venerdì 4 gennaio 2013

Unnṡer al spròoch - Ungere lo sprocco - dialetto carpigiano - Mauro D'orazi - Carpi






Prima stesura aprile 2010                                                   V94 del 13-02-2015

Unnṡer  al spròoch


Usi, tradizioni, ricette, modi di dire a Carpi
e nelle zone limitrofe
per Capodanno e Carnevale, dopo la pcarìa

di Mauro D'Orazi

La grafia del dialetto è stata curata da Graziano Malagoli
Il testo è stato revisionato da Giliola Pivetti
Negli ultimi anni la crisi e l'asservimento culturali della nostra società, che assorbe in maniera quasi sempre acritica usanze e mode provenienti dall'estero e in particolare dagli USA, ci ha imposto le sciocche, ma con forte valenza commerciale economica, feste della mamma, del papà, del nonno, della suocera, ecc …
Fra di esse ne spicca una che è detta di Halloween, che io conoscevo solo grazie alla lettura delle stupende strisce di Charlie Brown. L'usanza di celebrare questa festa si è propagata a macchia d'olio nelle scuole e negli asili e ha emarginato, ad esempio, la nostra tradizionale festa di santa Lucia (13 dicembre - festa della luce, che prima della riforma del calendario giuliano nel 1582, sostituito dal calendario gregoriano, corrispondeva esattamente al solstizio d'inverno). La ritualità di Halloween prevede che i bimbi mascherati, sotto terribili apparenze, suonino alle porte del vicinato "terrorizzando" chi viene ad aprire e intimando loro: Trick or treat? in italiano Dolcetto o scherzetto ? A queste richieste si risponde benevolmente con una caramella, una fetta di torta, ecc.
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Ebbene non c’è nulla di nuovo e andando a scavare un po'… ecco che escono subito antiche usanze e tradizioni della nostro zone, che, ben più vere e sentite, caratterizzavano il comportamento dei nostri antenati e nel contempo servivano a ridistribuire, un poco, qualche risorsa alimentare, in un' epoca in cui certo non c'era da stare allegri e le mamme non avevano fra le loro priorità quella di dare ai loro figli merendine e barrette di finta cioccolata e latte in polvere purissimo.
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Ci soffermiamo su una vecchia usanza correlata al carnevale ed ormai scomparsa: quella di unnṡer al spròoch (ungere lo sprocco), risalente a quattro, cinque secoli fa. Il giorno di giovedì grasso i bambini e i ragazzi delle famiglie povere (di solito i fióo di camaràant) andavano in giro di porta in porta, armati di un bastonino di legno appuntito, detto spròoch (sprocco), per chiedere in dono qualcosa da mangiare, di solito un po’ di lardo che era allora l’ “olio” delle nostre zone. La formula tipica con cui si usava fare la richiesta al padrone o alla padrona di casa era la seguente: “Fèe v al pieṡéer d unnṡer al spròoch ? (fate il piacere di ungere lo sprocco ?” O anche, dopo avere bussato alla porta, si ripeteva con insistenza e cantilena: “M unnṡìi v al spròoch? M unnṡìi v al spròoch? (mi ungete lo sprocco? Mi ungete lo sprocco?)
Si potevano chiedere anche altri generi commestibili o del vino.
I ragazzi di città andavano invece dai bottegai che vendevano alimentari. A tale proposito il modenese Don Arturo Rabetti, nel suo “Modena di una volta” ricorda: Il pizzicagnolo Colombini, di Via San Michele, espose una volta per Natale una mortadella di ben 130 kg. Il bomboniere Parmeggiani, nel 1890, ornò la sua vetrina come quella di un salumiere e profuse una esposizione di salsicce, cotechini, zamponi e salami, fabbricati dal cartonista Matteo Bulgarelli. Erano fatti così bene che davano l’illusione di essere veri.
**=M=**

I questuanti usavano vari tipi di filastrocca, che esisteva in numerose versioni; le ho qui riunite in una specie di testo unico:

A suun gnuu a unnṡer al spròoch. Sono venuto a ungere lo sprocco.
Dèe m èn bèin un bèel malòoch.                    Datemene bene un bel blocco.
Dèe m èn bèin un maluchìin,                Datemene bene un pezzettino,
pèr unnṡer al mè spruchìin                            per ungere il mio bastoncino.
Dèe m èn bèin ‘na bòuna fètta,             Datemene bene una bella fetta,
a suun gnuu a unnṡer la mé stècca!       sono venuto a ungere la mia stecca!

A suun gnuu pèr unnṡer al spròoch,     Sono venuto per ungere lo sprocco,
sóol ch a m in dèedi un bèel tarlòoch.   sol che me ne diate un bel tarlocco (pezzo)
Un tarlòoch, un tarluchìin,                   Un tarlocco, un tarlocchino,
sóol ch a m in dèedi un bèel puchìin.    sol che me ne diate un bel pochino.

A suun gnuu a unnṡer al spròoch,        Sono venuto a ungere lo sprocco
ch a m in dèedi un bèel balòoch           che me ne diate un bel pezzo
ch a m in dèedi un bèel baluchèin         che me ne diate un pezzettino
da purtèer al mè putèin.                      da portare al mio bambino.

O cuntadèin  !                                    O contadino !
A iò savùu ch a gh ii dal vèin,              Ho saputo che avete del vino
s a n m in dèe mìa ‘na fiaschètta          se non me ne date una fiaschetta
che Dio v maanda ‘na saiètta                che Dio vi mandi una saetta.

Il mitico carpigiano "Cetta", al secolo Bussei Celerino, nel secolo scorso, recitava questa breve poesiola, ricordando i suoi anni giovanili:

Reṡdurèina dal capèel                          Padroncina col cappello di paglia
paasa in ca a fèer al fritèel                   vai in casa a friggere le frittelle
pèr chi pòover mascarèin                    per quei poveri mascherini
chi gh àan ‘na faam da pelegrèin.         che hanno una fame da pellegrini.

Il tutto si può riassumere efficacemente col più breve e molto ambiguo:

Bèela reṡdóora, m unnṡìi v la sprucadóora !
 Bella padrona di casa, ungetemi il bastoncino !


Lardo di maiale
Il significato di queste richieste sta nel fatto che si usava infilzare il dono nel bastone appuntito che il ragazzino portava con sé: poteva essere un pezzo di lardo, un po’ di carne di maiale, oppure una fetta di polenta o anche del pane, quindi da qui l'allusione a "ungere" lo sprocco. Qualcuno più avveduto comunque portava seco anche un tigìin (tegamino) o un pgnatèin (pentolino), nel caso si ricevesse della minestra o altre cibarie non "infilzabili".

Tegamino di coccio
I ragazzi, in piccoli gruppi, si recavano nelle varie case dei contadini della zona e giunti davanti alla porta recitavano la filastrocca; usciva allora la reṡdóora che inseriva in ogni spròoch un pezzetto di lardo, di dimensioni che variavano a seconda della resa data dalla pcarìa (la macellazione del maiale), effettuata poche settimane prima.
I ragazzi ringraziavano e si recavano alla casa appresso ripetendo il rituale. In poco tempo riuscivano a riempire al spròoch e allora soddisfatti tornavano alle loro case, fieri di aver partecipato al problematico sostentamento della famiglia col loro contributo. Era dunque un’occasione anche per i più poveri di festeggiare il Carnevale con un piatto più fornito del solito.

Castagnole - frittelle dolci di carnevale
Ecco una simpatica filastrocca evocativa del Carnevale, dei suoi dolci e delle sue frittelle; parte con la puiàana, un uccello delle nostre zone. Senza dimenticare che la puiàana però è anche uno speciale attrezzo con una lama davanti che viene utilizzato per sgomberare la neve dalle strade.
La puiàana ed còo d un pèel                 La poiana sopra un palo
la ciamèeva Carnevèel.                        chiamava Carnevale.
Carnevèel l éera mòort,                       Carnevale era morto
e nisùun a s n éera acòort;                   e nessuno se ne era accorto;
mò a s n è adèeda mè surèela,            ma se ne è ben resa conto mia sorella,
ch la magnèeva ‘na fritèela.                 che mangiava una frittella.
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La versione di Luisa Pivetti (Carpi) è invece la seguente e si richiama alla seconda parte dell'antica filastròoca carpṡaana d 'na vòolta Ti tu-sèela cavalòun !!

La puiàana in simma a un pèel             La poiana sopra un palo
la ciamèeva carnevèel.                         chiamava Carnevale.
Carnevèel al n à vluu gniir,                  Carnevale nonè voluto venire,
la puiàana l à tgnuu murìir.                  la poiana ha dovuto morire.

Laasa ch la moora,                              Lascia che muoia,
a gh farèmm 'na caasa noova.              le faremo una cassa nuova.
Noova nuvèinta, un piàat èd pulèinta,   Nuova noventa, un piatto di polenta,
un piàat èd salsissa                             un piatto di salsiccia
ch al fa balèer la margaritta.                 che fa ballare la margherita

Margaritta di curàai                             Margherita dei coralli
sèelta su ch a caanta al gaal.                salta su che canta il gallo.
Caanta al gaal e la galèina,                   Canta il gallo e la gallina,
sèelta su Margaritèina!                         salta su Margheritina!

**=M=**
C’era però un’altra tradizione simile pèr andèer a la séerca, sia cittadina che di campagna, con una variante temporale per il primo mattino dell’anno, quando la scaramanzia obbliga(va) rigorosamente ad aprire la porta di casa per primo a un maschio.
I ragazzini urlavano una speciale augurio al nuovo anno: Alinóov!
Ecco una breve poesiola gioiosa usata anticamente nelle campagne la notte di capodanno:

Alinòov! Alinòov!                                Al nuovo! Al nuovo!
La tóorta ind al sóol                            la torta nello stampo,
e i caplètt ind al paróol!                      e i cappelletti in pentola!
I turtlèin ind al parulèin,                      I tortellini (fritti) nel paiolino (canestrino),
la ròoba bòuna a ca mìa                      la roba buona a casa mia
e cla catiiva ch la vaaga vìa.                 e quella cattiva che vada via.
**
E’ simpatico ricordare anche una filastrocca, conosciuta in varie versioni leggermente diverse, che si recitava nelle nostre zone per augurare il buon anno:

A suun gnuu a dèer al bòuni fèesti                 Son venuto a dar le buone feste
             [al bòun Cavdàan]                                      [del buon inizio dell'anno],
c
h a scampèedi sèint aan,                               che campiate cent'anni,
sèint aan e un dè                                          cent'anni e un giorno
la bòuna maan la vèggna a mè.                     la buona mano venga a me.
Mè a n vóoi nè òor, nè argìint,                       Io non voglio né oro, né argento,
èd quèll ch a m dée a suun cuntèint.              di quel che mi date io son contento.
E se a n èm dèe gniint,                                 E se non mi date niente,
ch a v vèggna n asidèint !                             che vi venga un accidente!

