mercoledì 5 settembre 2012

Le figurine - I faciutèin - di Mauro D'Orazi dialetto carpigiano




Le figurine - I faciutèin
di Mauro D’Orazi - Carpi
v 30 del 13-12-2012                                prima stesura 7 marzo 2012

Pubblicato su Voce di Carpi - parzialmente –
 il 27-4-2012 n 17 e il 24-5-2012 n 21


Frutto del lavoro di ricerca sul web, con suggerimenti e con il contributo  costante del Gruppo di Facebook “Chi parla dialetto carpSàan” e del rughlètt di affezionati del bar Tazza d’Oro alle 7 del mattino e di tanti altri amici e amiche sempre pronti a portare la loro esperienza personale e familiare al servizio di un dialetto che deve e può continuare a essere parlato e vissuto.

2006 francobollo commemorativo delle Edizioni Panini
          Il Parco e l’Oratorio dell’Eden, oltre che a scuola, erano i luoghi preposti per lo scambio delle figurine. Il mantra: “Cèlo, manca! Cèlo, manca! “ veniva ripetuto quasi all’infinito, fino alla visione e all’esame completo dal spiglutèin ed faciutèin (mazzetto di figurine) che io o i miei coetanei ci eravamo portati dietro per gli scambi. Lo scambio di figurine è un momento centrale del collezionista, soprattutto di bambini e ragazzi. Durante l'incontro, mentre uno mostra le figurine del "mazzo delle doppie", l'altro ne cerca una che non ha. Questo rito ha coniato i termini del "Celo" e "Manca", corrispondenti alle frasi "Ce l'ho" e "Mi manca", che si riferiscono alle possibili risposte di chi nello scambio cerca una figurina mancante.
Un rughlètt ed ragàas degli anni ‘70
Oggi le mode sono cambiate, ma ci fu un tempo in cui le figurine occupavano un posto di primo piano nella gerarchia dei valori del mondo visto con gli occhi di un bambino. Erano gli anni '50, '60, '70. La tv aveva solo due canali Rai e al pomeriggio interrompevano le trasmissioni fino alle 17, l'ora della "TV dei ragazzi". Svolti i compiti, si andava al Parco o all'Oratorio e lì in alcuni periodi dell'anno le figurine erano protagoniste assolute.
Quello delle figurine è un mondo, a forte prevalenza maschile, che ci fa sempre sentire bambini, ci riporta indietro nel tempo: ai soldi rubati ai genitori per comprarsi una bustina per poi nasconderla e guardarsi le figurine di nascosto. Mi ricordo le figurine scambiate, vinte e perse davanti al cancello della scuola o al Parco. Le grida del maestro quando, tra compagni ci si cambiava le figurine in classe.  Un mondo che  sembrava fosse sparito, svanito nel nulla, con il trascorrere degli anni. Quelle grida, le litigate con i genitori (‘Sa strasinèet tutt chi bèesi per gninta? Cosa butti via quei soldi per niente?), i pianti, le corse dal giornalaio non le ricordavo, non le sentivo più. Ma un giorno rovistando fra vecchie cose a sèelta fòora il vecchio album del 1961 che celebrava in modo elegante il Centenario dell’Unità d’Italia edito dalla B.E.A./Album d'Arte. In un attimo tutti i ricordi … limpidissimi … mi si parano davanti. L’album vuoto e cinque bustine mi furono regalati, da chi non ricordo … purtroppo, il giorno della cresima, mentre tornavo dal Duomo, sotto il portico di Corso Fanti, lì dove c’è il piletto, all’altezza dell’allora salumeria di Gualandi.
Mio padre scosse la testa, voleva restituire l’album al gentile offerente, ma mia madre, forse per educazione o per un’inconscia propensione al collezionare, insistette per tenerlo. Quello fu uno di quei piccoli e formidabili punti di snodo della mia esistenza e mi cambiò la vita.
Mio padre, ovviamente, brontolò, così come fece puntualmente in futuro per tutte le mie passioni: un nemico costante e implacabile che, per legittima difesa, per sopravvivenza, mi sarei ingeniato continuamente a eludere, con una certa limitata e idiota astuzia o, se proprio messo alle strette, a combattere coi miei scarsi mezzi.
È per questo che, anche oggi, quando vedo un bambino che è sostenuto dal genitore in un hobby particolare, lo invidio moltissimo e penso con amarezza (stupida fin che si vuole) al mio passato denso di incomprensioni e ruvidi attriti.
Nei mesi successivi mi impegnai a fondo, per la prima volta nella mia vita, a intraprendere in prima persona “un’impresa” e a portarla a termine da solo. Completare l’album … ecco … quello era lo scopo da raggiungere ad ogni costo; la cosa che mi riuscì con inventiva, costanza e notevole sforzo. 
     
