Al garùll – il garullo
Considerazioni micro-filosofiche e
un po’ di storia locale
sulla deliziosa parte centrale
della cocomera
di Mauro D’Orazi
Se il 18 aprile del 1948 il Fronte Popolare (PCI + PSI)
avesse vinto le famose elezioni politiche, anziché per fortuna la Democrazia
Cristiana, i comunisti certamente, come primo provvedimento per arrivare a una
vera uguaglianza sociale, avrebbero preso la drastica decisione di abolire o
comunque vietare tassativamente la preparazione e la vendita del garullo delle
cocomere (uso la parola al femminile, anche se in italiano non è proprio
corretto).
Certamente chi legge queste righe si chiederà cos’è questo
garullo; questo garullo vocabolo in effetti esiste e non è la mia
italianizzazione della efficace parola del nostro amato dialetto garùll.
Luigi
Anceschi (Carpi) ha assistito alla presentazione del mio libro “La Ruscaróola Tre” il
15-05-2016 e così annota, contesta ed eccepisce al mio incipit a forte effetto:
“IO C'ERO. Ne è valsa la pena, bella gente e anche
qualche vecchio e giovane trombone. Mancavano IMBENI e BIZZOCCOLI (+2015) - (Imbèin & Biṡòochel). IMBENI
(informato da FLORIO Magnanini) scriverà su VOCE un'altra MALDICENZA contro
D'ORAZI e BIZZOCCOLI dirà che non c'era perché stava navigando nei MARI del SUD
con un equipaggio di aborigeni cannibali, ecc… Ma la chicca a mio avviso è
stata l'affermazione di Dorry che "se nel '48 avessero vinto i COMUNISTI,
avrebbero subito ABOLITO IL GARULLO”. Mai menzogna fu più grande perché: 1) i
COMUNISTI vincitori avrebbero convinto tutti che erano GARULLO anche la SCORZA, i SEMI ed il
PICCIOLO delle cocomere; 2) nel tempo necessario a formare il GOVERNO COMUNISTA
e il GARULLO sarebbe sparito (assieme alla melonaia), perché mangiato dai
DEMOCRISTIANI.”
Il dizionario del dialetto carpigiano Ori – Malagoli del
2011 così descrive la parola:
Garùll s.m. 1 gheriglio. 2 parte
centrale, cilindrica di cocomero o di forma di parmigiano: al garùll dla cucòmmbra l è sèinsa rumlèini - la parte centrale del
cocomero è priva di semi, al furmàai d
garùll l è più dóols èd quèll aṡvèin a la gròssta - il formaggio della parte
centrale è meno salato di quello vicino alla crosta.
Per la
tematica che voglio trattare dunque il garullo non è che la porzione al centro
della cocomere, la parte più buona, senza le romelle nere, il boccone più succulento
e prelibato. Lo zucchero imbianca la pasta rossa e la rende a dir poco
deliziosa al palato e alla gola se consumata fredda nella opprimente calura
estiva padana.
Il resto
della cocomera è ben poca cosa al confronto e la qualità peggiora via via che
ci si avvicina a un altro bianco della scorza tngnissa (coriacea) e
insapore.
In senso
figurato, metaforico, il garullo rappresenta il MEGLIO del MEGLIO.
La
porzione d’eccellenza, tipo al pcòun dal
prèet, il boccone del prete, che è la furia del pollo arrosto.
L'espressione
boccone del prete ha più significati. Con questo termine si denomina la parte
più prelibata del pollo, ovvero il "sottocoda", per esaltarne
l'importanza.
Questo
modo di dire risale al Medioevo, quando solo il clero e l'aristocrazia potevano
concedersi certe pietanze che, quasi sempre, venivano ricevute in dono dai
contadini obbligati a dare ai Signori i migliori capi di bestiame.
I cuochi
del mare chiamano boccone del prete quella ridotta, ma squisita porzione del
pesce considerata guanciale del pesce, che si trova in prossimità degli occhi
dell'animale.
L’uso
della parola garullo, nella comune lingua parlata delle nostre zone, è
abbastanza diffuso e viene sempre pronunciata, quasi a mo’ di battuta, con il
sorriso sulle labbra.
Ad esempio
anche l’ass Simone Tosi nel 2010
in un suo intervento in Consiglio Comunale a Carpi, nel
presentare e sottolineare il punto centrale di una proposta di deliberazione,
usò appunto in modo studiato e sapiente la parola garullo, ottenendo la totale
e piena attenzione totale dei presenti, che capirono immediatamente la valenza
della strana parola.
