Canne
e
stufiòun
cerbottane
di Mauro D’Orazi
1970 ca - Giovane banda armata di canne e stuffioni
Stesura iniziale 20-03-2013 V 35 del 19-04-2013
Norme di trascrizione e aiuto alla lettura del dialetto
Graziano Malagoli autore, assieme a
Anna Maria Ori, del “Dizionario del dialetto carpigiano - 2011, ha curato il coordinamento complessivo
del testo, la grafia delle frasi e delle parole in dialetto secondo le Norme di
trascrizione, finalmente codificate, per la stesura del dizionario stesso.
Graziano Malagoli, Anna Maria Ori,
Giliola Pivetti e Luisa Pivetti hanno contributo alla revisione del testo e
della sintassi.
Le Norme di trascrizione
adottate sono quelle di pag. XXII del “Dizionario del dialetto carpigiano - 2011” di cui, qui di seguito, si riporta il testo integrale.
“Il vocabolario adotta una trascrizione delle voci e della
fraseologia modellata sulla grafia italiana, seguendo una tradizione
lessicografica che ha quasi sempre impiegato adattamenti a tale grafia. In
particolare, si segue il sistema di trascrizione semplificato messo a punto
dalla Rivista italiana di dialettologia. Lingue dialetti società.
Le vocali i, a, u sono rese come in italiano, mentre
la pronuncia aperta di e, o è indicata con un accento grave, la
pronuncia chiusa con uno acuto; il fenomeno della lunghezza vocalica è
particolarmente marcato nel carpigiano e per indicarla si è scelto di ripetere
la vocale, sprovvista di accento, onde evitare l’accumulo di segni diacritici
sovrapposti, come – nella tradizione – il circonflesso o il trattino: bièeva,
butéer, fagòot, arióoṡ (e così per i, a, u: sintìir,
cavàal, futùu). Le vocali è, é, ò, ó sono distinte solo
sotto accento, mentre in posizione atona sono segnate e, o.
L’accentazione si indica con l’accento grave, salvo i casi
citati di é, ó (dove tale accento denota anche la chiusura della
vocale), quindi ì, ù, à: ad es. scarnìcc’, fisù, bacalà.
Di norma, per semplicità, non si accentano le parole piane
(ad es. bussta), ma soltanto quelle che hanno l’accento sull’ultima (arvùcc’)
e sulla terzultima sillaba (ṡàberia); allo stesso modo, di norma
(escluse alcune forme verbali come dà, fà, dì) non si accentano le
parole monosillabiche (csa, al), a meno che contengano é, ò
accentati per indicare la qualità aperta o chiusa (mé, èl, bòll).
Per indicare sempre con sicurezza le semivocali, senza
complicare la grafia con segni estranei al sistema italiano (ad es. usando j),
si avverte che, nella parola, i, u a contatto con vocale hanno valore di
semivocali, in caso contrario recano l’accento (mìa, tùa).
Sono rese come in italiano le consonanti p, b, t, d, m,
n, r, l, v, f. Per le palatali e le velari si adottano le norme grafiche
italiane. Le affricate palatali sono indicate con c, g davanti a e, i:
ad es. ducèer, bòocia; con ci, gi davanti ad a, o, u:
ad es. ciàapa, baciòoch, paciùugh, gianèin, giocaatol,
argiulìi; con c’, g’ davanti a consonante e in fine di parola: ad
es. òoc’, curàag’. Le occlusive velari vengono indicate con c,
g davanti ad a, o, u: ad es. catèer, còpp, cun, galupèer,
góob, guàast, (tuttavia – questa volta in ossequio alla tradizione
– si è usato il segno q per aaqua, daquèer e simili); con ch,
gh davanti ad e, i, di norma davanti a consonante e in fine di
parola: ad es. bachètta, bèech, béegh, sanghnèer, stanghèer,
lèegh, liigh, brighèer. Per quanto riguarda le sibilanti
dentali, come è noto l’italiano non distingue graficamente tra sorda e sonora:
seguendo l’esempio di alcuni vocabolari
nazionali, indichiamo con s la sorda e con ṡ
la sonora: ad es. baṡèer.
La laterale palatale è resa con gli davanti ad e, a, o,
u: ad es. striglièer, butigglia, manigliòun; con gl
davanti ad i e in fine di parola: ad es. ègl’idèi. Quanto alle
nasali, abbiamo – oltre a m, n – la palatale gn, tutte rese come
in italiano, anche in finale di parola: ad es. fuggna, paagn, staagn.