1961 Collezione Centenario ed. B.E.A.
Ma non fu il solo. Sempre lo stesso anno, nel 1961, la Panini pubblicò il primo album di figurine sul campionato di calcio. Anche questa raccolta era impegnativa e così decisi di mettermi i società col mio amico Angelo che era già partito con la collezione.
 
Ecco la copertina e una pagina della prima raccolta di figurine Panini
per il campionato di calcio 1961-62, raffigurante Nils Liedholm e La Roma.
Questa raccolta aveva però un problema molto serio, non si riusciva a finire, perché mancava la figurina dell’intera squadra dell’Udinese. L’editore per problemi tecnici (non aveva la foto!!) era partito a stampare le figurine senza quella della squadra bianconera friulana.
1961 Scudetto dell’Udinese – Figurine Panini
Per parecchio tempo questa figurina divenne un miraggio e un incubo; era ricercata da tutti e al Parco e all’Oratorio era continuo oggetto di discussioni, illazioni e sospetti. Si ripeteva il caso della figurina del Feroce Saladino del 1934.
1934 la rarissima figurina del Feroce Saladino
Finalmente la Panini ovviò all’inconveniente e l’Udinese fu diffusa. La vidi per la prima volta all’Eden da un bambino che me la fece vedere, ma solo in mano sua.
Carlo Lodi, carpigiano allora dodicenne,  ricorda molto bene anche lui bene quella raccolta del 1961/62: non si trovava la figurina dell'UDINESE. Ma finalmente all'ennesimo acquisto di ben cinque buste di figurine, dando fondo a tutti i suoi risparmi, presso la cartoleria Berni all'Osteriola, trovò questa benedetta figurina addirittura doppia. E subito, molto soddisfatto, pensò: "A gh ho propria avùu dal cul!"  E fu così che divenne il primo della compagnia a completare quella fantastica raccolta.
Ma la Panini aveva adottato anche un’altra accattivante astuzia: ogni tanto nella bustina si trovava una figurina speciale con il verso occupato da un riquadro rosso con la scritta “ VALIDA” in blu.
1961 Figurina VALIDA Panini
Con 100 di queste ambite figurine si vinceva un pallone di cuoio del numero 5 di gran marca: uno di quei mitici oggetti fra i più desiderati da un ragazzino, anche se si gonfiava in un modo maledettamente difficoltoso con un ago e con una pompa.
Le VALIDE al mercato di scambio valevano dalla tre alle cinque volte una normale. Incollarne poi una sull’album, dava un’atroce sofferenza di spreco: era meglio lasciare il buco vuoto, in preda a un orribile dubbio, ancora oggi irrisolto.
Purtroppo Angelo e io, nonostante l’impegno profuso, arrivammo solo a 63 VALIDE, un numero che mi è rimasto ben impresso nella memoria anche dopo cinquant’anni.
Le figurine si attaccavano con una colla che si trova dentro un barattolino in alluminio, la Coccoina, dotato di apposito pennellino a setole biancastre. L’odore di questa colla era … fantastico di cocco!
Barattolo di colla Coccoina
In carenza di colla, mia zia Valentina mi aveva insegnato a usare la farina, sciolta con un po’ d’acqua, a farne una pasta semiconsistente. Funzionava benissimo.

            
Negli anni ’60 il costo di una bustina era di 10 £
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Un mistero risolto

Scorrendo l’interessante libro “Figurine Panini. Storia di un impero industriale, di una famiglia italiana e di un fenomeno di costume” di Nunzia Manicardi ed Guaraldi 2000, dopo tantissimi anni sono riuscito a trovare la soluzione a un piccolo mistero addirittura cinquantennale.

