prima stesura 7 mar 2011
v 72 del 15-02-2016
Famiglie leggendarie
e numerose
di Carpi e
dintorni
a cura Mauro D’Orazi
1951 – La numerosa famiglia dei Bellesia
***
E tu
ricerchi là le tue radici
se vuoi
capire l'anima che hai...
E te li
senti dentro quei legami,
i riti
antichi e i miti del passato
e te li
senti dentro come mani,
ma non
comprendi più il significato
... Francesco Guccini
Aggrappiamoci alle
nostre radici, guardando avanti,
ma senza tradire il
passato!
Norme di trascrizione e lettura del
dialetto
Le norme di trascrizione
adottate dal
“Dizionario del dialetto
carpigiano - 2011”
di Anna Maria Ori e
Graziano Malagoli
Tabella per facilitare
la lettura
a a come in italiano vacca
aa pronuncia allungata laat, scaat, caana
è e aperta
(come in dieci) martedè,
sèccia, scarèssa, panètt, panèin
èe e aperta e prolungata andèer, regolèeda, martlèeda, taièe
é e chiusa (come in regno) méi,
mé
ée e chiusa e prolungata véeder, créedit, pée
i i come in
italiano bissa,
dì
ii i prolungata viiv, vriir, scalmiires, dii
ò o aperta (come in buono) pòss,
bòll, brònnṡa, pistòun, dimònndi
òo o aperta e prolungata scartòos, scatlòot, malòoch, tròop
ó o chiusa (come in noce) tó,
só, indó
óo o chiusa e prolungata vóolpa, casadóor, móoi, óov, ṡóogh
u u come in italiano parucca,
bussla, dubbi, currer, fiùmm
uu u prolungata bvuuda,
vluu, tgnuu, autuun, duu
c’ c dolce (come in ciao) vèec’ , òoc’
cc’ c dolce e intensa (come in faccia) cucc’, scarnìcc’, cutècc’, palpùcc’
ch c dura (come in chiodo) ṡbòcch, spaach, stècch
g’ g dolce (come in gelo) curàag’, alòog’, coléeg’
gg’ g dolce e intensa (come in oggi) puntègg’, gurghègg’
gh g dura (come in ghiro) ṡbrèegh, siigh
s s sorda (come in suono) sèmmper,
sóol, siira
ṡ s sonora (come in rosa) atéeṡ,
traṡandèe, ṡliṡìi
s-c s sorda seguita da c dolce s-ciafòun, s-ciòop, s-ciùmma,
s-ciòoch
**
Famiglie
leggendarie
e numerose
di Carpi e dintorni
a cura Mauro D’Orazi
1920 ca – Una delle tante famiglie numerose
dell’epoca
Tratterò dell’argomento delle famiglie numerose considerando
vari aspetti e sfaccettature: costume, tradizioni, leggende, modi di dire,
aneddoti veri e fantastici, piccole episodi, curiosità, ma anche storie vere,
molto serie e tragiche del nostro recente passato.
Da sempre si favoleggia di famiglie numerose, che assumono
nomi diversi secondo i luoghi, forse per dare maggiore credibilità alle
avventure improbabili, dei tanti straordinari racconti. La più nota è la
famiglia dei Macmàan, ma non mancano varianti ispirate a realtà locali.
Prima di entrare in queste simpatiche e stupefacenti
narrazioni, mi soffermerò brevemente sulle fenomeno delle famiglie numerose.
Un tempo erano diffuse molto anche da noi, soprattutto in
campagna, con le famiglie patriarcali. Esse, con la loro struttura a piramide,
sacrificavano certo la libertà dei singoli, ma davano forza di sopravvivenza
all’intera stirpe, presentandosi come compatte e offrendo ragguardevoli forze –
lavoro; riuscivano a gestire meglio le non abbondanti risorse alimentari e
tante altre cose della vita, ma a un prezzo molto alto; infatti troppo spesso
le aspirazione dei singoli e le libertà di scelte di vita, venivano annullate
da queste grandi organizzazioni familiari.
Questi costumi familiari tradizionali non sono certo un evento
locale, ma rispondono a usi universalmente diffusi; gli elementi che seguono
caratterizzano tali fenomeni.
1) I matrimoni precoci e la mancanza di scientificità nelle
pratiche antifecondative consentiva alle donne sane e ben nutrite di portare a
termine anche 20 gravidanze nella loro vita fertile.
2) "Per fortuna" c’era la forte mortalità “parto -
puerperio - prima infanzia” a calmierare il numero della prole, a cui vanno aggiunte guerre, periodiche epidemie di
un po’ di tutto, la sifilide diffusa anche nelle classi medio-alte e
l’uccisione dei neonati “quasi ammessa” o comunque sottaciuta dalla Chiesa per
quanto riguarda le classi povere.
3) Qui da noi in campagna esisteva lo schema della famiglia
mezzadrile, un’eredità romana come tante altre, organizzata gerarchicamente in
linea maschile: dopo il patriarca e sua moglie, autorità indiscusse, il primo
maschio curava la terra, il secondo la stalla, ecc… in modo che tutte le
risorse umane fossero utilizzate e finalizzate senza troppo interferire e
intralciarsi a vicenda. Allo stesso modo funzionava
il coté femminile: a una nuora andava
l’incombenza della tavola, a un’altra della filatura e tessitura, a un’altra del
pollaio e della conigliera. I bambini piccoli erano accuditi in comune o a
turno, e via via avviati al lavoro nelle varie competenze legate all’età e alle
necessità di ciascuno e così via... dalla notte dei tempi.
***
Un esempio per tutti, ecco alcune note sulla famiglia
patriarcale degli Andreoli di Quartirolo di Carpi. Leggendole si ha un’idea
delle situazioni di allora.
Ecco
il racconto – testimonianza di uno dei nipoti: Maurizio Gasparini di Quartirolo di Carpi.