Le consonanti intense vengono indicate, come in italiano,
mediante il raddoppiamento della consonante semplice: ad es. bagaiètt, aluminni;
in caso di digrammi, come in un paio di esempi già visti (butigglia, fuggna),
viene raddoppiata soltanto la prima lettera.
Infine, quando un nesso grafico non rappresenta un unico
suono, ma la successione dei suoni indicati dalle singole lettere, esso viene
sciolto con l’inserzione di un trattino: ad es. s-ciòop, s-ciafòun,
s-ciflèer.”
Tabella per facilitare
la lettura
a a
come in italiano vacca
aa pronuncia
allungata laat,
scaat, caana
è e aperta (come in dieci) martedè,
sèccia, scarèssa, panètt, panèin
èe e
aperta e prolungata andèer,
regolèeda, martlèeda, taièe
é e
chiusa (come in regno) méi,
mé
ée e
chiusa e prolungata véeder,
créedit, pée
i i come in italiano bissa,
dì
ii i
prolungata viiv,
vriir, scalmiires, dii
ò o
aperta (come in buono) pòss,
bòll, brònnṡa, pistòun, dimònndi
òo o
aperta e prolungata scartòos,
scatlòot, malòoch, tròop
ó o
chiusa (come in noce) tó,
só, indó
óo o
chiusa e prolungata vóolpa,
casadóor, móoi, óov, ṡóogh
u u
come in italiano parucca,
bussla, dubbi, currer, fiùmm
uu u
prolungata bvuuda,
vluu, tgnuu, autuun, duu
c’ c
dolce (come in ciao) vèec’
, òoc’
cc’ c
dolce e intensa (come in faccia) cucc’,
scarnìcc’, cutècc’, palpùcc’
ch c
dura (come in chiodo) ṡbòcch,
spaach, stècch
g’ g
dolce (come in gelo) curàag’,
alòog’, coléeg’
gg’ g
dolce e intensa (come in oggi) puntègg’,
gurghègg’
gh g
dura (come in ghiro) ṡbrèegh,
siigh
s s
sorda (come in suono) sèmmper,
sòol, siira
ṡ s
sonora (come in rosa) atéeṡ,
traṡandèe, ṡliṡìi
s-c s sorda seguita da c dolce s-ciafòun,
s-ciòop, s-ciùmma, s-ciòoch
Canne e stufiòun
di Mauro D’Orazi
Dopo aver scritto sulla sfrummbla non potevo che
dedicare la mia attenzione al secondo gioco balistico per eccellenza della nostra
gioventù.
Parlo dello stuffione (o stufione), in dialetto stufiòun,
che veniva tirato da una canna, un cerbottana (in dialetto sarabutaana), che è
meglio precisare non è un prostituta sicula.
Si usava una canna vuota all’interno della lunghezza
fra i 40 e 60 cm dal diametro circa di un cm, di solito in plastica,
rubato in un qualche cantiere di case in costruzione di colore rigorosamente
grigio e necessario per contenere i fili dell’impianto elettrico, oppure in
tempi ancora più indietro tubi in ottone o allumino, ad esempio gambi di
lampadari non più funzionanti.
La potenza del mezzo
era ed è direttamente rapportata alla sua lunghezza e al suo diametro: più
lunga è la canna e più piccolo è il suo diametro, maggiore sarà la sua gittata
utile.
Tecniche per fare uno stuffione
Il proiettile era fatto arrotolando una strisciolina
di pagine strappate da quaderni usati di scuola. Si divideva la pagina per tre
sul lato lungo. Si tirava da una parte fino a ottenere un cono lunghissimo a
punta, poi si fissavano e incollavano con la saliva (mò che schiiva!)
facendone ruotare in bocca la punta. Il cono, chiamato stufiòun, veniva poi
accorciato con le dita per togliere la parte in fondo troppo larga per
adattarla al diametro della canna. Lo stuffione doveva entrare con un leggero
sforzo per poter tenere adeguatamente la pressione del fiato che veniva spinto
a più non posso dai nostri piccoli polmoni di ragazzini in caccia di bande
avversarie e o di bambine indifese.