Figurine Panini. Storia di un impero industriale

di Nunzia Manicardi - ed Guaraldi 2000

Nell’autunno del 1964, le scuole erano appena cominciate, ma dopo pranzo eravamo ancora al Parco a goderci gli ultimi pomeriggi di tepore. A un certo punto arrivò un ragazzino che, concitato, ci disse che nell’area a nord di Carpi, esattamente dove ora che il campo di calcio di Via Torino, c’era un bel mucchio abbandonato di figurine e adesivi di scudetti. Tutto materiale nuovissimo relativo alle squadre dell’album della Panini, appena uscito per quella stagione.

Adesivo di plastica del Bologna dell’album Panini del 1964-64

Ci guardammo increduli, chiedemmo conferme e spiegazioni al messaggero. Pur prevalendo l’incredulità, partimmo subito speranzosi verso questo Eldorado.

Allora a un undici anni giravano tranquillamente da soli per la città con i nostri fidi biciclini.

Arrivati sul posto, in effetti notammo subito, in mezzo al campo fra le sterpaglie basse, un cumulo fumante, formato da figurine e adesivi semicarbonizzati della collezione Panini.

Vari ragazzi erano già intorno e i èern drèe a sernìir, spostando la cenere e i detriti; stavano recuperando dei pezzi interessanti, non intaccati dal fuoco ormai spento. Anche io mi buttai subito nella bazza e feci del mio meglio: mi appropriai lestamente di una decina di scudetti adesivi (ben cinque del Lanerossi Vicenza rossi e bianchi), che servivano a ornavano le due pagine dell’album dedicate a ogni squadra di Serie A; trovai anche varie figurine in buono stato.

 

Il bottino era molto soddisfacente, sia per il fatto che era tutto gratis, ma anche per la strana e avventurosa modalità di ritrovamento. Tornai finalmente a casa a fare i compiti.

Tante volte mi sono chiesto da dove potesse provenire tutta quella roba, ma non ho mai saputo darmi una risposta plausibile.

E invece ecco la spiegazione, grazie al libro che ho prima citato e tutto sommato era anche molto semplice, considerato il tipo di attività molto diffusa a Carpi in quegli anni: il LAVORO decentrato a DOMICILIO!

Oltre alle maglie e le camicie, per le quali Carpi divenne famosissima in Italia e nel mondo, oltre al montaggio dei fiori finti di plastica, anche la ditta Panini, hai suoi esordi, aveva affidato a qualche carpigiano il compito di imbustare a mano dei consistenti lotti di figurine per la raccolta dei calciatori di quell’anno.

Finito il lavoro manuale di inserimento e chiusura, consegnato lo stock finito, qualcuno pensò bene di bruciare gli scarti in quel campo di periferia.

Ecco dunque, per puro caso, grazie a questo piccolo episodio auto biografico, la riscoperta di un’attività lavorativa della nostra città di cui si erano completamente perse le tracce.

    

