Unnṡer al spròoch
Usi, tradizioni, ricette, modi di dire a Carpi
e nelle zone limitrofe
per Capodanno e Carnevale, dopo la pcarìa
di Mauro D'Orazi
La grafia del
dialetto è stata curata da Graziano Malagoli
Il testo è stato
revisionato da Giliola Pivetti
Negli ultimi anni la crisi e
l'asservimento culturali della nostra società, che assorbe in maniera quasi
sempre acritica usanze e mode provenienti dall'estero e in particolare dagli
USA, ci ha imposto le sciocche, ma con forte valenza commerciale economica,
feste della mamma, del papà, del nonno, della suocera, ecc …
Fra di esse ne spicca una che è
detta di Halloween, che io conoscevo solo grazie alla lettura delle stupende
strisce di Charlie Brown. L'usanza di celebrare questa festa si è propagata a
macchia d'olio nelle scuole e negli asili e ha emarginato, ad esempio, la
nostra tradizionale festa di santa Lucia (13 dicembre - festa della luce, che
prima della riforma del calendario giuliano nel 1582, sostituito dal calendario
gregoriano, corrispondeva esattamente al solstizio d'inverno). La ritualità di
Halloween prevede che i bimbi mascherati, sotto terribili apparenze, suonino
alle porte del vicinato "terrorizzando" chi viene ad aprire e
intimando loro: Trick or treat? in italiano Dolcetto o scherzetto ?
A queste richieste si risponde benevolmente con una caramella, una fetta di
torta, ecc.
**
Ebbene non c’è nulla di nuovo e andando a scavare un po'…
ecco che escono subito antiche usanze e tradizioni della nostro zone, che, ben
più vere e sentite, caratterizzavano il comportamento dei nostri antenati e nel
contempo servivano a ridistribuire, un poco, qualche risorsa alimentare, in un'
epoca in cui certo non c'era da stare allegri e le mamme non avevano fra le
loro priorità quella di dare ai loro figli merendine e barrette di finta
cioccolata e latte in polvere purissimo.
**
Ci soffermiamo su una vecchia usanza correlata al carnevale
ed ormai scomparsa: quella di unnṡer al spròoch (ungere lo sprocco),
risalente a quattro, cinque secoli fa. Il giorno di giovedì grasso i bambini e
i ragazzi delle famiglie povere (di solito i
fióo di camaràant) andavano in giro di porta in porta, armati di un bastonino
di legno appuntito, detto spròoch (sprocco), per chiedere in dono
qualcosa da mangiare, di solito un po’ di lardo che era allora l’ “olio” delle
nostre zone. La formula tipica con cui si usava fare la richiesta al padrone o
alla padrona di casa era la seguente: “Fèe v al pieṡéer d unnṡer al spròoch
? (fate il piacere di ungere lo sprocco ?” O anche, dopo avere bussato alla
porta, si ripeteva con insistenza e cantilena: “M unnṡìi v al spròoch? M unnṡìi v al spròoch? (mi ungete lo
sprocco? Mi ungete lo sprocco?)”
Si potevano chiedere anche altri generi commestibili o del
vino.
I ragazzi di città andavano invece dai bottegai che
vendevano alimentari. A tale proposito il modenese Don Arturo Rabetti, nel suo “Modena
di una volta” ricorda: Il pizzicagnolo Colombini, di Via San Michele, espose
una volta per Natale una mortadella di ben 130 kg. Il bomboniere
Parmeggiani, nel 1890, ornò la sua vetrina come quella di un salumiere e
profuse una esposizione di salsicce, cotechini, zamponi e salami, fabbricati
dal cartonista Matteo Bulgarelli. Erano fatti così bene che davano l’illusione
di essere veri.
**=M=**
I questuanti usavano vari tipi di filastrocca, che esisteva
in numerose versioni; le ho qui riunite in una specie di testo unico:
A suun gnuu a unnṡer al spròoch. Sono venuto a ungere lo sprocco.
Dèe m èn bèin un bèel malòoch. Datemene bene un bel blocco.
Dèe m èn bèin un maluchìin, Datemene
bene un pezzettino,
pèr unnṡer al mè
spruchìin per ungere il mio bastoncino.
Dèe m èn bèin ‘na
bòuna fètta, Datemene bene una bella fetta,
a suun gnuu a unnṡer
la mé stècca! sono venuto a ungere la mia stecca!
A suun gnuu pèr unnṡer al spròoch, Sono
venuto per ungere lo sprocco,
sóol ch a m in dèedi un bèel tarlòoch. sol che me ne diate un bel
tarlocco (pezzo)
Un tarlòoch, un tarluchìin, Un
tarlocco, un tarlocchino,
sóol ch a m in dèedi un bèel puchìin. sol che me ne diate un bel
pochino.
A suun gnuu a unnṡer al spròoch, Sono venuto a ungere lo sprocco
ch a m in dèedi un bèel balòoch che me ne diate un bel pezzo
ch a m in dèedi un bèel baluchèin che me ne diate un pezzettino
da purtèer al mè putèin. da portare al mio bambino.
O cuntadèin ! O contadino
!
A iò savùu ch a gh ii dal vèin, Ho saputo che avete del vino
s a n m in dèe mìa ‘na fiaschètta se
non me ne date una fiaschetta
che Dio v maanda ‘na saiètta che Dio vi mandi una saetta.
Il mitico carpigiano
"Cetta", al secolo Bussei Celerino, nel secolo scorso, recitava
questa breve poesiola, ricordando i suoi anni giovanili:
Reṡdurèina dal capèel Padroncina col cappello di paglia
paasa in ca a fèer al fritèel vai
in casa a friggere le frittelle
pèr chi pòover mascarèin per quei
poveri mascherini
chi gh àan ‘na faam da pelegrèin. che hanno una fame da pellegrini.
Il tutto si può riassumere
efficacemente col più breve e molto ambiguo:
Bèela reṡdóora, m unnṡìi v la sprucadóora !
Bella
padrona di casa, ungetemi il bastoncino !
Lardo di
maiale
Il significato di queste richieste sta nel fatto che si
usava infilzare il dono nel bastone appuntito che il ragazzino portava con sé:
poteva essere un pezzo di lardo, un po’ di carne di maiale, oppure una fetta di
polenta o anche del pane, quindi da qui l'allusione a "ungere" lo
sprocco. Qualcuno più avveduto comunque portava seco anche un tigìin (tegamino) o un
pgnatèin (pentolino), nel caso si ricevesse della minestra o altre cibarie
non "infilzabili".
Tegamino di coccio
I ragazzi, in piccoli gruppi, si recavano nelle varie case
dei contadini della zona e giunti davanti alla porta recitavano la filastrocca;
usciva allora la reṡdóora che
inseriva in ogni spròoch un pezzetto
di lardo, di dimensioni che variavano a seconda della resa data dalla pcarìa (la macellazione del maiale),
effettuata poche settimane prima.
I ragazzi ringraziavano e si recavano alla casa appresso
ripetendo il rituale. In poco tempo riuscivano a riempire al spròoch e
allora soddisfatti tornavano alle loro case, fieri di aver partecipato al
problematico sostentamento della famiglia col loro contributo. Era dunque
un’occasione anche per i più poveri di festeggiare il Carnevale con un piatto
più fornito del solito.
Castagnole - frittelle dolci di
carnevale
Ecco una simpatica filastrocca evocativa del Carnevale, dei
suoi dolci e delle sue frittelle; parte con la puiàana, un uccello
delle nostre zone. Senza dimenticare che
la puiàana però è anche uno
speciale attrezzo con una lama davanti che viene utilizzato per sgomberare la
neve dalle strade.
La puiàana ed còo d un
pèel La poiana sopra un palo
la ciamèeva Carnevèel. chiamava Carnevale.
Carnevèel l éera mòort, Carnevale era morto
e nisùun a s n éera
acòort; e nessuno se ne era accorto;
mò a s n è adèeda mè
surèela, ma
se ne è ben resa conto mia sorella,
ch la magnèeva ‘na
fritèela. che
mangiava una frittella.
**
La versione di Luisa Pivetti (Carpi) è invece la seguente e
si richiama alla seconda parte dell'antica filastròoca
carpṡaana d 'na vòolta Ti tu-sèela cavalòun !!
La puiàana in simma a
un pèel La poiana sopra un palo
la ciamèeva carnevèel. chiamava Carnevale.
Carnevèel al n à vluu
gniir, Carnevale nonè voluto venire,
la puiàana l à tgnuu
murìir. la poiana ha dovuto morire.
Laasa ch la moora, Lascia che muoia,
a gh farèmm 'na caasa
noova. le faremo una cassa nuova.
Noova nuvèinta, un piàat
èd pulèinta, Nuova noventa, un piatto di
polenta,
un piàat èd salsissa un piatto di salsiccia
ch al fa balèer la
margaritta. che fa ballare la margherita
Margaritta di curàai Margherita dei coralli
sèelta su ch a caanta
al gaal. salta su che canta il gallo.
Caanta al gaal e la
galèina, Canta il gallo e la gallina,
sèelta su
Margaritèina! salta su Margheritina!
**=M=**
C’era però un’altra tradizione simile pèr andèer a la séerca,
sia cittadina che di campagna, con una variante temporale per il primo mattino
dell’anno, quando la scaramanzia obbliga(va) rigorosamente ad aprire la porta
di casa per primo a un maschio.
I ragazzini urlavano una speciale augurio al nuovo anno: Alinóov!
Ecco una breve poesiola gioiosa usata anticamente nelle
campagne la notte di capodanno:
Alinòov! Alinòov! Al nuovo! Al nuovo!
La tóorta ind al sóol la torta nello stampo,
e i caplètt ind al
paróol! e i cappelletti in pentola!
I turtlèin ind al
parulèin, I
tortellini (fritti) nel paiolino (canestrino),
la ròoba bòuna a ca mìa la roba buona a casa mia
e cla catiiva ch la vaaga
vìa. e
quella cattiva che vada via.
**
E’ simpatico ricordare anche una filastrocca, conosciuta in
varie versioni leggermente diverse, che si recitava nelle nostre zone per augurare
il buon anno:
A suun gnuu a dèer al bòuni fèesti Son venuto a dar le buone feste
[al bòun
Cavdàan] [del buon inizio dell'anno],
c
h a scampèedi sèint aan, che campiate cent'anni,
sèint aan e un dè cent'anni e un giorno
la bòuna maan la vèggna a mè. la buona mano venga a me.
Mè a n vóoi nè òor, nè argìint, Io non voglio né oro, né argento,
èd quèll ch a m dée a suun cuntèint. di quel che mi date io son contento.
E se a n èm dèe gniint, E se non mi date niente,
ch a v vèggna n asidèint ! che vi venga un accidente!
La reṡdóora la va in ca, La
padrona va in casa,
pèr gniint la n gh andrà. ma
per niente non ci andrà.
S la va a tóor un quèelch suldèin, Se va a prendere qualche soldino,
a m a l mètt ind al bisachèin. me lo metto nel taschino.
**=M=**
Se la ricompensa era misera, o addirittura il questuante
veniva cacciato via sgarbatamente, era molto facile che venisse lanciato un auguràas:
Sèint aan e un méeṡ
e dmatèina lunngh destéeṡ!
–
Cent’anni e un mese e domani mattina lungo disteso
o ch a caschèedi lunng
destéeṡ o che cadiate lungo disteso.
