giovedì 9 maggio 2013

canne, cerbottane e stufioni dialetto carpi



Canne
 e
stufiòun
 cerbottane
 di Mauro D’Orazi

1970 ca - Giovane banda armata di canne e stuffioni


Stesura iniziale 20-03-2013                                  V 35 del 19-04-2013




Norme di trascrizione  e aiuto alla lettura del dialetto

Graziano Malagoli autore, assieme a Anna Maria Ori, del “Dizionario del dialetto carpigiano - 2011, ha curato il coordinamento complessivo del testo, la grafia delle frasi e delle parole in dialetto secondo le Norme di trascrizione, finalmente codificate, per la stesura del dizionario stesso.
Graziano Malagoli, Anna Maria Ori, Giliola Pivetti e Luisa Pivetti hanno contributo alla revisione del testo e della sintassi.
Le Norme di trascrizione adottate sono quelle di pag. XXII del “Dizionario del dialetto carpigiano - 2011” di cui, qui di seguito, si riporta il testo integrale.
“Il vocabolario adotta una trascrizione delle voci e della fraseologia modellata sulla grafia italiana, seguendo una tradizione lessicografica che ha quasi sempre impiegato adattamenti a tale grafia. In particolare, si segue il sistema di trascrizione semplificato messo a punto dalla Rivista italiana di dialettologia. Lingue dialetti società.
Le vocali i, a, u sono rese come in italiano, mentre la pronuncia aperta di e, o è indicata con un accento grave, la pronuncia chiusa con uno acuto; il fenomeno della lunghezza vocalica è particolarmente marcato nel carpigiano e per indicarla si è scelto di ripetere la vocale, sprovvista di accento, onde evitare l’accumulo di segni diacritici sovrapposti, come – nella tradizione – il circonflesso o il trattino: bièeva, butéer, fagòot, arióoṡ (e così per i, a, u: sintìir, cavàal, futùu). Le vocali è, é, ò, ó sono distinte solo sotto accento, mentre in posizione atona sono segnate e, o.
L’accentazione si indica con l’accento grave, salvo i casi citati di é, ó (dove tale accento denota anche la chiusura della vocale), quindi ì, ù, à: ad es. scarnìcc’, fisù, bacalà.
Di norma, per semplicità, non si accentano le parole piane (ad es. bussta), ma soltanto quelle che hanno l’accento sull’ultima (arvùcc’) e sulla terzultima sillaba (ṡàberia); allo stesso modo, di norma (escluse alcune forme verbali come dà, fà, dì) non si accentano le parole monosillabiche (csa, al), a meno che contengano é, ò accentati per indicare la qualità aperta o chiusa (, èl, bòll).
Per indicare sempre con sicurezza le semivocali, senza complicare la grafia con segni estranei al sistema italiano (ad es. usando j), si avverte che, nella parola, i, u a contatto con vocale hanno valore di semivocali, in caso contrario recano l’accento (mìa, tùa).
Sono rese come in italiano le consonanti p, b, t, d, m, n, r, l, v, f. Per le palatali e le velari si adottano le norme grafiche italiane. Le affricate palatali sono indicate con c, g davanti a e, i: ad es. ducèer, bòocia; con ci, gi davanti ad a, o, u: ad es. ciàapa, baciòoch, paciùugh, gianèin, giocaatol, argiulìi; con c’, g’ davanti a consonante e in fine di parola: ad es. òoc’, curàag’. Le occlusive velari vengono indicate con c, g davanti ad a, o, u: ad es. catèer, còpp, cun, galupèer, góob, guàast, (tuttavia – questa volta in ossequio alla tradizione – si è usato il segno q per aaqua, daquèer e simili); con ch, gh davanti ad e, i, di norma davanti a consonante e in fine di parola: ad es. bachètta, bèech, béegh, sanghnèer, stanghèer, lèegh, liigh, brighèer. Per quanto riguarda le sibilanti dentali, come è noto l’italiano non distingue graficamente tra sorda e sonora: seguendo l’esempio di alcuni vocabolari
nazionali, indichiamo con s la sorda e con la sonora: ad es. baṡèer.
La laterale palatale è resa con gli davanti ad e, a, o, u: ad es. striglièer, butigglia, manigliòun; con gl davanti ad i e in fine di parola: ad es. ègl’idèi. Quanto alle nasali, abbiamo – oltre a m, n – la palatale gn, tutte rese come in italiano, anche in finale di parola: ad es. fuggna, paagn, staagn.
Le consonanti intense vengono indicate, come in italiano, mediante il raddoppiamento della consonante semplice: ad es. bagaiètt, aluminni; in caso di digrammi, come in un paio di esempi già visti (butigglia, fuggna), viene raddoppiata soltanto la prima lettera.
Infine, quando un nesso grafico non rappresenta un unico suono, ma la successione dei suoni indicati dalle singole lettere, esso viene sciolto con l’inserzione di un trattino: ad es. s-ciòop, s-ciafòun, s-ciflèer.”

