sabato 12 novembre 2016

Gigi Filiberti - il sacchetto delle palline di vetro- Carpi - dialetto carpigiano - a cura di Mauro D'Orazi

Gigi Filiberti (Carpi) nel suo libro di ricordi “Rospi e farfalle” (2016) si sofferma in modo efficace sui giochi con le palline.
I nonni di Gigi avevano un emporio - ingrosso sotto il portico del vescovado in corso Fanti e, nella seconda metà degli anni ‘40, il vivace ragazzino assieme a tanti coetanei si concentrava in giochi tradizionali, tra i quali quìi dal véedri.
Ecco la sua intensa rievocazione:

“Eravamo in tanti ragazzini, oltre che da Corso Fanti, venivano dalle vicine vie Santa Chiara, Ciro Menotti (Dóo Schèeli) e Cesare Battisti (Bevdéer).
D’inverno in corso Fanti si faceva la linghèeda sull’asfalto ricoperto da una lastra liscia di ghiaccio; si giocava a bigaara con le pietre sotto il portico e a  s-ciàancol - vèggna! Una specie di “baseball” nostrano giocato con mazze di legno (la canèela) fatte da noi.
Corso Fanti era a quei tempi una strada stupenda; era viva e brulicante di gente e di attività. Il vescovo Dalla Zuanna passava tutti i giorni col suo segretario. Sempre sorridente, porgeva a noi bimbi la mano, perché potessimo baciare l’anello con sigillo episcopale.
C’erano poi tanti contadini e bottegai di periferia che entravano a Carpi da Porta Mantova... C’erano le suorine di Santa Chiara e, sempre tanta gente che andava e veniva da piazza Martiri, gli studenti del liceo Manfredo Fanti, i seminaristi e i bambini delle scuole elementari. Ala, la nostra femmina di bracco italiano, andava da Romano, il cartolaio di fronte a Palazzo Gandolfi, a prendere il giornale per il nonno. In bocca, senza bagnarlo, glielo depositava in mano in cambio di una carezza sulla testa. Da Palmati, l’antiquario poeta, compravamo gli ami da pesca, che attaccavamo maldestramente a un filo di nylon legato in cima a una frusta da cavallo, che trovavamo alla Ferramenta Tardini. Con questa canna rudimentale andavamo a pescare le sgarze o gli “orologi” alla Lama o nel canalino in via Due Ponti. Giocavamo a nascondino dietro le colonne del portico del vescovado o, addirittura, entrando nei vari negozi, dove tutti i proprietari ci sopportavano avendo anche loro dei bambini nel nostro gruppo.
Giocavamo con le “vetre” o, ancor prima, con le palline di terracotta che noi fabbricavano con l'argilla. Infatti, in campagna, ti procuravi della morbida terra all'interno degli argini dei fossi, ti assicurarvi che fosse bella morbida, cremosa e priva di impurità, la inumidivi e la manipolavi un po' e, con un pizzico, ne facevi una pallina, strofinando il palmo destro in senso orario su quello sinistro che si teneva fermo. Ne usciva una pallina, più o meno rotonda, a volte ovale, che si doveva correggere perché, rotolando in modo irregolare, avrebbe, durante il tiro, cambiato direzione. Poi, posizionate tutte in fila, si mettevano ad asciugare al sole cocente dell'estate. Una volta cotte, con gli acquerelli Giotto o con i pastelli, si dipingevano. Ognuno sfogava, nella pallina, il suo estro, il suo gusto, la sua personalità. Una volta finite, le mostrava agli amici e ne andava fiero.
Finalmente avemmo a disposizione le VETRE! Esistenti, ma rare, anche prima della guerra, trovarono grande diffusione negli anni ’50, soppiantando quelle brutte e fragili di terracotta. Le vetre le potevi trovare al bazar in piazza, oppure al carretto di Medici sotto al portico di corso Fanti. Potevano essere a tinta unita, trasparenti o con al loro interno venature di smaglianti colori, dal viola al giallo, dal rosso al fucsia, dal verde al nero. Erano di dimensioni piccole, medie, grandi e, le più belle, erano conosciute nell'ambiente, ambite e valevano due, tre, quattro di quelle normali: i famosi bulòun. Significava che, se uno, nel cerchio, le metteva in gioco, l'altro, come contropartita, ne doveva mettere due, tre, quattro. Chi le vinceva arricchiva la sua collezione. Giocavamo con le vetre sulla terra battuta, sulle strade quando non erano ancora asfaltate, sui marciapiedi.
Mi rivedo ancora giocare a "trii paas ind la saana", ovvero tre passi nel terreno regolare. Consisteva nel tracciare un cerchio sul terreno di gioco, dentro il quale, ogni giocatore metteva un ugual numero di “vetre”. Una pallina veniva usata “criccare” col dito pollice e il dito medio, cercando di colpire quelle dentro al cerchio per farle uscire e intascarle.
Il terreno di gioco doveva essere minimo èd trii paas ind la saana (sul piano pari) per fare in modo che le “vetre” scorressero veloci e non prendessero direzioni diverse. Quelle che bocciavi e che uscivano dal cerchio, diventavano tue. Continuavi fino a quando non sbagliavi e, a quel punto, la mano passava a un altro. Per criccare bene, quando il colpo era difficile, dovevi metterti in ginocchio, a volte mettere la testa di lato, quasi a toccare il terreno; poi, chiudendo un occhio per meglio prendere la mira, sferrare il cricco vincente. Quel gioco era il nostro biliardo e il cricco la nostra stecca.
Avevamo i pantaloni corti e, inginocchiandoci, si conficcavano nelle ginocchia i sassolini, la ghiaia, la polvere. Mamma mia che male! Era tanto però il desiderio di vincere e tanta la competizione che nemmeno ti accorgevi del dolore e delle goccine di sangue che uscivano dalla pelle impolverata.
Si facevano gli scambi. Una bella vetra (un cavaliere) ne poteva valere anche otto, dieci di quelle normali e sacrificarne una bella voleva dire aumentare la propria "cartucciera", quindi poter partecipare sempre al gioco. Giocando, avevi la possibilità di recuperare la tua, quella che avevi sacrificato poco prima.
Le mie vetre le ho ritrovate per caso, dopo circa sessant'anni anni, ancora nel piccolo sacchetto con cordoncino che mia madre mi aveva fatto all’uncinetto. A volte quel sacchettino era sgonfio, altre tanto pieno da non riuscire nemmeno a chiuderlo con laccetto. Si portava sempre in tasca quel sacchettino, perché in ogni angolo di strada, in ogni quartiere dovevi essere sempre pronto a raccogliere qualsiasi sfida. Quando camminavi, sentivi il caratteristico tintinnio delle vetre in tasca. Sono ventidue quelle che ho ritrovato, una delle quali “importante” e due di terracotta! Guardandole mi sembra di ricordare dove, quando, perché, con chi e in quale fosso presi quel certo giorno quella manciata d'argilla. Mah?!? Sono passati, da allora, quasi sessantacinque anni... troppo tempo: è impossibile! ... come faccio a ricordare?


Seconda metà degli anni ’40 -  Ecco il sacchetto porta palline di Gigi Filiberti (Carpi) fatto a uncinetto dalla madre. Una preziosa reliquia di un glorioso e indimenticabile tempo passato!

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