Altre varianti èd melaugurri carpigiani
Maledizioni
di una volta, quando si dava del voi, per rispetto… ovvio.
Venivano a bassa voce dalla nuova contro la suocera, o
anche dai ragazzi (ad alta voce) che andavano ad augurare buono anno, o a unnṡer al spròoch, quando NON
ricevevano nulla:
Bòun viàas!
Òogni
paas un stramàas,
òogni
murr ‘n’insuchèeda;
òogni
vìa ‘na caschèeda!
(Buon
viaggio! Ogni passo un inciampo, ogni muro una testata, ogni via una caduta!)
Bòun aan!
Ch a scampèedi sèint aan!
Sèint aan e gnaan un méeṡ,
ch a caschèedi lunng destéeṡ!
(Buon
anno! Che ne viviate altri cento... ma che a meno di un mese vi troviate lungo
disteso - morto!)
**=M=**
Giliola Pivetti ricorda che Gargallo, negli anni '50, un
uomo taccagno infilò nello sprocco di un ragazzino un pezzo di lardo vecchio,
ingiallito e rancido.
Il ragazzino, che lo ricevette, raccontò a tutti l'episodio
e, da quel momento e per sempre, il gretto personaggio fu soprannominato Còddga
araansa (cotica rancida).
**=M=**
Tortellini fritti con ripieno di savóor opera di Antonella Baracchi -
Carpi
Anche i tipici tortellini dolci fritti, con il ripieno di savóor,
venivano offerti ai questuanti del giorno di Capodanno; essi ne facevano
specifica richiesta con una ulteriore tiritera:
A v salutt bòuna giint! Vi
saluto buona gente!
Ch a siidi tutt
cuntèint! Che siate tutti
contenti!
Ch a stèedi in
sanitèe, Che
restiate in buona salute,
sìa d invèeren, che d
istèe! sia d’inverno, che d’estate!
S a gh ii un turtlèin
ind al casètt, Se
avete un tortellino nel cassetto,
dèe m l a mè ch a gh daagh
al rafètt! datemelo a me che lo faccio sparire!
**
**
Mario Guidetti (Carpi): - Nel 1976 presso le scuole
elementari di via Cuneo, i bambini della mia classe fecero su e giù per la via
Morbidina bussando alle porte dei residenti, all'epoca pochissimi, perché era
tutta campagna, recitando la poesiola:
"Andèmm a unnṡer
al spròoch
pèr fèer dal bòun gnòoch,
da vènnder ai più gulóoṡ!
Che festèin gioióoṡ!".
Ringrazio ancora le maestre per questa bellissima
iniziativa, che mi è rimasta dentro profondamente.-
**=M=**
A testimonianza che queste usanze interessavano una vasta
area, a Finale Emilia il giovedì
grasso i ragazzini andavano in giro per le case cun la sprucaròla (il
solito bastone appuntito) e recitavano:
“ Brasòla, brasòla,
ad cò dala mè
sprucaròla!”
Oppure il classico:
“Razdòra,
‘m unzìv la sprucaròla?”
**=M=**
I significati della
frase
unnṡer al spròoch
Lo sprocco (qui nel Carpigiano come nel resto d'Italia) è dunque un bastone, oppure un manico, o comunque un generico oggetto allungato e appuntito a forma di bastone. Ma il termine ha anche altri interessanti significati e simbolismi: per esempio, sempre in dialetto lo spròoch è il chiavistello del catenaccio delle porte, e quindi sarèer cun al spròoch (chiudere con lo sprocco) è sinonimo di chiudere col catenaccio.
**=M=**
Lo spròoch diventa anche la metafora per indicare
l'organo sessuale maschile; l'espressione unnṡer al spròoch diventa a
sua volta un simpatico modo di dire per indicare l'atto sessuale (visto dalla
parte dell'uomo, ovviamente). Questa frase viene quasi sempre usata per
indicare un rapporto frettoloso, saltuario o illegittimo.
Una tipica frase poteva essere: al gh à la praatica, mò
al la dróova sóol pèr unnṡer al spròoch (ha l'amante, ma la usa solo per
veloci rapporti).
Tornando per un attimo alla pratica del Giovedì Grasso,
quando il ragazzino chiedeva il pezzetto di lardo, non di rado la reṡdóora, ch la n gh iva mìa taant spadìi
in bòcca, (che di solito non aveva un gran ritegno o timore nel parlare),
gli rispondeva maliziosamente: “Viin mò
dèinter ragasóol, ch a t unnṡ al spròoch! (Accomodati dentro che ti ungo lo
sprocco!)”.
Renzo Ganassi (Carpi) ricorda: “Un tempo si
usava chiedere all'amico dopo una missione galante: "Alóora? Gh l èet cavèeda a unnṡer al spròoch?".
**=M=**
Ancora, unnṡer al spròoch ha il significato di dare
soldi a qualcuno come contentino, come sovvenzione o come mazzetta. Spesso tale
azione era giustificata e vitale nell’ambito della dura vita di campagna,
quando un mezzadro con il contratto in scadenza o senza, versava una cifra o
dei prodotti agricoli per ingraziarsi i favori dei mediatóor da piàasa,
che stazionavano, in particolare nei giorni di mercato al giovedì e sabato
mattina, presso il Bar Milano e il Caffè Teatro. Si chiedeva loro di mettere
una buona parola coi proprietari di poderi con casa per averli in affitto e con
discrete condizioni contrattuali. Il mediatore, opportunamente “unto”, cercava
e trovava il fondo da affittare e portava avanti e facilitava le trattative fra
le parti. Il cambio di gestione di un podere avveniva di solito per San
Martèin (l’11 novembre), da cui l’espressione fèer san Martèin per
indicare un trasloco, non di rado doloroso (1). Bisogna notare che questa data
autunnale, non nasce dal caso, trova precisa giustificazione col fatto che la
vendemmia era terminata, i lavori di campagna erano in un momento di relativa
stasi, in quanto c’era quasi solo da potare e si sperava nelle giornate
soleggiate dell’“estate di san Martino”.
**
Oggi l’uso della frase mi sembra oramai esclusivamente
negativo, dopo Tangentopoli e i continui episodi anche recentissimi. Si è
dunque passati a un concetto di corruzione più spinta, priva di ogni base
morale e di dignità per lubrificare i più nascosti ingranaggi. Non ci può
nemmeno consolare il fatto che l’usanza sia molto antica. E c’è chi è
dell’opinione che unnṡer al spròoch derivi anche dall'usanza degli
esattori del dazio, di un tempo, di infilare un bastone aguzzo nei sacchi che
entravano in città sui carri per accertarsi che non vi fosse nascosto qualcosa
di consistente. Se i gabellieri erano corrotti, fingevano che il bastone
entrasse nel sacco senza fatica, come se fosse… unto.
Per capodanno e
carnevale… usanze simili
Queste belle usanze per capodanno e carnevale sono state
perse negli anni ’70: un grasso benessere si era diffuso e i bambini non
avevano più nulla da chiedere che già non avessero in famiglia, in particolare
poi il cibo, abbondante e condito da una irresistibile e una inarrestabile
pubblicità televisiva.
1935 ca - Carnevale a Carpi- distribuzione
di frittelle
**=M=**
Ecco una significativa poesia di Giacinto Bruschi di Carpi, che visse direttamente
quell’esperienza, e che sapientemente la ripropone in questi sentiti versi:
GIUVIDE’ GRAS GIOVEDI’ GRASSO
(Quand a s’andéva a ùnzer al spròoch…) (Quando
si andava a ungere lo sprocco …)
Mè a sun andè stè giuvidè gràs Sono
andato questo giovedì grasso
per ciapèr ed l’aria a fèr quater
pas per
prendere un po’ d’aria a fare quattro passi
e fòra da Chèrp, tra palàs e vìli , e fuori
da Carpi, tra palazzi e ville,
sèins’ adèrmen a sun rivè al Pìli. senza
accorgermene sono arrivato alle “Pile”.
A-m sun lé arvìst e dirl’ a-m sa sciòch Mi sono
lì rivisto e dirlo mi pare sciocco
quand andèva an fa a ùnzr’ al spròoch
, quando
andavo tanti anni fa a “ungere lo sprocco”,
perché l’éra custùm per i ragàs perché
era tradizione per i ragazzi
d’ andèr cal giòren lè a la “serca
ed gràs”. di andare
quel giorno lì alla “cerca di grasso di maiale”.
Co’ ‘l spròoch in d’na man e in cl’etra
la brèta Con lo
“sprocco” in una mano e nell’altra il berretto
un picc’ a l’ùss… un còlp a la
marlèta un
picchio all’uscio, un colpo al saliscendi delle porte
andeva in tùtt al cà d’ lungh a ‘l
canèl andavo in
tutte le case lungo il canale (il Gabelo)
in-dua i avìven masè al “nimèl”. dove
avevano ucciso il maiale.
E ànch in dal cà ed la gint puvrèta
E anche nelle case delle
famiglie povere
ed gràs in dal spròochh i-t n’ infilèven ‘na fèta , di lardo per il mio “sprocco” ce
n’era una fetta,
perché ‘na vòlta a s’ éren meno
sgnòr perché
una volta eravamo meno ricchi,
ma la gint la gh’ ìva dimòndi più
còr. ma la
gente aveva molto più cuore.
Al fòren dal Pìli tùtt i àn al gìr Al forno
delle Pile tutti gli anni il giro
cun ‘na fèta ed… belsòun al féva
finìr. con una
fetta di belsone lo facevo finire.
E tùtt cal vòlti che in cà a-s frìs
al gnòch E tutte le volte che in casa si frigge il gnocco
per mè ‘l gh’à al gùst… dal gràs
dal mè spròoch per me ha il gusto del grasso del mio sprocco.
Giacinto Bruschi poeta
carpigiano
Nota
(1) Fare San Martino è un modo di dire usato in tutto il
territorio a vocazione agricola della pianura padana. Significa traslocare o
trasferirsi, ma anche, in senso più ampio, cambiare luogo di lavoro. L'origine
di questa frase fatta risale ad alcuni secoli or sono ed aveva un riscontro
pratico sino a qualche decennio fa, quando una significativa parte della
popolazione attiva della pianura padana era occupata nel settore agricolo in
qualità di braccianti. L'anno lavorativo dei contadini terminava a inizio
novembre e, nel caso il datore di lavoro (proprietario del fondo) non avesse
rinnovato il contratto con il contadino per un altro anno, egli era costretto a
trovarsi un nuovo impiego altrove, presso un'altra cascina. In tal caso doveva
abbandonare la casa (anch'essa di proprietà del padrone) e trasferirsi nella
nuova dimora, con tutta la famiglia al seguito. La data scelta per il trasloco
era quasi sempre l'11 novembre, giorno in cui la Chiesa ricorda San Martino
di Tours, per tradizione e per ragioni climatiche (il periodo di tempo stabile
e soleggiato che contraddistingue - in media - i giorni attorno alla prima
decade di novembre sono definiti "estate di San Martino").Curiosità -Nel
corso della grande battaglia di Solferino e San Martino, preoccupato per il
disastroso andamento della battaglia di San Martino del 24 giugno 1859, il re
Vittorio Emanuele II si rivolse nel comune dialetto ad una formazione di
soldati piemontesi della brigata Aosta, di passaggio da Castelvenzago, con la
celebre frase: «Fioeui, o i piuma San
Martin o i auti an fa fé San Martin a nui!» (« Ragazzi, o prendiamo San
Martino o gli altri ci fanno fare San Martino a noi!»