Adesivi in plastica lucida della collezione Panini

Avevano un odore pungente di plastica e vernice ancora oggi percettibile


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Giochi con le figurine

* Oltre all'attività di collezione e scambio, i faciutèin (detti anche figurèin, figurèini o fifì) svolgevano anche una funzione di fiches o di denaro sussidiario e come tali venivano messi in palio in vari giochi di abilità o d’azzardo.
I giochi erano vari, ecco la descrizione di alcuni di essi, suggeritami da Graziano Malagoli e altri amici.
Batmùrr (battimuro). Più anticamente si usavano monete, sassi, biglie o tappi. Il vantaggio della figurina è per vincere non si va spanne, ma è prevista la chiara sovrapposizione di un cartoncino su un altro.
Si sorteggia con una classica conta il giocatore che comincia e l'ordine di gioco.
Si concorda, non senza polemiche, e si traccia una linea per terra alla distanza di 5-6 passi dal muro. E’ la linea di tiro, dietro la quale si dispongono i giocatori. Il primo di essi lancia la propria figurina verso il muro. Vince le figurine a terra, colui che riesce a toccare con la sua figurina lanciata una di quelle già sparpagliate a terra, ma solo dopo avere toccato il muro con la propria. Perché il tiro sia considerato valido, la figurina deve obbligatoriamente colpire il muro e rimbalzare indietro. Se ciò non avviene, a seconda delle regole prefissate, essa è persa o si ripete il tiro, eventualmente perdendo il turno. L’abilità è fondamentale per essere un bravo lanciatore, soprattutto per far percorre al cartoncino l’ampia la distanza di lancio richiesta all'inizio della sessione di gioco. Il lancio va fatto di taglio, tenendo di solito un angolo del cartoncino, fra il medio e l’anulare, parallelo al terreno, con un rilascio dato da un movimento secco con uno scatto della mano. Il tiro deve essere ben calibrato e con la forza giusta. L'abilità richiesta è notevole, così come la difficoltà a colpire la parete per rendere valido il tiro. Troppa forza o troppo poca sono … letali e infauste.
Tecnica di lancio secondo la scuola di Graziano Forghieri
Esiste un modo di dire legato a questo gioco; una frase che viene pronunciata da che si sente cronicamente ignorato dalla fortuna:
Sa m mètt a ṡughèer a batmùrr … a se spoosta al mùrr (se mi metto a giocare a battimuro, si sposta addirittura il muro).

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Il tabaccaio Gianni Luppi racconta che si poteva giocare anche solo a chi tirava la figurina più lontano. Una disciplina di alta abilità per la quale si utilizzavano le tecniche più raffinate, acquisite con perizia ed esperienza nel corso di lunghe sedute di gara e in allenamenti solitari.
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Un’altra variante è quella di giocare appoggiando la figurina direttamente sul muro, facendola poi cadere da una certa altezza prestabilita o nei limiti concordati. Di solito l’altezza era libera, ma il limite minimo era invalicabile: “T’i in brùusa!” era la frase pronunciata contro chi tentava di giocare sporco.
Anche in questa disciplina, vince tutte le figurine già a terra, chi riesce a coprirne una, anche parzialmente, con la sua appena lanciata. La strategia da seguire è che ciascuno deve pensare a lanciare la propria figurina lontano dal muro, per non essere facile preda dei giocatori che seguiranno, ma allo stesso tempo deve mirare verso una delle figurine che giace in terra
Per raggiungere questo obiettivo, i ragazzi più bravi usavano collaudate e segrete tecniche, che prevedevano arcuature più o meno accentuate della figurina a seconda della traiettoria che le si voleva conferire.
Graziano Forghieri, campione del mondo in gioventù anche in questa specialità e noto esperto in calcoli di traiettorie con gli oggetti più svariati, ricorda che se la carta da raggiungere era vicina al muro, quella da rilasciare doveva essere lasciata pari, ma se era lontana, la propria andava adeguatamente piegata, aumentando così i volteggi e la gittata.
Battimuro
Ugualmente se si giocava per primi, si accentuava la curvatura per far svolazzare la figurina, per mandarla il più lontano possibile.
L’operazione dell’incurvatura veniva fatta all'ultimo momento prima del lancio, in modo discreto col palmo della mano, in base alla dislocazione delle carte per terra e della altezza del rilascio.
Mi è doveroso annotare che il problema balistico affrontato con intuito e applicazione dai ragazzi di un tempo era ed è tutt'altro che banale.
A tutt'oggi, anche con i computer potentissimi e il genio dei migliori cervelli umani dei matematici, infatti, è impossibile calcolare e prevedere l’algoritmo della traiettoria di discesa di un semplicissimo foglio di carta che cade.
Per credere, basta provare alcune volte e vi accorgerete subito che a ogni caduta il foglio si comporta in modo diverso. Siamo dentro a una delle branche della matematica più affascinanti e sconvolgenti: quella del caos e dalla casualità.
Chi ragàas i n avrèeven mai pinsè a un lavòor dal gèner.

Biàanch o ròss: si gioca in due e si mette in palio un ugual numero di figurine che vengono lanciate in aria dopo avere scelto mêrca o lìssa per indicare la facciata o il retro della figurina stessa. Ogni giocatore raccoglie e vince le figurine cadute di fronte o di retro. Ricorda molto il classico testa o croce.