Dopo aver messo il proiettile nella canna, la si
accostava alla bocca e poi con tutto il fiato possibile si soffiava, dopo aver
preso la mira; una corretta mira poteva essere garantita dall’empirica applicazione
di un
marlètt da bughèeda. Stufffffff … era il suono tipo all’uscita dalla cerbottana, tanto da farmi
ipotizzare che il nome sia proprio di derivazione onomatopeica.
Un marletto
Lo scrittore carpigiano Carlo Alberto Parmeggiani si
pone questo interrogativo: “Sarebbe curioso sapere se
la parola stufiòun fosse già in uso nel nostro dialetto prima della
guerra, dato che oltre che derivare da soffione, potrebbe pure essere
un’importazione inglese da "to stuff" = imbottire, ficcare, riempire
un tubo ... Arrivata da noi con lo slang dei soldati americani. Mah, chissà?...
Ma facciamo un passo indietro. Con la bella stagione
finita la scuola, eravamo tutti al Parco impegnati con la bici, i giochi con le
palline, nascondino, ecc …
Ma ecco che puntualmente, dopo pochi giorni,
arrivava uno di noi con un bellissimo lancia stuffioni e cominciava a
bersagliarci. Poi lo mostrava con orgoglio, senza nemmeno consentire di
prendere in mano il prezioso oggetto per esaminarlo.
L’abile furbacchione era stato presso un cantiere di
case in costruzione e, nel tardo pomeriggio, andati via i muratori, si era
introdotto nell’area dei lavori e aveva sottratto un paio di metri di tubo in
plastica grigio o nero per impianti elettrici.
Un po’ ne aveva poi dato a qualche amico più intimo,
ma il grosso se lo era tenuto per lui per confezionare la potente e invidiata
arma.
A quel punto iniziava per noi una febbrile ricerca
di materiali per arrivare ad avere la preziosa arma; non si poteva stare da
meno … il piccolo furto dei vari componenti era ammesso e fatto oggetto di
imprese da vantare con orgoglio.
Canne, tubi, elastici, sugheri da bottiglia (meglio
se nuovi), elasticoni verdi o marroni, di quelli larghi e piatti che sembrano …
tagliatelle, del nastro adesivo da elettricista, marletti e vecchi quaderni da scuola.
I più fortunati avevano un padre, un nonno o uno zio
che dava loro una mano.
La struttura minima era la doppia canna, per avere
un secondo colpo a pronta disposizione. Si tagliavano le canne in misura, si ponevano
circa dieci centimetri l’una dell’altra, tale distanza si spessorava o con
sugheri che si adoperavano per le bottiglie di pomodori fatte in casa o con
marletti di legno, poi di plastica.
Canna doppi, foglietti e stuffioni pronti per il
tiro
Si univa il manufatto con potenti elastici o con
numerosi giri di nastro da elettricista. Altre mollette potevano fare da
mirini, assolutamente inutili, ma di grande effetto visivo. I coni di carta venivano sapientemente preparati con
anticipo e a decine per essere poi già pronti per essere sparati a raffica;
così i quaderni di scuola di assottigliavano.
Naturalmente c’erano genietti fantasiosi e capaci
che costruivano attrezzi anche a tre o quattro canne, sempre con gli stessi
principi.
I più smaliziati preparavano anche la variante di stufiòun
cun al gucìin; con non poca abilità si inseriva nella cavità uno
spillino. Il proiettile, così armato, se veniva lanciato contro un albero, vi
restava trionfalmente conficcato. Ma spesso i bersagli erano i componenti delle
bande ostili o il culetto delle ragazzine, che alla nostra vista fuggivano
terrorizzate
Bene a questo punto dopo aver fatto qualche prova in casa, si partiva in bici per il Parco: saccoccia a tracolla con dentro i coni già preparati, un spighlutèin di fogliettini di riserva, pronti per farne altri, che sporgeva dalla tasta dietro delle braghine o in cintura.
Bene a questo punto dopo aver fatto qualche prova in casa, si partiva in bici per il Parco: saccoccia a tracolla con dentro i coni già preparati, un spighlutèin di fogliettini di riserva, pronti per farne altri, che sporgeva dalla tasta dietro delle braghine o in cintura.
L’entusiasmo era al massimo livello, ci si sentiva
invincibili e a pariiva che al mòond al fuss da cumprèer.
Arrivavi con eccitazione dagli amici e subito confrontavi
la tua nuova arma con quella degli altri. Avere un giudizio positivo sul tuo
operato e sulle canne era cosa di grande grande soddisfazione.