La famiglia della mamma: gli Andreoli
La mamma si chiamava Olimpia Andreoli, era nata a Quartirolo
di Carpi l'8 marzo 1892 e si era sposata a ventun' anni; apparteneva ad una
famiglia patriarcale di venti persone. Ora mi faccio indietro di qualche anno,
quando la mamma era ancora una ragazzina. C'erano ancora il bisnonno Giovanni e
la bisnonna Maria Ferretti e c'erano i loro sette figli. Giuseppe, sposato con
Aldegonda Pedretti, aveva sei figli, Claudio, sposato con Angiolina Manicardi,
aveva quattro figli, Ettore (detto “Umòun”) sposato con Emma, ne aveva
due; fanno ventuno persone in tutto. Poi c'erano le quattro figlie: Esterina
era sposata con un certo Beltrami, a me sconosciuto; Giuseppina (la zia Peppina)
era sposata con Antonio Martinelli, avevano avuto un figlio maschio,
Evaristo (detto Tugnètt) che era anche il nostro sarto di famiglia;
Melania aveva sposato Armilio Casarmi che non era parente con noi, abitavano a
Correggio e avevano avuto sette figli, Clenio, Giovanna, Lino, Anna, Francesco,
Ernesta e Lucia.
La famiglia Andreoli, ai tempi dell'infanzia della mamma, era
così formata: Giovanni e Manetta, i bisnonni, poi Giuseppe e Aldegonda coi loro
figli, Clenio, Cleonice, Lamberto, Carolina, Olimpia e Cecilia. Poi ancora
Claudio e Angiolina coi figli Primo, Severino, Secondo e Luigi (Gigètt). Infine
Ettore ed Emma coi figli Giovanna e Ettore, quest'ultimo nato dopo la morte del
padre. Chiudeva la lista la zia Ernesta, nubile.
Ci sono poi stati vari cambiamenti. La famiglia era, da
antica data, rigorosa-mente cristiana; gli Andreoli, che erano schietti, severi
e rigidi, erano andati tutti a scuola ed erano considerati persone
rispettabili. Inoltre non erano superstiziosi non essendo ignoranti come molti
cristiani contadini di allora. Il bisnonno Giovanni, la mamma lo aveva
descritto come un uomo giusto, buono, calmo e riservato. Era un po’ più basso
della media, tarchiato, con i baffoni spioventi; la bisnonna invece era alta e
magra, severa, burbera e autoritaria, la tipica reṡdóora della famiglia
patriarcale. Il motto era: “O magnèer sta mnéestra o saltèer da la fnéestra!”.
Era un po' una dittatrice, nella cucina, nel lavoro, nei costumi. Una donna
grintosa insomma, e le spose più giovani dovevano sottostare, senza protestare,
alle sue decisioni anche se queste erano sbagliate. Il papà della mamma, Giuseppe, era chiamato dalla nonna Aldegonda, “luṡèef
Cuntèerd”, gli Andreoli a Carpi avevano come scutmàai “Cuntèerd”. Questo
soprannome derivava da un certo Contardo, discendente di un'antica famiglia
proveniente da San Martino in Rio. Il nonno Giuseppe era appunto nato a San
Martino in Rio il 13 marzo 1860. Era un bell'uomo, cristiano tutto d'un pezzo,
intelligente, serio ed equilibrato come il padre. Il nonno era alto, mentre la
nonna Aldegonda era piccola; lei era analfabeta ed era una vecchietta semplice
e buona. Il nonno che era andato a scuola insegnò lui qualcosa alla nonna. Lui,
oltre ai lavori di campagna, sapeva fare tanti altri lavoretti, aggiustava
ombrelli, faceva piccoli lavori da falegname, faceva lo stagnino, al scranèer e tante altre cose.
Dopo la morte in guerra dello zio Lamberto nel 1916, il nonno
comperò una casa a Bologna e nel ‘21 andò con tutta la famiglia ad abitare là.
**
1900 ca – ‘Na
maṡnèeda èd ragasóo
A commento di questa foto con tanti bambini, qualcuno
palesemente emaciato, si deve sottolineare che erano anni duri, faticosi: la
speranza di vita media degli italiani, agli inizi del '900 era di 35 anni
appena, a causa dell'alta mortalità infantile, quando per gli inglesi, ad
esempio, era già di 46.
Un bracciante delle nostre campagne, nel 1890, spendeva il
70% della sua misera retribuzione solo per il vitto, per altro scarso e poco
sostanzioso.
Ottenere un podere a mezzadria era quasi una fortuna, almeno
si aveva un tetto sulla testa. Se il podere era fertile, al reṡdóor (il capofamiglia) era in gamba e le braccia numerose si
poteva sperare di in una vita abbastanza decente.
In campagna avevano abitudini antiche e semplici, la vita si
svolgeva nella comunità di parenti e vicini e fra una moltitudine di bambini.
Di solito la solidarietà era quasi un comandamento. "È la medesima sorte
che ci fa buoni fratelli" scrisse uno dei pochi che ebbe la fortuna di
studiare e di emanciparsi da questa stato di cose.
***
1905 ca Viadana - Le donne della
Famiglia Besana
**
La famiglia patriarcale cominciò a disintegrarsi nelle nostre
zone con il boom economico e il benessere, dalla metà degli anni ’50 in poi.
Si creavano sempre più possibilità di lavori diversi da
quelli in campagna e via via i figli e le nuore cominciarono ad avere attività
separate dalla grande famiglia. In particolare le nuore, non di rado trattate
al livello di quasi schiave e fattrici di figli, in lotta perenne con le altre
nuore di classe superiore, spinsero i mariti a scelte autonome e di libertà di
vita.
**
Un altro tema interessante riguarda il fatto che al tempo del
fascismo si si favorì l’incentivazione ad
avere figli e si premiarono le famiglie numerose.
Allo scopo fu istituita un’apposita associazione e le madri
con più di sette figli furono decorate con una speciale medaglia, il numero dei
nastrini sul fiocco rappresentava quello dei figli; se i figli erano più
di dieci il nastro andava portato a forma di "V".
La medaglia d'onore e il relativo attestato venivano
concesse, a spese dello Stato, alle madri di famiglie costituite da almeno
sette figli viventi, oppure caduti in guerra o per la causa nazionale,
riconosciute dal presidente di ogni sezione provinciale dell'Unione fascista
famiglie numerose, il quale rilasciava l'attestato.