**
Le ricette tipiche
del Carnevale
raccolte da Luciana Nora e da Mauro D’Orazi 2007-2013
Rosoni
Ricettario manoscritto famiglia Foresti - Carpi
Farina grammi 600
zucchero grammi 120
burro grammi 60
uova 3 intere e 2 bicchierini di rinfresco, scorza di
limone grattugiata
**
Rosoni, cenci,
nastrelle
Ricettario di Daniele De Pietri - Carpi
Farina Kg 1.000
Zucchero gr. 200
Burro gr. 100
Uova intere gr. 400
Un pizzico di sale
Scorza di limone - Vaniglia
Olio o strutto - Zucchero velo
Procedimento: fare una fontana con la frutta impastare
zucchero e burro aggiungere le uova poco per volta infine incorporare la farina
fare un impasto sodo lasciare riposare, almeno un ora poi stendere sottile
tagliare a piacimento.
**=M=**
Così come per la ricetta, anche il confezionamento del
rosone varia da una famiglia all’altra. Ecco ad esempio le modalità per fare
questo squisito dolce fritto a casa di Odette Baracchi di Carpi.
Si ottiene un rettangolo di sfoglia, tirata molto sottile,
di pasta dolce con l'apposita rotellina. Il rettangolo risulterà di circa 12 x
17cm. Dentro al rettangolo si praticano tre tagli, ovvero uno mediano e gli
altri due uno a destra e uno a sinistra di quello centrale. I tre tagli saranno
lunghi circa 12 cm,
quello centrale resta libero. Poi si prendono le due estremità del rettangolo e
si infilano nei rispettivi due tagli laterali. Quando si butta in padella
nell'olio bollente, il rosone forma una bella rosa bollente. Oggi è
consigliabile l’uso di olio di arachide che rende il tutto più fragrante e poco
unto.
**
Baracchi
Odette (Carpi) usa questa ricetta: 500 gr farina,
40 gr burro temperatura ambiente, 100 gr di zucchero, 3 uova e un tuorlo, una
bustina di vanillina, mezza bustina di lievito, un tappino di anice o
sassolino. Vanno fritti rapidamente nell'olio di arachide. Si appoggiano poi su
carta assorbente e spolverare con zucchero a velo.
Il liquore sassolino, adatto per i
dolci
Ilva Tosi (Carpi): " Mè a la sò cun la règola dal duu: duu èeto èd farèina, duu óov,
'na nóoṡ èd butéer desfàat, un pòo d sassolino e 'na scòorsa gratèeta d limòun.
A m arcmàand... al sfóoi al va tirèe sutìil. I iin 'na buntèe!"
Carlo
Gozzi chef del
rinomato Ristorante INCONTRO di Carpi: 500 gr di farina, due tuorli, 75 gr di
burro a temperatura ambiente, un bicchiere di marsala e un pizzico di sale. Una
volta fritti spolverare con zucchero a velo.
Maurizia
Besutti (Carpi) usa una vecchia ricetta di
famiglia (un tempo piuttosto numerosa, viste le cospicue dosi annotate) per i
rosoni. Per l'impasto: 1 kg
di farina, 11 cucchiai di zucchero, 60 gr di strutto, 6 uova (di cui 4 col
fiocco), 1 bicchiere di vino bianco. Le quattro uova col fiocco, sono intese
sbattute bene, quasi montate. Friggere rigorosamente nello strutto e poi
zucchero a velo sopra.
Maurizia
Besutti ha anche
una variante più "leggera" per la merenda dei nipotini. Si usa una
piccola dose ridotta: 200 gr di farina lievitata, un cucchiaio di burro a
pomata, un limone grattugiato, un uovo e un tuorlo, un cucchiaino di vino
bianco (per i bimbi evita di mettere il sassolino); il tutto impastato con
qualche cucchiaio di latte. Anche questi fritti rigorosamente nello strutto.
Anche Carla Bruna (Carpi) suggerisce una ricetta per i
bambini che viene benissimo ed è semplicissima: i rosoni vengono praticamente
uguali e si gonfiano nello stesso modo. Per 2 etti di farina 00, non lievitata,
2 uova, 2 cucchiai di zucchero e il succo di mezza arancia (piccola). Poi
impastare, lasciare riposare 15 minuti e una volta tirata la pasta e tagliate
le frappe, friggere in molto olio in un pentolino piccolo. Girare e tirate su cun la ramèina; non assorbono olio. Una
volta stese mettere lo zucchero a velo. Provare per credere...
Classici rosoni carpigiani di
Maurizia Besutti (Carpi - 2013)
Graziano Malagoli (Carpi) ci suggerisce la ricetta per i
rosoni usata da sempre da sua madre Nina col risultato di un prodotto
eccezionalmente soffice, friabile e leggero:
Ingredienti: 2 hg di farina, 1 uovo, 2 cucchiai di
zucchero, 2 cucchiai di aceto forte, 2 cucchiai di olio di mais. Esecuzione:
impasto solido da passare nel penultimo scatto della macchina per pasta;
coprire e lasciare a riposo per 2 ore; friggere in un tegame piccolo con olio
di mais abbondante; scolare e raffreddare e infine spolverare di zucchero a
velo.
**
Castagnole di
Carnevale
Ricettario manoscritto della ex pasticceria Fr.lli Barbieri di Carpi.
4 uova intiere, batterle assieme a 200 grammi di zucchero,
aggiungere prima una tazzina di rum o anice e mescolare poscia 250 grammi di burro
appena sciolto al fuoco e ancora mescolare; indi a poco a poco e sempre
mescolando, gr. 600 di farina bianca e infine gr. 8 di cremor tartaro e 8 di
bicarbonato. Versare l’impasto sul tevoloe lavorare ancora con le mani
riducendolo ad un cilindro grosso quanto un dito pollice e lungo quanto
riuscirà. Tagliate a pezzettini grossi quanto una nocciola e questi verranno
fritti in abbondante olio.
**
Frittelle di riso
Ingredienti per 4 persone:
200 gr. di riso
750 gr. di latte o anche di brodo,
200 gr di Parmigiano Reggiano grattugiato,
3 uova
200 gr. di farina, due litri di olio, ma anche il
corrispettivo di strutto
pane grattugiato, noce moscata, sale e pepe.
Cotto che sia il riso nel latte o nel brodo, dopo averlo
lasciato raffreddare, aggiungere la farina, il formaggio, le spezie a piacere, il
sale e due uova più un tuorlo: il tutto amalgamato per bene (se necessario,
aggiungere un po’ di pane grattugiato per rendere l’impasto più corposo).
Nell’olio bollente o nello strutto, nella misura di una cucchiaiata immettete
l’impasto che si rapprenderà immediatamente. Lasciate rosolare per bene fino a
che l’aspetto non sarà dorato uniformemente.
**=M=**
Testimonianze e
annotazioni
Anna Maria
Ori segnala delle
opportune distinzioni.
La cantilena dei bambini sfrutta il residuo di una
mentalità ancestrale, è qualcosa di legato a un’utilità immediata, per loro, un
po’ furbesca, forse sostituto di una ritualità precedente, di un rito di
passaggio dall’anno vecchio all’anno nuovo che escludeva la partecipazione
femminile, e prevedeva forse un piccolo sacrificio, che col passare dei secoli
è diventato il dono ai bambini (maschi), come tutti i doni magici a personaggi
in grado di esorcizzare e allontanare presagi funesti.
Doveva essere qualcosa di talmente radicato nelle mentalità
di quel lontano passato; queste usanze potrebbero derivare da culti neolitici; dal
passaggio dalla società matriarcale (se mai c’è stata) a quella patriarcale. La
tradizione si è mantenuta attraverso i secoli ed è stata razionalizzata e
semplificata, mentre andava sempre più perdendo il suo significato profondo.
Ma, come spesso succede in questi casi, è rimasto solo il simbolo, impresso nel
nostro DNA, più che nella ragione.
Anche sua madre si preoccupava se una donna entrava in casa
sua per prima per Capodanno e mandava mio padre a casa della nonna, perché
fosse il primo e maschio.
Mariapia
Nicolini ricorda
che suo padre era fornaio a Novi di Modena negli anni '60 e si alzava tutte le
mattine alle tre. Non stava a letto più di tanto nemmeno la mattina del primo
dell'anno. Infatti già alle 7 cominciavano a venire i bambini ad augurare il
buon anno. Lui preparava una scodella piena di monetine da elargire ed era
pronto ad ascoltare la solita sirudèela:" A sun gnuu a dèer al bòun capdàan, ch a scampèedi sèint aan, sèint aan
e sèint dè! La bòuna maan la m viin a mè!" Molto simile alla versione
carpigiana.
Erminio
Ascari rammenta
che il beneaugurante ingresso dell'uomo per primo in una casa per capodanno è
ancora esistente tutt'oggi in tante case. Il primo dell'anno gli uomini
portavano fortuna e le donne viceversa. Una vecchia tradizione e superstizione
che si tramanda. Da piccolo, negli anni '50, andava per le case con gli amici
recitando: "Aan, bòun aan, a sòmm gnuu
chè a dèer èv al bòun capdàan, pèr un aan e un dè; la bòuna maan la m viin a
mè!"
Maddalena
Zanni (Carpi) ci racconta che sua nonna il primo
dell'anno non la faceva uscire! "Incóo
al dònni ii déeven stèer in ca! (Oggi le donne stiano in casa!)" E se
entravano in casa di altri, erano sempre dietro all'uomo.
Baracchi
Odette - Anche a
San Marino di Carpi il maschio che andava a fare gli auguri il primo giorno
dell'anno diceva: "A v suun gnuu a
dèer al bòun cavdàan, ch a scampèedi sèint aan, sèint aan e sèint dè! La bòuna
maan la m viin a mè!"
Maurizia
Besutti (Carpi) ricorda che negli anni '60 anche lei
andava a fare gli auguri, ma si travestita da maschietto per non perdersi le
piccole mance, i dolcetti e le caramelle.
**
Luciana
Nora (Carpi), nota
esperta di cultura locale, aggiunge alcune sue note al tema, che qui di seguito
riportiamo con grande piacere.
L’Ognissanti
dei Celti segnava il passaggio dall’ autunno all’ inverno e, in quel breve
lasso di tempo, si apriva la porta tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Il
passaggio dal calendario Giuliano a quello Gregoriano ha trasportato il tempo
di questo possibile passaggio alla vigilia di Natale quando, dopo la cena, la
tavola doveva rimanere apparecchiata perché, forse, qualcuno sarebbe ritornato.