Il vero pericolo a questo punto erano gli aduli:
genitori, vigili e il guardiano del Parco. Se si eccedeva e si veniva beccati
scattava immediatamente il sequestro e distruzione delle canne.
**=M=**
Testimonianze di vita
Tiziano
Pace Depietri (Carpi) ricorda che
di stuffioni ne ha fatti e tirati a migliaia: normali, cun i gucìin e cun la puunta
rinforsèeda (bagnèeda e ardupièeda). Si tirava a tutto … al luṡèertli,
ai uṡlèin, al raani, a la fruuta, ma anche contro degli appositi
bersagli tipo tiro a segno,
Era un passatempo tròop bèel e un gioco che
assomigliava alla caccia o azioni di guerra viste al cinema.
Si facevano le prove con gli stuffioni di nuovi
modelli con sperimentali ritrovati balistici per farli andare più forte e
aumentarne la precisione. Si cerca di dar loro un certo peso in punta. Si
provavano canne di diversa lunghezza, diametro e materiale per ottenere i lanci
sempre più lontani e precisi. Mò maama mìa … quàant supiòot!
Il tubo era di ogni genere che capitasse sottomano,
ma atto alla bisogna. Si usavano anche tre canne che potevano essere tagliate
pari o di lunghezze differenti. Per fermare il tutto si usavano anche dei pezzi
di camera d’aria da bici, oppure i ligaìin. In mezzo si ponevano dei
pezzi di sughero per arrivare allo spessore necessario. Le canne potevano
essere messe una sopra l’altra, di fianco o triangolo. Ci si portava dietro un
scatlòot indù te tgniiv dèinter gli stuffioni già pronti.
Si sparavano anche dal caganèeli néegri ch i nasiiven
ind al giardèin; erano tipo dal rumlèini un pòo rugóoṡi. Si
tiravano anche dal buciini èd polistiròolo, dal cicchi, dla chèerta móoia faata
su a buciina, dl’uàata cun i gucìin … insòmma un pòo de tutt ...
Quàant ricòord! E quàanti sighèedi!
E aanch un quèelch diṡaaster …
Marco
Giovanardi (Carpi) racconta che
qualche suo amico si era costruito anche la tripla canna, un’arma … a
ripetizione. Tre tubi da stufiòun distanziate da suvver
da butigglia e lighèedi cun i ligaìin (elastici). Si faceva un “pacco”
a sezione triangolare. Se poi si andava a scuola negli anni ’50 alle Fanti, si
poteva facilmente essere protagonisti di dure battaglie in dal piasèel
dal ṡòogh dal balòun (Re Astolfo). C’era poi anche al Misster
Stufiòun … il Maestro Stuffione, che era un insegnante elementare delle
scuole Fanti, forse di nome Gualdi o Tosi, forse proveniente da Stuffione, una
piccola località della Bassa modenese.
Le canne migliori si cercavamo in ferramenta, tubino
in alluminio che ... a sfurdighèer èl cun di strasulèin
all'interno .... lo si portavamo quasi a uno stato speculare ... alóora
sè che l'èerma l’éera perfèeta! Èeter che caani èd bambù!!
La preparazione dello stuffione richiedeva tecnica
ed esperienza. Si usavano delle strisce ricavate da paagini èd quadèeren,
16 x 21 cm.
Lui e i suoi amici assomigliavano molto a quelli che
oggi vengono denominati sniper, cioè
cecchini micidiali.
Snipers in azione
Pèr a n diir di stufiòun con i "pizzini". A scóola a s mandèeva i biglietèin
cun al solusiòun di probléema ... usando gli stuffioni! È curioso
ricordare che nel momento del soffio, per coprire il rumore, il compagno di
banco emetteva un colpo di tosse ben sincronizzato.