Tabella per facilitare la lettura
a           a come in italiano                                                            vacca
aa         pronuncia allungata                                                        laat, scaat, caana

è  e aperta (come in dieci)                                                           martedè, sèccia, scarèssa, panètt, panèin
èe         e aperta e prolungata                                                    andèer, regolèeda, martlèeda, taièe
é           e chiusa (come in regno)                                                méi, mé
ée         e chiusa e prolungata                                                     véeder, créedit, pée

i  i come in italiano                                                                       bissa, dì
ii           i prolungata                                                                    viiv, vriir, scalmiires, dii

ò           o aperta (come in buono)                                               pòss, bòll, brònnṡa, pistòun, dimònndi
òo         o aperta e prolungata                                                    scartòos, scatlòot, malòoch, tròop
ó           o chiusa (come in noce)                                                  tó, só, indó
óo         o chiusa e prolungata                                                     vóolpa, casadóor, móoi, óov, ṡóogh
u           u come in italiano                                                            parucca, bussla, dubbi, currer, fiùmm
uu         u prolungata                                                                   bvuuda, vluu, tgnuu, autuun, duu

c’          c dolce (come in ciao)                                                     vèec’ , òoc’
cc’         c dolce e intensa (come in faccia)                                   cucc’, scarnìcc’, cutècc’, palpùcc’
ch         c dura (come in chiodo)                                                  ṡbòcch, spaach, stècch
g’          g dolce (come in gelo)                                                     curàag’, alòog’, coléeg’
gg’        g dolce e intensa (come in oggi)                                     puntègg’, gurghègg’
gh         g dura (come in ghiro)                                                    ṡbrèegh, siigh

s           s sorda (come in suono)                                                 sèmmper, sòol, siira
           s sonora (come in rosa)                                                  atéeṡ, traṡandèe, ṡliṡìi

s-c        s sorda seguita da c dolce                                              s-ciafòun, s-ciòop, s-ciùmma, s-ciòoch



Canne e stufiòun

di Mauro D’Orazi

Dopo aver scritto sulla sfrummbla non potevo che dedicare la mia attenzione al secondo gioco balistico per eccellenza della nostra gioventù.
Parlo dello stuffione (o stufione), in dialetto stufiòun, che veniva tirato da una canna, un cerbottana (in dialetto sarabutaana), che è meglio precisare non è un prostituta sicula.
Si usava una canna vuota all’interno della lunghezza fra i 40 e 60 cm dal diametro circa di un cm, di solito in plastica, rubato in un qualche cantiere di case in costruzione di colore rigorosamente grigio e necessario per contenere i fili dell’impianto elettrico, oppure in tempi ancora più indietro tubi in ottone o allumino, ad esempio gambi di lampadari non più funzionanti.
La potenza del mezzo era ed è direttamente rapportata alla sua lunghezza e al suo diametro: più lunga è la canna e più piccolo è il suo diametro, maggiore sarà la sua gittata utile.

Tecniche per fare uno stuffione  

Il proiettile era fatto arrotolando una strisciolina di pagine strappate da quaderni usati di scuola. Si divideva la pagina per tre sul lato lungo. Si tirava da una parte fino a ottenere un cono lunghissimo a punta, poi si fissavano e incollavano con la saliva (mò che schiiva!) facendone ruotare in bocca la punta. Il cono, chiamato stufiòun, veniva poi accorciato con le dita per togliere la parte in fondo troppo larga per adattarla al diametro della canna. Lo stuffione doveva entrare con un leggero sforzo per poter tenere adeguatamente la pressione del fiato che veniva spinto a più non posso dai nostri piccoli polmoni di ragazzini in caccia di bande avversarie e o di bambine indifese.