Un altro gioco era la piàala. Oscar Clò racconta che si mettevano le figurine tutte assieme in terra, una o più per ogni giocatore. Poi ogni partecipante tirava il suo sasso e quello che si avvicinava di più vinceva tutte le figurine. L'abilità stava nell'andare più vicino possibile alle figurine, mentre il rischio era quello che se i sassi, a volte anche belli grossi, cadevano proprio sopra alle figurine le rovinavano un po'. Però l'autore del colpo formidabile era pressoché sicuro di aver vinto e di portare a casa al spiglutèin ed faciutèin.

Sacaagna - Al sacàagn, ci ricorda Graziano Malagoli, è quella pietra a parallelepipedo che si pone a una distanza di 10-15 metri dai lanciatori di piàala e che deve essere abbattuta. Una delle tante varianti del gioco consiste nell’avere ciascuno posizionato il suo sacàagn su una linea perpendicolare al lancio. Il vincitore della gara è chi, alla fine dei lanci, vede il propria pietra ancora in piedi. Il primo a lanciare è chi più si è avvicinato ad un riferimento prefissato, in genere posto in prossimità della linea di lancio.
Citiamo il gioco in questa sede, perché ha anche una variante con l’utilizzo de i faciutèin: ognuno mette la sua posta sul sacàagn (in caso di vento si pone un sassolino sopra al spighlòot), si stabilisce nei modi tradizionali l’ordine di lancio. A questo punto possono esserci due tipi di regole: vince tutto chi abbatte il sacàagn, oppure si incassano solo le figurine che sono a contatto con la piàala del lanciatore, in questo modo il gioco dura più a lungo e vi possono essere più vincitori.

Negli '40 e '50, mutuato dall'analogo gioco con le carte da briscola, lèevapataia o chèevapataia, c'era poi anche questa sfida fra gli inquieti ragazzi di Via De Amicis. Marco Giovanardi ricorda che si giocava con le figurine e prendeva il nome di … chevapatajan.
I due sfidanti dovevano avere lo stesso numero di figurine da giocare, 20, 30 o 40, impilate e tenute nascoste dietro la schiena. Esse venivano sistemate dritte o capovolte, mescolate, ben impilate nel pacchetto, senza farsi scorgere dall'avversario. Preparati i rispettivi mazzetti, si portavano davanti, ma sempre ben protetti con le mani dalla vista dell'avversario.
Il primo giocatore disponeva sul marciapiedi la prima figurina così come l'aveva preparate nel suo mazzo. Il secondo giocatore calava poi la sua. E così via, a turno. Se la figura era rivolta come quella dell'altro, il giocatore vinceva e prendeva tutto il mazzetto, se era messa al contrario si procedeva, intercalandosi nei turni delle calate. Vinceva tutto chi riusciva a far terminare il mazzetto all'avversario. A volte il gioco, andava per le lunghe e finiva con una situazione bilanciata, anche perché a gnìiva siira e ormai a n se gh vdiiva quèesi più. Da notare che la tecnica di intercalare le figurine dritte o rovesce, dietro la schiena, avveniva senza guardare, ma solo palpandole con mano. Ciò era fondamentale per la segretezza e la vittoria finale; ognuno aveva la sua tecnica.

Spiglutèin ed faciutèin



Al figureini, i faciutein o i fifi che mio padre chiamava anche i magna sòold.
                                                                            di Luciana Nora 11-1-2012