Renato
Cucconi (Carpi): “C’era una tecnica
ben precisa per preparare gli stuffioni. Per primo si tagliavano dei rettangoli
di carta generalmente dai quaderni di scuola vecchi, di una grandezza tale che,
avvolgendoli con la necessaria perizia, si otteneva un cono, lo s'infilava
nella cerbottana e si rifilava tagliando con le mani l'eccedenza che restava
fuori, poi si bagnava con la saliva lo stuffione, perché si incollasse, quindi
lo si infilava nella cerbottana. A questo punto si cercava di prendere la mira,
si faceva un respiro profondo e si soffiava il più forte possibile cercando di
colpire l'obiettivo posto a una decina di metri di distanza. C'era chi metteva
nella punta del cono spillini, chiodi, ecc … non c’era limite alla fantasia,
alla sperimentazione e all’inventiva. Tutto ciò era una delizia per i
netturbini comunali che dovevano pulire le strade e i portici del centro dalle
carte e dagli stuffioni. che come si può comprendere imbrattavano strade e
luoghi pubblici. L’operazione di pulizia diventava più difficile, specialmente
se poi pioveva, perché la carta si attaccava al suolo e le strade cittadine a
quei tempi non erano asfaltate, ma lastricate con uno sconnesso ciottolato
fluviale. "
Primo
Saltini (Limidi e Carpi) racconta:
“Anche noi usavamo tutti i sistemi fin qui descritti.
A Limidi non si diceva, né si usava al stufiòun,
ma il gioco lo chiamavamo cerbotaana, senza la doppia t. Per
farla io usavo la caana d inndia secca o fatta essiccare appositamente. Per quelle
a diametro piccolo era più facile trovare i proiettili giusti. Io usavo i graan
dla rudèa sècca, mò dòop 'na quèelch strupasèeda,
- A
n s póol mìa strasinèer la ròoba da magnèer!! -, ho dovuto ripiegare su
altri proiettili, meno pregiati. Così usavo i chèegapùi o un'altra
bacca color uva che abbondava nelle siepi, oppure anche la semente di certi
fiori, che credo fossero “belle di notte". In mancanza di bacche però andava
bene tutto: ci arrangiavamo anche a fare le palline piccole cun
al puccio. Si usava terra bagnata fatta a sferine, che venivano poi
lasciate seccare al sole.
Potendo avere un quèelch marlètt a dispuṡisiòun,
si personalizzava la cerbotaana: con due canne era una
doppietta da caccia, cun duu marlètt … un mitra, ecc …
A s calèeva la liira! a s rangèeven cum a se psiiva!
N.B. Con la caana d inndia facevamo anche i s-ciflèin
e i sibióo (i fischietti e gli zufoli).
Guido
Magnani (Carpi): Di solito usavamo
dei tubi passafilo da elettricista. Si potevano fare anche con quattro tubi
uniti da tappi a loro volta fasciati ben bene da nastro adesivo. Gli stuffioni
di riserva li portavamo infilati fra i capelli. I più grandi di me riuscivano a
fare anche stuffioni con in punta degli spilli, ma erano molto pericolosi e di
solito venivano usati per tirarli contro superfici di legno.
I lunghi coni di carta dovevano essere ben inumiditi
in punta per evitare che, una volta introdotti nella canna, si allargassero
inceppando di conseguenza la 'bocca da fuoco'. Era importantissimo saper
soffiare con la dovuta potenza per ottenere una gittata molto lunga.
Vanni Gasparini (Carpi) ricorda che per le canne di lancio doveva accontentarsi davvero
di poco. Per lanciare i piselli (la rudèa sècca) usava al
stanghètti che erano dei tubini che si posizionavano all'interno delle
gabbie dei canarini. Queste stanghette erano cave all'interno e si potevano
acquistare in una bottega di forniture per animali domestici in Corso Roma.
Renato
Corsi (attore dialettale
carpigiano):
All’apparenza il gioco degli stuffioni poteva essere
semplice e innocuo, ma, con malizia e fantasia di noi ragazzi, poteva diventare
anche pericoloso.
L’occorrente era una cerbottana ricavata da un pezzo
di tubo in ottone di lunghezza variabile che trovavamo da un fabbro.
Servivano poi fogli di quaderno, non importa se a
righe o a quadretti e se scritti o meno. Le pagine tagliate in tre parti
servivano per fare gli stuffioni. Si avvolgeva la striscia nel dito indice e
poi si tirava per avere la forma a cono. Dopo un po’ di allenamento,
l’operazione veniva naturale e veloce.
In certe stagioni ho consumato più quaderni così che
a fare i compiti
Anche noi “inventammo” lo stuffione armato di gucìin.
Durante la stagione calda, alla domenica pomeriggio
andavamo nel vialone della Stazione, luogo che negli anni ’50 era quello scelto
dalle ragazzine per la passeggiate.
