Le figurine - I
faciutèin
di Mauro D’Orazi - Carpi
v
30 del 13-12-2012
prima stesura 7 marzo 2012
Pubblicato su Voce di Carpi -
parzialmente –
il 27-4-2012 n 17 e il 24-5-2012 n 21
Frutto del lavoro di ricerca sul web, con
suggerimenti e con il contributo
costante del Gruppo di Facebook “Chi parla dialetto carpSàan” e
del rughlètt di affezionati del bar
Tazza d’Oro alle 7 del mattino e di tanti altri amici e amiche sempre pronti a
portare la loro esperienza personale e familiare al servizio di un dialetto che
deve e può continuare a essere parlato e vissuto.
2006 francobollo commemorativo delle
Edizioni Panini
Il Parco e l’Oratorio dell’Eden, oltre che a scuola, erano i luoghi
preposti per lo scambio delle figurine. Il mantra: “Cèlo, manca! Cèlo, manca! “ veniva ripetuto quasi all’infinito,
fino alla visione e all’esame completo dal spiglutèin ed faciutèin (mazzetto di
figurine) che io o i miei coetanei ci eravamo portati dietro per gli scambi. Lo
scambio di figurine è un momento centrale del collezionista, soprattutto di
bambini e ragazzi. Durante l'incontro, mentre uno mostra le figurine del
"mazzo delle doppie", l'altro ne cerca una che non ha. Questo rito ha
coniato i termini del "Celo" e "Manca", corrispondenti alle
frasi "Ce l'ho" e "Mi manca", che si riferiscono alle
possibili risposte di chi nello scambio cerca una figurina mancante.
Un rughlètt ed ragàas degli anni ‘70
Oggi
le mode sono cambiate, ma ci fu un tempo in cui le figurine occupavano un posto
di primo piano nella gerarchia dei valori del mondo visto con gli occhi di un
bambino. Erano gli anni '50, '60, '70. La tv aveva solo due canali Rai e al
pomeriggio interrompevano le trasmissioni fino alle 17, l 'ora della "TV dei
ragazzi". Svolti i compiti, si andava al Parco o all'Oratorio e lì in
alcuni periodi dell'anno le figurine erano protagoniste assolute.
Quello
delle figurine è un mondo, a forte prevalenza maschile, che ci fa sempre
sentire bambini, ci riporta indietro nel tempo: ai soldi rubati ai genitori per
comprarsi una bustina per poi nasconderla e guardarsi le figurine di nascosto.
Mi ricordo le figurine scambiate, vinte e perse davanti al cancello della
scuola o al Parco. Le grida del maestro quando, tra compagni ci si cambiava le
figurine in classe. Un mondo che sembrava fosse sparito, svanito nel nulla,
con il trascorrere degli anni. Quelle grida, le litigate con i genitori (‘Sa
strasinèet tutt chi bèesi per gninta? Cosa butti via quei soldi per
niente?), i pianti, le corse dal giornalaio non le ricordavo, non le sentivo
più. Ma un giorno rovistando fra vecchie cose a sèelta fòora il vecchio
album del 1961 che celebrava in modo elegante il Centenario dell’Unità d’Italia
edito dalla B.E.A./Album d'Arte. In un attimo tutti i ricordi … limpidissimi …
mi si parano davanti. L’album vuoto e cinque bustine mi furono regalati, da chi
non ricordo … purtroppo, il giorno della cresima, mentre tornavo dal Duomo,
sotto il portico di Corso Fanti, lì dove c’è il piletto, all’altezza dell’allora
salumeria di Gualandi.
Mio
padre scosse la testa, voleva restituire l’album al gentile offerente, ma mia
madre, forse per educazione o per un’inconscia propensione al collezionare,
insistette per tenerlo. Quello fu uno di quei piccoli e formidabili punti di
snodo della mia esistenza e mi cambiò la vita.
Mio
padre, ovviamente, brontolò, così come fece puntualmente in futuro per tutte le
mie passioni: un nemico costante e implacabile che, per legittima difesa, per
sopravvivenza, mi sarei ingeniato continuamente a eludere, con una certa
limitata e idiota astuzia o, se proprio messo alle strette, a combattere coi
miei scarsi mezzi.
