La strana compagnia
del Bar della Tazza d’Oro
di Mauro D’Orazi
Stesura iniziale 20 dic 2009 – 3^
edizione riveduta e integrata set 2016
Revisione n 47 dell’
01-09-2016
COME
LEGGERE IL DIALETTO CARPIGIANO
Norme di
trascrizione del dialetto
Le
norme di trascrizione adottate dal
“Dizionario
del dialetto carpigiano - 2011”
di
Anna Maria Ori e Graziano Malagoli
Tabella per facilitare
la lettura
a a
come in italiano vacca
aa pronuncia
allungata laat, scaat,
caana
è
e aperta (come in dieci) martedè,
sèccia, scarèssa, panètt, panèin
èe e
aperta e prolungata andèer,
regolèeda, martlèeda, taièe
é e
chiusa (come in regno) méi,
mé
ée e
chiusa e prolungata véeder,
créedit, pée
i
i come in italiano bissa,
dì
ii i
prolungata viiv,
vriir, scalmiires, dii
ò o
aperta (come in buono) pòss,
bòll, brònnṡa, pistòun, dimònndi
òo o
aperta e prolungata scartòos,
scatlòot, malòoch, tròop
ó o chiusa (come in noce) tó, só, indó
óo o chiusa e prolungata vóolpa, casadóor, móoi, óov, ṡóogh
u u
come in italiano parucca,
bussla, dubbi, currer, fiùmm
uu u
prolungata bvuuda,
vluu, tgnuu, autuun, duu
c’ c
dolce (come in ciao) vèec’
, òoc’
cc’ c
dolce e intensa (come in faccia) cucc’, scarnìcc’, cutècc’,
palpùcc’
ch c
dura (come in chiodo) ṡbòcch,
spaach, stècch
g’ g
dolce (come in gelo) curàag’,
alòog’, coléeg’
gg’ g
dolce e intensa (come in oggi) puntègg’, gurghègg’
gh g
dura (come in ghiro) ṡbrèegh,
siigh
s s
sorda (come in suono) sèmmper,
sóol, siira
ṡ s
sonora (come in rosa) atéeṡ,
traṡandèe, ṡliṡìi
s-c s sorda seguita da c dolce s-ciafòun, s-ciòop, s-ciùmma, s-ciòoch
**=M=**
La strana compagnia
del Bar della Tazza d’Oro
di Mauro D’Orazi
Breve
premessa
Noi
eterni ragazzi degli anni ’70 abbiamo sempre frequentato la Piazza e il Centro
Storico di Carpi; forse non siamo mai cresciuti del tutto, nonostante gli anni
che passavano inesorabili, i matrimoni (per molti più di uno), i figli (non
io), il lavoro, quasi sempre nel mondo della moda, del tessile, ecc…
Tutti
i giorni eravamo lì a vivere e respirare Carpi; a contribuire per creare,
conservare e trasformare il genius loci
della nostra città, che nel bene e nel male, nei pregi e dei non pochi difetti
è proprio la piccola-grande capitale della nostra esistenza.
Via
via che passavano gli anni eravamo sempre presenti a svolgere in nostro compito
di azione e di testimonianza in luoghi “eletti”. Luoghi che nel corso del tempo
(ci) sono scivolati via. Alcuni come la Pizzeria da Biagino (forse la prima di
Carpi) con l’entrata vicino alla Farmacia dell’Assunta, non esiste più da anni.
Nessuna traccia è riscontrabile di questo luogo che era per noi adolescenti un
punto fisso del pomeriggio, finiti (bene o male) gli studi. Oppure il vecchio
Bar Armagni con la gestione di Gerry e la miglior sala da bigliardo della città
(oggi in parte il nuovo bar Dorando)
C’era
poi il Bar Roma (per i signorini figli di papà), il vecchio Bar Dorando (per i
ragazzi più maturi di età), il Bar Milano (per i barbuti di sinistra in eschimo
verde); ma il punto magico, assolutamente interclassista, divenne il Caffè
Teatro, gestito dal grande Vittorio Garzon. In questo luogo, forse anche grazie
agli stupendi e inarrivabili panini alla piastra, riempiti all’inverosimile dei
migliori salumi, e serviti fino a tardissima notte, si respirava un’aria
insolita di libertà, di zona franca, fuori dai consueti schemi.