La reṡdóora la va in ca,                                 La padrona va in casa,
pèr gniint la n gh andrà.                               ma per niente non ci andrà.
S la va a tóor un quèelch suldèin,                   Se va a prendere qualche soldino,
a m a l mètt ind al bisachèin.                         me lo metto nel taschino.
**=M=**

Se la ricompensa era misera, o addirittura il questuante veniva cacciato via sgarbatamente, era molto facile che venisse lanciato un auguràas:
Sèint aan e un méeṡ
e dmatèina lunngh destéeṡ!
Cent’anni e un mese e domani mattina lungo disteso
o ch a caschèedi lunng destéeṡ o che cadiate lungo disteso.

Altre varianti èd melaugurri carpigiani
Maledizioni di una volta, quando si dava del voi, per rispetto… ovvio.
Venivano a bassa voce dalla nuova contro la suocera, o anche dai ragazzi (ad alta voce) che andavano ad augurare buono anno, o a unnṡer al spròoch, quando NON ricevevano nulla:
Bòun viàas!
Òogni paas un stramàas,
òogni murr ninsuchèeda;
òogni vìa na caschèeda!
(Buon viaggio! Ogni passo un inciampo, ogni muro una testata, ogni via una caduta!)

Bòun aan!
Ch a scampèedi sèint aan!
Sèint aan e gnaan un méeṡ,
ch a caschèedi lunng destéeṡ!
(Buon anno! Che ne viviate altri cento... ma che a meno di un mese vi troviate lungo disteso - morto!) 

**=M=**

Giliola Pivetti ricorda che Gargallo, negli anni '50, un uomo taccagno infilò nello sprocco di un ragazzino un pezzo di lardo vecchio, ingiallito e rancido.
Il ragazzino, che lo ricevette, raccontò a tutti l'episodio e, da quel momento e per sempre, il gretto personaggio fu soprannominato Còddga araansa (cotica rancida).
**=M=**


Tortellini fritti con ripieno di savóor opera di Antonella Baracchi - Carpi

Anche i tipici tortellini dolci fritti, con il ripieno di savóor, venivano offerti ai questuanti del giorno di Capodanno; essi ne facevano specifica richiesta con una ulteriore tiritera:

A v salutt bòuna giint!                         Vi saluto buona gente!
Ch a siidi tutt cuntèint!                         Che siate tutti contenti!
Ch a stèedi in sanitèe,                          Che restiate in buona salute,
sìa d invèeren, che d istèe!                   sia d’inverno, che d’estate!
S a gh ii un turtlèin ind al casètt,          Se avete un tortellino nel cassetto,
dèe m l a mè ch a gh daagh al rafètt!    datemelo a me che lo faccio sparire!
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Mario Guidetti (Carpi): - Nel 1976 presso le scuole elementari di via Cuneo, i bambini della mia classe fecero su e giù per la via Morbidina bussando alle porte dei residenti, all'epoca pochissimi, perché era tutta campagna, recitando la poesiola:
"Andèmm a unnṡer al spròoch
pèr fèer dal bòun gnòoch,
da vènnder ai più gulóoṡ!
Che festèin gioióoṡ!".
Ringrazio ancora le maestre per questa bellissima iniziativa, che mi è rimasta dentro profondamente.-
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A testimonianza che queste usanze interessavano una vasta area, a Finale Emilia il giovedì grasso i ragazzini andavano in giro per le case cun la sprucaròla (il solito bastone appuntito) e recitavano:
Brasòla, brasòla,
 ad cò dala mè sprucaròla!
Oppure il classico:
Razdòra,
 ‘m unzìv la sprucaròla?
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I significati della frase
unnṡer al spròoch

Lo sprocco (qui nel Carpigiano come nel resto d'Italia) è dunque un bastone, oppure un manico, o comunque un generico oggetto allungato e appuntito a forma di bastone. Ma il termine ha anche altri interessanti significati e simbolismi: per esempio, sempre in dialetto lo spròoch è il chiavistello del catenaccio delle porte, e quindi sarèer cun al spròoch (chiudere con lo sprocco) è sinonimo di chiudere col catenaccio.
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Lo spròoch diventa anche la metafora per indicare l'organo sessuale maschile; l'espressione unnṡer al spròoch diventa a sua volta un simpatico modo di dire per indicare l'atto sessuale (visto dalla parte dell'uomo, ovviamente). Questa frase viene quasi sempre usata per indicare un rapporto frettoloso, saltuario o illegittimo.
Una tipica frase poteva essere: al gh à la praatica, mò al la dróova sóol pèr unnṡer al spròoch (ha l'amante, ma la usa solo per veloci rapporti).
Tornando per un attimo alla pratica del Giovedì Grasso, quando il ragazzino chiedeva il pezzetto di lardo, non di rado la reṡdóora, ch la n gh iva mìa taant spadìi in bòcca, (che di solito non aveva un gran ritegno o timore nel parlare), gli rispondeva maliziosamente: “Viin mò dèinter ragasóol, ch a t unnṡ al spròoch! (Accomodati dentro che ti ungo lo sprocco!)”.
Renzo Ganassi (Carpi) ricorda: “Un tempo si usava chiedere all'amico dopo una missione galante: "Alóora? Gh l èet cavèeda a unnṡer al spròoch?".
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Ancora, unnṡer al spròoch ha il significato di dare soldi a qualcuno come contentino, come sovvenzione o come mazzetta. Spesso tale azione era giustificata e vitale nell’ambito della dura vita di campagna, quando un mezzadro con il contratto in scadenza o senza, versava una cifra o dei prodotti agricoli per ingraziarsi i favori dei mediatóor da piàasa, che stazionavano, in particolare nei giorni di mercato al giovedì e sabato mattina, presso il Bar Milano e il Caffè Teatro. Si chiedeva loro di mettere una buona parola coi proprietari di poderi con casa per averli in affitto e con discrete condizioni contrattuali. Il mediatore, opportunamente “unto”, cercava e trovava il fondo da affittare e portava avanti e facilitava le trattative fra le parti. Il cambio di gestione di un podere avveniva di solito per San Martèin (l’11 novembre), da cui l’espressione fèer san Martèin per indicare un trasloco, non di rado doloroso (1). Bisogna notare che questa data autunnale, non nasce dal caso, trova precisa giustificazione col fatto che la vendemmia era terminata, i lavori di campagna erano in un momento di relativa stasi, in quanto c’era quasi solo da potare e si sperava nelle giornate soleggiate dell’“estate di san Martino”.
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Oggi l’uso della frase mi sembra oramai esclusivamente negativo, dopo Tangentopoli e i continui episodi anche recentissimi. Si è dunque passati a un concetto di corruzione più spinta, priva di ogni base morale e di dignità per lubrificare i più nascosti ingranaggi. Non ci può nemmeno consolare il fatto che l’usanza sia molto antica. E c’è chi è dell’opinione che unnṡer al spròoch derivi anche dall'usanza degli esattori del dazio, di un tempo, di infilare un bastone aguzzo nei sacchi che entravano in città sui carri per accertarsi che non vi fosse nascosto qualcosa di consistente. Se i gabellieri erano corrotti, fingevano che il bastone entrasse nel sacco senza fatica, come se fosse… unto.


Per capodanno e carnevale… usanze simili
Queste belle usanze per capodanno e carnevale sono state perse negli anni ’70: un grasso benessere si era diffuso e i bambini non avevano più nulla da chiedere che già non avessero in famiglia, in particolare poi il cibo, abbondante e condito da una irresistibile e una inarrestabile pubblicità televisiva.


1935 ca - Carnevale a Carpi- distribuzione di frittelle
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Ecco una significativa poesia di Giacinto Bruschi di Carpi, che visse direttamente quell’esperienza, e che sapientemente la ripropone in questi sentiti versi:

GIUVIDE’ GRAS                                                  GIOVEDI’ GRASSO

(Quand a s’andéva a ùnzer al spròoch…)                  (Quando si andava a ungere lo sprocco …)

Mè a sun andè stè giuvidè gràs                                Sono andato questo giovedì grasso
per ciapèr ed l’aria a fèr quater pas                          per prendere un po’ d’aria a fare quattro passi
e fòra da Chèrp, tra palàs e vìli ,                              e fuori da Carpi, tra palazzi e ville,
sèins’ adèrmen a sun rivè al Pìli.                              senza accorgermene sono arrivato alle “Pile”.

A-m sun lé arvìst e dirl’ a-m sa sciòch                      Mi sono lì rivisto e dirlo mi pare sciocco
quand andèva an fa a ùnzr’ al spròoch ,                   quando andavo tanti anni fa a “ungere lo sprocco”,
perché l’éra custùm per i ragàs                                perché era tradizione per i ragazzi
d’ andèr cal giòren lè a la “serca ed gràs”.                 di andare quel giorno lì alla “cerca di grasso di maiale”.

Co’ ‘l spròoch in d’na man e in cl’etra la brèta            Con lo “sprocco” in una mano e nell’altra il berretto
un picc’ a l’ùss… un còlp a la marlèta                       un picchio all’uscio, un colpo al saliscendi delle porte
andeva in tùtt al cà d’ lungh a ‘l canèl                       andavo in tutte le case lungo il canale (il Gabelo)
in-dua i avìven masè al “nimèl”.                              dove avevano ucciso il maiale.

E ànch in dal cà ed la gint puvrèta                            E anche nelle case delle famiglie povere
ed gràs in dal spròochh i-t n’ infilèven ‘na fèta ,         di lardo per il mio “sprocco” ce n’era una fetta,
perché ‘na vòlta a s’ éren meno sgnòr                      perché una volta eravamo meno ricchi,
ma la gint la gh’ ìva dimòndi più còr.                       ma la gente aveva molto più cuore.

Al fòren dal Pìli tùtt i àn al gìr                                 Al forno delle Pile tutti gli anni il giro
cun ‘na fèta ed… belsòun al féva finìr.                      con una fetta di belsone lo facevo finire.
E tùtt cal vòlti che in cà a-s frìs al gnòch                  E tutte le volte che in casa si frigge il gnocco
per mè ‘l gh’à al gùst… dal gràs dal mè spròoch        per me ha il gusto del grasso del mio sprocco.