È
per questo che, anche oggi, quando vedo un bambino che è sostenuto dal genitore
in un hobby particolare, lo invidio moltissimo e penso con amarezza (stupida
fin che si vuole) al mio passato denso di incomprensioni e ruvidi attriti.
Nei
mesi successivi mi impegnai a fondo, per la prima volta nella mia vita, a
intraprendere in prima persona “un’impresa” e a portarla a termine da solo. Completare l’album … ecco … quello era lo scopo da raggiungere ad
ogni costo; la cosa che mi riuscì con inventiva, costanza e notevole
sforzo.
1961 Collezione Centenario ed. B.E.A.
Ma
non fu il solo. Sempre lo stesso anno, nel 1961, la Panini pubblicò il primo
album di figurine sul campionato di calcio. Anche questa raccolta era
impegnativa e così decisi di mettermi i società col mio amico Angelo che era
già partito con la collezione.
Ecco la copertina e una pagina della prima
raccolta di figurine Panini
per il campionato di calcio 1961-62, raffigurante
Nils Liedholm e La Roma.
Questa
raccolta aveva però un problema molto serio, non si riusciva a finire, perché
mancava la figurina dell’intera squadra dell’Udinese. L’editore per problemi
tecnici (non aveva la foto!!) era partito a stampare le figurine senza quella
della squadra bianconera friulana.
1961 Scudetto dell’Udinese – Figurine
Panini
Per
parecchio tempo questa figurina divenne un miraggio e un incubo; era ricercata
da tutti e al Parco e all’Oratorio era continuo oggetto di discussioni,
illazioni e sospetti. Si ripeteva il caso della figurina del Feroce Saladino
del 1934.
1934 la rarissima figurina del Feroce
Saladino
Finalmente
la Panini
ovviò all’inconveniente e l’Udinese fu diffusa. La vidi per la prima volta
all’Eden da un bambino che me la fece vedere, ma solo in mano sua.
Carlo
Lodi, carpigiano allora dodicenne,
ricorda molto bene anche lui bene quella raccolta del 1961/62: non si
trovava la figurina dell'UDINESE. Ma finalmente all'ennesimo acquisto di ben
cinque buste di figurine, dando fondo a tutti i suoi risparmi, presso la
cartoleria Berni all'Osteriola, trovò questa benedetta figurina addirittura
doppia. E subito, molto soddisfatto, pensò: "A gh ho propria avùu dal cul!"
E fu così che divenne il primo
della compagnia a completare quella fantastica raccolta.
Ma la
Panini aveva adottato anche un’altra accattivante astuzia:
ogni tanto nella bustina si trovava una figurina speciale con il verso occupato da un riquadro rosso con la scritta “ VALIDA” in blu.
1961 Figurina VALIDA Panini
Con
100 di queste ambite figurine si vinceva un pallone di cuoio del numero 5 di
gran marca: uno di quei mitici oggetti fra i più desiderati da un ragazzino, anche
se si gonfiava in un modo maledettamente difficoltoso con un ago e con una
pompa.
Le
VALIDE al mercato di
scambio valevano dalla tre alle cinque volte una normale. Incollarne poi una
sull’album, dava un’atroce sofferenza di spreco: era meglio lasciare il buco
vuoto, in preda a un orribile dubbio, ancora oggi irrisolto.
Purtroppo
Angelo e io, nonostante l’impegno profuso, arrivammo solo a 63
VALIDE, un numero che mi è rimasto
ben impresso nella memoria anche dopo cinquant’anni.
Le
figurine si attaccavano con una colla che si trova dentro un barattolino in
alluminio, la Coccoina ,
dotato di apposito pennellino a setole biancastre. L’odore di questa colla era
… fantastico di cocco!
Barattolo di colla Coccoina
In
carenza di colla, mia zia Valentina mi aveva insegnato a usare la farina,
sciolta con un po’ d’acqua, a farne una pasta semiconsistente. Funzionava
benissimo.
Negli anni ’60 il costo di una bustina
era di 10 £
**O**
Un mistero risolto
Scorrendo l’interessante libro “Figurine Panini. Storia di un impero
industriale, di una famiglia italiana e di un fenomeno di costume” di Nunzia
Manicardi ed Guaraldi 2000, dopo tantissimi anni sono riuscito a
trovare la soluzione a un piccolo mistero addirittura cinquantennale.