In quella
notte a beneficio delle anime dei morti veniva recitata un’orazione
particolare:
“ L’ urasiòun benedètta/ L’orazione benedetta
La vèel più che ’na mèssa/ Vale più di una messa
Mèssa èd Sant’ Ana/ Messa di Sant’ Anna
San Péeder la ciàama/ San
Pietro la chiama
San Iusèef rispònnd/ San Giuseppe risponde
Bròoch in céel e raìiṡ in fònnd/ Rami in cielo e radici in fondo
Pirulèin d altèer/ Campanello d’altare
Aaqua dal mèer/ Acqua del
mare
Funtaana dal paradìiṡ/ Fontana del paradiso
Benedètta cl’aalma ch la diiṡ/ Benedetta
quell’ anima che la dice
Treintasée vòolti la vigillia d Nadèel/ Trentasei
volte la vigilia di Natale
I chèeven fóra ’n’ aalma dal purgatòori/Tolgono
fuori un’ anima dal purgatorio
Ch la va in paradìiṡ/ Che va in
paradiso.//
==0==
Carnevale per sempre
di Luciana Nora 2012
Il Carnevale è ormai
abbondantemente alle spalle ma, di fatto, il Carnevale continua e sembra ormai
protrarsi all’infinito. E’ pressoché un non senso l’aspergersi il capo di
ceneri il mercoledì successivo l’ultimo giorno del lungo ciclo carnevalesco che, sommessamente, prendeva avvio
immediatamente dopo l’Epifania, come desumibile dal detto popolare dei nostri
vecchi: - Al sée de ṡnèer/ mè a suun
sòolit arivèer/ véera i uss e ṡbaanda i véeder/ mè a suun sèmmper un òmm
aléegher// (Il sei di gennaio io [Carnevale]/ sono solito arrivare/ apri le
porte/ spalanca i vetri/ io sono sempre un uomo allegro//).
1946
Carnevale a Carpi
Senz’altro, presso le chiese,
continua la celebrazione del mercoledì delle ceneri ma ad assistervi, più in
ossequio alla tradizione che al reale significato simbolico, rimane un sempre
più sparuto numero di persone non più giovani, per il quale il significato di
trasgressione è imparagonabile a quello che ormai è entrato nel senso comune
tra quanti rientrano in quelle fasce generazionali che precedono la definizione
di terza età avanzata; anzi, il trasgredire oggi appare come irrinunciabile e,
di fatto, si fa conformismo tanto standardizzato da poter essere espresso in
percentuali nelle sue varie forme. Va comunque registrato che quest’ultima
categoria, demograficamente in inesorabile aumento, non è scevra dal contagio
di frenesia del “divertimento” ininterrotto, riempitivo di quell’infinito e
sempre più regimentato tempo detto “libero” in cui potrebbero insinuarsi noia,
timore di bilanci, mal di vivere di fronte alla poco allettante prospettiva
dell’inesorabile declino, nonostante il serratissimo impegno alla prevenzione e
mascheramento, blandito da un vastissimo mercato in forte espansione.
Cosicché ai posteri non sarà dato
di leggere in nessuna cronaca parrocchiale contemporanea note sul tipo di
quella che l’arciprete di Cortile redigeva il 20 febbraio 1885: “ Nei giorni 15-16-17 andante ha avuto luogo
il solito triduo di riparazione alle tante offese che vengono fatte al Signore
negli ultimi giorni di Carnevale. Il concorso dei fedeli alla chiesa è stato
soddisfacente, come discreto è stato il numero di quelli che si sono accostati
ai Santi Sacramenti.”. Il citato
breve passo potrebbe indurre al pensiero di pesanti trasgressioni ed è
probabile che in quel contesto temporale, rapportandosi alla morale
ecclesiastica e civile, la seconda fortemente condizionata dalla prima, le
manifestazioni si configurassero davvero come eccezione alle comuni regole di
vita. Un altro mondo nel senso letterale dell’espressione, esclusivamente
ancorato ad un’economia agricola, contraddistinta da categorie sociali quali mezzadria,
terzeria, boaria e bracciantato per le quali la sobrietà dei consumi fino
all’estrema precarietà, più che un dettame, era un’insottraibile realtà.
Il tempo del Carnevale, collocato
nell’avanzato inverno, dove tutte le possibili azioni umane tese ad un buon
futuro raccolto si erano pressoché esaurite e si avvertiva il peso
dell’incognita meteorologica, si configurava come il penultimo pesante passo
verso una rigenerazione ancora tutta nella delicatissima fase embrionale.
Mentre le scorte granarie andavano assottigliandosi, le galline nel pollaio
ricominciavano a produrre uova (Pèr l aan
nóov/ tutt èl galèini èl faan l óov// - Con l’anno nuovo/ tutte le galline
fanno l’uovo// - In ṡnèer/ a s mpìss d óov al puléer// A
gennaio si riempie di uova il pollaio//); il vino nuovo andava facendosi nelle
botti e, ormai ultimato l’ingrasso, presso le famiglie contadine si attendeva
all’uccisione del maiale. Su questi due ultimi attesi atti, che si
configuravano come chiusura di un ciclo e, al contempo, apertura di uno nuovo,
in misura diversa, fidavano tutti, compresa quella foltissima schiera di
braccianti agricoli o “pitocchi” le cui incertissime scorte, se non già
esaurite, erano prossime alla fine; per loro l’unico lenimento possibile,
assieme all’assai diffusa pratica del furto che, essendo spogli i campi, si
indirizzava specialmente sui pollai, era il continuare le tradizionali questue
iniziate con i Santi e i Morti.
A fornire un quadro della
condizione sociale nella Carpi della seconda metà dell’Ottocento, non dissimile
da quello vissuto ancora per tutti gli anni Quaranta sull'intero territorio
nazionale, è Domenico Guaitoli che su il “Maldicente”
scriveva: “Sai tu cosa
significhi Carnevale per Carpi, o Strega? No? Dirottelo io. Carnevale per
Carpi, significa un freddo diabolico che insulta il naso e fa ballare i denti...
Carnevale significa brodo lungo, coperte meschine, stenti ineffabili e poco
cristiani per gli ammalati del Civico Ospedale … nascita e non morte di
gentilissimi creditori... Carnevale significa magri guadagni per l’operaio,
amori languidi,... tragedia in casa dei poveri...”. Sarà stato per via di uno stato generale che, pur mortificando
stomaco e membra, non dava disonore, per l’euforia che si genera nel vedere
prossima l’uscita dal tunnel del rigido inverno, per quel ribollire non solo
del vino nelle botti ma anche degli umori e istinti umani, il tempo del
Carnevale si animava di quello spirito necessario a contrastare i possibili
spettri maligni che avrebbero potuto assumere concretezza e che andavano
esorcizzati in tutti i modi. In una serratissima logica di sopravvivenza,
esplodevano fragorosamente le ultime energie vitali prima della purificazione
quaresimale, nell'attesa della rigenerazione. Si trattava comunque solo di
assopimento e, a metà Quaresima, per un giorno solo, gli umori gagliardi, quasi
a rassicurare, ridavano segno tangibile della loro presenza in manifestazioni
di cui nessuno si ricorda che andavano, per l’appunto, sotto il nome di Carnevale di mezza Quaresima.
A partire dall’inizio
degli anni ’50 del Novecento, tutte le premesse ad una svolta economica e
sociale andavano velocemente a concretizzarsi in un’organizzazione del lavoro
stravolgente tempi, modi e orizzonti di quelle generazioni che si stavano
avvicendando in una società incalzantemente obbligata a ridefinire gli stessi
vincoli relazionali sia in ambito familiare che generale. La quotidianità
sociale locale era pervasa da umori molto guareschiani: i contrasti politici si
trasformavano giornalmente in schermaglie verbali più o meno accese in tutti i
luoghi di ritrovo convenzionali e, normalmente, il tutto si stemperava in una
bevuta di lambrusco. Intanto, all’interno di una realtà sociale dove la
percentuale di analfabetismo e semianalfabetismo era altissima, si affacciava
lo strumento per eccellenza dei mass/media: la televisione, la quale, in quel
tempo in cui la fruizione era obbligatoriamente ancora collettiva, esordiva con
spettacoli e giochi dai tratti fortemente campanilistici, affiancati dai corsi
pomeridiani Non è mai troppo tardi
curati dal maestro Manzi, di catechizzazione e, per la gioia di grandi e
piccini, da veri e propri seppur brevi spettacoli di Carosello. In breve il mezzo televisivo si rivelava un eccezionale
pifferaio magico e, come afferma Woody Allen con quell’ironia triste e lucida
al tempo stesso che lo contraddistingue, si sarebbe arrivati ad osservare che “Il
cinema emula la realtà e la realtà emula la televisione”. In un simile
contesto, davvero diventa difficile individuare la concretezza dell’essere e
anche l’antico cogito ergo sum appare
quantomeno impreciso.
1946 e 1954 Carnevale in Piazza a
Carpi
La
società degli anni ’60, caratterizzata da un’industria in forte espansione e
un’agricoltura sempre più meccanizzata che ridefinivano gli stessi
assetti/rapporti familiari, si è contraddistinta per un benessere che, pur non
escludendo le differenze tra classi sociali, cadeva a pioggia su tutti,
ingenerando pretese di certezza, compresa quella che alimentava il movimento
del Sessantotto, fattosi convinto di poter mutare il mondo dandogli un più equo
equilibrio, sebbene poi, senza voler contraddire Venditti, molti dei suoi primi
animatori, affinando l’arte arrampicatoria e cadreghina, non limitandosi certo
al “posto in banca”, lasciato alla truppa anonima, si siano rivelati di un
neoconformismo stratosferico, emblematico altresì di quella decadenza altamente
disorientante che, simile a blob, avanza vischiosamente, inghiottendo
tutto quanto incontra.
Sempre in relazione a Halloween, una delle ragioni del suo
fascino risiederebbe nel preteso conformarsi al costume statunitense,
presentato come espressione di valori sociali indiscutibili e non come più
verosimile colonizzazione. E’ assai probabile che nessuno di quanti si
affannano in queste nuove modalità di omologazione si sia soffermato a
riflettere sul fatto che le tradizioni delle genti americane, esclusi i
discendenti dagli antichi nativi (i quali però, ridotti violentemente a sparuto
popolo, non sono esenti dall’aver subito rilevanti contaminazioni), seppure
trasformate nel tempo, sono di origine europea. Il travestimento macabro
riporta all’antico Ognissanti quando, presso il nostro territorio, casa per
casa, i più miseri andavano questuando un mescolo di fagioli e castagne bolliti
e ognuno, avendone la possibilità, non si sottraeva a quello che era ritenuto
il dovere dell’elemosina verso quanti, in terra, rappresentavano le anime
afflitte dei morti, i quali, si credeva in quella non lontana epoca, trovassero
aperta una porta per rivisitare il mondo dei vivi. Venir meno al dovere
dell’elemosina generava timore di perniciosissime e irrimediabili maledizioni.
Il Dolcetto o scherzetto sintetizza
il significato di molte tradizionali tiritere recitate dai questuanti
dall’inizio di novembre e fino a tutto il Carnevale, ossia il periodo più
critico dell’anno per i tanti che conducevano una vita di stenti.
La fame
doveva essere veramente tanta da far sognare il paese di cuccagna,
simbolicamente rappresentato da quel tradizionale alto e accuratamente ingrassato
palo che, alla fine di Carnevale, era issato nella pubblica piazza, sulla cui
cima erano assicurati pochi, ma appetibili generi alimentari: erano in molti
che, incuranti di lordarsi, tentavano di arrampicarsi sopra e di carpirli.
E se attualmente, dopo una
pratica di occultamento non indifferente, gli stenti fisici appaiono superati,
sono però stati sostituiti da quelli assai più gravosi che affliggono l’intimo
umano, cosicché, più o meno consapevolmente, il tempo degli esorcismi rituali e
del travestimento si è fatto infinito e il Carnevale è divenuto permanente.