L’album, assieme a due bustine, lo distribuivano gratis all’uscita della scuola, La prima volta che mi è capitato tra le mani, l’ho portato a casa contenta, ma a smorzare ogni entusiasmo è arrivato un commento lapidario di mio padre: - L’è un magna sòold, a n’è brisa ’na ròoba sèeria, te pèerd dal tèimp e te n’impèr gninta.- La sua autorevolezza era tale che non mi sarei mai sognata di fare resistenza e, d’altra parte, le sue non erano negazioni senza alternative, anzi!
Mi arrivavano immediatamente libri, mi passava le dispense del settimanale Epoca, affidandomi il compito di conservarle e ordinarle per essere poi rilegate. In effetti quelle dispense mi catturavano in modo davvero eccezionale: leggevo i titoli, sottotitoli e didascalie alle grandi immagini incomparabilmente più accattivanti delle figurine e, qualche volta, spinta dal bisogno di capire meglio, cercavo di affrontare i testi che però mi disarmavano, perché per me erano troppo lunghi e complessi.
Però, e c’era un però grande come una casa, le figurine erano soprattutto un intrattenimento collettivo, fatto di confronti e scambi: - Ce l’ho, ce l’ho, manca; quante figurine vuoi per darmi quella lì?-
Le dinamiche di scambio tra le femmine erano molto diverse e assai più tranquille rispetto a quelle dei maschi che le figurine se le giocavano e quando si insinuava il sospetto che qualcuno barasse al gioco, si poteva arrivare alle zuffe.
Fatto sta che, di soppiatto, ho cominciato anch’io a fare qualche raccolta. Mio padre sapeva, mi brontolava e non si è mai fatto complice. Per comperare qualche bustina, 10 lire, dovevo rinunciare a qualcosa della mia paghetta domenicale; 50 lire che mi dava il babbo e trenta che ricevevo dalla nonna Stella.
Per la durata della febbre da raccolta, un mese circa, rinunciavo alle Resoldor, 35 lire: piccolissime caramelle di liquerizia con forse una componente di menta forte che mi facevo durare per l’intera settimana. In quanto alla colla, la Coccoina che aveva un piacevole odore di mandorla, l’ho comperata una sola volta e poi su suggerimento della nonna ero arrivata a farmi una colla con acqua e farina unita a una polverina che mi aveva dato la nonna Stella.
Ad onor del vero non sono riuscita a terminarne che una sola raccolta con la complicità di un prozio, Mario Gualdi, fratello del nonno materno, che gestiva una cartoleria sotto il portico lungo, poco più in là del bar Dorando. Mario aveva una nipote di poco più giovane di me, Guglielmina, alla quale non lesinavano certo le bustine e, di conseguenza, accumulava doppi su doppi, che lo zio teneva in un cassetto, e spesso me ne regalava un mazzetto con il quale poi facevo scambi.
Li facevo persino con il cartolaio Forghieri che aveva la bottega sotto il portico di San Nicolò, all’altezza dell’attuale Banca Intesa. Forghieri, a rammentarlo oggi, era un particolarissimo personaggio: un adulto con uno spirito da bambino che, nei momenti di relativa calma commerciale, si lasciava coinvolgere e coinvolgeva volentieri a sua volta.
Io entravo in quella cartoleria con le figurine, ma poi, particolarmente nel periodo invernale venivo catturata dalle sue attività alternative e complementari, in particolare la creazione di maschere e mascheroni in carta pesta e anche dalla sua capacità nel disegno.
Da Forghieri, mentre si dilettava a sperimentarli, ho visto per la prima volta i colori a cera: ero andata a casa entusiasta e , non le figurine, ma quei colori mio padre non me li ha mai fatti mancare.