Io ho un
ricordo indelebile sul garullo legato al vecchio Piero Bencivenni (detto
Benci).
1964
Piero Bencivenni all’opera nella sua baracchina al Parco
Benci in
un lontano passato girava al Parco col suo carrettino con la stecca di
ghiaccio, lo grattugiava con l'apposito attrezzo e lo metteva in un bicchiere
con sopra lo sciroppo dal gusto che si desiderava. Poi aveva messo su un
chioschetto in muratura dove vendeva i Gelati all'inizio della Via Dallai di
fianco all'entrata della ex Magneti Marelli, circa dove adesso c'è la Banca e
la Pizzeria Re Artù. Poi dopo lo smantellamento del chioschetto, d'estate al
Parco delle Rimembranze vendeva le cocomere e d'autunno vendeva le caldarroste.
Al suo pensionamento gli subentrò il figlio maggiore Gianfranco (Gianni), che
trovò una tragica fine in Piazza Martiri il 25 aprile del 2011.
Per
decenni d’estate presso il Parco delle Rimembranze veniva allestita una
baracchina della rinomata famiglia dei Bencivenni. Sedie, tavoli, tovaglie
quadri, un barile d’acqua con rubinetto per lavarsi mani e labbra, un
asciugamano a righine bianche, rosse e verdi, poi sostituito dal un rotolone di
carta, garantivano una comoda e cordiale accoglienza nelle calde serate
d’estate.
Piero
Benci era un omone alto e robusto con due baffoni di tutto rispetto, serviva i
clienti indossando un grembiule con la pettorina.
Serviva
con arte gli accaldati clienti con grande maestria; era dietro un bancone con
alcune fette già pronte, appena tagliate, che testimoniavano la rossa bontà del
prodotto, che veniva offerto. Vari coltelloni erano appoggiati sul piano,
pronti alla cruenta operazione di ghigliottinamento della cucurbitacea che
doveva essere sacrificata di lì a poco, dopo che era stata… palpeggiata (pat…
pat!), sculacciata (sciaff… sciaff!) e con la nocca della mano… bussata (toch…
toch!) per intuirne la perfetta maturazione.
Se il
suono è sordo: La sòuna bèin! Suona
bene!
***
A tale
proposito occorre notare che mentre al melone a s nèesa al cuul per sapere se è maturo, per la cocomera i dati
esterni per sapere l’esatta maturazione sono sempre stati un mistero.
Oggi i
coltivatori si basano su questi parametri empirici legati ai sintomi che
accompagnano la maturazione del frutto. La maturazione si avvicina quando:
– la
pruina, quella patina cerosa che riveste il frutto e lo rende impermeabile,
inizia a scomparire in modo graduale;
– il
tipico colore che caratterizza il guscio esterno dell’anguria inizia a sbiadire
leggermente e la buccia a contatto con la terra inizia a virare dal verde al
giallo;
– il
viticcio situato sulla parte opposta del peduncolo che tiene il frutto, inizia
a disseccarsi.
***
Qualche
cliente arrivava in baracchina e chiedeva un intero frutto, Benci pescava nel
barile ghiacciato la cocomera più in fondo e più fresca.
Si
praticava la procedure dal tasèel per
vedere se l’esemplare prescelto era maturo al punto giusto e s al ne ghìiva di magòun, se non aveva dei nodi fibrosi, delle
imperfezioni. A n gh è gnìinta èd péeṡ
che ‘na cucòmmbra immaguèeda! Non c’è niente di peggio di una cocomera
immaginata!
Con un
piccolo coltello affilato, con precisione chirurgica, si praticava un’incisione
a base quadrata, che poi si sviluppava in una piccola piramide a punto alta una
decina di centimetri.
Un tasèel, un po’ sovradimensionato
All’estrazione
della piramide con la base verde, poi bianca e con la punta rossa, seguiva
qualche secondo silenzio assoluto!
Occhi
espertissimi controllavano, scrutavano la scala cromatica; si annusava il
rosso!
Anche il
cliente esaminava… piegandosi leggermente in avanti…
Finché
non arrivava la sentenza: “L’è pròunta!
…‘Na cucòmmbra èd Serie A!”.
Si
tappava il buco, reinserendo il tassello e via…
Ma…
osservando meglio il bancone, notavo un misterioso e lucente cilindro di
alluminio lucente, vuoto all’interno e con un bordo in fondo affilato. Il
diametro di questo pezzo di tubo poteva essere attorno ai 15 centimetri per
un’altezza di 40. Io scherzosamente lo chiamavo il… garullatore.