Lì
le differenze sociali, culturali, politiche, ecc… quasi scomparivano. Non ho
timore a dire oggi che l’autentico spirito di Carpi, della carpigianità aveva
per tanti aspetti sede in quel luogo, che fino a prima degli anni ’70 era stato
solo un posto da mediatori da mercati del giovedì e del sabato.
Allora
i gruppi di ragazzi si dividevano anche in base all’età; spesso bastava un paio
di anni di differenza per vivere in compagnie completamente separate.
Distinzioni
che poi sono rimaste nel tempo e che si sono attenuate solo in età matura.
Tutto
sembrava procedere al meglio, finché un’Amministrazione insensibile alle nostre
abitudini di vita ha cominciato sciaguratamente a chiudere sempre più il centro
storico alle auto e alle moto, mezzo quest’ultimo col quale io vivevo in
completa simbiosi e che mi ha accompagna in tantissimi momenti di vita.
Caro
Werther Cigarini, non te lo perdonerò mai questo abuso contro la mia vita! Non
perdonerò né te, né i divieti che ci hai imposto, il maledetto cordolo in Corso
Fanti e Corso Cabassi e la presa in giro del finto muro costruito in piazza
dalla famigerata Compagnia Koinè.
Ecco il vituperato cordolo,
simbolo delle nefaste azioni della Giunta degli anni
‘80
Queste
decisioni politiche che hanno portato alla chiusura della Piazza, hanno
influito tantissimo nella frequentazione del Centro Storico, assieme ovviamente
al trascorre stesso dei nostri anni, della nostre stagioni di vita e anche alle
inesorabili disgrazie e malattia di Vittorio. Tutti questi fattori ci hanno
costretto a cambiare abitudini e in parte i luoghi abituali di incontro.
ERA FINITA LA NOSTRA ETÁ DELL’ORO !
Epoca
che ancora rimpiango amaramente, soprattutto quando d’inverno subisco l’offesa
intima e dolorosa di una piazza vuota e spettrale.
Recentissimamente
ho pubblicato in modo provocatorio nella mia pagina di Facebook una foto della
Piazza degli anni ‘60 con le auto parcheggiate, proponendo di aprire il grande
spazio solo d’inverno dalle 20
in poi di sera, in accordo con i locali del Centro
Storico. Ho raccolto quasi 500 “Mi piace”, in poche ore; un numero
elevatissimo, il mio record; cosa che ci fa capire come a distanza di circa 30
anni il problema della chiusura è ancora molto sentito.
Primi anni ’80, la Piazza chiusa con ancora le linee
di parcheggio
che furono poi sabbiate per cancellarle
**
Siamo
in grado di pubblicare per la prima volta, dopo tanti anni, le foto degli
scherzi del misterioso Comitato Primo Aprile messi in opera la notte del 1°
aprile 1987 per prendere in giro, in rosa, gli sgradevoli e autoritari
provvedimenti dell’Amministrazione Comunale relativi alla chiusura del centro
storico. Spicca il famoso cordolo di Corso Fanti pitturato interamente di rosa.
1° aprile 1987 – un giorno in rosa
**
Proprio
coloro che la vogliono chiusa (ambientalisti benpensanti, i buonisti della piazza chiusa),
sono poi quelli che di sera, d’inverno, si guardano bene dal frequentarla.
Questa
è la situazione che piano piano ci portò a scegliere come luogo principale di
frequentazione la Tazza d’Oro.
Ma
andiamo con ordine.
Un bar, un refugium peccatorum
Se vi fosse capitato negli ultimi 20 anni di passare
all’inizio del Portico di Corso Alberto Pio davanti al Bar Tazza d’Oro di Donato (detto da qualcuno anche Tazio con
riferimento al nome del locale, verso le due del dopo pranzo, avreste potuto
osservare, seduti con le carte in mano, un vivace, sboccato, sbraitante e
rumoroso gruppo di antichi giovani carpigiani, un tempo veri leoni dominatori
della Grande Piazza e da anni quasi esiliati da crudeli decisioni di sadiche
menti municipali, nella angusta ridotta di questo luogo apparentemente senza
tempo.