Con le nostre armi nascoste, aspettavamo che passassero
e con le cerbottane le colpivano nel sedere. Punte dallo spillino facevano
certe urla e ci investivano di male parole.
Se i ragazzi d’oggi facessero una cosa del genere
sarebbe arrestati e incriminato per tentato omicidio e le ragazze subito ricoverate
al Pronto Soccorso per l’antitetanica.
**=M=**
**=M=**
Altre avventure
balistiche
A metà degli anni ’60 frequentavo le medie e al
pomeriggio coi primi caldi eravamo già al Parco con le nostre biciclette a
presidiare la zona e girovagare; le palline erano già state abbandonate a
generazioni più giovani. Si cominciava a cercare emozioni diverse.
E qualcuno aveva già lanciato a la muccia il suo ex
prezioso patrimonio di palline in mezzo ai ragazzini più giovani, intenti al
gioco dal vèedri.
Un momento di passaggio fra fanciullezza e “matura”
adolescenza.
Come sempre succedeva, un pomeriggio arrivò un
precursore; un ragazzino che prendendoci tutti di mira ci colpiva inaspettatamente
con dei piselli secchi. Sorprendente!
L’oggetto della meraviglia era una pistolettina di
plastica con un congegno a molla che, innescata dal grilletto, mentre sparava
la sferetta, ricaricava per il tiro successivo. Fantastica!! DOVEVA ESSERE MIA
a ogni costo!
La vendeva Medoro, il famoso giocattolaio di Corso Cabassi, al prezzo più che ragionevole di 300 lire.
La vendeva Medoro, il famoso giocattolaio di Corso Cabassi, al prezzo più che ragionevole di 300 lire.
Dopo essere corso a casa a racimolare qualche
risparmio nel cassetto della scrivania, l’acquisto fu immediato e di piena
soddisfazione.
La pistola non era altro che un’antenata delle
attuali e molto diffuse armi soft-air, con la differenza che invece di sparare
i pallini gialli di plastica da 6 mm, usava piselli secchi (graan èd rudea) che
venivano immessi (una trentina) nel corpo centrale dell’arma che fungeva da
serbatoio.
Piselli secchi e freschi a confronto con i moderni
pallini in plastica da soft-air
Un bio - munizionamento che, nell’era ormai del
benessere diffuso, aveva un prezzo contenutissimo: poche decine di lire
all’etto.
Ci si approvvigionava da un venditore di sementi in
Via Cesare Battisti, esattamente dove oggi sta la Lella Tirelli con la sua
splendida casa.
Si entrava nel portone, poi sulla destra c’era
questa botteghina con la merce esposta anche nell’androne; un signore anziano ci
serviva.
Dopo un po’, vista la frequenza delle visite, due o
tre alla settimana, ci chiese cosa ce ne facessimo di questa roba. Io risposi
tranquillamente: “Ci serve per l’orto di casa!” e lui ci rispose: “ Bè! A
sii di brèev ragàas!”
Come dargli torto?
Intanto noi andavamo in giro al Parco e nelle strade
di Carpi a sparacchiare impunemente al prossimo.
**=M=**
Rudèa chèelda
Piselli secchi … roventi
di Davide Cattini con la consulenza di Claudio Volponi
Negli anni '70 in giugno alla fine della scuola e fino
alla sua ripresa autunnale ... le bande si ricomponevano e dalla periferica
Quartirolo scendevamo per procurarci l’armamentario al negozio di animali (dove
c'erano magnifici pappagalli parlanti) che si trovava in via Aldrovandi proprio
dietro al Bar Belgio - oggi ristorante Carducci di Moreno. Pagando poche
centinaia di lire ognuno di noi usciva con la canna di plastica dura e un
sacchettone pieno di secchi. La canna altro non erano che trenta-quaranta
centimetri di quei sottili cilindri di plastica, rigati sulla superficie
esterna, in uso come aste nelle gabbie per canarini. Erano di colori beige -
nocciola tortora o grigio - celesti.
Con i piselli ci riempivamo la bocca,
non per mangiarli, ma per lanciarli soffiandoli dentro la canna. Ci si riempiva
la bocca di sferette e poi le si soffiava a colpo singolo o a raffica. Il colpo
singolo serviva per colpire lontano o far male da vicino, quello a raffica
faceva malino solo da vicino. Da lontano, disturbava molto se indirizzato alle
parli scoperte del corpo: braccia, mani, gambe.