Giacinto Bruschi poeta carpigiano

Nota
(1) Fare San Martino è un modo di dire usato in tutto il territorio a vocazione agricola della pianura padana. Significa traslocare o trasferirsi, ma anche, in senso più ampio, cambiare luogo di lavoro. L'origine di questa frase fatta risale ad alcuni secoli or sono ed aveva un riscontro pratico sino a qualche decennio fa, quando una significativa parte della popolazione attiva della pianura padana era occupata nel settore agricolo in qualità di braccianti. L'anno lavorativo dei contadini terminava a inizio novembre e, nel caso il datore di lavoro (proprietario del fondo) non avesse rinnovato il contratto con il contadino per un altro anno, egli era costretto a trovarsi un nuovo impiego altrove, presso un'altra cascina. In tal caso doveva abbandonare la casa (anch'essa di proprietà del padrone) e trasferirsi nella nuova dimora, con tutta la famiglia al seguito. La data scelta per il trasloco era quasi sempre l'11 novembre, giorno in cui la Chiesa ricorda San Martino di Tours, per tradizione e per ragioni climatiche (il periodo di tempo stabile e soleggiato che contraddistingue - in media - i giorni attorno alla prima decade di novembre sono definiti "estate di San Martino").Curiosità -Nel corso della grande battaglia di Solferino e San Martino, preoccupato per il disastroso andamento della battaglia di San Martino del 24 giugno 1859, il re Vittorio Emanuele II si rivolse nel comune dialetto ad una formazione di soldati piemontesi della brigata Aosta, di passaggio da Castelvenzago, con la celebre frase: «Fioeui, o i piuma San Martin o i auti an fa fé San Martin a nui!» (« Ragazzi, o prendiamo San Martino o gli altri ci fanno fare San Martino a noi!»
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Le ricette tipiche del Carnevale
raccolte da Luciana Nora e da Mauro D’Orazi 2007-2013

Rosoni
Ricettario manoscritto famiglia Foresti - Carpi
Farina grammi 600
zucchero grammi 120
burro grammi 60
uova 3 intere e 2 bicchierini di rinfresco, scorza di limone grattugiata
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Rosoni, cenci, nastrelle
Ricettario di Daniele De Pietri - Carpi
Farina Kg 1.000
Zucchero gr. 200
Burro gr. 100
Uova intere gr. 400
Un pizzico di sale
Scorza di limone - Vaniglia
Olio o strutto - Zucchero velo
Procedimento: fare una fontana con la frutta impastare zucchero e burro aggiungere le uova poco per volta infine incorporare la farina fare un impasto sodo lasciare riposare, almeno un ora poi stendere sottile tagliare a piacimento.
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Così come per la ricetta, anche il confezionamento del rosone varia da una famiglia all’altra. Ecco ad esempio le modalità per fare questo squisito dolce fritto a casa di Odette Baracchi di Carpi.
Si ottiene un rettangolo di sfoglia, tirata molto sottile, di pasta dolce con l'apposita rotellina. Il rettangolo risulterà di circa 12 x 17cm. Dentro al rettangolo si praticano tre tagli, ovvero uno mediano e gli altri due uno a destra e uno a sinistra di quello centrale. I tre tagli saranno lunghi circa 12 cm, quello centrale resta libero. Poi si prendono le due estremità del rettangolo e si infilano nei rispettivi due tagli laterali. Quando si butta in padella nell'olio bollente, il rosone forma una bella rosa bollente. Oggi è consigliabile l’uso di olio di arachide che rende il tutto più fragrante e poco unto.
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Baracchi Odette (Carpi) usa questa ricetta: 500 gr farina, 40 gr burro temperatura ambiente, 100 gr di zucchero, 3 uova e un tuorlo, una bustina di vanillina, mezza bustina di lievito, un tappino di anice o sassolino. Vanno fritti rapidamente nell'olio di arachide. Si appoggiano poi su carta assorbente e spolverare con zucchero a velo.

Il liquore sassolino, adatto per i dolci

Ilva Tosi (Carpi): " Mè a la sò cun la règola dal duu: duu èeto èd farèina, duu óov, 'na nóoṡ èd butéer desfàat, un pòo d sassolino e 'na scòorsa gratèeta d limòun. A m arcmàand... al sfóoi al va tirèe sutìil. I iin 'na buntèe!"

Carlo Gozzi chef del rinomato Ristorante INCONTRO di Carpi: 500 gr di farina, due tuorli, 75 gr di burro a temperatura ambiente, un bicchiere di marsala e un pizzico di sale. Una volta fritti spolverare con zucchero a velo.

Maurizia Besutti (Carpi) usa una vecchia ricetta di famiglia (un tempo piuttosto numerosa, viste le cospicue dosi annotate) per i rosoni. Per l'impasto: 1 kg di farina, 11 cucchiai di zucchero, 60 gr di strutto, 6 uova (di cui 4 col fiocco), 1 bicchiere di vino bianco. Le quattro uova col fiocco, sono intese sbattute bene, quasi montate. Friggere rigorosamente nello strutto e poi zucchero a velo sopra.
Maurizia Besutti ha anche una variante più "leggera" per la merenda dei nipotini. Si usa una piccola dose ridotta: 200 gr di farina lievitata, un cucchiaio di burro a pomata, un limone grattugiato, un uovo e un tuorlo, un cucchiaino di vino bianco (per i bimbi evita di mettere il sassolino); il tutto impastato con qualche cucchiaio di latte. Anche questi fritti rigorosamente nello strutto.

Anche Carla Bruna (Carpi) suggerisce una ricetta per i bambini che viene benissimo ed è semplicissima: i rosoni vengono praticamente uguali e si gonfiano nello stesso modo. Per 2 etti di farina 00, non lievitata, 2 uova, 2 cucchiai di zucchero e il succo di mezza arancia (piccola). Poi impastare, lasciare riposare 15 minuti e una volta tirata la pasta e tagliate le frappe, friggere in molto olio in un pentolino piccolo. Girare e tirate su cun la ramèina; non assorbono olio. Una volta stese mettere lo zucchero a velo. Provare per credere...


Classici rosoni carpigiani di Maurizia Besutti (Carpi - 2013)

Graziano Malagoli (Carpi) ci suggerisce la ricetta per i rosoni usata da sempre da sua madre Nina col risultato di un prodotto eccezionalmente soffice, friabile e leggero:
Ingredienti: 2 hg di farina, 1 uovo, 2 cucchiai di zucchero, 2 cucchiai di aceto forte, 2 cucchiai di olio di mais. Esecuzione: impasto solido da passare nel penultimo scatto della macchina per pasta; coprire e lasciare a riposo per 2 ore; friggere in un tegame piccolo con olio di mais abbondante; scolare e raffreddare e infine spolverare di zucchero a velo.

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Castagnole di Carnevale
Ricettario manoscritto della ex pasticceria Fr.lli Barbieri di Carpi.
4 uova intiere, batterle assieme a 200 grammi di zucchero, aggiungere prima una tazzina di rum o anice e mescolare poscia 250 grammi di burro appena sciolto al fuoco e ancora mescolare; indi a poco a poco e sempre mescolando, gr. 600 di farina bianca e infine gr. 8 di cremor tartaro e 8 di bicarbonato. Versare l’impasto sul tevoloe lavorare ancora con le mani riducendolo ad un cilindro grosso quanto un dito pollice e lungo quanto riuscirà. Tagliate a pezzettini grossi quanto una nocciola e questi verranno fritti in abbondante olio.
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Frittelle di riso
Ingredienti per 4 persone:
200 gr. di riso
750 gr. di latte o anche di brodo,
200 gr di Parmigiano Reggiano grattugiato,
3 uova
200 gr. di farina, due litri di olio, ma anche il corrispettivo di strutto
pane grattugiato, noce moscata, sale e pepe.
Cotto che sia il riso nel latte o nel brodo, dopo averlo lasciato raffreddare, aggiungere la farina, il formaggio, le spezie a piacere, il sale e due uova più un tuorlo: il tutto amalgamato per bene (se necessario, aggiungere un po’ di pane grattugiato per rendere l’impasto più corposo). Nell’olio bollente o nello strutto, nella misura di una cucchiaiata immettete l’impasto che si rapprenderà immediatamente. Lasciate rosolare per bene fino a che l’aspetto non sarà dorato uniformemente.
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Testimonianze e annotazioni

Anna Maria Ori segnala delle opportune distinzioni.
La cantilena dei bambini sfrutta il residuo di una mentalità ancestrale, è qualcosa di legato a un’utilità immediata, per loro, un po’ furbesca, forse sostituto di una ritualità precedente, di un rito di passaggio dall’anno vecchio all’anno nuovo che escludeva la partecipazione femminile, e prevedeva forse un piccolo sacrificio, che col passare dei secoli è diventato il dono ai bambini (maschi), come tutti i doni magici a personaggi in grado di esorcizzare e allontanare presagi funesti.
Doveva essere qualcosa di talmente radicato nelle mentalità di quel lontano passato; queste usanze potrebbero derivare da culti neolitici; dal passaggio dalla società matriarcale (se mai c’è stata) a quella patriarcale. La tradizione si è mantenuta attraverso i secoli ed è stata razionalizzata e semplificata, mentre andava sempre più perdendo il suo significato profondo. Ma, come spesso succede in questi casi, è rimasto solo il simbolo, impresso nel nostro DNA, più che nella ragione.
Anche sua madre si preoccupava se una donna entrava in casa sua per prima per Capodanno e mandava mio padre a casa della nonna, perché fosse il primo e maschio.

Mariapia Nicolini ricorda che suo padre era fornaio a Novi di Modena negli anni '60 e si alzava tutte le mattine alle tre. Non stava a letto più di tanto nemmeno la mattina del primo dell'anno. Infatti già alle 7 cominciavano a venire i bambini ad augurare il buon anno. Lui preparava una scodella piena di monetine da elargire ed era pronto ad ascoltare la solita sirudèela:" A sun gnuu a dèer al bòun capdàan, ch a scampèedi sèint aan, sèint aan e sèint dè! La bòuna maan la m viin a mè!" Molto simile alla versione carpigiana.

Erminio Ascari rammenta che il beneaugurante ingresso dell'uomo per primo in una casa per capodanno è ancora esistente tutt'oggi in tante case. Il primo dell'anno gli uomini portavano fortuna e le donne viceversa. Una vecchia tradizione e superstizione che si tramanda. Da piccolo, negli anni '50, andava per le case con gli amici recitando: "Aan, bòun aan, a sòmm gnuu chè a dèer èv al bòun capdàan, pèr un aan e un dè; la bòuna maan la m viin a mè!"

Maddalena Zanni (Carpi) ci racconta che sua nonna il primo dell'anno non la faceva uscire! "Incóo al dònni ii déeven stèer in ca! (Oggi le donne stiano in casa!)" E se entravano in casa di altri, erano sempre dietro all'uomo.

Baracchi Odette - Anche a San Marino di Carpi il maschio che andava a fare gli auguri il primo giorno dell'anno diceva: "A v suun gnuu a dèer al bòun cavdàan, ch a scampèedi sèint aan, sèint aan e sèint dè! La bòuna maan la m viin a mè!"

Maurizia Besutti (Carpi) ricorda che negli anni '60 anche lei andava a fare gli auguri, ma si travestita da maschietto per non perdersi le piccole mance, i dolcetti e le caramelle.
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Luciana Nora (Carpi), nota esperta di cultura locale, aggiunge alcune sue note al tema, che qui di seguito riportiamo con grande piacere.