Con l'art. 3 della legge n. 332 del 23 febbraio 1943 il
numero dei figli fu ridotto a sei per le vedove di guerra e, in conseguenza
delle infami e vergognose Leggi razziali fasciste, furono escluse le madri di
"razza ebraica".
La ricompensa era di 5 lire a figlio e un'agevolazione a 15
lire a figlio se veniva chiamato con nomi patriottici come Benito, Italo,
Vittorio Emanuele, Amedeo, Maria, Italia, Umberto.
1907 Canolo di Correggio famiglia
Rondini; sono più di 30 persone che formavano un'unica famiglia; notare la
nonnona con la foto in mano del marito defunto.
Ecco nelle foto il diploma e la
medaglia per le famiglie numerose.
Il salace dialetto carpigiano battezzò subito la decorazione,
per altro ben fatta anche se in vile alluminio, come l’amdàaia dla cunìa (la medaglia della coniglia, animale molto
prolifico per antonomasia).
1939 Tessera e distintivo dell’Unione Fascista
Famiglie Numerose
1941
Madri prolifiche con tanto di diploma e medaglia; Mussolini veglia benevolo su
di loro. La foto è un documento importante
per capire il periodo. Nonostante l'importanza di una cerimonia ufficiale di
consegna di diplomi e medaglie, i volti delle mamme non dimostrano alcuna
allegrezza e i vestiti (quelli della festa) la dicono lunga sullo stato
economico delle famiglie.
**
1938 – OMNI di Modena – culle in
dono alle madri prolifiche
Pasqua 1905 – una famiglia numerosa del nord
d’Italia
6 aprile 1933 - famiglia patriarcale IOTTI presso Rovereto di
Novi (MO); si tratta di tre sotto nuclei familiari di mezzadri che hanno
abitato nella frazione dal circa dal 1933 al 1949.
*0*
Famiglia di Giuseppe Violi Barbieri databile 1909
1910 ca – Anche al sud c’erano famiglie
molto numerose
1920 ca - Famiglia di mezzadri
Pievequinta (FO), ben 38 persone con sei fratelli tutti sposati e numerosa
prole
1925 ca la famiglia Arletti di Carpi - Paolo &
Maria con undici figli
Famiglia di Demetrio Lugli -
Mezzadri di Fossoli
Foto Gasparini - Carpi - databile 1945
Famiglie
leggendarie
Ecco una nutrita serie di racconti immaginari e modi di dire
legati alle famiglie numerose, raccolte da ricordi personali e da tante
testimonianze.
Questa vena grottesca, tutta nostra (emiliano-padana, non
solo carpigiana), è forse legata a un immaginario del contadino romano (e così
ci sta dentro anche quel genio di Rabelais – da leggere assolutamente
nell’originale, MAI nelle traduzioni!), che serpeggia nel Baldus del Folengo e
nel Bertoldo di Giulio Cesare Croce, doveva riapparire nei filòos, nelle veglie serali, attraverso racconti in cui alcune
figure fisse (come la pesatura dei bambini) erano alternate a varianti ispirate
alla realtà del momento e legate all’estro e alla fantasia del narratore. Sono
storie molto belle e intriganti, talora ingenue, specchio di una società che
riesce a ridere anche dei propri mali, della fame, della mortalità infantile,
della penuria di tutto, cibo, scarpe, indumenti e a riaffermare con uno
sberleffo la propria vitalità, nonostante tutto.
Quando
si faceva una cosa in grande abbondanza, si diceva: “A n ò faat aanch per i MACMÀAN (o MATMÀAN)!”
una
grande famiglia patriarcale, dove ogni cosa assumeva grandi dimensione.
Una
numerosa famiglia forse di origine ebrea. Ci sono tante tante storie di enormità,
sarebbe bello trovarle tutte.
Ne
annoto e riporto alcune.
I éeren quìi ch i gh iiven trii quintée
e mèeṡ èd ragasóo e a la siira i i bṡèeven pèr vèdder s i gh éern tutt!! Era la famiglia di quelli che avevano tre quintali
e mezzo di ragazzini e alla sera li pesavano (non li contavano) per controllare
che ci fossero tutti.
I
racconti si allargavano alla fantasia soprattutto in fatto di cibo, nelle
narrazioni sempre molto abbondante e cioè l’esatto contrario della penosa
realtà di un tempo, quando in molte case si soffriva davvero la fame e alla
sera la reṡdóora, tirando un respiro
di sollievo, diceva: “Aanch pèr incóoo a
iòmm magnèe!”
Si
diceva che a casa di questi Macmàan un
gatto, che girava in cucina, sarebbe morto di colpo per un tortello di zucca
cadutogli sulla testa dal tavolo (il tortello era molto grosso e l’impatto era
stato violento); oppure che due o tre gatti morirono di indigestione per aver
mangiato tutte le pelli di salame scartate e buttate per terra dai
numerosissimi commensali.
La padella per il gnocco era così grande che i
bambini facevano la slitta o la lingaata
(scivolo sul ghiaccio d’inverno) nello strutto.
Per portare in campagna la minestra si usava l'autobotte
e fu cosi che fuoriuscì un tortellino, anche in questo caso così grosso, che
uccise un bambino...
La polenta la facevano nell'aia ed era così grande
che una volta vi scomparve un somaro e non fu mai più trovato; non di rado
dietro questa montagna di polenta spariva anche qualche persona.
Si racconta anche che alla reṡdóora, mentre preparava un'enorme sfoglia, si ruppe, in un
momento di distrazione, il bordo del cratere della farina, con già le balotte (al balòoti) e le chiare già
all'interno, col risultato che la famiglia andò in barca per sei mesi.
Erano
storie simpaticamente assurde che si raccontavano ai bambini, che si
divertivano e le apprezzavano molto.
Sempre
su questa singolare famiglia ecco un brano tratto dal libro «Storie
d'Emilia-Romagna » di Luciana Saetti, Fratelli Fabbri editori.
La famiglia dei Macmàan
«
Vóo t savéer chi i éeren i Macmàan? »
Era
una famiglia di poveracci dove erano in tanti, ma in tanti, che quanti non lo
sapevano più neanche loro.
Stavano
nella Bassa, in una casona che veniva giù a pezzi. I grandi erano degli omoni
di ragguardevoli dimensioni e avevano tanti di quei bambini che ne trovavano
dappertutto.