Dopo aver messo il proiettile nella canna, la si accostava alla bocca e poi con tutto il fiato possibile si soffiava, dopo aver preso la mira; una corretta mira poteva essere garantita dall’empirica applicazione di un marlètt da bughèeda. Stufffffff … era il suono tipo all’uscita dalla cerbottana, tanto da farmi ipotizzare che il nome sia proprio di derivazione onomatopeica.

Un marletto

Lo scrittore carpigiano Carlo Alberto Parmeggiani si pone questo interrogativo: “Sarebbe curioso sapere se la parola stufiòun fosse già in uso nel nostro dialetto prima della guerra, dato che oltre che derivare da soffione, potrebbe pure essere un’importazione inglese da "to stuff" = imbottire, ficcare, riempire un tubo ... Arrivata da noi con lo slang dei soldati americani. Mah, chissà?... 


Ma facciamo un passo indietro. Con la bella stagione finita la scuola, eravamo tutti al Parco impegnati con la bici, i giochi con le palline, nascondino, ecc …
Ma ecco che puntualmente, dopo pochi giorni, arrivava uno di noi con un bellissimo lancia stuffioni e cominciava a bersagliarci. Poi lo mostrava con orgoglio, senza nemmeno consentire di prendere in mano il prezioso oggetto per esaminarlo.
L’abile furbacchione era stato presso un cantiere di case in costruzione e, nel tardo pomeriggio, andati via i muratori, si era introdotto nell’area dei lavori e aveva sottratto un paio di metri di tubo in plastica grigio o nero per impianti elettrici.
Un po’ ne aveva poi dato a qualche amico più intimo, ma il grosso se lo era tenuto per lui per confezionare la potente e invidiata arma.
A quel punto iniziava per noi una febbrile ricerca di materiali per arrivare ad avere la preziosa arma; non si poteva stare da meno … il piccolo furto dei vari componenti era ammesso e fatto oggetto di imprese da vantare con orgoglio.
Canne, tubi, elastici, sugheri da bottiglia (meglio se nuovi), elasticoni verdi o marroni, di quelli larghi e piatti che sembrano … tagliatelle, del nastro adesivo da elettricista, marletti e vecchi quaderni da scuola.


I più fortunati avevano un padre, un nonno o uno zio che dava loro una mano.
La struttura minima era la doppia canna, per avere un secondo colpo a pronta disposizione. Si tagliavano le canne in misura, si ponevano circa dieci centimetri l’una dell’altra, tale distanza si spessorava o con sugheri che si adoperavano per le bottiglie di pomodori fatte in casa o con marletti di legno, poi di plastica.
Canna doppi, foglietti e stuffioni pronti per il tiro

Si univa il manufatto con potenti elastici o con numerosi giri di nastro da elettricista. Altre mollette potevano fare da mirini, assolutamente inutili, ma di grande effetto visivo. I coni di carta venivano sapientemente preparati con anticipo e a decine per essere poi già pronti per essere sparati a raffica;
così i quaderni di scuola di assottigliavano.
Naturalmente c’erano genietti fantasiosi e capaci che costruivano attrezzi anche a tre o quattro canne, sempre con gli stessi principi.
I più smaliziati preparavano anche la variante di stufiòun cun al gucìin; con non poca abilità si inseriva nella cavità uno spillino. Il proiettile, così armato, se veniva lanciato contro un albero, vi restava trionfalmente conficcato. Ma spesso i bersagli erano i componenti delle bande ostili o il culetto delle ragazzine, che alla nostra vista fuggivano terrorizzate
Bene a questo punto dopo aver fatto qualche prova in casa, si partiva in bici per il Parco: saccoccia a tracolla con dentro i coni già preparati, un spighlutèin di fogliettini di riserva, pronti per farne altri, che sporgeva dalla tasta dietro delle braghine o in cintura.
L’entusiasmo era al massimo livello, ci si sentiva invincibili e a pariiva che al mòond al fuss da cumprèer.
Arrivavi con eccitazione dagli amici e subito confrontavi la tua nuova arma con quella degli altri. Avere un giudizio positivo sul tuo operato e sulle canne era cosa di grande grande soddisfazione.
Il vero pericolo a questo punto erano gli aduli: genitori, vigili e il guardiano del Parco. Se si eccedeva e si veniva beccati scattava immediatamente il sequestro e distruzione delle canne.
**=M=**