L’Ognissanti dei Celti segnava il passaggio dall’ autunno all’ inverno e, in quel breve lasso di tempo, si apriva la porta tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Il passaggio dal calendario Giuliano a quello Gregoriano ha trasportato il tempo di questo possibile passaggio alla vigilia di Natale quando, dopo la cena, la tavola doveva rimanere apparecchiata perché, forse, qualcuno sarebbe ritornato.
In quella notte a beneficio delle anime dei morti veniva recitata un’orazione particolare:

“ L’ urasiòun benedètta/                          L’orazione benedetta
 La vèel più che ’na mèssa/                     Vale più di una messa
 Mèssa èd Sant’ Ana/                               Messa di Sant’ Anna
 San Péeder la ciàama/                                     San Pietro la chiama
 San Iusèef rispònnd/                              San Giuseppe risponde
 Bròoch in céel e raìiṡ in fònnd/               Rami in cielo e radici in fondo
 Pirulèin d altèer/                                    Campanello d’altare
 Aaqua dal mèer/                                              Acqua del mare
 Funtaana dal paradìiṡ/                                     Fontana del paradiso
 Benedètta cl’aalma ch la diiṡ/                Benedetta quell’ anima che la dice
 Treintasée vòolti la vigillia d Nadèel/    Trentasei volte la vigilia di Natale
 I chèeven fóra ’n’ aalma dal purgatòori/Tolgono fuori un’ anima dal purgatorio
 Ch la va in paradìiṡ/                                Che va in paradiso.//
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Carnevale per sempre
 di Luciana Nora 2012

Il Carnevale è ormai abbondantemente alle spalle ma, di fatto, il Carnevale continua e sembra ormai protrarsi all’infinito. E’ pressoché un non senso l’aspergersi il capo di ceneri il mercoledì successivo l’ultimo giorno del lungo ciclo carnevalesco che, sommessamente, prendeva avvio immediatamente dopo l’Epifania, come desumibile dal detto popolare dei nostri vecchi: - Al sée de ṡnèer/ mè a suun sòolit arivèer/ véera i uss e ṡbaanda i véeder/ mè a suun sèmmper un òmm aléegher// (Il sei di gennaio io [Carnevale]/ sono solito arrivare/ apri le porte/ spalanca i vetri/ io sono sempre un uomo allegro//).

1946 Carnevale a Carpi

Senz’altro, presso le chiese, continua la celebrazione del mercoledì delle ceneri ma ad assistervi, più in ossequio alla tradizione che al reale significato simbolico, rimane un sempre più sparuto numero di persone non più giovani, per il quale il significato di trasgressione è imparagonabile a quello che ormai è entrato nel senso comune tra quanti rientrano in quelle fasce generazionali che precedono la definizione di terza età avanzata; anzi, il trasgredire oggi appare come irrinunciabile e, di fatto, si fa conformismo tanto standardizzato da poter essere espresso in percentuali nelle sue varie forme. Va comunque registrato che quest’ultima categoria, demograficamente in inesorabile aumento, non è scevra dal contagio di frenesia del “divertimento” ininterrotto, riempitivo di quell’infinito e sempre più regimentato tempo detto “libero” in cui potrebbero insinuarsi noia, timore di bilanci, mal di vivere di fronte alla poco allettante prospettiva dell’inesorabile declino, nonostante il serratissimo impegno alla prevenzione e mascheramento, blandito da un vastissimo mercato in forte espansione.
Cosicché ai posteri non sarà dato di leggere in nessuna cronaca parrocchiale contemporanea note sul tipo di quella che l’arciprete di Cortile redigeva il 20 febbraio 1885: Nei giorni 15-16-17 andante ha avuto luogo il solito triduo di riparazione alle tante offese che vengono fatte al Signore negli ultimi giorni di Carnevale. Il concorso dei fedeli alla chiesa è stato soddisfacente, come discreto è stato il numero di quelli che si sono accostati ai Santi Sacramenti.. Il citato breve passo potrebbe indurre al pensiero di pesanti trasgressioni ed è probabile che in quel contesto temporale, rapportandosi alla morale ecclesiastica e civile, la seconda fortemente condizionata dalla prima, le manifestazioni si configurassero davvero come eccezione alle comuni regole di vita. Un altro mondo nel senso letterale dell’espressione, esclusivamente ancorato ad un’economia agricola, contraddistinta da categorie sociali quali mezzadria, terzeria, boaria e bracciantato per le quali la sobrietà dei consumi fino all’estrema precarietà, più che un dettame, era un’insottraibile realtà.
Il tempo del Carnevale, collocato nell’avanzato inverno, dove tutte le possibili azioni umane tese ad un buon futuro raccolto si erano pressoché esaurite e si avvertiva il peso dell’incognita meteorologica, si configurava come il penultimo pesante passo verso una rigenerazione ancora tutta nella delicatissima fase embrionale. Mentre le scorte granarie andavano assottigliandosi, le galline nel pollaio ricominciavano a produrre uova (Pèr l aan nóov/ tutt èl galèini èl faan l óov// - Con l’anno nuovo/ tutte le galline fanno l’uovo// - In ṡnèer/ a s mpìss d óov al puléer// A gennaio si riempie di uova il pollaio//); il vino nuovo andava facendosi nelle botti e, ormai ultimato l’ingrasso, presso le famiglie contadine si attendeva all’uccisione del maiale. Su questi due ultimi attesi atti, che si configuravano come chiusura di un ciclo e, al contempo, apertura di uno nuovo, in misura diversa, fidavano tutti, compresa quella foltissima schiera di braccianti agricoli o “pitocchi” le cui incertissime scorte, se non già esaurite, erano prossime alla fine; per loro l’unico lenimento possibile, assieme all’assai diffusa pratica del furto che, essendo spogli i campi, si indirizzava specialmente sui pollai, era il continuare le tradizionali questue iniziate con i Santi e i Morti.
A fornire un quadro della condizione sociale nella Carpi della seconda metà dell’Ottocento, non dissimile da quello vissuto ancora per tutti gli anni Quaranta sull'intero territorio nazionale, è Domenico Guaitoli che su il “Maldicente” scriveva: Sai tu cosa significhi Carnevale per Carpi, o Strega? No? Dirottelo io. Carnevale per Carpi, significa un freddo diabolico che insulta il naso e fa ballare i denti... Carnevale significa brodo lungo, coperte meschine, stenti ineffabili e poco cristiani per gli ammalati del Civico Ospedale … nascita e non morte di gentilissimi creditori... Carnevale significa magri guadagni per l’operaio, amori languidi,... tragedia in casa dei poveri...”. Sarà stato per via di uno stato generale che, pur mortificando stomaco e membra, non dava disonore, per l’euforia che si genera nel vedere prossima l’uscita dal tunnel del rigido inverno, per quel ribollire non solo del vino nelle botti ma anche degli umori e istinti umani, il tempo del Carnevale si animava di quello spirito necessario a contrastare i possibili spettri maligni che avrebbero potuto assumere concretezza e che andavano esorcizzati in tutti i modi. In una serratissima logica di sopravvivenza, esplodevano fragorosamente le ultime energie vitali prima della purificazione quaresimale, nell'attesa della rigenerazione. Si trattava comunque solo di assopimento e, a metà Quaresima, per un giorno solo, gli umori gagliardi, quasi a rassicurare, ridavano segno tangibile della loro presenza in manifestazioni di cui nessuno si ricorda che andavano, per l’appunto, sotto il nome di Carnevale di mezza Quaresima.
A partire dall’inizio degli anni ’50 del Novecento, tutte le premesse ad una svolta economica e sociale andavano velocemente a concretizzarsi in un’organizzazione del lavoro stravolgente tempi, modi e orizzonti di quelle generazioni che si stavano avvicendando in una società incalzantemente obbligata a ridefinire gli stessi vincoli relazionali sia in ambito familiare che generale. La quotidianità sociale locale era pervasa da umori molto guareschiani: i contrasti politici si trasformavano giornalmente in schermaglie verbali più o meno accese in tutti i luoghi di ritrovo convenzionali e, normalmente, il tutto si stemperava in una bevuta di lambrusco. Intanto, all’interno di una realtà sociale dove la percentuale di analfabetismo e semianalfabetismo era altissima, si affacciava lo strumento per eccellenza dei mass/media: la televisione, la quale, in quel tempo in cui la fruizione era obbligatoriamente ancora collettiva, esordiva con spettacoli e giochi dai tratti fortemente campanilistici, affiancati dai corsi pomeridiani Non è mai troppo tardi curati dal maestro Manzi, di catechizzazione e, per la gioia di grandi e piccini, da veri e propri seppur brevi spettacoli di Carosello. In breve il mezzo televisivo si rivelava un eccezionale pifferaio magico e, come afferma Woody Allen con quell’ironia triste e lucida al tempo stesso che lo contraddistingue, si sarebbe arrivati ad osservare che “Il cinema emula la realtà e la realtà emula la televisione”. In un simile contesto, davvero diventa difficile individuare la concretezza dell’essere e anche l’antico cogito ergo sum appare quantomeno impreciso.


1946 e 1954 Carnevale in Piazza a Carpi
La società degli anni ’60, caratterizzata da un’industria in forte espansione e un’agricoltura sempre più meccanizzata che ridefinivano gli stessi assetti/rapporti familiari, si è contraddistinta per un benessere che, pur non escludendo le differenze tra classi sociali, cadeva a pioggia su tutti, ingenerando pretese di certezza, compresa quella che alimentava il movimento del Sessantotto, fattosi convinto di poter mutare il mondo dandogli un più equo equilibrio, sebbene poi, senza voler contraddire Venditti, molti dei suoi primi animatori, affinando l’arte arrampicatoria e cadreghina, non limitandosi certo al “posto in banca”, lasciato alla truppa anonima, si siano rivelati di un neoconformismo stratosferico, emblematico altresì di quella decadenza altamente disorientante che, simile a blob, avanza vischiosamente, inghiottendo tutto quanto incontra.
Sempre in relazione a Halloween, una delle ragioni del suo fascino risiederebbe nel preteso conformarsi al costume statunitense, presentato come espressione di valori sociali indiscutibili e non come più verosimile colonizzazione. E’ assai probabile che nessuno di quanti si affannano in queste nuove modalità di omologazione si sia soffermato a riflettere sul fatto che le tradizioni delle genti americane, esclusi i discendenti dagli antichi nativi (i quali però, ridotti violentemente a sparuto popolo, non sono esenti dall’aver subito rilevanti contaminazioni), seppure trasformate nel tempo, sono di origine europea. Il travestimento macabro riporta all’antico Ognissanti quando, presso il nostro territorio, casa per casa, i più miseri andavano questuando un mescolo di fagioli e castagne bolliti e ognuno, avendone la possibilità, non si sottraeva a quello che era ritenuto il dovere dell’elemosina verso quanti, in terra, rappresentavano le anime afflitte dei morti, i quali, si credeva in quella non lontana epoca, trovassero aperta una porta per rivisitare il mondo dei vivi. Venir meno al dovere dell’elemosina generava timore di perniciosissime e irrimediabili maledizioni. Il Dolcetto o scherzetto sintetizza il significato di molte tradizionali tiritere recitate dai questuanti dall’inizio di novembre e fino a tutto il Carnevale, ossia il periodo più critico dell’anno per i tanti che conducevano una vita di stenti.