Piero chiedeva al cliente di turno: “Vóo t ‘na fètta o al garùll?”
Spesso se una persona era benestante sceglieva la seconda
opzione che costava quasi il doppio.
Allora Benci prendeva una cocomera in fresco, la soppesava,
la metteva sul piano dopo aver tagliato il picollo in alto e il culetto in
basso. Il tubo veniva appoggiato sopra e con un colpo secco… TRAAFF… veniva
affondato per tutta la lunghezza del frutto.
Al cucumbrèer, il maestro cocomeraio, estraeva
il tubo e subito dopo da questo il prezioso contenuto… un rosso cilindro di
cocomera, senza traccia di semi e con venature più chiare di zucchero. ERA IL
GARULLO!
Un vero cibo degli dei, per chi poteva permetterselo.
Veniva tagliato in quattro parti, prima per il lungo e poi a metà.
E i puvrètt? Bè… i gh
l ivèen in cal pòost, cóome sèmmper! Infatti si dovevano accontentare del residuo; fette con la
buccia, meno dolci e con tante romelle.
Peggio per loro, mò
al mònnd l è semmper stèe divìis in duu!
Un altro segno di distinzione alla baracchina
dei Benci, fra signori e poveretti carpigiani, era lo scegliere fino agli anni
‘60, come dessert o rinfrescante nelle canicole serali, tra meloni e cocomeri;
i primi più cari e i secondo alla portata di tutti, essendo più a buon mercato,
tranne l'esclusivo garullo.
***
Altri ricordi legati al garullo.
Maurizio Malvezzi (Carpi) ricorda: “Da la Titta e Scarciòof, a la fiin èd corso Roma, al garùll al custèeva al dòppi. E s t èe
gh dmandèev: - Èela bòuna? -
It rispundiiven: -
L’è frèssca! –“.
Marco Giovanardi (Carpi): “A la barachiina, al garùll l èera tutt protèet da ‘na ridèina. Mò a
psiiva capitèer ch al gnìiss vèec... S te capitèev al mumèint giùsst i t al
dèeven a prèesi da saldi fine stagione!”
***
Dunque è corretto prendere il garullo come veritiero
simbolo delle disuguaglianze sociali ed è per questo che nel 1948 un governo
popolare lo avrebbe certamente proibito.
Cari lettori… al garùll a pièes a tutt! Così come si bramano e
concupiscono, solo per fare alcuni esempi: una bella donna o un bel ragazzo,
una Ferrari, un Rolex, o un vestito di Armani o di Blumarine.
Ma al garùll è un
privilegio che probabilmente ha sentito il tempo e forse per una sorta di
pudore è andato via via scomparendo.
Anche perché negli anni del boom praticamente tutti i
carpigiani se lo potevano permettere e più nessuno si poteva accontentare di
comprare una fetta monca della sua parte migliore… ma quando mai? E poi il
vento del ’68 ha contribuito a spazzare via piano piano anche la tradizione del
garullo.
E così le ormai poche bancarelle di cocomere che ancora
esercitano, fra incongrue tasse e assurde coercizioni sanitarie, come l’obbligo
di un cesso con lavandino, servono solo fette intere e non mutilate… ma a
carissimo prezzo,
Forse l’unico campo dove si è arrivati alla perfetta
eguaglianza… spendendo.
***
Anni ’90 – in una calda serata
estiva di luglio, Elio Bacchelli, Giuliano Casarini e altri amici, seduti ai
tavoli della baracchina di Gianfranco (Gianni) Bencivenni al Parco. Foto Alcide
Boni
2009 - un primissimo piano di
Gianfranco (Gianni) Bencivenni
**
Ecco alcuni splendidi ricordi della scrittrice carpigiana Rosella Tagliavini legati alle cocomere
e al garullo, pubblicate nella sua rubrica settimanale “In cornice” su Voce di Carpi. Ringrazio lei e il direttore del
settimanale Florio Magnanini per la
gentile concessione.
Voce di Carpi del 25 LUGLIO 2007 - IN CORNICE –
La percezione del
caldo
di Rosella Tagliavini
...
Quando era caldo ai tempi di mia nonna la cose erano molto
più semplici di adesso. Faceva caldo e basta.