Testimonianze di vita


Tiziano Pace Depietri (Carpi) ricorda che di stuffioni ne ha fatti e tirati a migliaia: normali, cun i gucìin e cun la puunta rinforsèeda (bagnèeda e ardupièeda). Si tirava a tutto … al luṡèertli, ai uṡlèin, al raani, a la fruuta, ma anche contro degli appositi bersagli tipo tiro a segno,
Era un passatempo tròop bèel e un gioco che assomigliava alla caccia o azioni di guerra viste al cinema.
Si facevano le prove con gli stuffioni di nuovi modelli con sperimentali ritrovati balistici per farli andare più forte e aumentarne la precisione. Si cerca di dar loro un certo peso in punta. Si provavano canne di diversa lunghezza, diametro e materiale per ottenere i lanci sempre più lontani e precisi. Mò maama mìa … quàant supiòot!
Il tubo era di ogni genere che capitasse sottomano, ma atto alla bisogna. Si usavano anche tre canne che potevano essere tagliate pari o di lunghezze differenti. Per fermare il tutto si usavano anche dei pezzi di camera d’aria da bici, oppure i ligaìin. In mezzo si ponevano dei pezzi di sughero per arrivare allo spessore necessario. Le canne potevano essere messe una sopra l’altra, di fianco o triangolo. Ci si portava dietro un scatlòot indù te tgniiv dèinter gli stuffioni già pronti.
Si sparavano anche dal caganèeli néegri ch i nasiiven ind al giardèin; erano tipo dal rumlèini un pòo rugóoṡi. Si tiravano anche dal buciini èd polistiròolo, dal cicchi, dla chèerta móoia faata su a buciina, dl’uàata cun i gucìin … insòmma un pòo de tutt ...
Quàant ricòord! E quàanti sighèedi!
E aanch un quèelch diṡaaster …

Marco Giovanardi (Carpi) racconta che qualche suo amico si era costruito anche la tripla canna, un’arma … a ripetizione. Tre tubi da stufiòun distanziate da suvver da butigglia e lighèedi cun i ligaìin (elastici). Si faceva un “pacco” a sezione triangolare. Se poi si andava a scuola negli anni ’50 alle Fanti, si poteva facilmente essere protagonisti di dure battaglie in dal piasèel dal ṡòogh dal balòun (Re Astolfo). C’era poi anche al Misster Stufiòun … il Maestro Stuffione, che era un insegnante elementare delle scuole Fanti, forse di nome Gualdi o Tosi, forse proveniente da Stuffione, una piccola località della Bassa modenese.
Le canne migliori si cercavamo in ferramenta, tubino in alluminio che ... a sfurdighèer èl cun di strasulèin all'interno .... lo si portavamo quasi a uno stato speculare ... alóora sè che l'èerma l’éera perfèeta! Èeter che caani èd bambù!!
La preparazione dello stuffione richiedeva tecnica ed esperienza. Si usavano delle strisce ricavate da paagini èd quadèeren, 16 x 21 cm.
Lui e i suoi amici assomigliavano molto a quelli che oggi vengono denominati sniper, cioè cecchini micidiali.
Snipers in azione

Pèr a n diir di stufiòun con i "pizzini". A scóola a s mandèeva i biglietèin cun al solusiòun di probléema ... usando gli stuffioni! È curioso ricordare che nel momento del soffio, per coprire il rumore, il compagno di banco emetteva un colpo di tosse ben sincronizzato.