Figurine Panini. Storia di
un impero industriale
di Nunzia Manicardi - ed
Guaraldi 2000
Nell’autunno del 1964, le scuole erano appena cominciate, ma dopo pranzo
eravamo ancora al Parco a goderci gli ultimi pomeriggi di tepore. A un certo
punto arrivò un ragazzino che, concitato, ci disse che nell’area a nord di
Carpi, esattamente dove ora che il campo di calcio di Via Torino, c’era un bel
mucchio abbandonato di figurine e adesivi di scudetti. Tutto materiale
nuovissimo relativo alle squadre dell’album della Panini, appena uscito per
quella stagione.
Adesivo di plastica del
Bologna dell’album Panini del 1964-64
Ci guardammo increduli, chiedemmo conferme e spiegazioni al messaggero.
Pur prevalendo l’incredulità, partimmo subito speranzosi verso questo Eldorado.
Allora a un undici anni giravano tranquillamente da soli per la città con
i nostri fidi biciclini.
Arrivati sul posto, in effetti notammo subito, in mezzo al campo fra le
sterpaglie basse, un cumulo fumante, formato da figurine e adesivi
semicarbonizzati della collezione Panini.
Vari ragazzi erano già intorno e i èern drèe a sernìir, spostando la
cenere e i detriti; stavano recuperando dei pezzi interessanti, non intaccati
dal fuoco ormai spento. Anche io mi buttai subito nella bazza e feci del mio
meglio: mi appropriai lestamente di una decina di scudetti adesivi (ben cinque
del Lanerossi Vicenza rossi e bianchi), che servivano a ornavano le due pagine
dell’album dedicate a ogni squadra di Serie A; trovai anche varie figurine in
buono stato.
Il bottino era molto soddisfacente, sia per il fatto che era tutto
gratis, ma anche per la strana e avventurosa modalità di ritrovamento. Tornai
finalmente a casa a fare i compiti.
Tante volte mi sono chiesto da dove potesse provenire tutta quella roba,
ma non ho mai saputo darmi una risposta plausibile.
E invece ecco la spiegazione, grazie al libro che ho prima citato e tutto
sommato era anche molto semplice, considerato il tipo di attività molto diffusa
a Carpi in quegli anni: il LAVORO decentrato a DOMICILIO!
Oltre alle maglie e le camicie, per le quali Carpi divenne famosissima in
Italia e nel mondo, oltre al montaggio dei fiori finti di plastica, anche la
ditta Panini, hai suoi esordi, aveva affidato a qualche carpigiano il compito
di imbustare a mano dei consistenti lotti di figurine per la raccolta dei
calciatori di quell’anno.
Finito il lavoro manuale di inserimento e chiusura, consegnato lo stock
finito, qualcuno pensò bene di bruciare gli scarti in quel campo di periferia.
Ecco dunque, per puro caso, grazie a questo piccolo episodio auto
biografico, la riscoperta di un’attività lavorativa della nostra città di cui
si erano completamente perse le tracce.
Adesivi in plastica lucida
della collezione Panini
Avevano un odore pungente
di plastica e vernice ancora oggi percettibile
**O**
Giochi con le figurine
*
Oltre all'attività di collezione e scambio, i faciutèin (detti anche figurèin,
figurèini o fifì) svolgevano anche
una funzione di fiches o di denaro
sussidiario e come tali venivano messi in palio in vari giochi di abilità o
d’azzardo.
I
giochi erano vari, ecco la descrizione di alcuni di essi, suggeritami da
Graziano Malagoli e altri amici.
Batmùrr (battimuro). Più anticamente si
usavano monete, sassi, biglie o tappi. Il vantaggio della figurina è per
vincere non si va spanne, ma è prevista la chiara sovrapposizione di un
cartoncino su un altro.
Si sorteggia con una
classica conta il giocatore che comincia e l'ordine di gioco.
