Ecco
una testimonianza di Renzo Bovoli di Budrio (Bologna) su le palline
ÛLTUM A FÈRMEN E BÅN MÒS MÎ!
(Misurare tocca a te
e guai se bari!)
Alla fine della guerra, a Budrio, quando
c’era ancora una miseria nera, noi bambini riuniti in bande, andavamo in giro
per il paese per riempire la giornata con passatempi interessanti, mettendo in
opera tutta la nostra fantasia (qualità che non difettava certamente), alla
continua ricerca di nuovi giochi per impiegare il più piacevolmente possibile
le lunghe giornate.
Il confronto con i ragazzi odierni non è
possibile perché, pur essendo molto svegli, le nostre conoscenze si limitavano
a quello che poteva offrire il livello del tempo: infatti “play
station”,”smartphone” o altre diavolerie non erano ancora state nemmeno pensate:
potevamo solamente usare “un pôc d óssta
(un po’ di inventiva)”, per creare giochi da fare all’aria aperta che non
costassero niente.
“Al
balån? Sé, magâra... (Il pallone? Sì, magari...)”, avevamo una palla di
stracci legata con strisce di gomma ricavata da vecchie camere d’aria di ruote
di bicicletta.
Il mitico pallone di
cuoio N 5
Il pallone di cuoio l’aveva solamente il
figlio del dottore (che era una schiappa memorabile). Si presentava a gambe
larghe e coi pugni sui fianchi, i calzoncini immacolati, la maglia del Bologna
col numero nove, le scarpette da calcio e il pallone sotto un’ascella ed
iniziava a fare le formazioni: “Voi tre, tu e tu con me, tu in porta, io faccio
il centravanti e tutti gli altri di là. (Visto che i giocatori delle squadre li
sceglieva lui, credo che non abbia mai perso una partita...). ”
Al
zacâgn
Il nostro povero paese, che era stato
bombardato diverse volte, aveva subito molte distruzioni e le tante macerie
fornivano ampiamente il materiale necessario al “zacâgn” (gioco simile alle bocce, praticato con mattoni). “Ai êra pò batmûr, castlàtt, arpiatarôla,
sbérr e lèder e èter zûg che in st mumänt in me vénnen brî§a in amänt. (C’erano
poi battimuro, castelletto, nascondino, guardie e ladri e altri giochi che in
questo momento non mi vengono in mente).”
Uno di questi era il gioco delle palline,
che ci impegnava per intere giornate.
A quei tempi, da “Pirån Tasån” (Pietrone Tassoni), una buia botteguccia sotto al
portico della via Bissolati che taglia in due il paese, si poteva comprare con
una carta delle vecchie “AM LIRE” d’allora (Allied Military Currency, banconote
d’occupazione delle truppe alleate), un sacchetto di dieci palline di
terracotta, che erano sommariamente sferiche, perché fatte a mano con la terra
creta, cotte e verniciate con una lacca lucida, che dopo un po’ di tempo
diventavano opache. (Quando però cadevano a terra, potevano spaccarsi in due parti
come una mela).
Biglie in fragile
terracotta pitturata
Le regole erano pressappoco quelle del gioco
del bigliardo o delle bocce, con l’unica differenza che chi vinceva la partita,
si metteva in tasca tutte le palline sparse sul terreno. Molto spesso capitava
che ci fosse bisogno di misurare di chi fosse il punto. Era in questa occasione
che il più svelto dei due avversari, urlava prontamente a squarciagola: “Ûltum a fèrmen e bån mòs mî! (letteralmente,
ultimo a farmene e buon mosso mio!)”.
Una regola è una regola, e questa era
rispettata senza che nessuno potesse metterci bocca: voleva dire che
l’avversario era obbligato a fare le necessarie misurazioni come arbitro
imparziale e guai se avesse mosso qualcosa - anche senza volerlo - perché in
quel caso avrebbe perso il punto!
Che bellezza quella regola: era sufficiente
stare in campana, cogliere la palla al balzo e urlare per primo “Ûltum a fèrmen e bån mòs mî!” e non
c’era reclamo che potesse cambiare la situazione. Era così e basta!
I più bravi, alla fine della settimana
riuscivano a riempire dei sacchi di palline, che poi barattavano con delle
figurine o con altre cianfrusaglie.
Palline in vetro
Un anno o due dopo, arrivarono sul mercato
delle palline di vetro... belle da morire! Con all’interno delle strisce di
colore lattiginoso che invitavano a leccarle, ma soprattutto, senza bozze e
perfettamente sferiche, che erano solo alla portata del figlio del dottore o
del farmacista, perché costavano troppo: quella nostra sì che era miseria, ma
noi la accettavamo come la cosa più naturale del mondo!
Quando racconto questi ricordi ai miei due
nipotini, mi guardano con occhi meravigliati come guardassero un matto:
faticano a credermi, perché, per fortuna, hanno sempre avuto tutto il
necessario.
“Se
pròpi l’à d andèr mèl, ch’la vâga sänper acsé! (Se proprio deve andare
male, vada sempre così!)”.
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