Anche conoscendolo, nessuno più si sognerebbe di recitare il saluto finale
delle maschere:
“Bòuna giint a iòmm finìi/ (Buona
gente abbiamo finito
Perdunèe s s a v òmm culpìi/ Perdonateci
se vi abbiamo colpito
E di tutt sti nòoster schèers/ Di tutti
i nostri scherzi
Perdunèe s s a n v in despièeṡ/ Perdonateci
se non vi dispiace
Perdunèe la nòostra ciàacra/ Perdonate
la nostra chiacchiera
E a s cavòmm subìtt la
maascra//” E ci togliamo subito la maschera)
**0**
E dietro le
maschere / l’anima, che è sola”. (Borges)
Ma per l’uso prolungato la/le maschere si sono fatte
amalgama con la pelle e, ammesso che se ne abbia coscienza, il toglierle è
tormentoso, se non impossibile. La festa, non più tale, ma sarabanda continua che,
nel suo essere perenne, è e sarà grottesca e beffarda.
**0**
Anni ’30 Carnevale in Piazza a
Carpi
1983
Carnevale nel cortile della scuola Don Milani - Cibeno Pile a Carpi
**=M=**
1948 Il Carnevale del freddo
Da Carpidiem di Luciana Nora 2007
Il primo corso mascherato carnevalesco del secondo
dopoguerra ebbe luogo il pomeriggio del 16 febbraio 1947, ultima Domenica di
Carnevale, nell’appena ribattezzata Piazza dei Martiri di Carpi con la
propaggine del Gioco della Quintana che occupava piazzale Re Astolfo. Era una
festa indirizzata a tutta la cittadinanza anche se gli attori principali, sia
per quanto concerne l’organizzazione che il protagonismo nei giochi, erano
soprattutto gli adulti.
Don Enrico Muzzioli, redigendo la “Cronaca di Carpi”,
commentò la festa nei seguenti termini: “[.] Incominciano oggi nel
pomeriggio i “Ludi Carnascialeschi” per i quali è stata fatta tanta réclame. Si
fanno in Piazza dalle 15 alle 17,30 Corsi mascherati, Corse di somari, Corse
nei sacchi, Corse di camerieri. Ci sono anche due cuccagne. Lo spettacolo è a
pagamento ( £ 40 per gli adulti, £ 10 per ragazzi), chiusi gli accessi alla
Piazza con assiti. E’ stato un divertimento molto meschino: i carri allegorici
molto poco ridicoli e.spiritosi, niente affatto caratteristici!”.
A fronte di questa testimonianza scritta ve n’è un’altra
fotografica molto eloquente a cura dei fotografi carpigiani Tonino e Cinzio
Gasparini. Da detta documentazione, inequivocabilmente, si evince un grande
concorso di folla e, scrutando le espressioni attente e divertite dei
partecipanti, non si può non cogliere la contraddizione tra le due cronache.
Vale qui forse la pena di spendere due parole su come la fotografia possa
essere, oltre che una forma di espressione artistica, intesa perlopiù e
discutibilmente come arte minore, un documento puntuale eloquentissimo,
preziosissimo nell’ambito della ricerca, capace di suggerire itinerari e di
precisare fatti e umori ad essi connessi. Al contempo, a posteriori,
l’immagine, più della parola o dello scritto, è in grado di sollecitare memoria
e considerazioni contemporanee impossibili allora e oggi preziose per
comprendere meglio il passato.
Certamente quella festa era rappresentativa di una
situazione sociale problematica; basti pensare all’inquietante carro della
Magneti Marelli il quale, più che un’allegoria, era la denuncia di una
situazione difficile che metteva in pericolo l’occupazione di circa trecento
maestranze maschili con tutto quello che, sotto l’aspetto economico poteva
conseguire per le famiglie che erano alle loro spalle, in un contesto economico
lontano dall’offrire alternative di impiego. I giovani di allora, sia per
portamento che abbigliamento (cappello in testa e cappotti seriosissimi),
avevano sembianze di uomini e donne maturi diversissime da quelle della
gioventù contemporanea. Dietro l’aspetto esteriore non poteva mancare però la
naturale inclinazione alla spensieratezza tipica della giovinezza anagrafica.
Cosicché, seppure dimessamente, si era tentato di rientrare in quella che era
stata una tradizione fortemente radicata sul territorio carpigiano le cui
origini si perdono nel tempo e che in tanti speravano di poter ripristinare
dopo il lungo e luttuoso periodo bellico. Carnevale non rappresentava solo la
festa o il ciclo di feste con gli attesi intrattenimenti approntati in quel
lungo periodo che va dall’Epifania fino alla vigilia della Quaresima, ma in
esso prendevano corpo, anche e soprattutto, lo spirito associativo, creativo,
critico, burlone e gaudente che lo reggevano in tutta la fase organizzativa
dalla quale sortivano, o si confermavano rafforzandosi, nutriti gruppi amicali.
L’organizzazione delle feste partiva con un congruo anticipo e i curatori dei
carri, costituitisi in società come quella del “Fil d’Fer” o “Dla
Pèppa” (ripresa poi quest’ultima negli anni Cinquanta), si incontravano in
gran segreto presso ampi locali che, su pagamento di un modesto affitto,
venivano messi a loro disposizione da fabbriche o cantine vinicole locali.
Emblematico di quanto grande e sentita dovesse essere
questa ricorrenza è il ricco programma, in forma di grida, della lunga festa di
Carnevale che ci perviene dal periodico locale “ Alberto Pio III” uscito il 20
gennaio 1872 e qui riproposto nei caratteri tipografici il più possibile fedeli
all’originale:
“Popoli Carpigiani della
Città e del Contado, letterati e illetterati, vecchi e fanciulli, ricchi e
poveri, maschi e femmine, esultate.
Innalzati alla suprema
dignità di RE, NOI per l’autorità che ci accorda il Nostro grado proclamiamo
l’era del Nostro Regno incominciata. Preparatevi a far baldoria, a divertirvi.
L’ora sta per suonare, in cui tutti, o Sudditi, dal primo all’ultimo dovete dar
prova della beatitudine, che si gode sotto il Nostro Regno (eccezione alla
regola !). Non corsi forzosi, non balzelli, ma semplici offerte spontanee
bastano a sorreggerlo.
Orsù dunque
abbandonatevi alle follie, lungi da voi le amarezze, serratevi intorno a Noi, e
ridiamo.
Domenica 4 febbraio -
GRAN FIERA CON PREMI in questa Maggiore Piazza.
- COMMERCIANTI di
pannine e di stuzzicadenti, di formaggio e di carote, di gioielli e di ferri
vecchi, di salsiccia e di mostarda, di ninnoli e di fazzoletti da naso, di
ciondoli e di croci, ambulanti e non ambulanti, terrieri e non terrieri, esteri
e nazionali accorrete.
Nella Nostra Reale
Munificenza Noi abbiamo decretati due gran Premj ( bazza a chi tocca ). I°
Premio - Lire 40 in
oro
II° Premio - Lire 20 in argento ai due banchi
più ricchi e meglio ordinati
. POPOLI, nel pomeriggio
di detto giorno la
Nostra Cassetta privata elargisce di moto proprio, una
copiosa frittellata ai poveri, con distribuzione di VINO. e di quel buono.
Di poi avrà luogo un
Corso di carrozze mascherato, rallegrato da concerti musicali.
NOI, montati sul carro
trionfale, e in tutta la magna pompa della Nostra Maestà interverremo al Corso,
accompagnati dai Grandi tutti di Corte, dalle invitte Nostre Guardie del Corpo
a cavallo, preceduti dal Nostro Regio concerto e seguito dai magnanimi e fedeli
Nostri Guerrieri. E ci degneremo di conferire di nostra Mano i premj
aggiudicati da apposito Giurì, tra i quali oltre i detti di sopra havvene un
altro, di Lire 50 in
oro, pel carro, che a Noi farà seguito, riconosciuto meritevole.
Col CORSO su palancate
erette a bella posta nella stessa Piazza, Ballo popolare, per uso e consumo di
chi ne vuol fruire.
SUDDITI ! Il Ballo non è
che un ragionamento coi piedi, e il ragionare coi piedi oggidì ha il
sopravvento. Lo sgambetto in luogo del buon senso, la pedata invece della
logica. Il nostro commiato non sarà la nostra morte, perocché frammezzo a una
miriade di fuochi d’artificio fra mezzo lo splendente fulgore del Bengala,
rischiarati dalla luce di mille e mille moccoli e fra le armonie musicali - Noi
portati da Un immenso Globo Aerostatico saliremo alle supreme regioni celesti,
in attesa dell’anno venturo che ci ridoni a Voi.”
L’organizzazione dei balli per gli adulti era un
avvenimento atteso ed in esso potevano sfogarsi gli spiriti repressi di
entrambi i sessi. E, dopo la festa, immancabilmente, usciva la cronaca che, in
forma di satira, tratteggiava i caratteri dei convenuti che si erano
particolarmente distinti e che si costituivano come tema di pettegolezzo, più o
meno bonario, fino al Carnevale seguente. Nel marzo del 1901 , sul periodico
studentesco Studio e diletto, tre studenti che nel firmarsi
specificavano “di aver voglia di girare e saper poco il dialetto e meno
l’italiano”, scrivevano: “Sicome a som in Quaresma e a nes psom brisa
divertir a noster mod, as gudrom l’istess un mes mond pinsand al Carnevel ca
iom passé a Cherp.” (Siccome siamo in Quaresima e non possiamo divertirci a
nostro modo, godremo ugualmente un mezzo mondo pensando al Carnevale che
abbiamo passato a Carpi).
Tornando al Carnevale Domenico Guaitoli, sulle pagine del
“Maldicente” del 1864, coloritamente tratteggiava l’atmosfera dei trattenimenti
danzanti che lo caratterizzavano, scrivendo:
“[.] La
Società del Casino poi si è distinta con vari trattenimenti
settimanali in cui convenientemente sollazzarsi. occupiamoci de’ Veglioni del
teatro. Un profumo di rose vergini e sbocciate deliziava la sala e la luce del
gaz stereatico riflettevasi su ricche tolette di signore e su veli modesti di
care figlie del popolo. Quanta vita! turbinavano gli ardenti danzatori in un
vortice di polvere e i seni compressi e le mani intrecciate esaltavano gli
spiriti.
Salvete scapigliate Monferrine!
Salvete Galoppe infernali!
Salvete Monacò furibondi!
Chi non gusta un Monacò arrabbiato è certo un essere
minerale. Io credo che Carpi pei Monacò si elevi sulle città sorelle. Ci fu
pure una mascherata di pagliacci che co’ suoi gruppi ben disposti, le sue
garbate piacenterie crebbe l incanto della festa. E qui io precipito a piè pari
dalla città alla campagna per parlarvi dei Veglioni dati dal Cesaretto ai
gaudenti di Migliarina: la cosa merita. Ivi il formidabile segatore mediante
otto centesimi per ballo, ha sequestrato le più sode polpe e i più rudi
garretti della villa - ivi le spigolatrici e gli agricoltori si sono stretti
nella fratellevole ridda del trescone e senza paura di calli e vesciche c’è
stato un fuoco di fila e di battaglione e bombardamento finale.Ma torniamo in
città. Avvi da noi certe stufe (ossia stanze invernali da lavoro per
trecciaiole) ove una vivente esposizione di ogni sorta di fiori vermigli e
bianchi attrae i sensi. Qui i facili scherzi, le amene storielle, le calde
strette di mano, gli accesi sguardi vi fan passare delle ore felici. Il dio del
Carnevale le ha visitate pur esse e le ha fatte ballare appassionatamente.Però
ci siamo in Quaresima e conviene spengere i carnali fuochi del Carnevale. Cosicché,
il Mercoledì delle Ceneri, immancabilmente dal pulpito tuonava una predica di
condanna e l’invito al pentimento.”