Era
proprio una famiglia scombinata. Alla sera, prima di andare a letto,
cominciavano a contare i bambini per vedere se c'erano tutti, ma dopo un po’,
per non dovere star lì tutta la notte a contare, finiva sempre che li mettevano
sulla pesa, per far prima, e con due o tre pesate erano a posto.
Così
non sapevano più dire quanti bambini avevano, perché ormai tenevano solo conto
dei quintali.
Poi
non c’erano le scarpe per tutti; così i primi che si alzavano correvano subito
a mettersele e gli altri per quel giorno stavano scalzi.
Avevano
sempre una fame da non vederci più, perché, per quanto lavorassero, non c’era
mai abbastanza da mangiare. Se volevano due foglie di insalata per uno,
dovevano ammucchiarne tanta che bisognava condirla col forcone. E una volta ci
trovarono dentro una vacca che s'era persa.
Quando
facevano la polenta con la saba, la buttavano sopra a un tagliere che sembrava
una piazza. Per sbaglio una volta mollò un argine della polenta e venne giù
tanta di quella saba che quasi si annegava un bambino.
Non
riuscivano mai a levarsi la fame.
D'inverno
mangiavano la polenta con la saracca, ma per farla durare di più legavano il
pesce rinsecchito per aria con una corda; poi, tutti lì intorno con il loro
pezzo di polenta, uno alla volta davano un colpo alla saracca per far prendere sapore.
Una
volta uno dei più piccoli nel dare il colpo riuscì a staccarne un pezzettino.
E
suo nonno si mise a gridare:
-
Óoo! ‘Sa fèe t? Vóo t cherpèer? (Oh,
cosa fai, vuoi crepare?)"
NOTA: Questa della “saracca” legata alla corda è una storia molto
diffusa, legata alle famiglie povere in generale. Nella versione pervenutami
finiva con l’iperbole che i più poveri tra i poveri, per prolungare ai limiti
estremi la durata del pesce, la polenta la intingevano… nell’ombra sul muro.
**
1928 - I 15 figli del contadino Massimo Venturelli e
di Giulia Verucchi da Montebello di Pavullo nel Frignano (Modena)
1933 – La Famiglia Pellacani di Carpi – ben 5
generazioni: la quadrisnonna Virginia, la trisnonnna Claudia, la bisnonnna
Giaele, la nonna Olga, il piccolo è Ennio, il padre di Gloria Pellacani, che ha
gentilmente messo a disposizione la strepitosa immagine.
***
1955 - Carpi - un’altra foto con 5 generazioni; si
tratta della sorella di Lorena Caliumi, in braccio alla madre, la nonna, la
bisnonna e la trisnonna.
Altre testimonianze
2012
- Renzo Bovoli, esperto di dialetto
bolognese, ci porta questo contributo, che traduco in carpigiano:
La famìa di Risóol. (La famiglia dei Rizzoli)
Attorno
alla famiglia della campagna bolognese dei Rizzoli, composta da una gran
quantità di figli, si sono inventate tante amenissime storie. Ad esempio, per
dire dell’enorme quantità di farina occorrente per fare il pane, si diceva la
impastassero non nella solita madia, ma
dèinter a la navaasa èd l’ùa (dentro al grande carro che contiene l’uva,
prima della pigiatura). Quando poi si trattava di friggere i pezzi di gnocco
fritto per la colazione a tutta la famiglia la
reṡdoora la stèeva a sèeder cun la scraana in mèeṡ a la padèela, pèr èsser più còomda a vultèeri! La massaia con la sedia stava a sedere in mezzo alla
padella per essere più comoda a voltarle! Sono cose paradossali! Ma divertenti
e geniali!
Oltretutto la stessa famiglia veniva indicata come
proprietaria di… oche poco furbe, perché: “Agli
òochi di Risóol iis tóosen su dal fòss per andèer a ca a bèvver!” (Le oche di Rizzoli si
prendono dal macero per andare a casa a bere!)
Sempre a Bologna abbiamo questo modo di dire: parair la famajja di Magâra; Sembrare la
famiglia dei Magara. Cioè essere una famiglia numerosa. La parola “magâra” in
bolognese significa anche parecchio: “Dla
zänt ai n êra magâra” (Della gente ce n’era parecchia); il cognome Magara è
quindi indicativo. (Par sèt ân l à avó un
fiôl ògni ân; in st môd as fà prèst a métter insàmm la famajja... di Magâra!)
*o*
2013 -
Sempre Noi (Gian Paolo Lancellotti
– Mandrio - batterista dei Nomadi, che ci ha lasciato nel febbraio del 2014) mi
ha regalato questa breve e significativa poesiola di famiglia:
“Mé nòona la m à sèmmper ditt:
- Guèerd i mò là!
Chi trii Macmàan:
óoch, sivèttla e barbagiàan!-“
2013
- William Lugli (Carpi): “I Macmàan l’è la famìa Nacmani che a crèdd ch
i fussen di ebrèei. A gh è aanch la strèeda, ’na laterèel èd Via Mulini a Campgaiàan.
Esiste anche la Via Nacmani, una laterale di Via Canale Mulini
tra Panzano e Campogalliano.
I gh iiven taant ragasóo che a la
siira i i bṡèeven cun la péeṡa da póorch pèr vèdder s i gh éeren tutt.
***
2013-08-08
- Al posto dei MACMÀAN (o anche Markmàan) si poteva sostituire il cognome di
una vera grande famiglia numerosissima esistente, tipo i Bellesia di Limidi.
Ecco
alcune frasi indicatemi da Lara Bertesi
(Carpi), nipote di tanta famiglia:
·
la leggenda sopra
descritta trovò una derivazione e una applicazione reale con... “Fèe t da magnèer pèr i Beleṡìa?”... “Fai
da mangiare per i Bellesia?” Dovete, infatti, sapere che nel secolo passato la
famiglia Bellesia, che stava a Rio Saliceto si trasferì a San Marino in via Pratizzola, una
laterale di via Lametta, molto vicino al bacino della bonifica. La casa, ancora
esistente, è praticamente a metà strada tra San Marino e Limidi. Lì abitava la numerosa e patriarcale famiglia dei
Bellesia; ogni giorno c’era da mettere a tavola decine di persone. Pertanto
quando ‘na reṡdóora faceva una grossa
spesa alimentare o aveva i fornelli pieni di pentole le si poteva
rivolgere questa scherzosa frase prima riportata.