La fame doveva essere veramente tanta da far sognare il paese di cuccagna, simbolicamente rappresentato da quel tradizionale alto e accuratamente ingrassato palo che, alla fine di Carnevale, era issato nella pubblica piazza, sulla cui cima erano assicurati pochi, ma appetibili generi alimentari: erano in molti che, incuranti di lordarsi, tentavano di arrampicarsi sopra e di carpirli.
E se attualmente, dopo una pratica di occultamento non indifferente, gli stenti fisici appaiono superati, sono però stati sostituiti da quelli assai più gravosi che affliggono l’intimo umano, cosicché, più o meno consapevolmente, il tempo degli esorcismi rituali e del travestimento si è fatto infinito e il Carnevale è divenuto permanente. Anche conoscendolo, nessuno più si sognerebbe di recitare il saluto finale delle maschere:

Bòuna giint a iòmm finìi/ (Buona gente abbiamo finito
 Perdunèe s s a v òmm culpìi/ Perdonateci se vi abbiamo colpito
 E di tutt sti nòoster schèers/ Di tutti i nostri scherzi
 Perdunèe s s a n v in despièeṡ/ Perdonateci se non vi dispiace
 Perdunèe la nòostra ciàacra/ Perdonate la nostra chiacchiera
 E a s cavòmm subìtt la maascra//” E ci togliamo subito la maschera)

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E dietro le maschere / l’anima, che è sola”. (Borges)

Ma per l’uso prolungato la/le maschere si sono fatte amalgama con la pelle e, ammesso che se ne abbia coscienza, il toglierle è tormentoso, se non impossibile. La festa, non più tale, ma sarabanda continua che, nel suo essere perenne, è e sarà grottesca e beffarda.
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Anni ’30 Carnevale in Piazza a Carpi


1983 Carnevale nel cortile della scuola Don Milani - Cibeno Pile a Carpi
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1948 Il Carnevale del freddo

Da Carpidiem di Luciana Nora 2007

Il primo corso mascherato carnevalesco del secondo dopoguerra ebbe luogo il pomeriggio del 16 febbraio 1947, ultima Domenica di Carnevale, nell’appena ribattezzata Piazza dei Martiri di Carpi con la propaggine del Gioco della Quintana che occupava piazzale Re Astolfo. Era una festa indirizzata a tutta la cittadinanza anche se gli attori principali, sia per quanto concerne l’organizzazione che il protagonismo nei giochi, erano soprattutto gli adulti.
Don Enrico Muzzioli, redigendo la “Cronaca di Carpi”, commentò la festa nei seguenti termini: “[.] Incominciano oggi nel pomeriggio i “Ludi Carnascialeschi” per i quali è stata fatta tanta réclame. Si fanno in Piazza dalle 15 alle 17,30 Corsi mascherati, Corse di somari, Corse nei sacchi, Corse di camerieri. Ci sono anche due cuccagne. Lo spettacolo è a pagamento ( £ 40 per gli adulti, £ 10 per ragazzi), chiusi gli accessi alla Piazza con assiti. E’ stato un divertimento molto meschino: i carri allegorici molto poco ridicoli e.spiritosi, niente affatto caratteristici!”.
A fronte di questa testimonianza scritta ve n’è un’altra fotografica molto eloquente a cura dei fotografi carpigiani Tonino e Cinzio Gasparini. Da detta documentazione, inequivocabilmente, si evince un grande concorso di folla e, scrutando le espressioni attente e divertite dei partecipanti, non si può non cogliere la contraddizione tra le due cronache. Vale qui forse la pena di spendere due parole su come la fotografia possa essere, oltre che una forma di espressione artistica, intesa perlopiù e discutibilmente come arte minore, un documento puntuale eloquentissimo, preziosissimo nell’ambito della ricerca, capace di suggerire itinerari e di precisare fatti e umori ad essi connessi. Al contempo, a posteriori, l’immagine, più della parola o dello scritto, è in grado di sollecitare memoria e considerazioni contemporanee impossibili allora e oggi preziose per comprendere meglio il passato.
Certamente quella festa era rappresentativa di una situazione sociale problematica; basti pensare all’inquietante carro della Magneti Marelli il quale, più che un’allegoria, era la denuncia di una situazione difficile che metteva in pericolo l’occupazione di circa trecento maestranze maschili con tutto quello che, sotto l’aspetto economico poteva conseguire per le famiglie che erano alle loro spalle, in un contesto economico lontano dall’offrire alternative di impiego. I giovani di allora, sia per portamento che abbigliamento (cappello in testa e cappotti seriosissimi), avevano sembianze di uomini e donne maturi diversissime da quelle della gioventù contemporanea. Dietro l’aspetto esteriore non poteva mancare però la naturale inclinazione alla spensieratezza tipica della giovinezza anagrafica. Cosicché, seppure dimessamente, si era tentato di rientrare in quella che era stata una tradizione fortemente radicata sul territorio carpigiano le cui origini si perdono nel tempo e che in tanti speravano di poter ripristinare dopo il lungo e luttuoso periodo bellico. Carnevale non rappresentava solo la festa o il ciclo di feste con gli attesi intrattenimenti approntati in quel lungo periodo che va dall’Epifania fino alla vigilia della Quaresima, ma in esso prendevano corpo, anche e soprattutto, lo spirito associativo, creativo, critico, burlone e gaudente che lo reggevano in tutta la fase organizzativa dalla quale sortivano, o si confermavano rafforzandosi, nutriti gruppi amicali. L’organizzazione delle feste partiva con un congruo anticipo e i curatori dei carri, costituitisi in società come quella del “Fil d’Fer” o “Dla Pèppa” (ripresa poi quest’ultima negli anni Cinquanta), si incontravano in gran segreto presso ampi locali che, su pagamento di un modesto affitto, venivano messi a loro disposizione da fabbriche o cantine vinicole locali.
Emblematico di quanto grande e sentita dovesse essere questa ricorrenza è il ricco programma, in forma di grida, della lunga festa di Carnevale che ci perviene dal periodico locale “ Alberto Pio III” uscito il 20 gennaio 1872 e qui riproposto nei caratteri tipografici il più possibile fedeli all’originale:
“Popoli Carpigiani della Città e del Contado, letterati e illetterati, vecchi e fanciulli, ricchi e poveri, maschi e femmine, esultate.
Innalzati alla suprema dignità di RE, NOI per l’autorità che ci accorda il Nostro grado proclamiamo l’era del Nostro Regno incominciata. Preparatevi a far baldoria, a divertirvi. L’ora sta per suonare, in cui tutti, o Sudditi, dal primo all’ultimo dovete dar prova della beatitudine, che si gode sotto il Nostro Regno (eccezione alla regola !). Non corsi forzosi, non balzelli, ma semplici offerte spontanee bastano a sorreggerlo.
Orsù dunque abbandonatevi alle follie, lungi da voi le amarezze, serratevi intorno a Noi, e ridiamo.
Domenica 4 febbraio - GRAN FIERA CON PREMI in questa Maggiore Piazza.
- COMMERCIANTI di pannine e di stuzzicadenti, di formaggio e di carote, di gioielli e di ferri vecchi, di salsiccia e di mostarda, di ninnoli e di fazzoletti da naso, di ciondoli e di croci, ambulanti e non ambulanti, terrieri e non terrieri, esteri e nazionali accorrete.
Nella Nostra Reale Munificenza Noi abbiamo decretati due gran Premj ( bazza a chi tocca ). I° Premio - Lire 40 in oro
II° Premio - Lire 20 in argento ai due banchi più ricchi e meglio ordinati
. POPOLI, nel pomeriggio di detto giorno la Nostra Cassetta privata elargisce di moto proprio, una copiosa frittellata ai poveri, con distribuzione di VINO. e di quel buono.
Di poi avrà luogo un Corso di carrozze mascherato, rallegrato da concerti musicali.
NOI, montati sul carro trionfale, e in tutta la magna pompa della Nostra Maestà interverremo al Corso, accompagnati dai Grandi tutti di Corte, dalle invitte Nostre Guardie del Corpo a cavallo, preceduti dal Nostro Regio concerto e seguito dai magnanimi e fedeli Nostri Guerrieri. E ci degneremo di conferire di nostra Mano i premj aggiudicati da apposito Giurì, tra i quali oltre i detti di sopra havvene un altro, di Lire 50 in oro, pel carro, che a Noi farà seguito, riconosciuto meritevole.
Col CORSO su palancate erette a bella posta nella stessa Piazza, Ballo popolare, per uso e consumo di chi ne vuol fruire.
SUDDITI ! Il Ballo non è che un ragionamento coi piedi, e il ragionare coi piedi oggidì ha il sopravvento. Lo sgambetto in luogo del buon senso, la pedata invece della logica. Il nostro commiato non sarà la nostra morte, perocché frammezzo a una miriade di fuochi d’artificio fra mezzo lo splendente fulgore del Bengala, rischiarati dalla luce di mille e mille moccoli e fra le armonie musicali - Noi portati da Un immenso Globo Aerostatico saliremo alle supreme regioni celesti, in attesa dell’anno venturo che ci ridoni a Voi.”

L’organizzazione dei balli per gli adulti era un avvenimento atteso ed in esso potevano sfogarsi gli spiriti repressi di entrambi i sessi. E, dopo la festa, immancabilmente, usciva la cronaca che, in forma di satira, tratteggiava i caratteri dei convenuti che si erano particolarmente distinti e che si costituivano come tema di pettegolezzo, più o meno bonario, fino al Carnevale seguente. Nel marzo del 1901 , sul periodico studentesco Studio e diletto, tre studenti che nel firmarsi specificavano “di aver voglia di girare e saper poco il dialetto e meno l’italiano”, scrivevano: “Sicome a som in Quaresma e a nes psom brisa divertir a noster mod, as gudrom l’istess un mes mond pinsand al Carnevel ca iom passé a Cherp.” (Siccome siamo in Quaresima e non possiamo divertirci a nostro modo, godremo ugualmente un mezzo mondo pensando al Carnevale che abbiamo passato a Carpi).
Tornando al Carnevale Domenico Guaitoli, sulle pagine del “Maldicente” del 1864, coloritamente tratteggiava l’atmosfera dei trattenimenti danzanti che lo caratterizzavano, scrivendo:
“[.] La Società del Casino poi si è distinta con vari trattenimenti settimanali in cui convenientemente sollazzarsi. occupiamoci de’ Veglioni del teatro. Un profumo di rose vergini e sbocciate deliziava la sala e la luce del gaz stereatico riflettevasi su ricche tolette di signore e su veli modesti di care figlie del popolo. Quanta vita! turbinavano gli ardenti danzatori in un vortice di polvere e i seni compressi e le mani intrecciate esaltavano gli spiriti.
Salvete scapigliate Monferrine!
Salvete Galoppe infernali!
Salvete Monacò furibondi!
Chi non gusta un Monacò arrabbiato è certo un essere minerale. Io credo che Carpi pei Monacò si elevi sulle città sorelle. Ci fu pure una mascherata di pagliacci che co’ suoi gruppi ben disposti, le sue garbate piacenterie crebbe l incanto della festa. E qui io precipito a piè pari dalla città alla campagna per parlarvi dei Veglioni dati dal Cesaretto ai gaudenti di Migliarina: la cosa merita. Ivi il formidabile segatore mediante otto centesimi per ballo, ha sequestrato le più sode polpe e i più rudi garretti della villa - ivi le spigolatrici e gli agricoltori si sono stretti nella fratellevole ridda del trescone e senza paura di calli e vesciche c’è stato un fuoco di fila e di battaglione e bombardamento finale.Ma torniamo in città. Avvi da noi certe stufe (ossia stanze invernali da lavoro per trecciaiole) ove una vivente esposizione di ogni sorta di fiori vermigli e bianchi attrae i sensi. Qui i facili scherzi, le amene storielle, le calde strette di mano, gli accesi sguardi vi fan passare delle ore felici. Il dio del Carnevale le ha visitate pur esse e le ha fatte ballare appassionatamente.Però ci siamo in Quaresima e conviene spengere i carnali fuochi del Carnevale. Cosicché, il Mercoledì delle Ceneri, immancabilmente dal pulpito tuonava una predica di condanna e l’invito al pentimento.”
La palestra della Società Sportiva “La Patria” divenne, a partire dal 1896, il locale per eccellenza ove venivano organizzati gli intrattenimenti danzanti del lungo ciclo carnevalesco. L’ampio e alto salone adibito a palestra era altrettanto conosciuto da tutta la cittadinanza come Festival. I proventi derivanti dai biglietti d’ingresso alle feste danzanti e relativi buffets erano una sicura fonte di finanziamento per la società sportiva che altresì non si esimeva dal devolverne una parte agli istituti di beneficenza locali parte. Così si legge nell’avviso della festa carnevalesca del 1896: “Si avvertono i ballerini d’ambo i sessi della città e del contado che il giorno 12 gennaio si inaugurerà nel patrio castello un grandioso Festival. Coloro che hanno i piedi dolci e che quindi non possono ballare, troveranno magnifiche sorprese e splendidi buffets. Avanti dunque o signori! la spesa è piccola e il divertimento è grande.” Prendeva avvio una tradizione che conobbe pause solo in concomitanza di eventi bellici e che, almeno fino agli anni Sessanta, ha coinvolto tutte le generazioni, rendendosi complice di un’innumerevole formarsi e, qualche volta, disfarsi di coppie.
Dell’anima libertina del Carnevale si trova traccia anche nelle filastrocche rimate giunte a noi attraverso la tradizione orale:

" Carnèevel l è un galantòmm/
Còn la bòcca al bèeṡa al dònn/
Còn i pée al li fa balèer/
Viiva, viiva al Carnevèel//"
" Bonasiira mè a v salùtt/
Òmm, dònn, ragàas e tutt/
A salùtt pèr Carnevèel/
Chi sta bèin e chi sta mèel/
A salùtt al brèev reṡdóor/
Cal lavóora còn sudóor/
A salùtt aanch la reṡdóora/
Ch la gh à un busst cal m inamóora/
A salùtt po' al bèeli spóoṡi/
Specialmèint cal generóoṡi/
Generóoṡi a quèsst e a quìi/
Foravìa che a sò marìi//

Carnevale è un galantuomo
Con la bocca bacia le donne
Con i piedi le fa ballare
Viva, viva il Carnevale.
Buonasera io vi saluto
Uomini donne ragazzi e tutti
Saluto per Carnevale
Chi sta bene e chi sta male
Saluto il bravo padrone
Che lavora con sudore
Saluto anche la padrona
Che ha un busto che innamora
Saluto poi le belle spose
Specialmente quelle generose
Generose con questi e con quelli
Fuorché con i loro mariti.

E ancora, in una rima allusiva, si recitava:
Carnevèel l è chè ch al piccia/ “
A gh pièeṡ magnèer dla bòuna ciccia/
Chi gh àa dal dònni da maridèer/
Al li mariida pèr Carnevèel/

Carnevale è qui che arriva
Gli piace mangiare buona carne
Chi ha delle donne da maritare.
Le marita per Carnevale.

E lo spirito trasgressivo della festa, sia in città che in campagna, doveva essere davvero eccezionale se l’allora parroco di Cortile, nella sua cronaca scrupolosamente redatta, entrando in Quaresima, ogni anno annotava l’evento con brani molto simili tra loro in cui si legge:
“20 febbraio 1885 - Nei giorni 15-16-17 andante ha avuto luogo il solito triduo di riparazione alle tante offese che vengono fatte al Signore negli ultimi giorni di Carnevale. Il concorso dei fedeli alla chiesa è stato soddisfacente, come discreto è stato il numero di quelli che si sono accostati ai Santi Sacramenti.”
D’altra parte il Carnevale, a differenza di tutte le altre scadenze calendariali di origine pagana che erano state fatte rientrare nell’alveo cristiano, non aveva mai trovato una possibile logica giustificazione, specialmente per le trasgressive manifestazioni ad esso connesse e per le quali era sempre stato osteggiato dalla Chiesa, che pure non era mai riuscita a sradicarlo e vi aveva contrapposto il lungo periodo quaresimale. Una propaggine del Carnevale rispuntava però a metà della Quaresima; un solo giorno ad interrompere il lungo tempo di penitenza ritenuto talmente rigido da sortire l’adagio usato come sottolineatura negativa: “L è lunngh cóome la Quaréeṡma” o “l è brutt o trisst cóome la Quaréeṡma”.
In detta giornata, definitaCarnevale di mezza Quaresima, v’è da registrare che, a Carpi, nel marzo del 1839, venne tentata l’introduzione di un costume tipico del reggiano che passava sotto il nome di festa delle “Vecchie”. Caratteristica della festa era la preparazione di palchi su cui venivano collocate tematicamente delle figure che andavano a comporre un quadro di satira di costume includendovi anche più o meno velate critiche ai giochi di potere politico. La tradizionale manifestazione reggiana, che era motivo di richiamo per molti visitatori da fuori e si configurava come evento dai risvolti economici interessanti, certamente era conosciuta dai Carpigiani i quali tentarono di emularla. La cosa divenne possibile quando Reggio, epicentro di un terremoto che ebbe protrarsi per un tempo lungo, sospese la manifestazione. Dalla Cronaca di Carpi di Giuseppe Saltini, manoscritto originale conservato presso l’Archivio Comunale di Carpi.
7 marzo 1839
“.Essendo la metà di Quaresima è stato fatto in questa città per la prima volta la festa delle Vecchie all’uso di Reggio e perciò trovavansi per la città n.25 palchi fatti con tutta precisione.
1° Al voltone di Piazza era presentato da 15 statue “L’Amore condotto alla pazzia”.
2° Sotto il portico di San Nicolò due statue che presentavano “Il cavar la serpe dal buco con mano d’altri”.
 3° Nel Voltone di casa Vellani tre statue: “ Pensa di te e poi di me dirai”.
4° Sotto il portico di Borgonovo tre statue: “Gli innamorati”.
 5° Cantarana 4 statue: “L’industria suggerita dal bisogno”.
 6° Due statue - “Un giovane che va a trovare l’amante che trova con gran pena infermo”.
 7° Belvedere due statue: “Chi gioca per bisogno perde per empietà”.
 8° Dalla Posta tre statue: “ Non dir quattro fin che non l’hai nel sacco”.
 9° Borgoforte due statue: “Un uomo spaventato da un arcolaio”.
 10° Aldrovandi cinque statue: “Le grazie d’una giovane con un vecchio mendico”.
 11° Tre statue : “Rimedio contro la sordità”.
 12° Piazzetta delle Erbe: quattro statue: “Ipocondria allegra a nozze”.
 13° Via a Porta Modena: cinque statue “Quattro pastori che passano Flora alle nubi”.
 14° Sul Portico verso Piazzetta: due statue “Una serva di nuova forma”.
 15° Da San Francesco: sei statue: “Una masochista”.
 Molte persone corsero a vederle e tra questi numerosi forestieri e se il tempo fosse stato più propizio sarebbesi portato gran popolo di più di quello che v’ervi.
26 marzo 1840
 “Giorno di metà Quaresima, giorno detto delle Vecchie gran concorso di forestieri per vederle e furono eseguiti 17 palchi simboleggianti e nella sera Accademia in teatro vocale ed intrumentale.
 Descrizione dei palchi
1° “La pesca” statue n. 3 - 2° “Sguardi da vetrina e da galleria” n..9 - 3° “La fortuna gabbata dal caso” n. 4 - 4° “La gelosia mendicata” n.2 - 5° “Scoperta di uno gas portentoso per le macchine a vapore”, n. 6 - 6° “Il cacciatore delicato” n. 2 - 7° “Il mondo al rovescio”, n. 7. - 8° “L’amante.” n. 3 - 9° “La lingua delle donne”, n. 4. - 10° “Il ritratto”, n. 3. - 11° “Gli ozi per un sapiente”, n. 2. - 12° “Il delitto de’ cinque sensi”, n. 5. - 13° “L’amor fraterno = Eschilo e Aminta”, n. 10. - 14° “L’amante battuto” n. 5. - 15° “I ciechi e la fortuna”, n. 4. - 16° “Il cliente e il sorcio”, n. 6 - 17° “Il non so chè d’amore”, n. 4.
18 marzo 1841
 “Quest’oggi non sono state fatte le vecchie che si usano essendo giorno di metà Quaresima e più forestieri sono stati delusi; e per questo sono sortite più satire una tra le quali comincia: “Onorati Carpigiani che le Vecchie cominciaste e da vili terminaste.”
3 marzo 1842
 “Sono stati eseguiti in questa città n.14 palchi di statue dette le Vecchie.molti forestieri vennero ad ammirarle.”
23 Marzo 1843
 “Giorno di mezza Quaresima sono stati fatti n. 14 palchi ed erano: “Un vecchio matrimonio che giuocava all’altalena”, figure n. 4 - “Chi fugge vince”, fig. 4 - “Una giovine fra due pretendenti”, fig. 3 - “Gli avari”, fig. 6 - “L’amore vince lo sdegno”, fig. 2 - “I due matrimonij”, fig. 4. - “La smania di maritarsi”, fig. 4 - “La malizia del villano col padrone”, fig. 10 - “Chi troppo abbraccia niuno stringe”, fig.4 - “L’amante sventurato”, fig. 4 - “Il servizio reciproco”, Fig. 4 - “Vero ritratto dell’uomo che ha moglie”, Fig. 5 - “I segantini notturni”, Fig.3 - “Il processo del Carnevale”, fig. 12 - E quasi tutti furono piaciuti.”
 E se ebbe vita breve l’organizzazione della “Festa delle Vecchie”, si conservò l’usanza di interrompere la lunga Quaresima con un intrattenimento danzante. Nel 1928, da un articolo comparso sul settimanale “Il Falco”, si apprende che ad organizzare la festa di mezza Quaresima era il Circolo Alberto Pio e che, quell’anno, il titolo della veglia era “Una notte a Venezia”.
 All’inizio del ’900 il corso mascherato venne descritto in versetti rimati la cui prima quartina recita:
Carnevel 1906
Al gran cors maschere dmenga 11 Fevrer.
A gh' era 'na gran smania dmenga paseda,
Tuta la gint curiva dal fond d'la cuntreda
Per veder chi be car ch' paseven maestos
E chi buteven via faso, curiandol e nos."
Rampein
**
Al gran corso mascherato Domenica 11 febbraio.
C'era una grande eccitazione Domenica passata
Tutta la gente correva dal fondo della contrada
per vedere quei bei carri che passavano maestosi
e che buttavano via fagioli, coriandoli e noci.