La palestra della Società Sportiva “La Patria” divenne, a partire
dal 1896, il locale per eccellenza ove venivano organizzati gli intrattenimenti
danzanti del lungo ciclo carnevalesco. L’ampio e alto salone adibito a palestra
era altrettanto conosciuto da tutta la cittadinanza come Festival. I proventi
derivanti dai biglietti d’ingresso alle feste danzanti e relativi buffets erano
una sicura fonte di finanziamento per la società sportiva che altresì non si
esimeva dal devolverne una parte agli istituti di beneficenza locali parte.
Così si legge nell’avviso della festa carnevalesca del 1896: “Si avvertono i
ballerini d’ambo i sessi della città e del contado che il giorno 12 gennaio si
inaugurerà nel patrio castello un grandioso Festival. Coloro che hanno i piedi
dolci e che quindi non possono ballare, troveranno magnifiche sorprese e
splendidi buffets. Avanti dunque o signori! la spesa è piccola e il
divertimento è grande.” Prendeva avvio una tradizione che conobbe pause
solo in concomitanza di eventi bellici e che, almeno fino agli anni Sessanta,
ha coinvolto tutte le generazioni, rendendosi complice di un’innumerevole
formarsi e, qualche volta, disfarsi di coppie.
Dell’anima libertina del Carnevale si trova traccia anche
nelle filastrocche rimate giunte a noi attraverso la tradizione orale:
" Carnèevel l è
un galantòmm/
Còn la bòcca al bèeṡa
al dònn/
Còn i pée al li fa
balèer/
Viiva, viiva al
Carnevèel//"
" Bonasiira mè a
v salùtt/
Òmm, dònn, ragàas e
tutt/
A salùtt pèr Carnevèel/
Chi sta bèin e chi
sta mèel/
A salùtt al brèev reṡdóor/
Cal lavóora còn sudóor/
A salùtt aanch la reṡdóora/
Ch la gh à un busst
cal m inamóora/
A salùtt po' al bèeli
spóoṡi/
Specialmèint cal generóoṡi/
Generóoṡi a quèsst e
a quìi/
Foravìa che a sò marìi//
Carnevale è un galantuomo
Con la bocca bacia le donne
Con i piedi le fa ballare
Viva, viva il Carnevale.
Buonasera io vi saluto
Uomini donne ragazzi e tutti
Saluto per Carnevale
Chi sta bene e chi sta male
Saluto il bravo padrone
Che lavora con sudore
Saluto anche la padrona
Che ha un busto che innamora
Saluto poi le belle spose
Specialmente quelle generose
Generose con questi e con quelli
Fuorché con i loro mariti.
E ancora, in una rima allusiva, si recitava:
Carnevèel l è chè ch al
piccia/ “
A gh pièeṡ magnèer
dla bòuna ciccia/
Chi gh àa dal dònni
da maridèer/
Al li mariida pèr
Carnevèel/
Carnevale è qui che arriva
Gli piace mangiare buona carne
Chi ha delle donne da maritare.
Le marita per Carnevale.
E lo spirito trasgressivo della festa, sia in città che in
campagna, doveva essere davvero eccezionale se l’allora parroco di Cortile,
nella sua cronaca scrupolosamente redatta, entrando in Quaresima, ogni anno
annotava l’evento con brani molto simili tra loro in cui si legge:
“20 febbraio 1885 - Nei giorni 15-16-17 andante ha avuto
luogo il solito triduo di riparazione alle tante offese che vengono fatte al
Signore negli ultimi giorni di Carnevale. Il concorso dei fedeli alla chiesa è
stato soddisfacente, come discreto è stato il numero di quelli che si sono
accostati ai Santi Sacramenti.”
D’altra parte il Carnevale, a differenza di tutte le altre
scadenze calendariali di origine pagana che erano state fatte rientrare
nell’alveo cristiano, non aveva mai trovato una possibile logica
giustificazione, specialmente per le trasgressive manifestazioni ad esso
connesse e per le quali era sempre stato osteggiato dalla Chiesa, che pure non
era mai riuscita a sradicarlo e vi aveva contrapposto il lungo periodo
quaresimale. Una propaggine del Carnevale rispuntava però a metà della
Quaresima; un solo giorno ad interrompere il lungo tempo di penitenza ritenuto
talmente rigido da sortire l’adagio usato come sottolineatura negativa: “L è
lunngh cóome la Quaréeṡma”
o “l è brutt o trisst cóome la Quaréeṡma”.
In detta giornata, definita “Carnevale
di mezza Quaresima”, v’è da registrare che, a Carpi, nel marzo del 1839, venne tentata
l’introduzione di un costume tipico del reggiano che passava sotto il nome di
festa delle “Vecchie”. Caratteristica della festa era la preparazione di palchi
su cui venivano collocate tematicamente delle figure che andavano a comporre un
quadro di satira di costume includendovi anche più o meno velate critiche ai
giochi di potere politico. La tradizionale manifestazione reggiana, che era
motivo di richiamo per molti visitatori da fuori e si configurava come evento
dai risvolti economici interessanti, certamente era conosciuta dai Carpigiani i
quali tentarono di emularla. La cosa divenne possibile quando Reggio, epicentro
di un terremoto che ebbe protrarsi per un tempo lungo, sospese la
manifestazione. Dalla “Cronaca
di Carpi” di Giuseppe Saltini, manoscritto originale conservato
presso l’Archivio Comunale di Carpi.
7 marzo 1839
“.Essendo la metà di Quaresima è stato fatto in questa
città per la prima volta la festa delle Vecchie all’uso di Reggio e perciò
trovavansi per la città n.25 palchi fatti con tutta precisione.
1° Al voltone di Piazza era presentato da 15 statue “L’Amore
condotto alla pazzia”.
2° Sotto il portico di San Nicolò due statue che presentavano
“Il cavar la serpe dal buco con mano d’altri”.
3° Nel Voltone di
casa Vellani tre statue: “ Pensa di te e poi di me dirai”.
4° Sotto il portico di Borgonovo tre statue: “Gli
innamorati”.
5° Cantarana 4
statue: “L’industria suggerita dal bisogno”.
6° Due statue - “Un
giovane che va a trovare l’amante che trova con gran pena infermo”.
7° Belvedere due
statue: “Chi gioca per bisogno perde per empietà”.
8° Dalla Posta tre
statue: “ Non dir quattro fin che non l’hai nel sacco”.
9° Borgoforte due
statue: “Un uomo spaventato da un arcolaio”.
10° Aldrovandi
cinque statue: “Le grazie d’una giovane con un vecchio mendico”.
11° Tre statue :
“Rimedio contro la sordità”.
12° Piazzetta delle
Erbe: quattro statue: “Ipocondria allegra a nozze”.
13° Via a Porta
Modena: cinque statue “Quattro pastori che passano Flora alle nubi”.
14° Sul Portico
verso Piazzetta: due statue “Una serva di nuova forma”.
15° Da San
Francesco: sei statue: “Una masochista”.
Molte persone
corsero a vederle e tra questi numerosi forestieri e se il tempo fosse stato
più propizio sarebbesi portato gran popolo di più di quello che v’ervi.
26 marzo 1840
“Giorno di metà
Quaresima, giorno detto delle Vecchie gran concorso di forestieri per vederle e
furono eseguiti 17 palchi simboleggianti e nella sera Accademia in teatro
vocale ed intrumentale.
Descrizione dei
palchi
1° “La pesca” statue
n. 3 - 2° “Sguardi da vetrina e da galleria” n..9 - 3° “La fortuna
gabbata dal caso” n. 4 - 4° “La gelosia mendicata” n.2 - 5° “Scoperta
di uno gas portentoso per le macchine a vapore”, n. 6 - 6° “Il
cacciatore delicato” n. 2 - 7° “Il mondo al rovescio”, n. 7. - 8° “L’amante.” n.
3 - 9° “La lingua delle donne”, n. 4. - 10° “Il ritratto”, n. 3.
- 11° “Gli ozi per un sapiente”, n. 2. - 12° “Il delitto de’ cinque
sensi”, n. 5. - 13° “L’amor fraterno = Eschilo e Aminta”, n. 10. -
14° “L’amante battuto” n. 5. - 15° “I ciechi e la fortuna”, n. 4.
- 16° “Il cliente e il sorcio”, n. 6 - 17° “Il non so chè d’amore”,
n. 4.
18 marzo 1841
“Quest’oggi non sono
state fatte le vecchie che si usano essendo giorno di metà Quaresima e più
forestieri sono stati delusi; e per questo sono sortite più satire una tra le
quali comincia: “Onorati Carpigiani che le Vecchie cominciaste e da vili
terminaste.”
3 marzo 1842
“Sono stati eseguiti
in questa città n.14 palchi di statue dette le Vecchie.molti forestieri vennero
ad ammirarle.”
23 Marzo 1843
“Giorno di mezza
Quaresima sono stati fatti n. 14 palchi ed erano: “Un vecchio matrimonio che
giuocava all’altalena”, figure n. 4 - “Chi fugge vince”, fig. 4 - “Una
giovine fra due pretendenti”, fig. 3 - “Gli avari”, fig. 6 - “L’amore
vince lo sdegno”, fig. 2 - “I due matrimonij”, fig. 4. - “La
smania di maritarsi”, fig. 4 - “La malizia del villano col padrone”,
fig. 10 - “Chi troppo abbraccia niuno stringe”, fig.4 - “L’amante
sventurato”, fig. 4 - “Il servizio reciproco”, Fig. 4 - “Vero
ritratto dell’uomo che ha moglie”, Fig. 5 - “I segantini notturni”,
Fig.3 - “Il processo del Carnevale”, fig. 12 - E quasi tutti furono
piaciuti.”
E se ebbe vita breve
l’organizzazione della “Festa delle Vecchie”, si conservò l’usanza di
interrompere la lunga Quaresima con un intrattenimento danzante. Nel 1928, da
un articolo comparso sul settimanale “Il Falco”, si apprende che ad organizzare
la festa di mezza Quaresima era il Circolo Alberto Pio e che, quell’anno, il
titolo della veglia era “Una notte a Venezia”.
All’inizio del ’900
il corso mascherato venne descritto in versetti rimati la cui prima quartina
recita:
“ Carnevel 1906
Al gran cors maschere
dmenga 11 Fevrer.
A gh' era 'na gran
smania dmenga paseda,
Tuta la gint curiva
dal fond d'la cuntreda
Per veder chi be car
ch' paseven maestos
E chi buteven via
faso, curiandol e nos."
Rampein
**
Al gran corso mascherato Domenica 11 febbraio.
C'era una grande eccitazione Domenica passata
Tutta la gente correva dal fondo della contrada
per vedere quei bei carri che passavano maestosi
e che buttavano via fagioli, coriandoli e noci.