·
I Beleṡìa i iiven pèers duu ragasóo, mò i s éeren
lughèe de drée da la pulèinta... I
Belesia avevano perso due ragazzini, ma si erano nascosti dietro una montagna
di polenta… sempre per indicare le grandi quantità di cibo che venivano
preparate in questa folta famiglia;
·
A gh e vrèvv ‘na s-ciafadóora elèetrica. Ci vorrebbe una schiaffeggiatrice elettrica, da
usare quando ci sono molti bambini birichini. La frase era adoperata dalla
numerosissima famiglia dei Bellesia di Limidi, formata da decine di componenti,
con la presenza di frotte di bambini vivaci e discoli.
·
Si diceva anche che i vicini potevano impunemente
mandare i figli a mangiare dai Bellesia, perché, con tutti i bimbi che avevano,
era impossibile conoscerli tutti, quindi eventuali piccoli intrusi non
sarebbero mai stati scoperti.
***
Un’altra
frase in tema:
"Te n èe faat aanch pèr i Brussch! (Ne
hai fatto anche per i Bruschi!) ”… modo di dire riferito a un’altra famiglia
numerosissima
**
Una
famiglia leggendaria {assieme a quella dei Ma(r)cmàan} era anche la famìa di Pigòun. Costoro costituivano un
nucleo numerosissimo e caotico. Addirittura leggenda vuole che la quantità dei
membri fosse incerta, ma di sicuro smisurata. Quando cucinavano i pasti erano
in quantità pantagruelica, si diceva infatti che quàand i friṡiiven la pulèinta, i ragasóo i fèeven la lingaata ind la padèela (pattinavano),
quindi figurarsi la dimensioni di quella padella ... Quando qualcuno esagerava
a fare da mangiare lo si rimprovera con la consueta: “Fèe t da magnèer pèr i Pigòun? (Fai da mangiare per la famiglia dei
Pigoni?)”. Quando in famiglia si faceva qualcosa di esagerato, o anche quando
ognuno agiva per i fatti suoi fregandosene degli altri, si diceva... “Mò quèssta chè l’é la famìa di Pigòun!” ...
“ Ma questa è la famiglia dei Pigoni!”.
Un
appartenente a questa famiglia viveva a Fossoli, detto Pigòun da Fòosel, era celeberrimo e famosissimo in tutto il mondo.
Tanto per capirci Gandhi e Albert Einstein i
nn éern nisùun al só confròunt.
Chi
si divertiva a raccontare le grandi avventure di questo personaggio, poteva
tirarla lunga, a piacere, anche per 10/15 minuti, ma la fine era sempre
sigillata da questo eclatante episodio:
il
Papa era giunto in visita a Fossoli (sic!)
e arrivato sul sagrato della vecchia chiesa stava salutando le autorità
convenute.
Proprio
in quel momento arrivava a piedi un contadino da Grupp (Gruppo); l’ignaro, vedendo il grande
assembramento, cominciò a farsi largo fra la gente per capire e vedere cosa stesse
succedendo di tanto importante.
A
un certo punto, dopo aver esaminato la situazione, diede una sgomitata a un suo
occasionale vicino e gli chiese: “Mò chi
ée l cl umarèel in biàanch da téeṡ a Pigòun da Fòosel?”
**
2013-02-05 Giorgio Rinaldi (Vignola): “A Vignola
c’era una grande famiglia patriarcale "I
Buṡièerd" che si incontravano con altre e facevano a gara, di sera
nelle stalle, a chi la raccontava più grossa. Questa usanza a Vignola perdurò
anche nei primi anni Cinquanta, trasferendosi in un bar del centro, scadendo
però sempre più nello scontato, fino a scomparire del tutto con l'arrivo della
TV.
Poi sono al
corrente (questa è stata anche pubblicata) di una simpatica messinscena
della famiglia dei “Ziparian",
per evitare lo sfratto.
**
2014-01-18 Gruppo Vecchi Mestieri (Biabbiano -
RE): "A Bibbiano si usava e si usa ancora dire - N èe t faat énca pr'i Bègg’? - I Beggi naturalmente era una
famiglia molto numerosa. Succedeva per esempio quando si impastava qualcosa, e
si aggiungeva un po' d'acqua, perché era troppo dura, poi un po' di farina,
perché era troppo molle e via via finché si arrivava ad una quantità esagerata.
"
2014-01-19 Ileana Gorini (Reggio E.): "A t ne faat anca per i Bertòss
(Bertozzi), altra famiglia numerosa."
2014-01-19 Enrica Torelli (Reggio E.): "-Te faat da magnèr per la famia di Uglier -
che a gh eren in 40!"
2014-01-19 Azio Bertozzi (Sant'Ilario d'Enza RE): "Da me s edgiva - N èt faat anca pr i Marman? -"
2014-01-19 Tiziano Pace Depietri (Carpi): “A
gh éera aanch i Baldàas; la reṡdóora l’andèeva ind al mèeṡ dla tèggia cun la
scraana a vultèer al gnòoch.
I iiven pèers un ragasóol, l éera lughèe dedrée da la muntagnóola dla pulèinta ch al durmiiva! (C’erano anche i Baldazzi; la capofamiglia andava nel mezzo della padella per rivoltare il gnocco. Si era perso un bimbo, nascosto dalla montagnola di polenta scodellata.)”
I iiven pèers un ragasóol, l éera lughèe dedrée da la muntagnóola dla pulèinta ch al durmiiva! (C’erano anche i Baldazzi; la capofamiglia andava nel mezzo della padella per rivoltare il gnocco. Si era perso un bimbo, nascosto dalla montagnola di polenta scodellata.)”
2014-04-19
Nadia Montermini (Correggio RE):
"A casa mia, nel correggese, si diceva - A gh n è anca per la famia di Frera, ch i gh iven un putin drèe da la
puléinta. -"
2014-05-01 C.R. (Correggio) cita che nella sua
città c’erano anche i Bertòol, come famiglia numerosa.