Fagioli e noci rientrano entrambi nell’antica tradizione come simboli di fertilità e abbondanza, quindi consoni in tutti quelle scadenze contraddistinte da rituali che, come il Carnevale, e in un ambito sociale prettamente agricolo, avevano la funzione di propiziarsi il futuro raccolto.
La festosa tradizione, entro la quale tra l’altro era concessa la critica in maschera a tutti coloro che non avevano voce nelle scelte e dispute sociali e politiche, andò avanti fino al 1924. I potenti erano avvezzi a quell’usanza che, dopotutto, aveva come aspetto positivo quello di far sbollire i malumori e, dopo lo sfogo, di far rientrare la cittadinanza nell’usuale costume. A dare avvio al Carnevale era la stessa autorità civile e questa usanza si è protratta fino alla metà degli anni Cinquanta quando, l’allora sindaco Bruno Losi, in occasione dell’Epifania, presenziando alla festa in maschera per l’infanzia presso il Teatro Comunale, seguita da una veglia serale per gli adulti: quello era l’inizio del lungo ciclo carnevalesco.

Nel 1924, per la prima volta nella storia millenaria del Carnevale, il regime fascista in ascesa pone la censura. Un avviso indirizzato a tutta la cittadinanza carpigiana venne diffuso attraverso le pagine de “ Il Falco” nel febbraio 1924.
In esso si legge: “Il Commissario di P.S. ci comunica che nessuna mascherata potrà essere permessa se i promotori di essa non avranno fatto prima pervenire al suo ufficio il progetto ed i relativi disegni della mascherata, e ne abbiano ottenuto poscia l’approvazione.” Ovvio che, se una delle componenti vitali, se non l’anima stessa del Carnevale, era stata fino a quel momento la satira politica, lo spirito della festa veniva fortemente mortificato. Tant’è che l’anno successivo, in data 26 febbraio, sulle pagine dello stesso settimanale locale si ebbe a lamentare:
Tutto cambia. Anche il Carnevale.va perdendo il suo significato, il suo carattere, la sua pazza e simpatica allegria. La tradizione diventa un mito. Così, ad una ad una sen vanno e dileguano le vecchie e care abitudini e l’ultimo innocente spirito di allegria che s’era rifugiato nei divertimenti a data fissa, viene a sua volta assorbito da un concerto diverso di vita civile. Dei Carnevali tutti cantano l’elegia funebre, come di curiosità del passato. Da alcuni anni, mercé la volontà, la tenacia di pochi, Carpi riusciva ancora a mandare qualche bagliore della sua antica tradizione carnevalesca, ma quest’anno, come l’anno precedente, mancano gli iniziatori, mancherà forse la voglia di divertirsi, mancheranno le compagnie. Chi è vecchio e ricorda deve aver provato una stretta al cuore entrando nel nostro teatro al Veglionissimo di Sabato. Non sarà stato ben organizzato, il rimandarlo sarà stato male, possono essere state omesse certe attrattive, sarà quel che volete, mettiamoci anche un pizzico di ragione politica, ma un deserto tale non è immaginabile a Carpi.”.
Il redattore dell’articolo sopra riportato si sbagliava poiché, dopo un primo disorientamento, gli organizzatori della festa mascherata ebbero a riprendersi adeguandosi alle norme imposte dal regime. Nel 1928 sul settimanale “Il Falco” veniva pubblicato un precisissimo rendiconto del corso mascherato “Le pessimistiche previsioni dei vari critici, le preghiere imposte ad innocenti fanciulle perché Giove pluvio impedisse lo svolgersi del Corso ed altri scongiuri, eccettuati, credo, quelli d’uso fascista, non hanno impedito, che nonostante lo stato poco rassicurante del cielo, una folla enorme, mai vista, abbia invaso Carpi, resuscitando in pieno le più antiche tradizioni carnevalesche carpigiane e contribuendo allo scopo benefico della manifestazione.” L’utile netto della festa fu di £ 13.454, 35 e ne beneficiarono L’Opera Nazionale Dopolavoro di Carpi, L’asilo infantile cittadino e l’Asilo delle suore oltre a quelli di Budrione Migliarina, Fossoli, S:Croce, il Ricovero di mendicità “Tenente Marchi”, il Comitato di beneficenza per i bisognosi, Associazione Calcio Carpi, la Cucina Economica e la Cassa Mutua Assistenza Combattenti. Da quel momento lo spirito di ispirazione dei carri mascherati si trasformava da critico in apologistico del regime e delle sue imprese, prima tra tutte quella coloniale che avrebbe dovuto garantire un “posto al sole” ai tanti disoccupati locali molti dei quali si tingono i volti di nero. Alcuni di questi ebbero a sperimentare il ruolo di coloni, uscendone con cocenti delusioni. Meta della colonizzazione era la Libia e più precisamente Beda Littoria da cui, in concomitanza allo scoppio della seconda guerra mondiale, ritornarono più poveri e disorientati di quando erano partiti. In quel contesto in cui la parola d’ordine era rifarsi alla romanità (vedi il saluto romano), la Società “La Peppa” diventò “Peppæ” e , se il Carnevale era sempre stato quel periodo dell’anno denso di manifestazioni atte a propiziarsi la fecondità, anche quest’ultimo termine si traduceva in “Fecunditatæ”. Considerato il contesto, questo allineamento lessicale, potrebbe essere letto come una sottile e inattaccabile satira. Nel febbraio 1928 , come si apprende da un articolo comparso su la “Gazzetta dell’Emilia”, “Grande aspettativa vi è pel Corso Mascherato di Domenica 26 corr. Grande è stata ed è l’attività del Comitato perché nulla sia risparmiato o trascurato affinché l’esito non solo corrisponda ma superi ogni aspettativa. La Direzione della ferrovia Reggio-Carpi non solo ha concesso il ribasso del 50% sui biglietti ferroviari, ma ha protratto per Domenica la partenza dell’ultimo treno di Carpi ad un’ora dopo finito il corso. Numerose sono le adesioni dei carri e mascherate giunte al Comitato - e notiamo - la rinascita della maschera carpigiana “Mustardein” che si recherà alla stazione ferroviaria a ricevere le maschere delle cento città d’Italia - saranno imponenti i carri rappresentanti il Trionfo di Nerone - L’Italia coloniale.”
Continuarono a mantenersi vive, intensificandosi in ragione di una sempre più diffusa e irrimediabile miseria, le varie forme di questua che caratterizzavano tutto il periodo critico dell’anno e che partivano dal tardo autunno, con la ricorrenza dei Santi e dei Morti, per arrivare giustappunto al Carnevale. A fornire un quadro della condizione sociale nella Carpi della seconda metà ’800, non dissimile da quello vissuto ancora per tutti gli anni Quaranta è sempre Domenico Guaitoli su il “Maldicente” che scriveva:
“Sai tu cosa significhi Carnevale per Carpi, o Strega? No? Dirottelo io. Carnevale per Carpi, significa un freddo diabolico che insulta al naso e fa ballare i denti.Carnevale significa brodo lungo, coperte meschine, stenti ineffabili e poco cristiani per gli ammalati del Civico Ospedale. Carnevale significa pallida istruzione degli scolari, marcia perigliosa sul ghiaccio delle pattuglie cittadine, nascita e non morte di gentilissimi creditori.Carnevale significa magri guadagni per l’operajo, amori languidi,.tragedia in casa dei poveri.”. Più dettagliate sono le testimonianze orali che descrivono le strategie di sopravvivenza messe in atto, specie tra i braccianti, per tentare di mitigare una condizione al limite dell’umana sopportazione. Il furto campestre di legna e sterpi, la razzia dei pollai era all’ordine del giorno
I giovani e meno giovani, nei giorni di Giovedì e Martedì grasso, si affacciavano questuando alle case dei contadini locali che avevano appena ucciso il maiale e stavano imbottigliando il vino nuovo nella speranza di mettere insieme una piccola scorta utile a integrare un regime alimentare da fame che assillava tutta la classe bracciantile e operaia carpigiana fino a tutti gli anni quaranta e inizio cinquanta. La stessa festa in piazza prevedeva dei punti di distribuzione gratuita di frittelle di riso, polenta e vino che erano letteralmente presi d’assalto.
Il carpigiano Aldo Contini ricordava: “Ci sono stati dei Carnevali fantastici. Delle sbornie, ma delle sbornie! Perché allora generalmente si andava ad offerta: la cantina Sociale dava una botte di vino col trespolo, la Cantina della Pioppa faceva altrettanto, la Cantina di Rovereto anche lei.quindi ci si può immaginare!. Che c’era anche qualcuno che veniva e poi lo vuotava in una fiasca che aveva dentro alla sporta per portarlo a casa. C’erano i fugoun che adoperavano per fare il gnocco fritto e le frittelle che davano via gratuiti. L’olio che usavamo per friggere lo dava Dante Ferrari, quello dell’oleificio che era olio di semi di gramostino, che era buonissimo e friggeva a meraviglia.”
Vale la pena ricordare ancora che il Carnevale aveva in sé aspetti filantropici non indifferenti, poiché i proventi della festa, detratte le spese, venivano devoluti alle varie associazioni locali di beneficenza e assistenza.
Nel periodico locale “Alberto Pio del 22 febbraio 1872 si legge: “Anche il povero non fu negligentato in tale giornata, poiché nel mattino di essa si distribuì dalla Società del Carnevale al proprio Ufficio una seconda elemosina di due pani a testa.”
Il ritorno alla festa carnevalesca con corteo mascherato e giochi del 1947 era quindi stato, in primo luogo, l’espressione di una speranza di rientrare nella gioiosa tradizione. Già in quell’anno però, e in maniera definitiva a partire dal mese di giugno con l’uscita dal governo della componente di sinistra, si erano determinati a livello nazionale schieramenti fortemente contrapposti. Carpi, amministrata dalla sinistra dall’immediato dopoguerra, era emblematica della contraddizione di un governo centrale opposto a quello locale. I films di Peppone e Don Camillo (che diventeranno maschere nei Carnevali della metà anni ‘50) erano la parodia in sedicesimo di una conflittualità aspra di cui si trova palese traccia in alcuni passi della Cronaca di Carpi sempre di don Muzzioli dove, ad esempio, al 20 settembre del 1947, si legge:
“Anche qui - come in tutta Italia - i Comunisti e i partiti di sinistra hanno tenuto alle 18 un comizio contro il carovita ( meglio contro il Governo, dal quale essi furono esclusi - finalmente - fin dal giugno scorso). Hanno parlato dal palazzo comunale parecchi oratori. Molta gente, comandata ad intervenire proprio come al tempo del fascismo - sotto le bandiere rosse - Notato fra gli altri, un grande cartello portato da due uomini, colla scritta: - Quando questo Governo sparirà, il popolo italiano mangerà”. Nessun incidente (era prevista per l’occasione, una. rivoluzione!). Non troppi applausi.”.
 A cent’anni dal fatidico 1848, che aveva messo in subbuglio tutta l’Europa, si profilava un altro ’48 difficilissimo, gravido di tensioni d’ogni genere: il clima di guerra fredda aveva iniziato ad insinuarsi incattivendo. “E’ sucess un quarantott” continua ad essere infatti un modo di dire utile a sottolineare il caos. Tale aforisma, ripescato in quegli anni, diffuso ancora oggi, sebbene a conoscerne il significato profondo siano le persone ormai attempate, appariva appropriato per sintetizzare la situazione di quel periodo. Fu infatti quello un anno pesantissimo, contrassegnato dalla consultazione elettorale del 18 aprile su cui si sarebbero giocati i destini della nazione ancora in ginocchio e lontana dall’intravedere prospettive di miglioramento. Tutte le energie degli organizzatori della prima festa di Carnevale del 1947 vennero spese nella campagna elettorale. In quell’anno dal clima pesantemente denso di risentimenti con attriti vecchi e nuovi, che Ettore Baraldi definì l’anno delle scissioni, l’organizzazione di una festa di Carnevale con sfilata di carri che richiedeva affiatamento, nonché animi leggeri, doveva essere apparsa senz’altro inappropriata fino all’impossibile. Sempre don Enrico Muzzioli nella Cronaca di Carpi del 1948, il 5 febbraio, corrispondente al Giovedì grasso, ebbe ad annotare: “Giovedì grasso.ma molto.magro! Soltanto si balla.”.
Il 1949 non fu meglio, anzi forse peggio. L’attacco della polizia armata in una manifestazione a Budrione, l’attentato a Togliatti nel luglio dell’anno precedente, la scissione sindacale, uno sciopero di quarantanove giorni dei braccianti e altre agitazioni avevano esacerbato gli animi e il celiare era fuori luogo. Sempre nella cronaca del Muzzioli, al primo marzo del ’49, corrispondente all’ultimo di Carnevale, venne annotato: “Non è in programma nessun divertimento pubblico all’infuori dei soliti balli per piccoli (!!!) e per adulti e Cinema.”. Stando agli altri passi di detta cronaca e di altre ancora redatte da sacerdoti, coincidenti con lo stesso periodo e nei quali il Carnevale era stato sempre oggetto di critica o per i sollazzi spropositati o per ritenuta banalità, viene da pensare che quell’anno doveva essersi contraddistinto per la tristezza veramente straordinaria. Non furono da meno nemmeno gli anni seguenti in cui la licenza di scherzare e divertirsi era riconosciuta ai piccoli e ai giovanissimi, pei i quali sia la pubblica amministrazione che le parrocchie e circoli vari, a partire dal sei gennaio in concomitanza con l’Epifania e nei giorni di Giovedì e Martedì grasso, continuarono ad organizzare intrattenimenti in maschera quasi per preservarli dai pensieri dei grandi e renderli in qualche modo depositari di una tradizione che, prima o poi, si sarebbe risvegliata. Per gli adulti lo spirito gioioso, giocoso e trasgressivo del Carnevale continuava a ritornare ogni anno ma, dimesso, si rintanava nel privato.
Sono i giovani del sempre più nutrito gruppo autodefinitosi dei “Visi pallidi” a sostenere il Carnevale con grandiose feste in maschera per adulti. Se la prima edizione si era tenuta in un locale in via F.lli Rosselli (divenuto poi sede di uno dei maggiori maglifici locali, il “Miriam”), quelle successive si spostano nei più ampi locali della palestra de “La Patria” presso il cosiddetto Castello dei Pio. Le memorabili veglie erano rigorosamente in maschera e su invito. Come racconta uno degli interpreti, nonché organizzatore Sergio Bellentani, l’evento richiamava una gran folla di curiosi che, come avveniva in occasione degli spettacoli teatrali, si assiepava all’ingresso per poter ammirare i travestimenti dei convenuti. Le feste venivano sempre immortalate da ricchi servizi fotografici. Non erano pochi però coloro i quali provavano nostalgia per l’entusiasmo prodotto dalle grandi feste con sfilata anteguerra di carri che nemmeno la censura praticata nel ventennio fascista era riuscita a smorzare del tutto. E, se i cortei mascherati non abitavano più qui, in comitiva, su una corriera di Valenti, organizzati dalla locale “Nicolò Biondo”, si poteva andare a Viareggio, portandosi a casa in fotografia l’eccezionale spettacolarità dei carri allegorici e con sempre nel cuore l’idea di ripartire alla grande in tempi migliori.