Fagioli e noci rientrano entrambi nell’antica tradizione
come simboli di fertilità e abbondanza, quindi consoni in tutti quelle scadenze
contraddistinte da rituali che, come il Carnevale, e in un ambito sociale
prettamente agricolo, avevano la funzione di propiziarsi il futuro raccolto.
La festosa tradizione, entro la quale tra l’altro era
concessa la critica in maschera a tutti coloro che non avevano voce nelle
scelte e dispute sociali e politiche, andò avanti fino al 1924. I potenti erano
avvezzi a quell’usanza che, dopotutto, aveva come aspetto positivo quello di
far sbollire i malumori e, dopo lo sfogo, di far rientrare la cittadinanza
nell’usuale costume. A dare avvio al Carnevale era la stessa autorità civile e
questa usanza si è protratta fino alla metà degli anni Cinquanta quando,
l’allora sindaco Bruno Losi, in occasione dell’Epifania, presenziando alla
festa in maschera per l’infanzia presso il Teatro Comunale, seguita da una
veglia serale per gli adulti: quello era l’inizio del lungo ciclo carnevalesco.
Nel 1924, per la prima volta nella storia millenaria del
Carnevale, il regime fascista in ascesa pone la censura. Un avviso indirizzato
a tutta la cittadinanza carpigiana venne diffuso attraverso le pagine de “ Il
Falco” nel febbraio 1924.
In esso si legge: “Il Commissario di P.S. ci comunica
che nessuna mascherata potrà essere permessa se i promotori di essa non avranno
fatto prima pervenire al suo ufficio il progetto ed i relativi disegni della
mascherata, e ne abbiano ottenuto poscia l’approvazione.” Ovvio che, se una
delle componenti vitali, se non l’anima stessa del Carnevale, era stata fino a
quel momento la satira politica, lo spirito della festa veniva fortemente
mortificato. Tant’è che l’anno successivo, in data 26 febbraio, sulle pagine
dello stesso settimanale locale si ebbe a lamentare:
Tutto cambia. Anche il Carnevale.va perdendo il suo
significato, il suo carattere, la sua pazza e simpatica allegria. La tradizione
diventa un mito. Così, ad una ad una sen vanno e dileguano le vecchie e care
abitudini e l’ultimo innocente spirito di allegria che s’era rifugiato nei
divertimenti a data fissa, viene a sua volta assorbito da un concerto diverso
di vita civile. Dei Carnevali tutti cantano l’elegia funebre, come di curiosità
del passato. Da alcuni anni, mercé la volontà, la tenacia di pochi, Carpi
riusciva ancora a mandare qualche bagliore della sua antica tradizione
carnevalesca, ma quest’anno, come l’anno precedente, mancano gli iniziatori,
mancherà forse la voglia di divertirsi, mancheranno le compagnie. Chi è vecchio
e ricorda deve aver provato una stretta al cuore entrando nel nostro teatro al
Veglionissimo di Sabato. Non sarà stato ben organizzato, il rimandarlo sarà
stato male, possono essere state omesse certe attrattive, sarà quel che volete,
mettiamoci anche un pizzico di ragione politica, ma un deserto tale non è
immaginabile a Carpi.”.
Il redattore dell’articolo sopra riportato si sbagliava
poiché, dopo un primo disorientamento, gli organizzatori della festa mascherata
ebbero a riprendersi adeguandosi alle norme imposte dal regime. Nel 1928 sul
settimanale “Il Falco” veniva pubblicato un precisissimo rendiconto del corso
mascherato “Le pessimistiche previsioni dei vari critici, le preghiere
imposte ad innocenti fanciulle perché Giove pluvio impedisse lo svolgersi del
Corso ed altri scongiuri, eccettuati, credo, quelli d’uso fascista, non hanno
impedito, che nonostante lo stato poco rassicurante del cielo, una folla
enorme, mai vista, abbia invaso Carpi, resuscitando in pieno le più antiche
tradizioni carnevalesche carpigiane e contribuendo allo scopo benefico della
manifestazione.” L’utile netto della festa fu di £ 13.454, 35 e ne
beneficiarono L’Opera Nazionale Dopolavoro di Carpi, L’asilo infantile
cittadino e l’Asilo delle suore oltre a quelli di Budrione Migliarina, Fossoli,
S:Croce, il Ricovero di mendicità “Tenente Marchi”, il Comitato di beneficenza
per i bisognosi, Associazione Calcio Carpi, la Cucina Economica
e la Cassa Mutua
Assistenza Combattenti. Da quel momento lo spirito di ispirazione dei carri
mascherati si trasformava da critico in apologistico del regime e delle sue
imprese, prima tra tutte quella coloniale che avrebbe dovuto garantire un
“posto al sole” ai tanti disoccupati locali molti dei quali si tingono i volti
di nero. Alcuni di questi ebbero a sperimentare il ruolo di coloni, uscendone
con cocenti delusioni. Meta della colonizzazione era la Libia e più precisamente
Beda Littoria da cui, in concomitanza allo scoppio della seconda guerra
mondiale, ritornarono più poveri e disorientati di quando erano partiti. In
quel contesto in cui la parola d’ordine era rifarsi alla romanità (vedi il
saluto romano), la Società
“La Peppa”
diventò “Peppæ” e , se il Carnevale era sempre stato quel periodo dell’anno
denso di manifestazioni atte a propiziarsi la fecondità, anche quest’ultimo
termine si traduceva in “Fecunditatæ”. Considerato il contesto, questo
allineamento lessicale, potrebbe essere letto come una sottile e inattaccabile
satira. Nel febbraio 1928 , come si apprende da un articolo comparso su la
“Gazzetta dell’Emilia”, “Grande aspettativa vi è pel Corso Mascherato di
Domenica 26 corr. Grande è stata ed è l’attività del Comitato perché nulla sia
risparmiato o trascurato affinché l’esito non solo corrisponda ma superi ogni
aspettativa. La Direzione della ferrovia Reggio-Carpi non solo ha concesso il
ribasso del 50% sui biglietti ferroviari, ma ha protratto per Domenica la
partenza dell’ultimo treno di Carpi ad un’ora dopo finito il corso. Numerose
sono le adesioni dei carri e mascherate giunte al Comitato - e notiamo - la
rinascita della maschera carpigiana “Mustardein” che si recherà alla stazione
ferroviaria a ricevere le maschere delle cento città d’Italia - saranno
imponenti i carri rappresentanti il Trionfo di Nerone - L’Italia coloniale.”
Continuarono a mantenersi vive, intensificandosi in ragione
di una sempre più diffusa e irrimediabile miseria, le varie forme di questua
che caratterizzavano tutto il periodo critico dell’anno e che partivano dal
tardo autunno, con la ricorrenza dei Santi e dei Morti, per arrivare
giustappunto al Carnevale. A fornire un quadro della condizione sociale nella
Carpi della seconda metà ’800, non dissimile da quello vissuto ancora per tutti
gli anni Quaranta è sempre Domenico Guaitoli su il “Maldicente” che scriveva:
“Sai tu cosa significhi Carnevale per Carpi, o
Strega? No? Dirottelo io. Carnevale per Carpi, significa un freddo diabolico
che insulta al naso e fa ballare i denti.Carnevale significa brodo lungo,
coperte meschine, stenti ineffabili e poco cristiani per gli ammalati del
Civico Ospedale. Carnevale significa pallida istruzione degli scolari, marcia
perigliosa sul ghiaccio delle pattuglie cittadine, nascita e non morte di
gentilissimi creditori.Carnevale significa magri guadagni per l’operajo, amori
languidi,.tragedia in casa dei poveri.”. Più dettagliate sono le testimonianze orali che
descrivono le strategie di sopravvivenza messe in atto, specie tra i
braccianti, per tentare di mitigare una condizione al limite dell’umana
sopportazione. Il furto campestre di legna e sterpi, la razzia dei pollai era
all’ordine del giorno
I giovani e meno giovani, nei giorni di Giovedì e Martedì
grasso, si affacciavano questuando alle case dei contadini locali che avevano
appena ucciso il maiale e stavano imbottigliando il vino nuovo nella speranza
di mettere insieme una piccola scorta utile a integrare un regime alimentare da
fame che assillava tutta la classe bracciantile e operaia carpigiana fino a
tutti gli anni quaranta e inizio cinquanta. La stessa festa in piazza prevedeva
dei punti di distribuzione gratuita di frittelle di riso, polenta e vino che
erano letteralmente presi d’assalto.
Il carpigiano Aldo Contini ricordava: “Ci sono stati
dei Carnevali fantastici. Delle sbornie, ma delle sbornie! Perché allora
generalmente si andava ad offerta: la cantina Sociale dava una botte di vino
col trespolo, la Cantina
della Pioppa faceva altrettanto, la
Cantina di Rovereto anche lei.quindi ci si può immaginare!.
Che c’era anche qualcuno che veniva e poi lo vuotava in una fiasca che aveva
dentro alla sporta per portarlo a casa. C’erano i fugoun che adoperavano per
fare il gnocco fritto e le frittelle che davano via gratuiti. L’olio che
usavamo per friggere lo dava Dante Ferrari, quello dell’oleificio che era olio
di semi di gramostino, che era buonissimo e friggeva a meraviglia.”
Vale la pena ricordare ancora che il Carnevale aveva in sé
aspetti filantropici non indifferenti, poiché i proventi della festa, detratte
le spese, venivano devoluti alle varie associazioni locali di beneficenza e
assistenza.
Nel periodico locale “Alberto Pio del 22 febbraio 1872 si
legge: “Anche il povero non fu negligentato in tale giornata, poiché nel
mattino di essa si distribuì dalla Società del Carnevale al proprio Ufficio una
seconda elemosina di due pani a testa.”
Il ritorno alla festa carnevalesca con corteo mascherato e
giochi del 1947 era quindi stato, in primo luogo, l’espressione di una speranza
di rientrare nella gioiosa tradizione. Già in quell’anno però, e in maniera
definitiva a partire dal mese di giugno con l’uscita dal governo della
componente di sinistra, si erano determinati a livello nazionale schieramenti
fortemente contrapposti. Carpi, amministrata dalla sinistra dall’immediato
dopoguerra, era emblematica della contraddizione di un governo centrale opposto
a quello locale. I films di Peppone e Don Camillo (che diventeranno maschere
nei Carnevali della metà anni ‘50) erano la parodia in sedicesimo di una
conflittualità aspra di cui si trova palese traccia in alcuni passi della
Cronaca di Carpi sempre di don Muzzioli dove, ad esempio, al 20 settembre del
1947, si legge:
“Anche qui - come in tutta Italia - i Comunisti e i
partiti di sinistra hanno tenuto alle 18 un comizio contro il carovita ( meglio
contro il Governo, dal quale essi furono esclusi - finalmente - fin dal giugno
scorso). Hanno parlato dal palazzo comunale parecchi oratori. Molta gente,
comandata ad intervenire proprio come al tempo del fascismo - sotto le bandiere
rosse - Notato fra gli altri, un grande cartello portato da due uomini, colla
scritta: - Quando questo Governo sparirà, il popolo italiano mangerà”. Nessun
incidente (era prevista per l’occasione, una. rivoluzione!). Non troppi
applausi.”.