Si concorda, non senza
polemiche, e si traccia una linea per terra alla distanza di 5-6 passi dal
muro. E’ la linea di tiro, dietro la quale si dispongono i giocatori. Il primo
di essi lancia la propria figurina verso il muro. Vince le figurine a terra, colui che
riesce a toccare con la sua figurina lanciata una di quelle già sparpagliate a
terra, ma solo dopo avere toccato il muro con la propria. Perché il tiro sia considerato valido, la figurina deve
obbligatoriamente colpire il muro e rimbalzare indietro. Se ciò
non avviene, a seconda delle regole prefissate, essa è persa o si ripete il
tiro, eventualmente perdendo il turno. L’abilità è fondamentale per essere un
bravo lanciatore, soprattutto per far percorre al cartoncino l’ampia la
distanza di lancio richiesta all'inizio della sessione di gioco. Il lancio va
fatto di taglio, tenendo di solito un angolo del cartoncino, fra il medio e
l’anulare, parallelo al terreno, con un rilascio dato da un movimento secco con
uno scatto della mano. Il tiro deve essere ben calibrato e con la forza giusta.
L'abilità richiesta è notevole, così come la difficoltà a colpire la parete per
rendere valido il tiro. Troppa forza o troppo poca sono … letali e infauste.
Tecnica di lancio secondo la scuola di
Graziano Forghieri
Esiste un modo di dire
legato a questo gioco; una frase che viene pronunciata da che si sente
cronicamente ignorato dalla fortuna:
Sa m mètt a ṡughèer a
batmùrr … a se spoosta al mùrr (se mi metto a giocare a battimuro, si sposta addirittura
il muro).
**
Il tabaccaio Gianni
Luppi racconta che si poteva giocare anche solo a chi tirava la figurina più
lontano. Una disciplina di alta abilità per la quale si utilizzavano le
tecniche più raffinate, acquisite con perizia ed esperienza nel corso di lunghe
sedute di gara e in allenamenti solitari.
**
Un’altra
variante è quella di giocare appoggiando la figurina direttamente sul muro,
facendola poi cadere da una certa altezza prestabilita o nei limiti concordati.
Di solito l’altezza era libera, ma il limite minimo era invalicabile: “T’i in brùusa!” era la frase
pronunciata contro chi tentava di giocare sporco.
Anche
in questa disciplina, vince tutte le figurine già a terra, chi riesce a
coprirne una, anche parzialmente, con la sua appena lanciata. La strategia da
seguire è che ciascuno
deve pensare a lanciare la propria figurina lontano dal muro, per non essere
facile preda dei giocatori che seguiranno, ma allo stesso tempo deve mirare
verso una delle figurine che giace in terra
Per
raggiungere questo obiettivo, i ragazzi più bravi usavano collaudate e segrete
tecniche, che prevedevano arcuature più o meno accentuate della figurina a
seconda della traiettoria che le si voleva conferire.
Graziano
Forghieri, campione del mondo in gioventù anche in questa specialità e noto
esperto in calcoli di traiettorie con gli oggetti più svariati, ricorda che se
la carta da raggiungere era vicina al muro, quella da rilasciare doveva essere
lasciata pari, ma se era lontana, la propria andava adeguatamente piegata,
aumentando così i volteggi e la gittata.
Battimuro
Ugualmente
se si giocava per primi, si accentuava la curvatura per far svolazzare la
figurina, per mandarla il più lontano possibile.
L’operazione
dell’incurvatura veniva fatta all'ultimo momento prima del lancio, in modo
discreto col palmo della mano, in base alla dislocazione delle carte per terra
e della altezza del rilascio.
Mi
è doveroso annotare che il problema balistico affrontato con intuito e
applicazione dai ragazzi di un tempo era ed è tutt'altro che banale.
A
tutt'oggi, anche con i computer potentissimi e il genio dei migliori cervelli
umani dei matematici, infatti, è impossibile calcolare e prevedere l’algoritmo
della traiettoria di discesa di un semplicissimo foglio di carta che cade.
Per
credere, basta provare alcune volte e vi accorgerete subito che a ogni caduta
il foglio si comporta in modo diverso. Siamo dentro a una delle branche della
matematica più affascinanti e sconvolgenti: quella del caos e dalla casualità.
Chi
ragàas i n avrèeven mai pinsè a un lavòor dal gèner.
Biàanch o ròss: si gioca in due e si mette in palio un ugual
numero di figurine che vengono lanciate in aria dopo avere scelto mêrca
o lìssa per indicare la facciata o il retro della figurina stessa. Ogni
giocatore raccoglie e vince le figurine cadute di fronte o di retro. Ricorda
molto il classico testa o croce.