2014-06-04
Angela Poppi (Vignola) e Gianni Sabattini (Modena) ricordano le
storie che le loro nonne raccontano e inventavano della numerosa famia di Burlintòun. Facile pensare che
il nome derivasse da… burla.
***
Scunìir = scolare - significato... particolare
Se
l’ultimo figlio di una famiglia numerosa aveva poi qualche difetto fisico o
mentale con innegabile tatto si poteva dire: “L è la scuniduura dal saach!” Rappresenta i rimasugli del sacco.
Fine anni ’50 – famiglia patriarcale contadina
“
I Valeriàan da la Pèela
La
nonna paterna di Gianluca Vecchi
(Carpi - 2010) raccontava al nipotino una singolare storia: ai tempi della sua
gioventù c'era a Carpi una famiglia di nome Lodi di Budrione conosciuta con lo scutmàai di Valariàan da la pèela.
Ecco
la storia, vera o di fantasia, di questo curioso soprannome.
Un
giorno il capofamiglia dei Valeriani cominciò ad avere mal di pancia. Il
medico, convocato al capezzale del sofferente, disse che non era niente di
grave (forse un'appendicite infiammata) e che a bastèeva mètter dal giàas dèinter in 'na pèela e pò tgiir la in simma
a la paansa (bastava mettere del ghiaccio in una pelle e tenerla sulla
pancia). Bisogna spiegare che una volta la borsa per il ghiaccio non era proprio
un articolo comune tra le famiglie povere del carpigiano e che al suo posto si
usava la cosiddetta pèela (pelle),
che altro non era che 'na psiiga,
cioè la vescica del maiale.
Dopo
un paio di giorni il dottore ritornò; subito chiese alla moglie del malato come
stesse quest'ultimo:
-
Mà! Al n é starèvv mìa mèel, s a n fuus
pèr al maandegh (non starebbe male, se non fosse per il manico) - fu la
risposta della moglie.
-
Cum a srèvv a diir: pèr al maandegh?
(come sarebbe a dire, per il manico?) - chiese stupito il dottore.
-
Ma sè! Al maandegh dla pèela. Quàand al s
la mèet insimma a la paansa, a gh sèelta fóora dèd còo di pée! (ma sì! il
manico della pala. Quando se la mette sulla pancia, il manico salta fuori dalla
parte dei piedi) - replicò la moglie.
I
Valeriani avevano capito di dover mettere il ghiaccio in una pala e appoggiarla
sulla pancia del malato. In dialetto, infatti, pala e pelle hanno la stessa
pronuncia: pèela.
-
Dio a v maledissa d ignoràant ch a n sii
èeter! (Dio vi maledica, ignoranti che non siete altro) - sembra sia stata,
fra il divertimento e lo sconforto, la risposta del medico.
Da
allora i Valeriani furono conosciuti come i
Valeriàan da la pèela, cioè i Valeriani dalla pelle o dalla pala.
Al
lettore la scelta.
**
Mi
è giunta al riguardo una preziosa testimonianza.
2014-04-26
Carlo Lodi (Carpi) ci conferma:
"Valeriàan l éera al sovranòmm dla mé
famìa! (Valeriani era il
soprannome della mia famiglia). Proveniamo da Budrione e lì ci conoscevano e ci
conoscono ancora come Valeriàan da la pèela.
A sòmm di LODI e a n sòmm mìa pareint
nè cun i Lodi Ninùll, nè cun i Lodi Canèela. (Siamo dei Lodi, ma non siamo
parenti con altre famiglie omonime di Budrione).
La stòoria l è più o méeno quèlla lè:
al probléema l éera al mandegh ch a n s saviiva indu mèttr èl! (La storia
è più meno quella: il problema era quello del manico che non si sapeva dove
metterlo!).
Il
vecchio nucleo famigliare dei Lodi si era trasferita dal Frignano a Modena, poi
con l'inizio delle bonifiche della valli fossolesi e carpigiane vennero ad
abitare in Via Palazzo Banca a Budrione (adesso Borgo dei Pio) in regime di
mezzadria presso i poderi dei Notari. Io sono nato lì; poi mio padre nel 1957,
con solo la sua famiglia ristretta, si è trasferito a Cibeno Vecchio in via 4
Pilastri (ora IPEREDIL, allora podere Forti-Marani).”
***
Anche
una famiglia Righi in Santa Cèera (via
Santa Chiara) si identificava con questo soprannome.
**
Una famiglia numerosa degli anni Sessanta, una delle
ultime…
**
Vicende serie
Finora
abbiano tenuto un tono leggero e scherzoso su questo tema, ma esistono anche
aspetti molto tragici come ad esempio l’uccisione dei 7 fratelli Cervi. I sette
fratelli Cervi di Gattatico (RE), Gelindo, (nato nel 1901), Antenore (1906),
Aldo (1909), Ferdinando (1911), Agostino (1916), Ovidio (1918), Ettore (1921),
erano i figli di Alcide Cervi e di Genoeffa Cocconi; appartenevano a una
famiglia di contadini con radicati sentimenti antifascisti. Dotati di forti
convincimenti democratici, presero attivamente parte alla Resistenza e presi
prigionieri, furono torturati e poi fucilati dai fascisti il 28 dicembre 1943
nel poligono di tiro di Reggio Emilia. La loro storia è stata raccontata, fra
gli altri, dal padre Alcide Cervi.
A
questa vicenda fa drammatico pendant l'eccidio
di Argelato avvenuto a Pieve di Cento (BO). I tragici fatti avvennero a guerra
finita. Ci fu l'esecuzione sommaria, compiuta da partigiani delle Brigate
Garibaldi e preceduta da torture e sevizie, prima di 12 persone l'8 maggio 1945
e in seguito di altre 17 persone, tra cui i sette fratelli Govoni l'11 maggio
1945.
***
Ancora I Bellesia
Enrico Bellesia
2015-11-22
- Luca Turci (Carpi) torna in modo
serio sulla famiglia di sua madre… i
Bellesia, su cui ci siamo soffermati in breve precedentemente. Ecco, di seguito,
alcune informazione sulla storia della famiglia Bellesia, che ha dei risvolti
interessanti dai tipici caratteri emiliani.