Quando veniva quasi sera si mettevano sotto il bersò e se
ne stavano a sventagliare anche con le sottane nere, e proprio quando non se ne
poteva più si pensava a una bella fetta di cocomero comperata da Bencivenni. Di
quelle nostrane, non di quelle allungate che sono costumate dopo. Non presa dal
cassone bianco attaccato alla luce elettrica, ma presa da dentro il pozzo o da
dentro la botte con la stecca di ghiaccio. Lucida di bagnato, la cocomera si
faceva spaccare con un colpo dopo aver perso il caldo della melonaia, dopo aver
subito gli schiaffetti che la tastavano come ottima, dopo aver immolato il suo
cuore al disco tondo del garullo. Non è che le cocomere non ci siano più, anche
loro hanno cambiato casa e le baracchine sono davvero meno...
---
1946 – i fratelli Bencivenni nella
loro baracchina al Parco
---
Voce di Carpi del 1 LUGLIO 2012 - IN CORNICE –
Cuore di cocomera
di Rosella Tagliavini
È un frutto incredibile. Se non fossimo abituati ad averlo
sotto mano potrebbe essere un frutto delle favole. Grosso, grossissimo, non so
se ne esista uno più grosso. Non cresce su di un albero, ma per terra, dove la
terra non sa dare tanto di importante, dove l'acqua non è tanto abbondante,
lei, la cocomera nostrana, dà acqua in abbondanza a chi ha sete e non ha
appetito in queste giornate qui. A estraniarsi dal consueto vengono fuori cose
da favola. Nostrana è bella tonda, quelle americane, invece, sono allungate,
meno dolci e meno delicate nella polpa. Mi ricordo lo scandalo delle prime che
arrivavano a invadere il mercato. Bianca, rossa, verde, la cocomera è
contadina, patriottica, padana, proletaria, storica, affettiva. Gonfia la
pancia e fa fare la pipì, percorre, fresca, tutta la nostra vita. “Non mangiare
anche il bianco che ti fa male!”, mi dicevano a casa. Ma io la mia fetta me la
volevo succhiare fino in fondo e tutta quanta e farla durare al tempo i cui non
erano previsti bis né porzioni grandi quanto la mia golosità. Bencivenni le
teneva nella sua baracchina del parco che adesso è abbandonata. E non le teneva
nemmeno dentro il frigorifero, ma giusto nella botte col ghiaccio a stecche. E
bisognava farsi furbi a chiedere quella fresca che l'avesse messa giù da un
poco e non da soli dieci minuti. A volte te lo diceva: fresca l'ho finita.
Andare alla baracchina faceva serata e Gianfranco Ascari vinceva la gara di
numero incredibile con quel poco che potevano costare e quando costarono
cinquecento lire il pezzo non ci andò più, perché era un ladrocinio. Sarebbero
venticinque centesimi neanche. Spesso la cocomera la si mangiava in giardino
sotto il bersò nelle sere come queste qua che non le ha inventate la
meteorologia nominalista, ma ci sono sempre state. E anche a Rovereto, che li
ringrazio per tanto riscontro, loro, che si vede non sono avvezzi a essere
nominati, a Rovereto me la ricordo scelta sul campo a tasti, schiaffetti,
bussate e rigirate. Poi messa nel secchio e giù nel pozzo che stava davanti
alla casa che è andata giù. Ma più mi ricordo l'invito a mangiarla come si
deve, non a pezzetti e col coltello, ma con la faccia dentro che i semi ti
devono entrare dentro le orecchie e la faccia si deva bagnare con tutto il
muso. Adesso, invece, la cocomera la mangio con coltello e forchetta e i semini
neri li levo con la punta accuratamente e non li sputo a gara chi li manda più
lontano. Ora, tutto questo fatto della storia della cocomera nasce da quella
che si è comperata dal contadino e che è da tagliare. Così nascono le liti sul
garullo e la mia tendenza ad avanzare verso di esso. Mi si accusa del fatto che
mia madre, ai tempi di Bencivenni, si permetteva il lusso di comperarlo.
Succedeva cosi: dopo aver scelto il frutto giusto con attenzione da esperto
venditore, lui Benci, dava la cimata di sotto e di sopra, così il rosso si
evidenziava e già da lì potevi capire se era giusta o immagonata, senza neanche
il bisogno di sfregiarla con il tassello. Poi prendeva il cilindro lucido e
tagliente e lo premeva giù. Così estraeva il cuore prezioso da vendersi a caro
prezzo. Ci restavano, da vendere a meno, fette accorciate, piene di semi neri
in file fitte. Così succede che, quando taglio fette di cocomera, tendo a
barare sforando il centro della sfera per farmi una fetta più alta delle altre
e conquistare la metà preziosa. E lui si lamenta, che sono come mia madre.