Un
altro gioco era la piàala. Oscar Clò racconta che si mettevano le figurine
tutte assieme in terra, una o più per ogni giocatore. Poi ogni partecipante
tirava il suo sasso e quello che si avvicinava di più vinceva tutte le
figurine. L'abilità stava nell'andare più vicino possibile alle figurine,
mentre il rischio era quello che se i sassi, a volte anche belli grossi,
cadevano proprio sopra alle figurine le rovinavano un po'. Però l'autore del
colpo formidabile era pressoché sicuro di aver vinto e di portare a casa al
spiglutèin ed faciutèin.
Sacaagna - Al sacàagn, ci ricorda Graziano
Malagoli, è quella pietra a parallelepipedo che si pone a una distanza di 10-15 metri dai lanciatori di
piàala
e che deve essere abbattuta. Una delle tante varianti del gioco consiste
nell’avere ciascuno posizionato il suo sacàagn su una linea perpendicolare
al lancio. Il vincitore della gara è chi, alla fine dei lanci, vede il propria
pietra ancora in piedi. Il primo a lanciare è chi più si è avvicinato ad un
riferimento prefissato, in genere posto in prossimità della linea di lancio.
Citiamo
il gioco in questa sede, perché ha anche una variante con l’utilizzo de i
faciutèin: ognuno mette la sua posta sul sacàagn (in caso di vento
si pone un sassolino sopra al spighlòot), si stabilisce nei modi tradizionali l’ordine di lancio. A questo
punto possono esserci due tipi di regole: vince tutto chi abbatte il
sacàagn, oppure si incassano solo le figurine che sono a contatto con la
piàala del lanciatore, in questo modo il gioco dura più a lungo e vi
possono essere più vincitori.
Negli
'40 e '50, mutuato dall'analogo gioco con le carte da briscola, lèevapataia
o chèevapataia, c'era poi anche questa sfida fra gli inquieti ragazzi
di Via De Amicis. Marco Giovanardi ricorda che si giocava con le figurine e
prendeva il nome di … chevapatajan.
I
due sfidanti dovevano avere lo stesso numero di figurine da giocare, 20, 30 o
40, impilate e tenute nascoste dietro la schiena. Esse venivano sistemate
dritte o capovolte, mescolate, ben impilate nel pacchetto, senza farsi scorgere
dall'avversario. Preparati i rispettivi mazzetti, si portavano davanti, ma
sempre ben protetti con le mani dalla vista dell'avversario.
Il
primo giocatore disponeva sul marciapiedi la prima figurina così come l'aveva
preparate nel suo mazzo. Il secondo giocatore calava poi la sua. E così via, a
turno. Se la figura era rivolta come quella dell'altro, il giocatore vinceva e
prendeva tutto il mazzetto, se era messa al contrario si procedeva,
intercalandosi nei turni delle calate. Vinceva tutto chi riusciva a far
terminare il mazzetto all'avversario. A volte il gioco, andava per le lunghe e
finiva con una situazione bilanciata, anche perché a gnìiva siira e ormai a n
se gh vdiiva quèesi più. Da notare che la tecnica di intercalare le
figurine dritte o rovesce, dietro la schiena, avveniva senza guardare, ma solo
palpandole con mano. Ciò era fondamentale per la segretezza e la vittoria
finale; ognuno aveva la sua tecnica.
Spiglutèin ed faciutèin
Al figureini, i faciutein o i fifi che
mio padre chiamava anche i magna sòold.
di Luciana Nora 11-1-2012
L’album,
assieme a due bustine, lo distribuivano gratis all’uscita della scuola, La
prima volta che mi è capitato tra le mani, l’ho portato a casa contenta, ma a
smorzare ogni entusiasmo è arrivato un commento lapidario di mio padre: - L’è
un magna sòold, a n’è brisa ’na ròoba sèeria, te pèerd dal tèimp e te n’impèr
gninta.- La sua autorevolezza era tale che non mi sarei mai sognata di
fare resistenza e, d’altra parte, le sue non erano negazioni senza alternative,
anzi!
Mi
arrivavano immediatamente libri, mi passava le dispense del settimanale Epoca,
affidandomi il compito di conservarle e ordinarle per essere poi rilegate. In
effetti quelle dispense mi catturavano in modo davvero eccezionale: leggevo i
titoli, sottotitoli e didascalie alle grandi immagini incomparabilmente più
accattivanti delle figurine e, qualche volta, spinta dal bisogno di capire
meglio, cercavo di affrontare i testi che però mi disarmavano, perché per me
erano troppo lunghi e complessi.