I Bellesia erano una famiglia patriarcale contadina di
dimensioni talmente vaste da formare quasi quasi un piccolo comune a se stante.
Il bisnonno di Luca Turci, Enrico Bellesia, aveva generato (con “l’aiuto” della
moglie) la bellezza di 12 figli (6 maschi e 6 femmine), tutti sopravvissuti
fino all’età idonea a procreare, e la cosa ha generato una sorte di esplosione
demografica della famiglia. L'eroica moglie, si chiama Amelia Scacchetti e
viene descritta come un bella donna bionda, molto più alta del marito, che non
era di elevata statura. Era una donna molto buona, morì nella prima metà degli
anni ’50; improvvisamente per “un colpo“,
cóome a s gìiva 'na vòolta, mentre era nell’orto… ancora nell’esercizio
delle sue funzioni.
Nel
momento più della massima espansione, erano ben 32 persone a vivere sotto lo
stesso tetto. L’origine della famiglia non era di Carpi, comune in cui si
trasferiranno all’inizio degli anni ’30, ma di Rio Saliceto. Il bisnonno Enrico
è stato l’ultimo sindaco (socialista) di Rio Saliceto prima dell’avvento del
regime fascista, nonché per molti anni fu presidente della cooperativa
braccianti. Il veterinario Dante Areta, un intellettuale di sinistra che
operava a carpi negli anni ’70 e ’80 narra in un suo scritto degli anni '70,
delinea la storia del bisnonno Enrico e del nonno di Luca, Oddino.
Le
notizie riportate da Areta, che era il veterinario di zona, combaciano quasi
perfettamente con i racconti, che sono pervenuti verbalmente dalla nonna di
Luca. Areta, comunista, si trasferì a Carpi dalla provincia dell’Aquila dopo la
guerra. Nonno Oddino morì nel luglio del 1944. Areta narra quindi vicende di
cui non è testimone diretto, ma che deve aver raccolto verosimilmente da fonti
di famiglia e da testimoni.
La
partecipazione della famiglia alla lotta di Liberazione è, al di là dei tanti
racconti tramandati, documentata. Il comandante di zona riporta il nome di Brunito
Bellesia, uno dei sei fratelli, come facente parte della VII squadra GAP,
gruppo 23 (Lugli 1997, p. 42). Risulta poi che altri due fratelli (Gino e
Ottavio) siano stati partigiani. Per quanto riguarda i rimanenti tre fratelli,
il più giovane in quel periodo era disperso in Russia con l’ARMIR (rientrerà
solo a guerra conclusa); non si hanno notizie certe del più anziano, mentre il
nonno di Luca, Oddino, non è stato un combattente, probabilmente a causa dei
gravi problemi di salute, che poi lo porteranno a un repentino decesso in meno
di un anno nel '44. Ma viene confermato però, come sostiene lo stesso Areta,
che Oddino era stato fin dall’inizio una figura importante nell’organizzazione
della Resistenza. Non si sa esattamente il suo ruolo, anche perché ovvi motivi
di cautela, non vi sono documenti scritti dell’epoca. e a detta di mia nonna
lui era anche in famiglia estremamente riservato in queste faccende, per cui
sono arrivate soltanto notizie molto vaghe. Si raccontava ad esempio che sul
letto di morte, avesse implorato i fratelli di dirgli se stava morendo, perché
in quel caso, e solo in quel caso, aveva delle informazioni molto importanti da
rivelare. Per pietà l’hanno rassicurato sulla sua salute e quel segreto se ne è
andato con lui.
L’immagine
che è stata tramandata del nonno Oddino, forse anche un po’ idealizzata, è
quella di una sorta di intellettuale proletario; era stato incarcerato per
attività contro in regine attorno al 1923. Un uomo dunque ovviamente schierato,
ma dotato di una integrità morale, e di doti umane, tali da farsi apprezzare
anche dagli avversari. A questo riguardo è forse emblematica la partecipazione
ai suoi funerali, in modo defilato, ma rispettoso, di un noto e rinomato
fascista della zona. Il fatto che in tempi così spietati, in piena guerra
civile, un noto antifascista di lunga data abbia suscitato un tale gesto
cavalleresco è forse una conferma di questa immagine.
Sarebbe
poi interessante riscoprire l’attività di Enrico, sia come sindaco di Rio
Saliceto di Enrico, che di presidente della cooperativa.
**
Ecco cosa scrive Dante
Areta sulla famiglia Bellesia con riferimento agli anni della Resistenza in
un articolo del 1963, su un periodico locale non ancora identificato.
Enrico Bellesia
Una
nobile figura di lavoratore, di capofamiglia, di combattente per la libertà e
il socialismo
Durante
uno dei primi giorni di Novembre, in un pomeriggio umido e grigiastro, un carro
zeppo di mobili e cianfrusaglie avanza oscillando sul ponte della Lama, laddove
il canale forma un bacino abbastanza vasto, delizia di pescatori e nuotatori
carpigiani. Appollaiato fra un cassettone ed un sacco di legna, in equilibrio
incredibilmente instabile, svetta un bambino di cinque anni; più indietro e più
in basso, col corpo continuamente scosso
dai
movimenti del carro; un vecchio in atteggiamento raccolto. Nulla di eccezionale
in questa scena, così frequente nelle nostre campagne ai primi di Novembre.
Tante famiglie «fanno S. Martino»; tanti contadini lasciano la terra dove
hanno lavorato e procreato, dove sono nati e vissuti; lasciano la terra,
lasciandovi un po' di se stessi e vanno a fecondare dell'altra terra, agli
ordini di un altro padrone.
Perciò
quel carro arranca fra gli sguardi indifferenti dei passanti; con quel vecchio
e quel bambino che rappresentano i due estremi del grande arco di una famiglia
patriarcale: i Bellesia.
Si
compie, con quel lento viaggio, l'ultimo atto di una rapida diaspora che ha
frantumato nel giro di pochi anni un nucleo familiare di 33 persone.
Enrico
Bellesia nacque a Rio Saliceto nel 1879. Ha, quindi, 84 anni, ma non li dimostra.