In definitiva il mio rapporto con le figurine si risolse con quattro tentativi forse non sufficientemente convinti di completare una raccolta e uno solo, con tematica storica, approdato alla fine. In effetti però, finito il gioco degli scambi, l’album passava dal comodino della mia camera al solaio, rimanendo chiuso lì per sempre.
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In età matura, in ambito lavorativo, lungo un percorso di ricerca, quasi inaspettatamente mi sono trovata a riconsiderare le figurine sotto due guide impareggiabili: Giuseppe Panini e Lucilla De Magistris. Mi ero portata a Modena per poter visionare l’archivio fotografico Orlandini, acquisito da Giuseppe Panini e, per farlo, occorreva l’autorizzazione di Panini stesso. È stato uno di quegli incontri che non si dimenticano: una persona giovialissima, curiosa che aveva voluto conoscere tutto del progetto al quale stavo lavorando: le ritualità connesse al ciclo della vita. Permesso accordato e, immediatamente, con una telefonata preannunciava la nostra visita a quell’archivio che si rivelò enorme: oltre ai negativi Orlandini e Bandieri, là erano conservate raccolte di ogni genere. Quando credevo che l’incontro stesse per concludersi, il signor Giuseppe con una radiosità espressiva tipica di chi sta per fare una sorpresa ed è certo che sarà graditissima, ebbe a dirmi che sicuramente nella sua raccolta di figurine potevo trovare immagini utili al mio lavoro di ricerca. Sullo stesso piano del suo ufficio, praticamente di fronte, una sorta di dependance, veniva conservata la sua raccolta di figurine. Mi trovavo di fronte ad una persona trasfigurata, un anziano che mostrava l’impagabile entusiasmo di un bambino sicuro di avere un tesoro godibile all’infinito. Un fiume in piena che mi raccontava come era nata questa sua passione che, sì, aveva una strettissima connessione con la sua impresa, ma era qualcosa d’altro che aveva a che fare con il suo essere dal quale aveva poi preso avvio anche l’impresa. Nell’illustrare trasmetteva curiosità, stupore e meraviglia. In quelle stanze invidiabilmente ordinate, dopo aver mostrato quelli che reputava i pezzi straordinari, compreso un baule da viaggio tappezzato di figurine, ebbe a presentarmi quella che teneva come una più che preziosa vestale: la signorina Lucilla De Magistris. Una signorina che doveva avere annoverato sessant’anni o forse qualcosina di più, ordinatissima, longilinea, eretta, capelli bianchi acconciati in onde discrete che incorniciavano un volto con incarnato chiarissimo, pulito, dai tratti gentili , con una camicetta bianca dal colletto in merletto sotto un cardigan rosa. Condivideva con il signor Giuseppe la passione per le figurine, tanto che ebbi successivamente a considerare il fatto che in qualche modo le incarnasse fisicamente.
Venni così affidata alla guida della signorina De Magistris che mi mostrò l’incredibile raccolta delle figurine Liebig, non le figurine che avevo maneggiato da bambina, ma qualcosa d’altro, cromolitografie cartonate in serie che sembravano appena uscite dalla stampa, attraverso le quali uscivano usi e costumi di inizio  Novecento. Da quel momento, ho riconsiderato l’incredibile mondo delle figurine. Non mi sono mai convertita al collezionismo privato ma, a quanti lo praticavano mi sono poi rivolta più volte e, sempre, ho trovato materiali preziosi.   
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1960 - 61 Bruno Bolchi la prima figurina Panini