Però,
e c’era un però grande come una casa, le figurine erano soprattutto un
intrattenimento collettivo, fatto di confronti e scambi: - Ce l’ho, ce l’ho,
manca; quante figurine vuoi per darmi quella lì?-
Le
dinamiche di scambio tra le femmine erano molto diverse e assai più tranquille
rispetto a quelle dei maschi che le figurine se le giocavano e quando si
insinuava il sospetto che qualcuno barasse al gioco, si poteva arrivare alle
zuffe.
Fatto
sta che, di soppiatto, ho cominciato anch’io a fare qualche raccolta. Mio padre
sapeva, mi brontolava e non si è mai fatto complice. Per comperare qualche
bustina, 10 lire, dovevo rinunciare a qualcosa della mia paghetta domenicale;
50 lire che mi dava il babbo e trenta che ricevevo dalla nonna Stella.
Per
la durata della febbre da raccolta, un mese circa, rinunciavo alle Resoldor, 35
lire: piccolissime caramelle di liquerizia con forse una componente di menta
forte che mi facevo durare per l’intera settimana. In quanto alla colla, la Coccoina che aveva un
piacevole odore di mandorla, l’ho comperata una sola volta e poi su
suggerimento della nonna ero arrivata a farmi una colla con acqua e farina
unita a una polverina che mi aveva dato la nonna Stella.
Ad
onor del vero non sono riuscita a terminarne che una sola raccolta con la
complicità di un prozio, Mario Gualdi, fratello del nonno materno, che gestiva
una cartoleria sotto il portico lungo, poco più in là del bar Dorando. Mario
aveva una nipote di poco più giovane di me, Guglielmina, alla quale non
lesinavano certo le bustine e, di conseguenza, accumulava doppi su doppi, che
lo zio teneva in un cassetto, e spesso me ne regalava un mazzetto con il quale
poi facevo scambi.
Li
facevo persino con il cartolaio Forghieri che aveva la bottega sotto il portico
di San Nicolò, all’altezza dell’attuale Banca Intesa. Forghieri, a rammentarlo
oggi, era un particolarissimo personaggio: un adulto con uno spirito da bambino
che, nei momenti di relativa calma commerciale, si lasciava coinvolgere e
coinvolgeva volentieri a sua volta.
Io
entravo in quella cartoleria con le figurine, ma poi, particolarmente nel
periodo invernale venivo catturata dalle sue attività alternative e
complementari, in particolare la creazione di maschere e mascheroni in carta
pesta e anche dalla sua capacità nel disegno.
Da
Forghieri, mentre si dilettava a sperimentarli, ho visto per la prima volta i
colori a cera: ero andata a casa entusiasta e , non le figurine, ma quei colori
mio padre non me li ha mai fatti mancare.
In
definitiva il mio rapporto con le figurine si risolse con quattro tentativi
forse non sufficientemente convinti di completare una raccolta e uno solo, con
tematica storica, approdato alla fine. In effetti però, finito il gioco degli
scambi, l’album passava dal comodino della mia camera al solaio, rimanendo
chiuso lì per sempre.
**
In età matura, in ambito
lavorativo, lungo un percorso di ricerca, quasi inaspettatamente mi sono
trovata a riconsiderare le figurine sotto due guide impareggiabili: Giuseppe
Panini e Lucilla De Magistris. Mi ero portata a Modena per poter visionare
l’archivio fotografico Orlandini, acquisito da Giuseppe Panini e, per farlo,
occorreva l’autorizzazione di Panini stesso. È stato uno di quegli incontri che
non si dimenticano: una persona giovialissima, curiosa che aveva voluto
conoscere tutto del progetto al quale stavo lavorando: le ritualità connesse al
ciclo della vita. Permesso accordato e, immediatamente, con una telefonata
preannunciava la nostra visita a quell’archivio che si rivelò enorme: oltre ai
negativi Orlandini e Bandieri, là erano conservate raccolte di ogni genere.