A cent’anni dal
fatidico 1848, che aveva messo in subbuglio tutta l’Europa, si profilava un
altro ’48 difficilissimo, gravido di tensioni d’ogni genere: il clima di guerra
fredda aveva iniziato ad insinuarsi incattivendo. “E’ sucess un
quarantott” continua ad essere infatti un modo di dire utile a
sottolineare il caos. Tale aforisma, ripescato in quegli anni, diffuso ancora
oggi, sebbene a conoscerne il significato profondo siano le persone ormai
attempate, appariva appropriato per sintetizzare la situazione di quel periodo.
Fu infatti quello un anno pesantissimo, contrassegnato dalla consultazione
elettorale del 18 aprile su cui si sarebbero giocati i destini della nazione
ancora in ginocchio e lontana dall’intravedere prospettive di miglioramento.
Tutte le energie degli organizzatori della prima festa di Carnevale del 1947
vennero spese nella campagna elettorale. In quell’anno dal clima pesantemente
denso di risentimenti con attriti vecchi e nuovi, che Ettore Baraldi definì
l’anno delle scissioni, l’organizzazione di una festa di Carnevale con sfilata
di carri che richiedeva affiatamento, nonché animi leggeri, doveva essere
apparsa senz’altro inappropriata fino all’impossibile. Sempre don Enrico
Muzzioli nella Cronaca di Carpi del 1948, il 5 febbraio, corrispondente al
Giovedì grasso, ebbe ad annotare: “Giovedì grasso.ma molto.magro!
Soltanto si balla.”.
Il 1949 non fu meglio, anzi forse peggio. L’attacco della
polizia armata in una manifestazione a Budrione, l’attentato a Togliatti nel
luglio dell’anno precedente, la scissione sindacale, uno sciopero di
quarantanove giorni dei braccianti e altre agitazioni avevano esacerbato gli
animi e il celiare era fuori luogo. Sempre nella cronaca del Muzzioli, al primo
marzo del ’49, corrispondente all’ultimo di Carnevale, venne annotato: “Non
è in programma nessun divertimento pubblico all’infuori dei soliti balli per
piccoli (!!!) e per adulti e Cinema.”. Stando agli altri passi di detta
cronaca e di altre ancora redatte da sacerdoti, coincidenti con lo stesso
periodo e nei quali il Carnevale era stato sempre oggetto di critica o per i
sollazzi spropositati o per ritenuta banalità, viene da pensare che quell’anno
doveva essersi contraddistinto per la tristezza veramente straordinaria. Non
furono da meno nemmeno gli anni seguenti in cui la licenza di scherzare e
divertirsi era riconosciuta ai piccoli e ai giovanissimi, pei i quali sia la
pubblica amministrazione che le parrocchie e circoli vari, a partire dal sei
gennaio in concomitanza con l’Epifania e nei giorni di Giovedì e Martedì
grasso, continuarono ad organizzare intrattenimenti in maschera quasi per
preservarli dai pensieri dei grandi e renderli in qualche modo depositari di
una tradizione che, prima o poi, si sarebbe risvegliata. Per gli adulti lo
spirito gioioso, giocoso e trasgressivo del Carnevale continuava a ritornare
ogni anno ma, dimesso, si rintanava nel privato.
Sono i giovani del sempre più nutrito gruppo autodefinitosi
dei “Visi pallidi” a sostenere il Carnevale con grandiose feste in maschera per
adulti. Se la prima edizione si era tenuta in un locale in via F.lli Rosselli
(divenuto poi sede di uno dei maggiori maglifici locali, il “Miriam”), quelle
successive si spostano nei più ampi locali della palestra de “La Patria” presso il
cosiddetto Castello dei Pio. Le memorabili veglie erano rigorosamente in
maschera e su invito. Come racconta uno degli interpreti, nonché organizzatore
Sergio Bellentani, l’evento richiamava una gran folla di curiosi che, come
avveniva in occasione degli spettacoli teatrali, si assiepava all’ingresso per
poter ammirare i travestimenti dei convenuti. Le feste venivano sempre
immortalate da ricchi servizi fotografici. Non erano pochi però coloro i quali
provavano nostalgia per l’entusiasmo prodotto dalle grandi feste con sfilata anteguerra
di carri che nemmeno la censura praticata nel ventennio fascista era riuscita a
smorzare del tutto. E, se i cortei mascherati non abitavano più qui, in
comitiva, su una corriera di Valenti, organizzati dalla locale “Nicolò Biondo”,
si poteva andare a Viareggio, portandosi a casa in fotografia l’eccezionale
spettacolarità dei carri allegorici e con sempre nel cuore l’idea di ripartire
alla grande in tempi migliori.
Ricerca e testo di Luciana Nora
**=M=**
GIOVEDÌ GRASSO: TRADIZIONI E GASTRONOMIA
di Ugo
Preti - in
dialetto modenese - Società del
Sandrone di Modena
societadelsandrone@interfree.it
“A sun gnù a ònzer al spròch - dèmen bèin un bèl malòch -
dèmen bèin ‘na bòuna fàtta - a sun gnù a ònzer la mé stàcca “.
Questa filastrocca veniva recitata quando si andava a lardo
con lo sprocco.
Per molti, specialmente per i giovani, io credo che quanto
ho scritto sinora sia completamente incomprensibile. Perciò ricomincio da capo
cercando di essere più chiaro.
Una volta il carnevale, cominciato per S. Stefano in
sordina durante le feste natalizie con i primi balli e la stagione teatrale,
rinvigorito durante Gennaio dalle fiere di S. Antonio e di S. Geminiano,
esplodeva finalmente il Giovedì Grasso con un susseguirsi di veglioni, cene, e
manifestazioni folkloristiche e durava fino al mattino del primo giorno di
Quaresima quando, insonnoliti, stanchi e con gli occhi cerchiati, ci si
inginocchiava davanti al Sacerdote per ricevere sulla testa la cenere in segno
di penitenza e purificazione.
Aveva inizio quel lungo periodo di Quaresima che per
quaranta giorni ci avrebbe privato di ogni divertimento e costretti ad una
lunga astinenza dalle carni e a prolungati digiuni.
Ora questo è solo un ricordo. Usanze superate dai tempi,
aggiornate dalla Chiesa.
Ora tutto l’anno è Carnevale, le astinenze - digiuni un
lontano ricordo.
Alcuni aspetti di questi passati Carnevali sono ancora
impressi nella memoria di noi non più tanto giovani.
Al Giovedì Grasso dunque era tradizione «ònzer al spròch»
(ungere lo sprocco). Lo sprocco era un legno aguzzo a forma di spadino che
serviva ai ragazzi poveri, generalmente «camarànt» (abitanti in «camera», cioè
non addetti ai lavori campestri), per una specie di questua.
I ragazzi, in piccoli gruppi, si recavano nelle varie case
dei contadini della zona e giunti davanti alla porta recitavano quella
filastrocca citata all’inizio di quest’articolo. Usciva allora la «rezdòra» che
infilava in ogni «spròch» un pezzetto di lardo, più o meno grande a seconda
della più o meno buona resa data dalla «pcarìa» (la macellazione del maiale).
I ragazzi ringraziavano e si recavano alla casa appresso
ripetendo il rituale precedente. In poco tempo riuscivano a riempire «al
spròch» e allora contenti andavano a casa loro, fieri di partecipare al
sostentamento della famiglia col loro contributo.
Grazie a Dio ora il bisogno di queste piccole cose è
scomparso, però è rimasto il detto «ònzer al spròch», anche se col tempo ha
cambiato di significato.
Prima di passare a rivangare altre tradizioni è bene
ricordare che «Giovedì Grasso» in dialetto del ‘700 si traduce in «Zòbia
jòtta». «Zòbia», che ancora sussiste in alcuni dialetti della bassa, è
facilmente identificabile con «giovedì», «Jòtta» invece, traducibile ora in
«grasso» è rimasto nel nostro dialetto trasformato nella parola «giàtt», con
significato di grasso-untuoso.
E proprio «giàu» era il Giovedì Grasso, sia nella raccolta
del lardo, come abbiamo visto, sia in cucina dove in tal giorno regnavano le
frittelle e le frappe.
Il Muratori nel suo «modusfritellizzandi» ci ricorda come
anche ai suoi tempi le frittelle godessero di un onorevole posto nella
gastronomia modenese, ma i nostri ricordi sono più vicini e solo al pensare a
quelle abbondanti cucchiaiate di colla contenenti uova, riso e farina che
venivano immesse nello strutto bollente, tutti i nostri sensi vengono messi in
movimento.
L’orecchio sente ancora quello sfrigolio che faceva emanare
dalla padella di rame quell’odore di fritto buono che le nostre narici solo
raramente potevano raccogliere.
La vista gode nel ricordare il trasformarsi di
quell’informe colla biancastra in una frittella che pian piano s’indorava
all’intorno, si gonfiava, prendeva consistenza e, al momento di voltarla, già
presentava una forma e un colore, preludio di raffinato boccone.
Il tatto percepisce ancora le scottature prese nel voler
per primi raccogliere le brune frittelle croccanti appena tolte dal fuoco e
messe in una terrina coperta di carta gialla per farne assorbire l’eccessivo
unto, e il gusto, infine, ricorda il piacere di sentire in bocca tale
leccornia.
Le frittelle del Giovedì Grasso non erano fatte come le
solite (composte di avanzi di minestra, poche uova e molta farina per tenere
unito il tutto) che costituivano il riutilizzo degli avanzi delle scarse mense
di allora, ma erano fatte con abbondanza di mezzi: riso fresco (non avanzato)
uova in abbondanza e formaggio.
Se ne facevano scorpacciate, ma, data la nostra giovane età
e date le nostre lunghe corse del pomeriggio (le frittelle si facevano a
mezzogiorno) trascorso in parrocchia dove venivano allestiti i tradizionali
giochi carnevaleschi (rottura della pignatta, corsa nei sacchi, albero della
cuccagna ecc.) si arrivava a sera già pronti per l’altra specialità che ci
attendeva: le frappe.
Le frappe, larghe tagliatelle di pasta dolce, profumate col
limone, venivano fritte nello strutto (ora si usa l’olio, più delicato ma
senz’altro meno saporito).
Queste tagliatelle prima d’immergerle nell’unto bollente
venivano intrecciate o annodate o fatte a fiocco in modo che ne risultassero
altrettanti grovigli; dopo la cottura venivano ricoperte abbondantemente con
zucchero a velo che si ritrovava, dopo averle mangiate, sul naso, sul mento e,
la maggior parte sui pantaloni.
Si servivano generalmente con al «lat mél» (panna montata)
che poteva essere normale o «inciocolaté» (cioè contenente cacao in polvere
messo nella panna quando stava per terminare la montatura).
Arrivavano in tavola generalmente tra una partita e l’altra
di tombola che si giocava in famiglia per chiudere in allegria il Giovedì
Grasso.
Chi gioca più a tombola? Anche questo è un ricordo. Come un
ricordo sono oramai le frappe, le frittelle e il lardo, tenuti tutti lontano
dalla lotta contro l’ulcera, il colesterolo, il peso-forma e, diciamo pure la
verità, dall’età e dall’esagerata abbondanza che troviamo giornalmente sulla
nostra mensa.
1946 Modena - Sproloquio della
Famiglia Pavironica
Nessun commento:
Posta un commento
grazie