Renato Cucconi (Carpi): “C’era una tecnica ben precisa per preparare gli stuffioni. Per primo si tagliavano dei rettangoli di carta generalmente dai quaderni di scuola vecchi, di una grandezza tale che, avvolgendoli con la necessaria perizia, si otteneva un cono, lo s'infilava nella cerbottana e si rifilava tagliando con le mani l'eccedenza che restava fuori, poi si bagnava con la saliva lo stuffione, perché si incollasse, quindi lo si infilava nella cerbottana. A questo punto si cercava di prendere la mira, si faceva un respiro profondo e si soffiava il più forte possibile cercando di colpire l'obiettivo posto a una decina di metri di distanza. C'era chi metteva nella punta del cono spillini, chiodi, ecc … non c’era limite alla fantasia, alla sperimentazione e all’inventiva. Tutto ciò era una delizia per i netturbini comunali che dovevano pulire le strade e i portici del centro dalle carte e dagli stuffioni. che come si può comprendere imbrattavano strade e luoghi pubblici. L’operazione di pulizia diventava più difficile, specialmente se poi pioveva, perché la carta si attaccava al suolo e le strade cittadine a quei tempi non erano asfaltate, ma lastricate con uno sconnesso ciottolato fluviale. "


Primo Saltini (Limidi e Carpi) racconta: “Anche noi usavamo tutti i sistemi fin qui descritti.
A Limidi non si diceva, né si usava al stufiòun, ma il gioco lo chiamavamo cerbotaana, senza la doppia t. Per farla io usavo la caana d inndia secca o fatta essiccare appositamente. Per quelle a diametro piccolo era più facile trovare i proiettili giusti. Io usavo i graan dla rudèa sècca, mò dòop 'na quèelch strupasèeda, - A n s póol mìa strasinèer la ròoba da magnèer!! -, ho dovuto ripiegare su altri proiettili, meno pregiati. Così usavo i chèegapùi o un'altra bacca color uva che abbondava nelle siepi, oppure anche la semente di certi fiori, che credo fossero “belle di notte". In mancanza di bacche però andava bene tutto: ci arrangiavamo anche a fare le palline piccole cun al puccio. Si usava terra bagnata fatta a sferine, che venivano poi lasciate seccare al sole.
Potendo avere un quèelch marlètt a dispuṡisiòun, si personalizzava la cerbotaana: con due canne era una doppietta da caccia, cun duu marlètt … un mitra, ecc …
A s calèeva la liira! a s rangèeven cum a se psiiva!
N.B. Con la caana d inndia facevamo anche i s-ciflèin e i sibióo (i fischietti e gli zufoli).

Guido Magnani (Carpi): Di solito usavamo dei tubi passafilo da elettricista. Si potevano fare anche con quattro tubi uniti da tappi a loro volta fasciati ben bene da nastro adesivo. Gli stuffioni di riserva li portavamo infilati fra i capelli. I più grandi di me riuscivano a fare anche stuffioni con in punta degli spilli, ma erano molto pericolosi e di solito venivano usati per tirarli contro superfici di legno.
I lunghi coni di carta dovevano essere ben inumiditi in punta per evitare che, una volta introdotti nella canna, si allargassero inceppando di conseguenza la 'bocca da fuoco'. Era importantissimo saper soffiare con la dovuta potenza per ottenere una gittata molto lunga.


Vanni Gasparini (Carpi) ricorda che per le canne di lancio doveva accontentarsi davvero di poco. Per lanciare i piselli (la rudèa sècca) usava al stanghètti che erano dei tubini che si posizionavano all'interno delle gabbie dei canarini. Queste stanghette erano cave all'interno e si potevano acquistare in una bottega di forniture per animali domestici in Corso Roma.

Renato Corsi (attore dialettale carpigiano):
All’apparenza il gioco degli stuffioni poteva essere semplice e innocuo, ma, con malizia e fantasia di noi ragazzi, poteva diventare anche pericoloso.
L’occorrente era una cerbottana ricavata da un pezzo di tubo in ottone di lunghezza variabile che trovavamo da un fabbro.
Servivano poi fogli di quaderno, non importa se a righe o a quadretti e se scritti o meno. Le pagine tagliate in tre parti servivano per fare gli stuffioni. Si avvolgeva la striscia nel dito indice e poi si tirava per avere la forma a cono. Dopo un po’ di allenamento, l’operazione veniva naturale e veloce.
In certe stagioni ho consumato più quaderni così che a fare i compiti
Anche noi “inventammo” lo stuffione armato di gucìin.
Durante la stagione calda, alla domenica pomeriggio andavamo nel vialone della Stazione, luogo che negli anni ’50 era quello scelto dalle ragazzine per la passeggiate.
Con le nostre armi nascoste, aspettavamo che passassero e con le cerbottane le colpivano nel sedere. Punte dallo spillino facevano certe urla e ci investivano di male parole.
Se i ragazzi d’oggi facessero una cosa del genere sarebbe arrestati e incriminato per tentato omicidio e le ragazze subito ricoverate al Pronto Soccorso per l’antitetanica.
**=M=**