Quando credevo che l’incontro stesse per concludersi, il signor Giuseppe con
una radiosità espressiva tipica di chi sta per fare una sorpresa ed è certo che
sarà graditissima, ebbe a dirmi che sicuramente nella sua raccolta di figurine
potevo trovare immagini utili al mio lavoro di ricerca. Sullo stesso piano del
suo ufficio, praticamente di fronte, una sorta di dependance, veniva conservata
la sua raccolta di figurine. Mi trovavo di fronte ad una persona trasfigurata,
un anziano che mostrava l’impagabile entusiasmo di un bambino sicuro di avere
un tesoro godibile all’infinito. Un fiume in piena che mi raccontava come era
nata questa sua passione che, sì, aveva una strettissima connessione con la sua
impresa, ma era qualcosa d’altro che aveva a che fare con il suo essere dal
quale aveva poi preso avvio anche l’impresa. Nell’illustrare trasmetteva
curiosità, stupore e meraviglia. In quelle stanze invidiabilmente ordinate,
dopo aver mostrato quelli che reputava i pezzi straordinari, compreso un baule
da viaggio tappezzato di figurine, ebbe a presentarmi quella che teneva come
una più che preziosa vestale: la signorina Lucilla De Magistris. Una signorina
che doveva avere annoverato sessant’anni o forse qualcosina di più,
ordinatissima, longilinea, eretta, capelli bianchi acconciati in onde discrete
che incorniciavano un volto con incarnato chiarissimo, pulito, dai
tratti gentili , con una camicetta bianca dal colletto in merletto sotto un
cardigan rosa. Condivideva con il signor Giuseppe la passione per le figurine,
tanto che ebbi successivamente a considerare il fatto che in qualche modo le
incarnasse fisicamente.
Venni così affidata alla guida
della signorina De Magistris che mi mostrò l’incredibile raccolta delle
figurine Liebig, non le figurine che avevo maneggiato da bambina, ma qualcosa
d’altro, cromolitografie cartonate in serie che sembravano appena uscite dalla
stampa, attraverso le quali uscivano usi e costumi di inizio Novecento.
Da quel momento, ho riconsiderato l’incredibile mondo delle figurine. Non mi
sono mai convertita al collezionismo privato ma, a quanti lo praticavano mi
sono poi rivolta più volte e, sempre, ho trovato materiali preziosi.
^^*O*^^
1960 - 61 Bruno Bolchi la prima
figurina Panini
1963- 64 Ardico
Magnini sulla copertina dell'album "Calciatori Panini”
La celebre rovesciata
di Carlo
Parola, qui raffigurata sulla copertina di Calciatori 1996-1997
**00**
Il prof Pietro Marmiroli ci regala questi bei ricordi su un’epoca dove anche
le figurine avevano una grande importanza di vita per i ragazzini (pubblicato
su VOCE del 17 marzo 2011). I ricordi sono dedicati all’Italia del maestro
Meoni e alle celebrazioni primo centenario dell'Unità d’Italia nel 1961.
“Era l'Italia del miracolo descritto da
Bocca, dei viaggi in Urss offerti da Crotti, dei compagni di scuola del Sud,
del libro Cuore e delle figurine
Il maestro Gian Marino Meoni veniva da Modena, era rimasto
vedovo giovane e da giovane si era risposato. Dopo aver fatto la sua gavetta
nelle frazioni in quell'anno mirabile 1961 era in servizio alle Manfredo Fanti,
scuola elementare storica, unica in verità, di una cittadina baciata dal boom
economico e dalla celebrità televisiva. Sì, perché tutta l'Italia catodica
aveva già tifato per Lando Degoli e il suo controfagotto a "Lascia o
raddoppia?" e Carpi era entrata"in orbita e s'ciao", proponendosi
a "Campanile sera", ma rimanendo al palo, sconfitta dall'agricola
Bracciano.
Niente paura per la cittadina neoindustriale perché Giorgio
Bocca, giornalista di fama, avrebbe presto rinverdito la gloria locale
portandola ad esempio e modello del "miracolo italiano" e dopo di lui
l'imprenditore Crotti le avrebbe prodotto una fama mondiale, organizzando
un'Odissea di viaggi Oltrecortina, alla scoperta del socialismo reale. Nel
frattempo, in quel mitico anno ci riconoscevamo tutti italiani; anche i nuovi
compagni, Di Sessa e Pellecchia, amichetti campani dell'Irpinia, appena
arrivati in città e alloggiati in appartamenti di fortuna sotto i tetti del
Castello, erano italiani come noi, anzi erano carpigiani.