--
1976 – In questa foto di Alcide Boni è ritratto
Pietro Bencivenni
seduto al Caffè Milano in piazza a Carpi
***
Jenner Meletti (Fossoli) - Giornalista di Unità e
Repubblica: "Io da bambino e
ragazzo ho mangiato sempre e soltanto il garullo. Al ritorno dalla raccolta –
facevo anche al spicadóor (colui che
staccava e raccoglieva le cocomere per poi essere immesse sul mercato) – sul
carro si spaccava un cocomero appena crepato e dunque non commerciabile e si
teneva solo il garullo. Io a quelli della baracchina nel Parco non volevo
troppo bene, perché, quando ad esempio le cocomere venivano vendute a 10 lire
al chilo, loro ri-vendevano una fetta di mezzo chilo a 100 – 150 lire.”
Voce di Carpi del 10 Luglio 2013 - IN CORNICE -
Questione di garullo
di Rosella Tagliavini
Tutto per una fetta di cocomera. No, dice, tu non la tagli
la cocomera, che non sei capace. Io!? Io non sono capace di dare l’avvio alla
cocomera!? Brividino di rabbia e fuocherello di indignazione al limite del chi
credi di essere e come ti permetti, ma molto contenuto per tutta l’educazione
poco meno che inglese che ho. Io che possiedo una tecnica studiata alla moviola
fin dalle origini del problema e dell’esistenza del taglio della stessa, dallo
scegliere la coltellina abbastanza lunga e appuntita avendo osservato dal vero
i gesti di Bencivenni alla baracchina del parco. Allora se le teneva, le
cocomere, dentro la botte col ghiaccio e andava a pescare le ultime sul fondo
battendole e sculacciate affettuose solo se eri un cliente conosciuto,
altrimenti te le dava calde. Io che ho visto come si muove il coltellaccio a
decapitare cima e fondo, dischi tricolore, ma solo un poco, per farla stare
dritta colante di succo dolce, senza scoppiare crepe. Io che ho visto buttare
giù il cilindro di alluminio bordo tagliente per estrarre il garullo compatto e
privo di semi. Una volta tirato su lo strumento, mi sembra di ricordare che lo
dividesse in quattro con una sezione diagonale e una verticale giusto sul
diametro che sapeva calcolare a occhio. Ne uscivano quattro pezzi must, più
costosi di ogni altro pezzo, più croccanti e totalmente privi di semi da
sputare, o di magoni da scartare. Naturalmente si poteva fare solo con i frutti
grossi e nostrani, non con i piccoli o le americane che erano snobbate da
tutti. Era, appunto, una questione di garullo. Per via di quel tassello di
molti anni fa. Siccome mia madre si permetteva di comperare fette da garullo,
io, secondo lui, non sono giusta nella divisione delle fette. Non ho una
visione paritaria della distribuzione, accetto disuguaglianze, organizzo parti
privilegiate che non tengono conto dei diritti degli altri. Insomma, nella
cocomera, non sono socialista e a lui, poi, tocca pareggiare il taglio
prendendo dalla parte bassa. Così in cucina ci va lui a tagliare la fetta rigorosa.
Ma, siccome non è poi, si vede, così facile, torna indietro e mette davanti
alla Ra un pezzo di frutto poco più su della doppia fila di semi tutti da
levare. Quella lo guarda e gli dice il suo, che quella porzione lì, non giusta
per niente, se la mangi lui. Il fatto è che, per natura, l’anguria non ha una
forma regolare di sfera, ma pende, è schiacciata, matura coricata per cui ha
una faccia bella e una faccia brutta e acerba e così non è facile ridurre
quanto è naturalmente storto e non perfettamente sferico, a spicchio
regolarissimo. Così, ridendo, si finisce a offesa perché non è lecito ridere di
chi crede in quello che dice e non riesce a vedere un altro punto di vista.
Come il valore relativo della fetta o il fatto che si può compensare
diversamente, o che si può essere generosi e lasciare a un altro una porzione
più preziosa quando a noi non ne derivi un danno grosso. Così, la parabola
della cocomera e del garullo potrebbe tradursi in un invito alla tolleranza dei
piccoli altrui egoismi e alla generosità o anche solo al calcolo di quanto
conviene o no arrabbiarsi per poco.
Nessun commento:
Posta un commento
grazie