Questo gruppo di bravi ragazzi, di cui anche io
faccio parte e che frequento con gusto e divertimento, erano costantemente
impegnati dal lunedì al venerdì per due orette a misurarsi senza pietà e
remissione alla briscola in 5 (detta anche briscola a chiamata o briscolone):
una curiosa variante del noto jeu de
cartes, che ha nella sua fase iniziale un
piccolo drammatico “giallo “: chi mai sarà il compagno di colui che ha chiamato
la carta e ha imposto il seme della briscola. Si gioca rigorosamente senza
soldi, non ce n’è più bisogno, viste le numerose e vistose cicatrici di ormai
lontane ferite da gioco d’azzardo, praticato dai vari esponenti del gruppo
nelle più svariate forme e intensità, in anni dove temperanza e moderazione
erano virtù sconosciute.
Oggi
si lotta solo per l’onore di dimostrare di saperci fare, di essere i migliori,
di essere chiaroveggenti nei possibili sviluppi del gioco.
Lo
spassoso teatrino delle quasi finte (ma non troppo, poi …) baruffe è sempre in
scena: battute, canzonature, sberleffi, soprannomi, severe sgridate a chi
sbaglia, ecc… In questo ambito, il tempo scorre molto molto lento, sembra non
dover passare. Tutto il gruppo possiede una consapevole e disillusa
rassegnazione di chi sa cogliere l’ineluttabile, ma nel contempo si ostina
ancora a voler vivere il Carpi diem della
gioventù. Qui, alla Tazza d’Oro, sopravvive forse l’ultima testimonianza,
l’estremo baluardo autentico e genuino di carpigianità in Centro Storico: una
significativa e sentita, ma, ahinoi, solo pallida eredità di una antica
tradizione di ustarìi, fumiini, cafè d ’na
vòolta.
Chi
transita nei pressi di questo locale, fra urla, schiamazzi e lazzi vari, può
sentire non di rado perentori e bizzarri ordini: “Ṡóoga la Bereniice!” …
“Gioca la Berenice!”… cioè… gioca il due di denari; oppure: “Mètt
éggh mò un brisculèin ind al cuul!” che significa buttare, per
stringente necessità, un’inutile briscola più bassa di una dominante già sul
presente sul tavolo.
La Berenice
**=M=**
Tutto cominciò negli anni ’90, quando un “Caffè
Teatro” da sempre accogliente e tollerante, asilo e luogo di libera e
multiforme frequentazione … dall’operaio all’industriale, dal tagliatore di
muri, al geniale scrittore locale, volle raffinarsi, vincere il provincialismo
e passare di grado.
Extra omnes! Fuori tutti ! Fu il grido deciso e poco rispettoso del valore delle
antiche tradizioni e della personalità dei numerosi cartai con i calli ai
polpastrelli delle mani a forza di girare e rigirare dei mazzi. Fu il grido
spocchioso, e alla fine quasi fallimentare, di una nuova Carpi spersonalizzata
che non riuscì mai poi a convincere e a decollare completamente, ma che certo
ebbe l’effetto deleterio e negativo di contribuire a distruggere molti usi e
costumi (assieme alla chiusura della Piazza) di un passato per altro oggi
sempre più difficile da vivere e da difendere.
Donato Marciello
Questo gruppo di profughi disperati senza più
patria, trovò tetto, sedie e accoglienza alla Tazza d’Oro da Donato, un ragazzo del ’53 di origine
lucana e che era conosciuto e ben voluto da tutti, avendo sempre lavorato come
cameriere in Piazza, inizialmente al Bar Roma.
Le origini del Bar della Tazza d’Oro
Nel 1974,
in principio, i tre mitici suoi colleghi del Bar Roma,
il Golden Team, con Gianni, Alcide e Valerio, rilevarono la Tazza d’Oro, forse il bar
più strategico di Carpi da Loredano e
Anna Maria Malagoli. Questi a loro volta
lo avevano preso da un rappresentante di caffè di Modena della Segafredo, che
lo aveva aperto nel 1969 proprio alla fine del Portico del Grano, dove prima
c’era una drogheria.
Allora
le grandi ditte di distribuzione di caffè attuavano questa polita di
espansione: trovavano la zona giusta e il posto, contrattavano le mura e poi
mettevano su un bar con persone esperte. Quando il locale veniva lanciato, lo
cedevano a una famiglia che lo gestisse, naturalmente oltre i soldi della
cessione, vincolavano anche le future forniture di propri prodotti.
Gli
esperti della Segafredo nel ’68 mandarono i loro uomini per le analisi
preventive.