Tutti insieme eravamo alle Fanti e il maestro Meoni per ricucire
le due Italie che erano in classe ci educava al senso dello Stato unitario,
leggendoci i racconti mensili del libro "Cuore", dove c'era ampio
spazio per riflessioni sull'immigrazione "Dagli Appennini alle Ande",
molto eroismo risorgimentale nella "Piccola vedetta lombarda",
massicce dosi di coraggio nel "Sangue romagnolo", pacchi di altruismo
nel "Piccolo scrivano fiorentino". Insomma a nostra disposizione
c'era tutta una geografia di virtù italiche di pronto uso che avremmo potuto
facilmente emulare.
Esse erano il frutto di un evento storico prodottosi nel sangue
e nel valore, a seguito di una serie di guerre di indipendenza, da studiare
analiticamente, date e luoghi a memoria, che poi il maestro ci avrebbe
puntualmente richiesto. Per favorirci nel ricordo e nell'acquisizione,
periodicamente la lezione di storia in classe veniva supportata dalla
proiezione di diapositive didattiche che dovevano mostrarci i luoghi, le
divise, i teatri di guerra, culla dell'italianità ancor recente.
L'iniziativa del maestro, di visualizzare per noi il
Risorgimento, era un album della ditta B.E.A in quell'anno diede alle stampe un
albo coloratissimo e seducente dal titolo "Italia '61".
E dentro c'erano proprio le facce di tutti: Mazzini il dubbioso
apostolo dell'Italia repubblicana, il gringo macho Garibaldi, eroe di due
mondi, l'azzimato snob tessitore di alleanze, Cavour, piemontese, falso e
cortese. Picciotti e Menotti, i trecento giovani e forti che sono morti di
Pisacane e della sua amica, spigolatrice in quel di Sapri, venivano proposti a
tutta pagina in un mosaico che li affiancava ai veneziani resistenti di
Fusinato, arresisi agli austriaci solo per fame, conseguendo l'onore delle
armi, quelli del "pan ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca".
Chi restava fuori dalla collezione, perché scandalosa, era la
bella cuginetta di Cavour, quella contessa di Castiglione che era stata
immolata sull'altare della patria e nel talamo di Napoleone III per costruire
un asse militare italo-francese durante la seconda guerra di Indipendenza.
Al suo posto, più virtuosa appariva Anita Garibaldi, agonizzante
tra le braccia del guerriero, in fuga dopo la sconfitta della Repubblica romana
e beccata a morte forse da una delle letali zanzare delle valli del Po
ravennate.
Per comporre i quadri delle battaglie di Calatafimi, di
Castelfidardo, al Volturno, l'incontro di Teano o la partenza da Quarto dei
Mille ci volevano più figurine, incollate insieme, otto o dieci, ma l'effetto
finale era garantito, sembrava un film in cinemascope, tant'era grande e
colorato. Se te ne mancava qualcuna potevi tentare degli scambi di doppie con
altri scolari, sopportando eventuali sovrapprezzi, se la figurina era
considerata rara; qualcuno poteva chiederne anche cinque o dieci. Un altro modo
per procacciarsene era il gioco del muro in cui si lasciavano scivolare giù
libere, dopo averne messe alcune a terra, come posta iniziale.
Chi ne avesse ricoperta qualcuna avrebbe vinto tutte quelle
ammucchiate. L'acquisto di quelle nuove aveva invece un costo, per l'epoca non
esoso, ma neppure esigo: quattro pezzi valevano dieci lire, lo stesso costo di
un wafer farcito, il Mignin. Tuttavia malgrado l'impegno, gli scambi, le
contrattazioni si faceva sempre fatica a racimolare le trecento figurine e
passa degli album e spesso finivano in granaio o in cantina incompleti, con
qualche finestra aperta, come quella che avrebbe dovuto accogliere
l'introvabile parlamentare Bettino Ricasoli.
Ma cosa importava poi se la raccolta rimaneva incompleta,
l'Italia no, lei era tutta intera, unificata con i suoi eroi, le loro gesta, le
imprese dei martiri di Belfiore. E tutto questo ci rassicurava, ci faceva
sentire italiani.”
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