello e dai vigili.
Il
gioco della bandiera (ruuba bandéera) richiedeva
spazio, perciò si giocava solo all'aria aperta. Un numero uguale di ragazzini
si poneva ad una distanza di circa venti metri e al centro uno che reggeva,
cadente, un fazzoletto. Il compito di ogni gruppo era quello di prendere il
fazzoletto per primo. Partivano sempre un ragazzo o ragazzino alla volta e non
dovevano assolutamente passare nel campo dell'altro. Molte volte si fermavano a
cinquanta centimetri dal fazzoletto con la speranza che l'avversario in un
momento di distrazione permettesse un rapido strappo. Guai se avveniva che il
fazzoletto fosse preso da tutti e due. Solo il ragazzo del centro aveva le
funzioni di arbitro. Chi strappava il fazzoletto aveva diritto di chiamare nel
suo gruppo un componente del gruppo avversario; in questi casi veniva sempre
scelto il più veloce, quindi il concorrente più temuto. Anche nel caso di un
concorrente che avesse oltrepassato il proprio campo, perdeva un proprio
concorrente.
Da
un foglio di carta oleata, allora molto diffusa, si faceva la stella o elica (stèlla).
Da un quadrato mediante congiunzione dei lembi o punte verso il centro si
veniva a creare un'elica che unito al centro da un chiodo fissato ad un'asta o
bastone permetteva, correndo in senso contrario al vento di far girare
velocemente l'elica. Anche questo gioco fu perfezionato e fabbricato in
celluloide e venduto in cartoleria. Ancora oggi, questo passatempo, viene
venduto nelle bancarelle delle fiere e delle sagre, unitamente ai variopinti
palloncini.
Due
oggetti servivano per il gioco della lippa, in dialetto s-ciancòol, s-ciàanch
o s-ciàanco); un bastone della lunghezza di 50-70 cm , chiamato canèela
e uno di molto più piccolo, circa 15-20 centimetri con i
lati a cono. La mazza era nella parte più bassa leggermente più grossa,
possibilmente gli ultimi dieci centimetri leggermente curvato, invece al
s-ciàanch era di un diametro di circa tre centimetri. Per questo
pericolosissimo gioco occorreva molto spazio e terreno privo d'erba. Quando il
battitore e tutti a turno lo dovevano fare, era pronto, lanciava un urlo "S-ciàanch!",
e da qui la denominazione del gioco, per richiamare l'attenzione dei
concorrenti che stava per essere lanciato il "proiettile ".
L'avversario a sua volta rispondeva ad alta voce: "Vèggna!" Posta la
lippa sul terreno, con la mazza si doveva colpire la parte conica affinché si
fosse sollevata da terra, circa un metro e mezzo e prima che cadesse veniva
nuovamente colpita dalla mazza per essere lanciata più distante possibile. Per
la serie di lanci convenuti veniva stabilito un punteggio a seconda della
graduatoria di ogni lancio che si accumulavano agli altri per stabilire il
vincente. Chi sbagliava la lippa aveva una penalità che diminuiva il punteggio
acquisito. Era un gioco che appassionava e tante volte i giovani venivano
trascinati a complicare il gioco stesso ed affrontare maggiori rischi. Allo
svolgimento sopradescritto si aggiungeva la presa al volo da parte
dell'avversario dello s-ciàanch, con tutti i rischi che
incorreva; nel caso favorevole eliminava un concorrente e il punteggio del
battitore passava a lui.
Altra
possibilità di eliminazione del battitore era quando, molto maliziosamente, uno
dei ricevitori diceva lèggna, invece di vèggna
e lascio immaginare le discussioni e le liti conseguenti!!
**
Renato Cucconi (Carpi) maggio 2015 racconta: “Nuèeter in carbṡaan a l òmm semmper ciamèeda
la canèela, quell'asta di legno che si usava a battere. Mentre al s-ciancòol era quell'affare di legno
a due punte (doppio cono allungato) che veniva sollevato e battuto da la canèela nei tiri successivi al
primo. Si partiva da cerchio disegnato con qualsiasi cosa, purché lasciasse un
segno sul terreno, per poi contare quaanti
canèeli c'erano dal s-ciancòol al
sèerc’. Vinceva (dopo vari tiri concordati con l'avversario) chi aveva più canèeli (maggior distanza) dopo i vari
tiri. “
*
Da
segnalare al riguardo:
scanlèer v.tr. dare una forte bastonata
scanlèer v.tr.