In
quel tempo sotto ai portici di Corso Alberto Pio passavano nei giorni di punta
quasi 5.000 persone al giorno. Scegliere quella dislocazione fu dunque… più che
logico.
Nel 1969 il bar si era subito posto all’avanguardia
con prodotti innovativi per Carpi, una città da sempre conservatrice e lenta ad
apprendere le novità. Loredano portò per primo i tramezzini (che oggi tutti
conosciamo) confezionati con pane speciale bianco e morbido e farciti con una
speciale maionese fatta in loco tutti i giorni e un’insalata russa. Il pane
arrivava da Modena, finché non si giunse a un accordo col vicino Forno Sacchi,
che sperimentò e produsse la nuova varietà.
Dopo il cambio di gestione, l’anno successivo, nel
’75, anche Donato fu della partita, inizialmente come cameriere / barista. Ma
gli eventi della vita a un certo punto fecero sì che, dopo qualche tempo, i
vari soci si sfilassero via dalla gestione del bar e che lo stesso passasse al
solo Donato e alla sua famiglia: la moglie e i due figli.
La famiglia di Donato … con Maura, Stefano e Massimo
É a questo punto che il gestore fu contattato da Mauro
Orlandi e Fabiìn Carretti, ambasciatori plenipotenziari del manipolo di
fuggiaschi dalla Piazza. Strinsero solennemente il sacro patto dei due
tavoli: tutti i giorni, salvo il fine settimana, dalla mezza alle due e
mezza, questi erano riservati a loro e al gioco delle carte. Si partì con i tradizionali
cotecchi, briscole e tresette, poi prevalse la briscola a 5. Questo gioco,
infatti, comporta il coinvolgimento di un giocatore in più e consente scambi
dinamici continui. Insomma è più difficile annoiarsi, anche perché la regola
basilare del silenzio assoluto, che si dovrebbe tenere durante questo tipo di
partite, venne subito assolutamente abolita. Ognùun al póol ciacarèer cum al
vóol… cum a gh pèer! (ognuno può parlare come vuole… e come gli pare).
Il Mucchio Selvaggio
Il Mucchio Selvaggio era ed è composto da una fauna
eterogenea, ognuno di noi conosce gli altri da una vita e sa virtù, difetti,
atteggiamenti e reazioni, prima ancora che un al véera bòcca! (apra bocca) Esso
è una coagulazione di varie e antiche provenienze che andavano dai reduci del
bar Roma, e del Dorando ad altri ex del Liceo. Io penso che in natura non si
sia mai visto un tale concentrato di “Campioni
del Mondo” del passato o in carica e qualcuno pure del futuro. Il
lettore si chiederà di cosa… campioni, di quale specialità… bhèee… non ha
nessuna importanza di cosa, l’importante che lo fossero o che dichiarassero di
esserlo, scatenando la risentita rivalità altrui per sopravanzarli. Più uno
afferma di essere forte e più l’altro si impegna e gode a batterlo.
La formula perfetta per un bar:
tette e caffè
Questo agone permanente è uno dei segreti
fondamentali del bar e del successo di un locale (a parte quello, sempre
gradito, di aver un super gnoccone
scollato che si china leggermente in avanti a servirti un buon caffè
bollente).
Dorry e il Mucchio
Il
bar è così! Un surrogato, un simbolo rappresentativo della violenta lotta per
la vita, per la sopravvivenza, per il successo, per il ruolo preminente di
alcuni sugli altri, per infligger le più crudeli mortificazioni ai deboli e
agli sconfitti.
La
presa in giro e l’ umiliazione, che a turno tocca a ogni componente, deve
essere messa in conto fin dall’inizio e per il permaloso caratteriale ci
saranno davvero bocconi amari da mandar giù.
Siamo in partita: i giocatori e gli
spigolisti autorizzati sono in piena azione
-*oOo*-
I personaggi
Ma
vediamo la nutrita e variegata gamma dei personaggi. Impossibile elencarli
tutti, mi limito ai soli carichi pesanti, quelle da 11 e da 10 punti.