Altro strumento indispensabile era il
chiodone, con cui sturavamo la canna se un pisello grosso la intasava.
I più raffinati avevano anche - io “ce
l’avevo” - un mirino di plastica fatto ora con una molletta per appendere i
panni oppure con un vero e proprio mirino staccato da un fucile o pistola di
plastica; tutto ciò rendeva i tiri infallibili. Per circa due settimane di fila
ci ritrovavamo o davanti alla vecchia coop di quartiere, in via Meloni o al
campicello, oggi del tutto stramaledettamente edificato, tra le vie Gioberti, Graziosi,
Meloni e Tiraboschi.
Bene armati cominciavamo a girate in
minacciosi gruppetti ... colpo in canna.
Ora a quei tempi, tutti erano a
lavorare in fabbrica o in casa, automobili ne passavano due - tre in una mezza
giornata, c’era in giro qualche pensionato in motorino con le canne da pesca -
tra cui l’indimenticato vèec’ Vulpòun (il vecchio Volponi) -
e
'na quèelch reṡdóora che andava a fare spesa sòtt sìira. Poi c’eravamo
noi, i ras del quartiere e le altre bande.
Se c’incontravamo era battaglia all’ultimo
colpo. Non c’erano regole, se non che non ci si tirava mai in faccia e sempre a
gambe e braccia, dove la sferetta vegetale, impattando, faceva malissimo. Alla
fine, visto che ci colpivamo ripetutamente a vicenda senza esclusione di colpi,
si ritirava per primo chi era stanco di soffrire. Gli esiti effettivi della
battaglia erano sempre incerti: dipendeva se gli altri a mira erano in giornata
o invece eravamo noi a cogliere più spesso nel segno. I tiri fortunati, da una
parte o dall’altra, erano comunque accompagnati dai boati di esultanza dei
compagni e dalle esclamazione di ammirazione degli avversari, tranne il
malcapitato colpito che per il dolore e l’umiliazione spesso si alterava e
cercava subito vendetta.
Se non si incontravano avversari, si
girovagava tirando dentro le finestre aperte: le nonne aspettavano sempre
qualche colpo per farsi vedere e scacciarci o si tirava a bambini isolati,
vigliaccamente, da distanza ravvicinata, nel di dietro o mancandoli apposta per
dileggio. Tiravamo ai piedi per farli saltellare, come si vedeva fare a
Giuliano Gemma nei western.
Ma a parte questi “vandalismi” ed
altri che è meglio tacere a danno di inermi, il maggior divertimento erano gli
scontri regolati tra di noi o sregolati con le altre bande.
O si costruiva coi cartoni depositati
dietro la coop due muri distanti pochi metri e ci si tirava da dietro al meglio
dei tre (cioè vinceva chi colpiva l’altro tre volte) e poi si ricominciava,
modificando i muri scambiandoceli, cambiando le squadre e così via.
O si aprivano due finestrelle in due
cartoni - detti i carriarmati - da cui fare uscire le canne e cercare ci
colpire l’avversario quando apriva la finestrella per tirare. Oppure ci si dava
reciprocamente la caccia intorno alle nostre abitazioni e chi veniva colpito
per primo perdeva Ricordo vivamente due battaglie in particolare.
La prima si svolse, quasi sotto gli
occhi di mia madri* che lì andava in fabbrica, in via Fratelli Rosselli, presso
l’abitazione del Dottor Benassi, dove io, Claudio De Minico e Claudio Volponi,
trovammo, chiusa in cortile e impreparata al nostro arrivo, la banda di quella
strada. Stando in piedi sulla recinzione li colpimmo tutti ripetutamente e,
dopo averli “riempiti” di piselli”, ce ne andammo (su “invito” di mia madre che
attirata dal baccano si era affacciata, ahimè, riconoscendomi di lontano)
assolutamente incolumi, senza nemmeno aver ricevuto un colpo. E quando sulla
via del ritorno - a piedi - ci inseguirono sulle biciclette, montate a coppie,
e tentarono di colpirci alle spalle. Ma un attimo prima che cominciassero a
bersagliarci, ci volgemmo all’improvviso e a raffiche, perché eravamo sati bene
in guardia e li avevamo visti arrivare, preparandoci bene a modo. La nostra
difesa fu così violenta che si convinsero a desistere e a considerare la loro
umiliante sconfitta come definitiva.