1 bastonare. 2 FIG. calciare violentemente un pallone.
scanlèeda s.f. 1
colpo inferto col mattarello, bastonata. 2 FIG. violento calcio al
pallone.
*
note
di Graziano Malagoli (Carpi) - 2014
Ricordo
il gioco, se vuoi piuttosto aristocratico, del volano, che si giocava non solo
al mare ma anche nel cortile di casa se, come nella casa abbinata dei miei
genitori, vi era un rete metallica tra le due parti.
E
poi l anèel, tipico delle bambine:
tutte a mani giunte come a pregare, chi ha l’anello un mano passa pra le bimbe
e lascia cadere nelle mani di una l’anello. chi di turno deve indovinare.
solita penitenza dire, fare, baciare, lettera, testamento (si potrebbe
specificare cosa si intendeva con questi termini penitenziali) in caso di
errore.
Uno-due
tre per le vie di Roma.
Rompere
la pignatta a carnevale.
La
s-ciàafa gioco prettamente maschile e
piuttosto violento.
La cavalèina sinonimo di pasquòoli – si può giocare sia in due squadre , una delle quali è
sotto e l’altra cavalca (si cambia squadra allorchè la squadra sotto non cede),
o individuale, correndo e saltando lungo la via ogni singolo partecipante che
si è messo a 90 gradi e poi la pulèinta.
La pulèinta è la montagnola di sabbia con infilato propofondamente un
bastoncino: ognuno toglie un po’ di sabbia e paga penitenza chi fa cadere il
bastoncino. Ci sono poi le parole da indovinare di cui si scrive lettera
iniziale e finale e un trattino per la consonante e una crocetta per la vocale,
i 5 sassetti da cogliere da terra lanciandone un altro in aria, prima uno per
volta, poi due a due e così via; gli scattini, i cariolini su cuscinetti, il
cartoncino fissato con un marlètt
sulla forcella posteriore della bici per simulare il rumore della moto, il
bigliardino di padre Natale in S. Nicolò, il ping-pong all’Eden, i birilli, le
bocce in spiaggia, le piastrelle (sostituito delle bocce su selciati), al bif sulle panchine del parco, la
scherma con due bastoni di pari lunghezza, le pistole e i fucili di legno
caricati ad elastico tenuto dal solito marlètt,
il telefono con filo con due coperchi di scatole da lucido Furmigòun, l’elica lanciata tramite in ferro a forma di vite con
passo lunghissimo, le pistole a salve con caricatore a nastro, le macchinine
con carica a molla, i soldatini di piombo, il trenino RivaRossi, il biliardo,
le freccette (allora senza punta ma con testa adesiva), al più caiòun l è quèll ch al gh à la piùmma in tèesta (innocuo
divertimento di bambini antesignano del pesce appeso sulla schiena di un ignaro
compagno il primo d’aprile, la cunna
era presente nel cortile di molte case contadine ove c’erano bambini (quasi
ovunque) realizzata semplicemente con due funi appese a due alberi, e non
disdegnata anche dai ragazzi per potere sbirciare le gambe delle ragazze, o per
toccare loro il sedere con la scusa di dare spinte più poderose.
C’era
poi strega in alto e strega in basso: chi era destinato dalla solita conta,
chiamava e tutti dovevano adeguarsi; chi veniva raggiunto prima di riuscirvi,
andava sotto e chiamava a sua volta (o faceva la solita penitenza).
Tombola:
il classico gioco invernale giocato nella stalla, al calore naturale delle
mucche, da tutta la famiglia e dagli amici. La degna conclusione del filòos.
Al scranèin dal curucucù: in due si incrociavano le mani prendendosi per i polsi in
modo da formare, appunto, un scranèin
e portare a spasso preferibilmente una ragazzina (primi approcci con malcelato
sfondo sessuale)
I
bambini imparavano ad andare in bicicletta non montando le ruotine ai lati
della ciclo (l’assenza di asfalto sulle strade ne impediva l’utilizzo) ma
dentro i fossi d’estate.