Cominciamo da Fabiìn Carretti, detto anche al Cichìin
(il piccolino). É sagace, impertinente e impenitente; è certamente la persona
meno adatta per raccontargli delle storie o per trarlo in inganno. Viaggiatore
ed esploratore, un tempo, dei mondi dell’azzardo e quindi profondo conoscitore
del “prossimo” e di ogni possibile lato debole e/o nefandezza legata all’animo
umano. Laureato all’ALMA MATER BRISCULORUM, cioè all’Università Italiana della
Briscola, magna cum laude e bacio in
fronte; è rarissima la volta che sbaglia una giocata. E anche quando ciò
malauguratamente accade, c’è sempre comunque alla base un validissimo motivo,
che verrà poi ampliamente sviscerato con un’opportuna lectio magistralis con lunghe e ripetute spiegazioni nel post
partita. Ha come un computer in testa che, inserendo tutte le informazioni
possibili, gli dà una quadro della situazione praticamente perfetto. Quando
posso, io mi siedo di fianco a lui per godermi l’Arte dell’Assoluto nella
briscola. Dopo una giocata difficile, mi guardava per avere la mia approvazione,
ciò in qualità di ricoprente la modesta mansione vice - spigolista: una
marginale figura senza diritto di parola, che si colloca nel gradino più basso
degli accettati attorno al tavolo. “Se il carico è là abbiamo vinto, se invece
il re è lì abbiamo perso!”. Io, che regolarmente non capisco nulla, gli
rispondo di sì, facendo finta di aver ben afferrato la raffinatezza del
pensiero tattico/strategico e della giocata.
Fabio Carretti
- Fabiìn
Il Toro
(Mauro Baraldi) è detto il Mago, il
Veggente o il Profeta; lui è
sempre avanti tre mosse nel gioco e riesce (ma solo quando ci prende) a
prevedere ogni giocata e quello che uno ha in mano. Si reputa un grande
stratega e giocatore, pertanto una sua sconfitta o vittoria in una partita
tirata all’ultimo punto, genera sempre forti tensioni, emozioni e polemiche,
talora anche terribili liti, urla e permali. “Gioca “spaadi” ! (Gioca
spade!)“ è il suo motto in italo-carpigiano. Il Toro ha inoltre mirabolanti
qualità su piani extrasensoriali: è capace di materializzare, con la sola forza
del pensiero e dalla volontà, le carte che gli necessitano, mentre esse vengono
distribuite dal mazziere, possiede spiccate e raffinate doti di veggente, nel
senso che lui le carte degli altri le “vede”
proprio, sbirciando scorrettamente in mano agli avversari o in modo scaltro,
attraverso l’immagine riflessa dallo specchio dietro il bancone del bar. Aahh
l’astuto Mago… davvero irresistibile! La briscola a 5 gli è anche forse
debitrice della vita; una volta mentre era al tavolo, improvvisamente gli prese
un gran brutto malore; fosse stato solo nel suo laboratorio… , ma invece era
nel posto giusto che gli aveva assegnato il destino e così, dopo brevi secondi
di panico degli astanti, davvero dopo pochi minuti era già ricoverato al Ramazzini,
dove lo hanno recuperato e revisionato come nuovo.
Qualcuno, dopo una sua giocata perdente, insiste,
chissà perché, sulla saggezza del proverbio: “Tagliamo al testa al … toro!”
Passò alla storia in gioventù, quando giocando a chemin de fer, l’avversario gli scoprì
beffardamente le due carte di data, pronunciando un soddisfatto “Huit!”
(otto in francese) e lui di rimando scoprendo le sue, ribatté con un trionfante
“Nuit!” per dire che aveva nove (neuf in francese).
Sublime!
Il Toro è titolare di una ditta che produce ottimi
maglioni di cashmere, di ottima mano anche doppio filo, copie quasi
perfette dei Ballantyne. Avere e indossare un Baraldamus Caṡmir (esse
pronunciato all’emiliana) era ed è segno di distinzione ed eleganza.
Il Toro - Mauro Baraldi
Graziano
Forghieri, mio fratello maggiore di
vita e compagno di giochi; detto anche il Biici, in quanto per tanti anni ha
venduto e aggiustato biciclette in Via Matteotti, èd fròunt a Maama Nèina (di
fronte a Mamma Nina). Sempre disponibile, generoso e capace (al
sà fèer i pée al mòsschi – sa fare i piedi alle mosche) … grande affabulatore: ti racconta
storie avvincenti e suggestive di esistenza vissuta e facendoti vivere in prima
persona le cose come se l’ascoltatore fosse davvero lì presente al fatto. È il Vice Mago … anche lui tenta vanamente
delle previsioni, ma con meno ambizioni, a raggio più corto e solo per la prima
mano.