**=M=**


Altre avventure balistiche

A metà degli anni ’60 frequentavo le medie e al pomeriggio coi primi caldi eravamo già al Parco con le nostre biciclette a presidiare la zona e girovagare; le palline erano già state abbandonate a generazioni più giovani. Si cominciava a cercare emozioni diverse.
E qualcuno aveva già lanciato a la muccia il suo ex prezioso patrimonio di palline in mezzo ai ragazzini più giovani, intenti al gioco dal vèedri.
Un momento di passaggio fra fanciullezza e “matura” adolescenza.

Come sempre succedeva, un pomeriggio arrivò un precursore; un ragazzino che prendendoci tutti di mira ci colpiva inaspettatamente con dei piselli secchi.    Sorprendente!
L’oggetto della meraviglia era una pistolettina di plastica con un congegno a molla che, innescata dal grilletto, mentre sparava la sferetta, ricaricava per il tiro successivo. Fantastica!! DOVEVA ESSERE MIA a ogni costo!
La vendeva Medoro, il famoso giocattolaio di Corso Cabassi, al prezzo più che ragionevole di 300 lire.

Dopo essere corso a casa a racimolare qualche risparmio nel cassetto della scrivania, l’acquisto fu immediato e di piena soddisfazione.
La pistola non era altro che un’antenata delle attuali e molto diffuse armi soft-air, con la differenza che invece di sparare i pallini gialli di plastica da 6 mm, usava piselli secchi (graan èd rudea) che venivano immessi (una trentina) nel corpo centrale dell’arma che fungeva da serbatoio.

  

Piselli secchi e freschi a confronto con i moderni pallini in plastica da soft-air

Un bio - munizionamento che, nell’era ormai del benessere diffuso, aveva un prezzo contenutissimo: poche decine di lire all’etto.
Ci si approvvigionava da un venditore di sementi in Via Cesare Battisti, esattamente dove oggi sta la Lella Tirelli con la sua splendida casa.
Si entrava nel portone, poi sulla destra c’era questa botteghina con la merce esposta anche nell’androne; un signore anziano ci serviva.
Dopo un po’, vista la frequenza delle visite, due o tre alla settimana, ci chiese cosa ce ne facessimo di questa roba. Io risposi tranquillamente: “Ci serve per l’orto di casa!” e lui ci rispose: “ Bè! A sii di brèev ragàas!
Come dargli torto?
Intanto noi andavamo in giro al Parco e nelle strade di Carpi a sparacchiare impunemente al prossimo.
**=M=**
Rudèa chèelda
Piselli secchi … roventi