La seconda battaglia fu piuttosto un
duello tra me e i due fratelli De Falco, che stavano al primo piano della
palazzina che guardava sul mio cortile. Un pomeriggio, alla muta, senza nemmeno
esserci parlati, loro si nascosero dietro le serrande abbassate ed io mi
acquattai col basculante semichiuso nel mio garage. Iniziò un duello tutto
basato su tiri di precisione. Mi ricordo bene questa avventura perché con una
serie di tiri spietati li convinsi a desistere e a chiudere la serranda. Rimasi
solo io sul campo, nel mio garage, … vincitore, compiaciuto e ammirato per
precisione della mia mira.
**=M=**
Balistica scolastica
Un’altra specialità di tiro era quella con la
cannuccia della biro Bic; un oggetto che sembrava fosse stato creato apposta per
tale uso.
Si toglieva il refill e il tappino in fondo, si
tappava con un dito il forellino laterale praticato dalla ditta per arieggiare
l’inchiostro e l’arma era pronta a essere usata in classe alle scuole medie e
in prima e seconda liceo. Oltre, arrivati in terza, l’interesse decadeva e si
praticavano altri giochi più maturi e responsabili, come l’incendio del cestino
pieno di carta, lo smontaggio della lavagna o di parti dell’aula di scienze, l’uso
di fialette puzzolenti in aula, ecc …
La classica Biro Bic
Il proiettili che si usavamo con la cannuccia erano
particolarmente schifosi, si strappava un pezzettino di carta da un quaderno,
lo si metteva in bocca (a s biasèeva la chèerta bèin a móod)
poi, con un abile lavoro di lingua denti e saliva, si otteneva una micro
pallina adatta al diametro della cannuccia. Un soffio deciso faceva partire il
proiettile.
Cannuccia Bic: tolto il refill, bisognava tirare via
il tappino coi denti
Nel silenzio di un compito in classe, durante una
spiegazione del professore quando era di spalle in quanto alla lavagna o
durante il cambio d’insegnante fra un ora e un'altra, partivano nutrite salve di
palline, con battaglie interminabili fra le file di banchi di destra e di
sinistra (la politica non c’entrava però).
Il bersaglio preferito erano il coppetto o la
guancia di un compagno seduto dall’altra parte dell’aula.
I più bravi avevano una decina di palline in bocca e
facevano partire delle smitragliate che non lasciavano scampo. Spiifff … spiifff …
spiifff!! La reazione era immediata, la rappresaglia furibonda. Il
tutto però nel più completo silenzio dei contendenti.
Infatti era una questione solo tra maschi, anche
perché al liceo (classi finalmente miste) si aveva cura, almeno nel corso delle
lezioni, di non colpire le ragazze. Ciò però non certo per una questione di
rispetto e cavalleria, ma per evitare che si mettessero a urlare, provocando i duri
interventi di repressione degli insegnanti.
**
In prima liceo il maestro di noi tutti era Claudio
Marchi Baraldi di Rovereto, che poi sarebbe diventato un eccellente ingegnere e
insegnante.
Era molto abile e fantasioso nel tiro, ma era molto
temuto anche per il raccapricciante materiale delle sue palline; dovete sapere
che in casa sua gli avevano assegnato un paio di scarpe un po’ lunghe della
misura dei suoi piedi e in punta erano state tamponate con dell’ovatta.
Ebbene lui si divertiva a estrarre piccole e
delicate parti di questa sostanza contaminata, a soffiarla per aria da sotto a
mo’ di leggere nuvolette per poi recuperarla e a spararcela addosso con la
cannuccia.
Davvero terribile! Ma siamo sopravvissuti anche a
questo.
**
Righello in plastica per lanci balistici scolastici
Infine ricordo che altri lanci in classe si
facevano, usufruendo dei vari attrezzi elastici a disposizione di noi studenti,
quali righelli, segnalibri in plastica, squadre, ecc ...
Si congegnavano arditi lanci parabolici di palline
di carta abbondantemente umettate di saliva. Per chi riceveva il grazioso e
malefico dono erano momenti terribili.
**=M=**
Tutto si evolve: ecco la cerbottana di Shirab (Sinbad, Shinbaddo) originale prodotta in Italia nel 1981 dalla New Gio.Co.
Con dardi morbidi a ventosa e lunga circa 40,5 cm.
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