I
bambini più fortunati avevano genitori che erano molto abili nel costruire
attrezzature agricole (trattore, erpice, aratro, ecc.) con filo di ferro. Con
questi si giocava simulando la realtà che ogni giorno si vedeva nei campi e
simulando, con la voce, il rumore del motore del trattore: pum, pum, pum.
Alvèer
al nìi: scovare
il nido di uccellini sugli alberi e attendere che i piccoli uscissero dal
guscio per asportarli. La presenza di viti aggrappate agli olmi agevolava la
salita sugli alberi dei ragazzi più dotati fisicamente.
Spighlèer: più che un gioco, raccogliere le
spighe rimaste dopo la mietitura manuale, era, per certe famiglie, una
necessità. Ma veniva presentata dai genitori come un divertimento.
**
di Gianluca Vecchi
2003
Come si fa praticamente ad ogni latitudine e longitudine, da
millenni, anche a Carpi si giocava con l'aquilone. Nel dialetto di una volta
l'aquilone si chiama cumètta f. (=
cometa): curiosamente, cometa è il nome che si dà all'aquilone anche in Spagna.
Forse in nome deriva della coda, simile a quella dell’astro vagante. In un
dialetto più moderno cometa si pronuncia esattamente come in italiano. Ecco
come mia nonna racconta la preparazione al volo quand'era bambina.
A se s-cianchèeva un fóoi [si pronuncia anche fòoi] èd chèerta dal
quadèeren (si strappava un foglio di carta dal quaderno), pò a s lighèeva insèmm duu stècch (poi
si legavano insieme due stecchi di legno). Cun
d'l'aqua e d'la farèina a s' prèparèeva un pò 'd còola (con dell'acqua e
della farina preparava un po' di colla) e a
s inculèeva [da non equivocare e si dice anche ingulèeva] al fóoi ai stècch
(e s'incollava il foglio agli stecchi). Pò
té lighèev la cumètta a un sughètt (poi legavi l'aquilone a uno spago), acsè t l a tirèev e la vulèeva (così lo
tiravi e volava), e dòop la fèeva tutt i
dovèeri (e dopo faceva tutte le giravolte e i volteggi).
Alcune precisazioni a margine su questo racconto, da appassionato
di aquiloni, per chiarire alcuni particolari che forse la memoria di mia nonna
ha tralasciato. Il modello qui presentato era sicuramente il classico aquilone
a losanga (cioè romboidale, che tutti abbiamo visto volare almeno una volta
nella vita), formato da una vela di carta o tessuto fissata ad un'intelaiatura
a croce: perciò è probabile che il foglio di carta venisse tagliato in tale
forma prima di venire incollato agli stecchi. È anche probabile che si
utilizzassero fogli di vecchi giornali, piuttosto che di quaderno: erano più
leggeri e sicuramente più economici a quei tempi (ed evitavano sberle di
maestre e mamme). Per gli stecchi non c'erano problemi, la campagna e gli
argini abbondavano di pioppi, e andèer a
stècch (andare a stecchi, cioè raccogliere scarti di legna da bruciare per
riscaldare e cucinare) era pratica comune per tutti i bambini poveri. Al sughètt (lo spago) era probabilmente
troppo pesante e irregolare da usare come filo di traino, quindi si usava forse
un filo di cotone rubato dalla scatola del cucito della mamma o della nonna (i
fili di lana sono notoriamente poco resistenti). Nel nostro dialetto sughètt è anche nome generico per
indicare un qualsiasi tipo di filo o cordino abbastanza sottile: infatti è il
diminutivo di sóoga (corda).
Parliamo ora dei dovèeri.
Non sono riuscito a scoprire il perché le giravolte degli aquiloni si
chiamassero proprio così: posso fare solo delle congetture. Forse dovere
richiama il fatto che l'aquilone è "obbligato" a fare le sue
evoluzioni (perché è legato al filo). O forse la parola dovere richiama un suo
uso antiquato nel senso di saluto: le giravolte potevano ricordare un movimento
festoso e allegro, che salutava chi guardava. O magari dovere era solo un nome
scherzoso affibbiato così, come tante volte capita.
Una nota tecnica: un aquilone del genere come quello descritto da
mia nonna, per ragioni aerodinamiche che qui sarebbe lungo spiegare, è molto
instabile e quindi di dovéeri doveva
farne un bel po'...
Anni ’20 – Tre adolescenti alle prese con un
aquilone
***
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