1963- 64 Ardico Magnini sulla copertina dell'album "Calciatori Panini”

La celebre rovesciata di Carlo Parola, qui raffigurata sulla copertina di Calciatori 1996-1997

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Il prof Pietro Marmiroli ci regala questi bei ricordi su un’epoca dove anche le figurine avevano una grande importanza di vita per i ragazzini (pubblicato su VOCE del 17 marzo 2011). I ricordi sono dedicati all’Italia del maestro Meoni e alle celebrazioni primo centenario dell'Unità d’Italia nel 1961.

Era l'Italia del miracolo descritto da Bocca, dei viaggi in Urss offerti da Crotti, dei compagni di scuola del Sud, del libro Cuore e delle figurine
Il maestro Gian Marino Meoni veniva da Modena, era rimasto vedovo giovane e da giovane si era risposato. Dopo aver fatto la sua gavetta nelle frazioni in quell'anno mirabile 1961 era in servizio alle Manfredo Fanti, scuola elementare storica, unica in verità, di una cittadina baciata dal boom economico e dalla celebrità televisiva. Sì, perché tutta l'Italia catodica aveva già tifato per Lando Degoli e il suo controfagotto a "Lascia o raddoppia?" e Carpi era entrata"in orbita e s'ciao", proponendosi a "Campanile sera", ma rimanendo al palo, sconfitta dall'agricola Bracciano.
Niente paura per la cittadina neoindustriale perché Giorgio Bocca, giornalista di fama, avrebbe presto rinverdito la gloria locale portandola ad esempio e modello del "miracolo italiano" e dopo di lui l'imprenditore Crotti le avrebbe prodotto una fama mondiale, organizzando un'Odissea di viaggi Oltrecortina, alla scoperta del socialismo reale. Nel frattempo, in quel mitico anno ci riconoscevamo tutti italiani; anche i nuovi compagni, Di Sessa e Pellecchia, amichetti campani dell'Irpinia, appena arrivati in città e alloggiati in appartamenti di fortuna sotto i tetti del Castello, erano italiani come noi, anzi erano carpigiani.
Tutti insieme eravamo alle Fanti e il maestro Meoni per ricucire le due Italie che erano in classe ci educava al senso dello Stato unitario, leggendoci i racconti mensili del libro "Cuore", dove c'era ampio spazio per riflessioni sull'immigrazione "Dagli Appennini alle Ande", molto eroismo risorgimentale nella "Piccola vedetta lombarda", massicce dosi di coraggio nel "Sangue romagnolo", pacchi di altruismo nel "Piccolo scrivano fiorentino". Insomma a nostra disposizione c'era tutta una geografia di virtù italiche di pronto uso che avremmo potuto facilmente emulare.
Esse erano il frutto di un evento storico prodottosi nel sangue e nel valore, a seguito di una serie di guerre di indipendenza, da studiare analiticamente, date e luoghi a memoria, che poi il maestro ci avrebbe puntualmente richiesto. Per favorirci nel ricordo e nell'acquisizione, periodicamente la lezione di storia in classe veniva supportata dalla proiezione di diapositive didattiche che dovevano mostrarci i luoghi, le divise, i teatri di guerra, culla dell'italianità ancor recente.
L'iniziativa del maestro, di visualizzare per noi il Risorgimento, era un album della ditta B.E.A in quell'anno diede alle stampe un albo coloratissimo e seducente dal titolo "Italia '61".
E dentro c'erano proprio le facce di tutti: Mazzini il dubbioso apostolo dell'Italia repubblicana, il gringo macho Garibaldi, eroe di due mondi, l'azzimato snob tessitore di alleanze, Cavour, piemontese, falso e cortese. Picciotti e Menotti, i trecento giovani e forti che sono morti di Pisacane e della sua amica, spigolatrice in quel di Sapri, venivano proposti a tutta pagina in un mosaico che li affiancava ai veneziani resistenti di Fusinato, arresisi agli austriaci solo per fame, conseguendo l'onore delle armi, quelli del "pan ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca".
Chi restava fuori dalla collezione, perché scandalosa, era la bella cuginetta di Cavour, quella contessa di Castiglione che era stata immolata sull'altare della patria e nel talamo di Napoleone III per costruire un asse militare italo-francese durante la seconda guerra di Indipendenza.
Al suo posto, più virtuosa appariva Anita Garibaldi, agonizzante tra le braccia del guerriero, in fuga dopo la sconfitta della Repubblica romana e beccata a morte forse da una delle letali zanzare delle valli del Po ravennate.
Per comporre i quadri delle battaglie di Calatafimi, di Castelfidardo, al Volturno, l'incontro di Teano o la partenza da Quarto dei Mille ci volevano più figurine, incollate insieme, otto o dieci, ma l'effetto finale era garantito, sembrava un film in cinemascope, tant'era grande e colorato. Se te ne mancava qualcuna potevi tentare degli scambi di doppie con altri scolari, sopportando eventuali sovrapprezzi, se la figurina era considerata rara; qualcuno poteva chiederne anche cinque o dieci. Un altro modo per procacciarsene era il gioco del muro in cui si lasciavano scivolare giù libere, dopo averne messe alcune a terra, come posta iniziale.
Chi ne avesse ricoperta qualcuna avrebbe vinto tutte quelle ammucchiate. L'acquisto di quelle nuove aveva invece un costo, per l'epoca non esoso, ma neppure esigo: quattro pezzi valevano dieci lire, lo stesso costo di un wafer farcito, il Mignin. Tuttavia malgrado l'impegno, gli scambi, le contrattazioni si faceva sempre fatica a racimolare le trecento figurine e passa degli album e spesso finivano in granaio o in cantina incompleti, con qualche finestra aperta, come quella che avrebbe dovuto accogliere l'introvabile parlamentare Bettino Ricasoli.
Ma cosa importava poi se la raccolta rimaneva incompleta, l'Italia no, lei era tutta intera, unificata con i suoi eroi, le loro gesta, le imprese dei martiri di Belfiore. E tutto questo ci rassicurava, ci faceva sentire italiani.”
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