Anche se il corpo è un po' stanco, dopo tanti decenni di fatiche, il suo
spirito è integro e saldo, la sua conversazione è brillante, con le parole che
fluiscono rapide e chiare come da una vecchia polla di montagna, con il volto
che di tanto in tanto si illumina come per dar forza al discorso o per
sottolineare un ricordo particolare.
È stato
un combattente, Bellesia; un combattente di tempra. Non di quelli che
s'accendono luminosi come un fuoco di bengala per poi esaurirsi bruciati dalla
loro stessa luminosità accecante; no, Bellesia è stato un fuocherello di buona
legna, sempre alimentato dalla tenacia di una convinzione che ha riscaldato
tutti coloro che gli sono stati vicini, e che tuttora costituisce la sua forza.
I suoi
genitori erano braccianti, e bracciante fu lui stesso, quando verso la fine del
secolo, le prime voci di redenzione degli oppressi e degli sfruttati
incominciavano a levarsi nella campagne emiliane. Il giovane Bellesia guidava
un gruppo di amici, tutte le sere, da un paese all'altro, ad ascoltare i nuovi
tribuni che denunciavano una società ingiusta, indicando la via per raggiungere
una convivenza veramente umana nel mondo: «Mi piaceva! – racconta – Pareva che
dovesse venire qualche cosa di nuovo».
Nel 1901
partecipò alla organizzazione del circolo socialista e negli anni successivi fu
tra gli animatori delle nascenti leghe.
Nel 1904
nacque la Cooperativa Agricola Braccianti di cui egli fu Presidente fino al
1930.
Per 25
anni, tutte le sere, dopo il lavoro, Bellesia si ritrovava a discutere in
riunioni ed assemblee i problemi della lotta e dell'organizzazione: il Partito,
la Cooperativa Braccianti, la Cooperativa di consumo, le leghe; dappertutto ci
fosse bisogno di parlare, di convincere, di chiarire. Un lavoro continuo,
tenace, da formica, per cucire instancabilmente la trama di quel movimento
democratico e socialista che oggi è il protagonista della nostra Regione.
Dopo la
guerra, egli divenne necessariamente il nemico giurato dei fascisti che
cominciavano a pullulare al soldo degli agrari. Nel 1920 fu eletto Sindaco di
rio e Consigliere Provinciale nel mandamento di Novellara. Ma l'anno dopo fu
costretto a dimettersi. Più volte fu aggredito e picchiato dalle bande di malviventi
littori che mal digerivano la coerenza di questo semplice bracciante che
continuava a tenere uniti i suoi colleghi nella Cooperativa Agricola, ultima
oasi di libertà in un comune già sottomesso. Ma anche la Cooperativa aveva i
giorni contati; infatti la famigerata politica della «quota 90» mandò in rovina
il lavoro di anni ed anni ed i braccianti dovettero abbandonare un fondo di 150
biolche acquistato con un mutuo, dopo che il Podestà aveva venduto tre fondi
del Comune che essi lavoravano in affitto.
E così,
calata la tela sul primo atto della sua vita e di lotta, nel 1932 Bellesia
caricò la sua famiglia e le sue cose e se ne andò a Limidi in via Pratizzola,
dove un vasto appezzamento di terre attendeva braccia laboriose. Il carro era
pieno, quella volta. C'erano la sua donna e dodici figli, la maggior parte
bambini.
Dopo
qualche tempo arrivò il Maresciallo dei Carabinieri per fare una perquisizione.
Congedandosi, il sottufficiale lo ammonì: «Lei è ben pedinato. Basta con la
politica. Lasci che la politica la facciano quelli che ne hanno la capacità».
Già, la capacità di far politica era dei padroni e dei loro tirapiedi. Come
oggi, no?
Il
fascismo imperversava ed i figli crescevano. A loro Enrico Bellesia insegnò a
lavorare, ma insegnò anche a lottare per i loro diritti e per un avvenire
migliore. E non a caso uno dei suoi figli, Odino (che mi ricorda un po' Ovidio
cervi) divenne un attivo militante del P.C.I. clandestino, organizzando e
diffondendo l'Unità. Odino venne arrestato a 16 anni per diffusione di
volantini antifascisti e fu poi uno dei primi organizzatori della Resistenza
nelle campagne del solierese. Alla resistenza parteciparono anche gli altri
figli di Bellesia, fedeli all'esempio del padre.
Dopo la
liberazione, questa famiglia costituì un vero e proprio centro dell'attività
politica e sindacale. Ben 22 membri della famiglia erano iscritti alle
organizzazioni del Partito comunista. La casa colonica di Bellesia divenne la
sede di una cellula di cui il patriarca era segretario.
Nel 1947
due trebbiatrici lavoravano nell'aia: quella della Cooperativa trebbiava il
grano del mezzadro ed una privata il grano del padrone. Bellesia non cedeva
mai. Più tardi costituì la commissione d'azienda, di cui fu dirigente ed
animatore.
Il carro
continua ad avanzare, lentamente oscillando nel crepuscolo nebbioso. Il vecchio
pensa. Non ha più vent'anni, ma guardando il bimbo seduto davanti a sé pensa
che veramente verrà qualche cosa di nuovo. Sono scomparsi i Prampolini e
rivoluzionari con la cravatta alla Pietro Gori; ma i lavoratori hanno fatto
molte conquiste, sono più forti.
L'avvenire
è nelle loro mani ed essi lo costruiranno a dispetto di ogni difficoltà. Egli
sa queste cose. Ha compiuto il suo dovere lavorando, insegnando e moltiplicando
se stesso nei suoi figli e nipoti che continueranno a lottare per realizzare
quel nuovo mondo che accendeva la fantasia del giovane bracciante di Rio
Saliceto e ne illumina la vita.
Dante Areta
***
Immagini della
Famiglia Bellesia
***
2015 San Martino in Rio – Museo della Civiltà
Contadina
La madre di Luca Turci emozionata e commossa davanti alla gigantografia della famiglia Bellesia; è la terza in alto da sinistra, più di 60 anni prima.
La madre di Luca Turci emozionata e commossa davanti alla gigantografia della famiglia Bellesia; è la terza in alto da sinistra, più di 60 anni prima.
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