di Davide Cattini con la consulenza di Claudio Volponi

Negli anni '70 in giugno alla fine della scuola e fino alla sua ripresa autunnale ... le bande si ricomponevano e dalla periferica Quartirolo scendevamo per procurarci l’armamentario al negozio di animali (dove c'erano magnifici pappagalli parlanti) che si trovava in via Aldrovandi proprio dietro al Bar Belgio - oggi ristorante Carducci di Moreno. Pagando poche centinaia di lire ognuno di noi usciva con la canna di plastica dura e un sacchettone pieno di secchi. La canna altro non erano che trenta-quaranta centimetri di quei sottili cilindri di plastica, rigati sulla superficie esterna, in uso come aste nelle gabbie per canarini. Erano di colori beige - nocciola tortora o grigio - celesti.
Con i piselli ci riempivamo la bocca, non per mangiarli, ma per lanciarli soffiandoli dentro la canna. Ci si riempiva la bocca di sferette e poi le si soffiava a colpo singolo o a raffica. Il colpo singolo serviva per colpire lontano o far male da vicino, quello a raffica faceva malino solo da vicino. Da lontano, disturbava molto se indirizzato alle parli scoperte del corpo: braccia, mani, gambe.
Altro strumento indispensabile era il chiodone, con cui sturavamo la canna se un pisello grosso la intasava.
I più raffinati avevano anche - io “ce l’avevo” - un mirino di plastica fatto ora con una molletta per appendere i panni oppure con un vero e proprio mirino staccato da un fucile o pistola di plastica; tutto ciò rendeva i tiri infallibili. Per circa due settimane di fila ci ritrovavamo o davanti alla vecchia coop di quartiere, in via Meloni o al campicello, oggi del tutto stramaledettamente edificato, tra le vie Gioberti, Graziosi, Meloni e Tiraboschi.
 Bene armati cominciavamo a girate in minacciosi gruppetti ... colpo in canna.
Ora a quei tempi, tutti erano a lavorare in fabbrica o in casa, automobili ne passavano due - tre in una mezza giornata, c’era in giro qualche pensionato in motorino con le canne da pesca - tra cui l’indimenticato vèec’ Vulpòun (il vecchio Volponi) - e 'na quèelch reṡdóora che andava a fare spesa sòtt sìira. Poi c’eravamo noi, i ras del quartiere e le altre bande.
Se c’incontravamo era battaglia all’ultimo colpo. Non c’erano regole, se non che non ci si tirava mai in faccia e sempre a gambe e braccia, dove la sferetta vegetale, impattando, faceva malissimo. Alla fine, visto che ci colpivamo ripetutamente a vicenda senza esclusione di colpi, si ritirava per primo chi era stanco di soffrire. Gli esiti effettivi della battaglia erano sempre incerti: dipendeva se gli altri a mira erano in giornata o invece eravamo noi a cogliere più spesso nel segno. I tiri fortunati, da una parte o dall’altra, erano comunque accompagnati dai boati di esultanza dei compagni e dalle esclamazione di ammirazione degli avversari, tranne il malcapitato colpito che per il dolore e l’umiliazione spesso si alterava e cercava subito vendetta.
Se non si incontravano avversari, si girovagava tirando dentro le finestre aperte: le nonne aspettavano sempre qualche colpo per farsi vedere e scacciarci o si tirava a bambini isolati, vigliaccamente, da distanza ravvicinata, nel di dietro o mancandoli apposta per dileggio. Tiravamo ai piedi per farli saltellare, come si vedeva fare a Giuliano Gemma nei western.
Ma a parte questi “vandalismi” ed altri che è meglio tacere a danno di inermi, il maggior divertimento erano gli scontri regolati tra di noi o sregolati con le altre bande.
O si costruiva coi cartoni depositati dietro la coop due muri distanti pochi metri e ci si tirava da dietro al meglio dei tre (cioè vinceva chi colpiva l’altro tre volte) e poi si ricominciava, modificando i muri scambiandoceli, cambiando le squadre e così via.
O si aprivano due finestrelle in due cartoni - detti i carriarmati - da cui fare uscire le canne e cercare ci colpire l’avversario quando apriva la finestrella per tirare. Oppure ci si dava reciprocamente la caccia intorno alle nostre abitazioni e chi veniva colpito per primo perdeva Ricordo vivamente due battaglie in particolare.
La prima si svolse, quasi sotto gli occhi di mia madri* che lì andava in fabbrica, in via Fratelli Rosselli, presso l’abitazione del Dottor Benassi, dove io, Claudio De Minico e Claudio Volponi, trovammo, chiusa in cortile e impreparata al nostro arrivo, la banda di quella strada. Stando in piedi sulla recinzione li colpimmo tutti ripetutamente e, dopo averli “riempiti” di piselli”, ce ne andammo (su “invito” di mia madre che attirata dal baccano si era affacciata, ahimè, riconoscendomi di lontano) assolutamente incolumi, senza nemmeno aver ricevuto un colpo. E quando sulla via del ritorno - a piedi - ci inseguirono sulle biciclette, montate a coppie, e tentarono di colpirci alle spalle. Ma un attimo prima che cominciassero a bersagliarci, ci volgemmo all’improvviso e a raffiche, perché eravamo sati bene in guardia e li avevamo visti arrivare, preparandoci bene a modo. La nostra difesa fu così violenta che si convinsero a desistere e a considerare la loro umiliante sconfitta come definitiva.
La seconda battaglia fu piuttosto un duello tra me e i due fratelli De Falco, che stavano al primo piano della palazzina che guardava sul mio cortile. Un pomeriggio, alla muta, senza nemmeno esserci parlati, loro si nascosero dietro le serrande abbassate ed io mi acquattai col basculante semichiuso nel mio garage. Iniziò un duello tutto basato su tiri di precisione. Mi ricordo bene questa avventura perché con una serie di tiri spietati li convinsi a desistere e a chiudere la serranda. Rimasi solo io sul campo, nel mio garage, … vincitore, compiaciuto e ammirato per precisione della mia mira.
**=M=**