Ricerca e testo di Luciana Nora

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GIOVEDÌ GRASSO: TRADIZIONI E GASTRONOMIA
di Ugo Preti - in dialetto modenese - Società del Sandrone di Modena
societadelsandrone@interfree.it

“A sun gnù a ònzer al spròch - dèmen bèin un bèl malòch - dèmen bèin ‘na bòuna fàtta - a sun gnù a ònzer la mé stàcca “.
Questa filastrocca veniva recitata quando si andava a lardo con lo sprocco.
Per molti, specialmente per i giovani, io credo che quanto ho scritto sinora sia completamente incomprensibile. Perciò ricomincio da capo cercando di essere più chiaro.
Una volta il carnevale, cominciato per S. Stefano in sordina durante le feste natalizie con i primi balli e la stagione teatrale, rinvigorito durante Gennaio dalle fiere di S. Antonio e di S. Geminiano, esplodeva finalmente il Giovedì Grasso con un susseguirsi di veglioni, cene, e manifestazioni folkloristiche e durava fino al mattino del primo giorno di Quaresima quando, insonnoliti, stanchi e con gli occhi cerchiati, ci si inginocchiava davanti al Sacerdote per ricevere sulla testa la cenere in segno di penitenza e purificazione.
Aveva inizio quel lungo periodo di Quaresima che per quaranta giorni ci avrebbe privato di ogni divertimento e costretti ad una lunga astinenza dalle carni e a prolungati digiuni.
Ora questo è solo un ricordo. Usanze superate dai tempi, aggiornate dalla Chiesa.
Ora tutto l’anno è Carnevale, le astinenze - digiuni un lontano ricordo.
Alcuni aspetti di questi passati Carnevali sono ancora impressi nella memoria di noi non più tanto giovani.
Al Giovedì Grasso dunque era tradizione «ònzer al spròch» (ungere lo sprocco). Lo sprocco era un legno aguzzo a forma di spadino che serviva ai ragazzi poveri, generalmente «camarànt» (abitanti in «camera», cioè non addetti ai lavori campestri), per una specie di questua.
I ragazzi, in piccoli gruppi, si recavano nelle varie case dei contadini della zona e giunti davanti alla porta recitavano quella filastrocca citata all’inizio di quest’articolo. Usciva allora la «rezdòra» che infilava in ogni «spròch» un pezzetto di lardo, più o meno grande a seconda della più o meno buona resa data dalla «pcarìa» (la macellazione del maiale).
I ragazzi ringraziavano e si recavano alla casa appresso ripetendo il rituale precedente. In poco tempo riuscivano a riempire «al spròch» e allora contenti andavano a casa loro, fieri di partecipare al sostentamento della famiglia col loro contributo.
Grazie a Dio ora il bisogno di queste piccole cose è scomparso, però è rimasto il detto «ònzer al spròch», anche se col tempo ha cambiato di significato.
Prima di passare a rivangare altre tradizioni è bene ricordare che «Giovedì Grasso» in dialetto del ‘700 si traduce in «Zòbia jòtta». «Zòbia», che ancora sussiste in alcuni dialetti della bassa, è facilmente identificabile con «giovedì», «Jòtta» invece, traducibile ora in «grasso» è rimasto nel nostro dialetto trasformato nella parola «giàtt», con significato di grasso-untuoso.
E proprio «giàu» era il Giovedì Grasso, sia nella raccolta del lardo, come abbiamo visto, sia in cucina dove in tal giorno regnavano le frittelle e le frappe.
Il Muratori nel suo «modusfritellizzandi» ci ricorda come anche ai suoi tempi le frittelle godessero di un onorevole posto nella gastronomia modenese, ma i nostri ricordi sono più vicini e solo al pensare a quelle abbondanti cucchiaiate di colla contenenti uova, riso e farina che venivano immesse nello strutto bollente, tutti i nostri sensi vengono messi in movimento.
L’orecchio sente ancora quello sfrigolio che faceva emanare dalla padella di rame quell’odore di fritto buono che le nostre narici solo raramente potevano raccogliere.
La vista gode nel ricordare il trasformarsi di quell’informe colla biancastra in una frittella che pian piano s’indorava all’intorno, si gonfiava, prendeva consistenza e, al momento di voltarla, già presentava una forma e un colore, preludio di raffinato boccone.
Il tatto percepisce ancora le scottature prese nel voler per primi raccogliere le brune frittelle croccanti appena tolte dal fuoco e messe in una terrina coperta di carta gialla per farne assorbire l’eccessivo unto, e il gusto, infine, ricorda il piacere di sentire in bocca tale leccornia.
Le frittelle del Giovedì Grasso non erano fatte come le solite (composte di avanzi di minestra, poche uova e molta farina per tenere unito il tutto) che costituivano il riutilizzo degli avanzi delle scarse mense di allora, ma erano fatte con abbondanza di mezzi: riso fresco (non avanzato) uova in abbondanza e formaggio.
Se ne facevano scorpacciate, ma, data la nostra giovane età e date le nostre lunghe corse del pomeriggio (le frittelle si facevano a mezzogiorno) trascorso in parrocchia dove venivano allestiti i tradizionali giochi carnevaleschi (rottura della pignatta, corsa nei sacchi, albero della cuccagna ecc.) si arrivava a sera già pronti per l’altra specialità che ci attendeva: le frappe.
Le frappe, larghe tagliatelle di pasta dolce, profumate col limone, venivano fritte nello strutto (ora si usa l’olio, più delicato ma senz’altro meno saporito).
Queste tagliatelle prima d’immergerle nell’unto bollente venivano intrecciate o annodate o fatte a fiocco in modo che ne risultassero altrettanti grovigli; dopo la cottura venivano ricoperte abbondantemente con zucchero a velo che si ritrovava, dopo averle mangiate, sul naso, sul mento e, la maggior parte sui pantaloni.
Si servivano generalmente con al «lat mél» (panna montata) che poteva essere normale o «inciocolaté» (cioè contenente cacao in polvere messo nella panna quando stava per terminare la montatura).
Arrivavano in tavola generalmente tra una partita e l’altra di tombola che si giocava in famiglia per chiudere in allegria il Giovedì Grasso.
Chi gioca più a tombola? Anche questo è un ricordo. Come un ricordo sono oramai le frappe, le frittelle e il lardo, tenuti tutti lontano dalla lotta contro l’ulcera, il colesterolo, il peso-forma e, diciamo pure la verità, dall’età e dall’esagerata abbondanza che troviamo giornalmente sulla nostra mensa.


1946 Modena - Sproloquio della Famiglia Pavironica

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