Il Principato di Carpi e il Ducato di
Modena
Pubblicato su Voce di Carpi 11-12-2008
Nel giugno ‘98 venne a Carpi Gianni Agnelli, invitato ad un
convegno dal futuro successore Luca Cordero di Montezemolo, ai tempi Presidente
della Confindustria di Modena.
Il Teatro Comunale, da poco
restaurato, risplendeva orgoglioso dei morbidi e opachi riflessi dell’oro
antico che adorna e impreziosisce il suo interno; una cornice d’antan rievocativa di un’epoca appena
post risorgimentale (1861) che aveva sancito l’annessione del territorio estense
al nuovo Stato unitario, manu militari e plebiscitaria, e il conseguente virtuale
affrancamento, però, del Principato di Carpi dal Ducato di Modena.
Il teatro era colmo di tutta la
gente elegante e vip di Carpi e Modena.
Davanti a quella folla, in
religiosa attesa del Verbo, l’Avvocato servì, comme entrée, una delle sue battutine, che nascondevano in realtà
acuminate e impietose sentenze.
Disse, con divertita noncuranza, guardandosi
intorno:
“Non sapevo che CaVpi fosse la Capitale di Modena !”.
Un gelo sottile scese sulla
platea, composta più da modenesi che altri.
Le ascelle di quelle camicie
incravattate si bagnarono di freddo sudore e non certo per il clima afoso.
Nascosto nel buio di un palco di
terza fila, nella mia qualità di intrufolato, non potendo trattenere il riso,
implosi in uno sghignazzo.
Da altri palchi qua e là si
udirono altre risate e qualche applauso, resi ancor più sonori dal ghiaccio
della platea.
Ai Modenesi quel gelido aperitivo
si bloccò nello stomaco, prima di tramutarsi in un mal di pancia, quasi acuto.
Gianni Agnelli, per storia
personale, carisma e intelligenza rappresentava perfettamente la figura del
Principe di Macchiavelli. Un uomo libero di dire ciò che pensava, con sapiente
gusto di un mirato e soffice cinismo.
Non aveva quindi alcun motivo di
arruffianarsi quel popolo di feudatari e vassalli, che attendeva diligente e
ossequioso lo svolgersi ordinato di un palinsesto concordato e piatto.
Quindi, resosi conto del disagio
provocato, l’Avvocato attaccò a parlare della situazione economica, quasi a
voler somministrare un antispastico a quei poveri pazienti sofferenti.
La tensione si allentò e la
traspirazione cominciò lentamente a normalizzarsi.
Che grande istrione!
Ma l’Avvocato aveva messo, forse
senza saperlo compiutamente, il dito dentro una piaga antica e mai sanata.
I modenesi hanno sempre pensato
di considerare Carpi una loro frazione, come anche Sassuolo e Vignola.
A quei tempi era iniziata da mò
la lenta e inesorabile china in basso dei carpigiani, considerati fino ad
allora sorta dei danarosi e un po’ grezzotti milanesi del basso destra Po.
Durante e dopo il boom degli
anni’60 tutto il vecchio era stato gettato per far posto al nuovo, con uno
sviluppo vorticoso e disarmonico che fece perdere di vista la propria identità
e le proprie tradizioni.
In certi bar si
sentiva la battuta:” S te ‘ n gh è mia un
milièerd … te n ì nisuun !…”: I “béesi “ (i soldi) valevano più di tutto il resto. Mutò così anche
il concetto di dignità pur di avere la giusta Mercedes.
In piazza poteva così andare
qualsiasi disonesto, senza più sentirsi apostrofare con la battuta: “Tròoia, péega i debìit !”che un tempo
suonava come l’insulto peggiore all’onore di una persona.
Poi la cuccagna finì quando la
maglieria entrò in forte difficoltà, a causa del passaggio di consegne
generazionale, del mutamento del mercato e della storia.
Se uno sviluppo è troppo rapido, se
la ricchezza giunge in mano a gente di scarsa cultura, quasi come sorta di
vincita di una lotteria, è fatale che la risacca riporti in mare ciò che aveva
lasciato sulla spiaggia la grande onda che l’aveva preceduta.
E così i soldi dei magliari erano
finiti in approdi più mirati: in borsa e nella pietra.
Modena aveva capito che era il
momento di tentare la riannessione e così, complici gli stessi imprenditori
carpigiani, era iniziata a tutti i livelli un processo di fagocitosi, nel segno
della globalizzazione e della razionalizzazione di costi ed energie.
L’AIA (Associazione Imprenditori
Abbigliamento) era stata svenduta in Confindustria e persino nel pubblico, vedi
l’Ospedale Ramazzini, era in atto il processo di accorpamento e spoliazione.
La stessa sede vescovile ad ogni
vacanza, sembrava dovesse essere assorbita dall’arcidiocesi modenese; non ché
tale mancanza mi allarmasse più di tanto.
I carpigiani facevano l’esame di
maturità classica o tecnica a MO e poi andavano all’Università a MO, al cinema
a MO, al ristorante a MO, a ballare a MO, al night a MO, allo stadio a MO, a
far spesa alla Standa sotto il Portico del Collegio a MO.
Carpi pareva quasi una città
dormitorio e il suo simbolo una desolante e immensa Piazza deserta; la città si
era come svuotata, mentre iniziavano lentamente le invasioni barbariche dal Pakistan,
dal Maghreb, dall’Albania e infine dalla Cina.
Anche qualche straniero più
avveduto, già agli inizi degli anni ’90, diceva che a Carpi non c’era niente. E
aveva ragione.
Io non so se i miei concittadini abbiano
mai sentito questa minaccia alla loro identità.
Io sì, memore delle ripetute parole
dei miei familiari che dicevano di non essere servitori del “Duca Pasarèin”, come invece i modenesi (definiti
in modo tagliente e non certo benevolo “Zemiaan”
da San Geminiamo, patrono della città) lo sono da sempre.
Io non mi sono mai sentito
modenese di periferia, ma carpigiano con tutti i pregi e difetti.
I nostri idiomi celtici, sia pure
assonanti, sono troppo diversi.
dic 2008 Mario (Emme)
Martinelli & Mauro D’Orazi
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