Balistica scolastica
Un’altra specialità di tiro era quella con la cannuccia della biro Bic; un oggetto che sembrava fosse stato creato apposta per tale uso.
Si toglieva il refill e il tappino in fondo, si tappava con un dito il forellino laterale praticato dalla ditta per arieggiare l’inchiostro e l’arma era pronta a essere usata in classe alle scuole medie e in prima e seconda liceo. Oltre, arrivati in terza, l’interesse decadeva e si praticavano altri giochi più maturi e responsabili, come l’incendio del cestino pieno di carta, lo smontaggio della lavagna o di parti dell’aula di scienze, l’uso di fialette puzzolenti in aula, ecc …
La classica Biro Bic

Il proiettili che si usavamo con la cannuccia erano particolarmente schifosi, si strappava un pezzettino di carta da un quaderno, lo si metteva in bocca (a s biasèeva la chèerta bèin a móod) poi, con un abile lavoro di lingua denti e saliva, si otteneva una micro pallina adatta al diametro della cannuccia. Un soffio deciso faceva partire il proiettile.

Cannuccia Bic: tolto il refill, bisognava tirare via il tappino coi denti

Nel silenzio di un compito in classe, durante una spiegazione del professore quando era di spalle in quanto alla lavagna o durante il cambio d’insegnante fra un ora e un'altra, partivano nutrite salve di palline, con battaglie interminabili fra le file di banchi di destra e di sinistra (la politica non c’entrava però).
Il bersaglio preferito erano il coppetto o la guancia di un compagno seduto dall’altra parte dell’aula.
I più bravi avevano una decina di palline in bocca e facevano partire delle smitragliate che non lasciavano scampo. Spiifff … spiifff … spiifff!! La reazione era immediata, la rappresaglia furibonda. Il tutto però nel più completo silenzio dei contendenti.
Infatti era una questione solo tra maschi, anche perché al liceo (classi finalmente miste) si aveva cura, almeno nel corso delle lezioni, di non colpire le ragazze. Ciò però non certo per una questione di rispetto e cavalleria, ma per evitare che si mettessero a urlare, provocando i duri interventi di repressione degli insegnanti.

**
In prima liceo il maestro di noi tutti era Claudio Marchi Baraldi di Rovereto, che poi sarebbe diventato un eccellente ingegnere e insegnante.
Era molto abile e fantasioso nel tiro, ma era molto temuto anche per il raccapricciante materiale delle sue palline; dovete sapere che in casa sua gli avevano assegnato un paio di scarpe un po’ lunghe della misura dei suoi piedi e in punta erano state tamponate con dell’ovatta.
Ebbene lui si divertiva a estrarre piccole e delicate parti di questa sostanza contaminata, a soffiarla per aria da sotto a mo’ di leggere nuvolette per poi recuperarla e a spararcela addosso con la cannuccia.
Davvero terribile! Ma siamo sopravvissuti anche a questo.
**

Righello in plastica per lanci balistici scolastici

Infine ricordo che altri lanci in classe si facevano, usufruendo dei vari attrezzi elastici a disposizione di noi studenti, quali righelli, segnalibri in plastica, squadre, ecc ...
Si congegnavano arditi lanci parabolici di palline di carta abbondantemente umettate di saliva. Per chi riceveva il grazioso e malefico dono erano momenti terribili.

**=M=**




Tutto si evolve: ecco la cerbottana di Shirab (Sinbad, Shinbaddo) originale prodotta in Italia nel 1981 dalla New Gio.Co.
Con dardi morbidi a ventosa e lunga circa 40,5 cm.

Nessun commento:

Posta un commento

grazie