Graziano Forghieri
L’esito del vaticinare spesso è disastroso, (“Mò
cumma faa l a ciapèer èggh sèmmper! Mò cumma faaaa l !!!!” – Ma come fa
a prenderci sempre! Ma come fa? - è il coro che si alza quando, quasi sempre,
sbaglia l’ispirata previsione); ma lui comunque non lo ammette mai, neppure
sotto tortura: ogni sconfitta per lui è bruciante, ma l’ammissione di un errore
lo è molto di più. Invece quando, di rado, indovina la divinazione, si
pavoneggia a lungo compiaciuto.
Ha la simpatica debolezza di essere permaloso e
questo fatto talora apre pericolose falle a favore dell’infido nemico di gioco
del momento, che spesso si diverte a tendergli abili trappole con calibrate e
progressive provocazioni. Una volta quando la fortuna si accanì contro di lui,
pur avendo bellissime carte, … indignato portò addirittura a far vedere la sua
mano di gioco nell’altro bar vicino “Il Milano”*, per ottenere la dovuta
solidarietà di fronte alla sfiga e all’affronto subito da un destino cinico
baro.
Imitò
una più antica e leggendaria usanza del noto Taras (Giancarlo Tartari)* che in un giorno di particolare
sfortuna, in piazza al Caffè Teatro, corse con le carte in mano a farle vedere
a colore che sedevano nel bar di fronte, singhiozzando disperato: “Guardèe
mò ché… s a s póol pèerder cun dal chèerti dal gènner! (Guardate qui!
Se si può perdere con carte del genere!)”.
Di fatti quando uno dei giocatori si lagna
eccessivamente, dopo aver perso con delle buone carte, lo si invita, per fagli
smettere la lamentazione: “Va móoi a fèer li vèdder al “Milaano”*! E
dàa gh un tàai!” (Portale a far vedere a quelli del Bar Milano -
all’inizio del portico di piazza - e smettila!)
*(nota
dell’autore: Il Bar Milano, sito in Piazza Martiri prima della Cassa di
Risparmio - Unicredit, noto per 60 anni come il “Bar dei Comunisti”, ha chiuso
definitivamente i battenti il 1°dicembre 2010. Per altro Taras, da me intervistato
nell’ottobre 2011, nega decisamente, ridendo di gusto, di aver mai fatto una
simile clamorosa azione).
Dorry (che indossa un Baraldamus Caṡmir), Graziano e
Donato
Alessio
(Alex) Pignatti è il più giovane, biondo e bella faccia
da attore, è detto Hitlerino; ha un gioco spietato che non perdona niente e
nessuno. Degno nipote di Fabiìn Carretti, ne condivide
l’abilità di comprensione e gestione del gioco. Dà ordini netti e decisi e se
il compagno sbaglia o non lo ascolta diventa una belva. Gli è stata attribuita
anche l’ambita qualifica stabile di campione del mondo, avendo vinto una
partita senza (incredibilmente) avere in mano né asso, tre e re !! Il fatto si
trova registrato nel libro internazionale dei Campioni del Mondo.
Armato di fine intuito matematico, ha scoperto
l’ormai famoso teorema detto “Della Chiamata” nella briscola a cinque. Ad esso
si sono interessati i dipartimenti universitari di logica di Princeton e
Harvard nei loro piani di ricerca avanzata. L’assunto, di stringente evidenza,
così recita: “S te ciàam cun pòoch, te póo catèer dimònndi, mò s te ciàam cun
dimònndi… te catarèe pòoch!” Se chiami con poco in mano, potrai trovare
molto nelle carte dell’altro giocatore prescelto; ma se chiami con molto,
troverai poco. Elementare …
Il
problema però è che non sempre dà un positivo effetto… Infatti non funziona per
chi non ha il giusto "intuito" nel capire, quando è il momento
giusto... èd ciamèer cun pòoch!! (di chiamare con poco).
Un
altro dei suoi principi è che se il gioco è praticato fra persone che sanno
poco; la loro scarsa abilità diminuirà ulteriormente.
Alessio Pignatti (Alex)
Ettore Farina è
un bel tipo! Buon giocatore; parla poco, ma sta molto attento. Svolge il
malefico ruolo di fine e subdolo “acuitore” di contrasti. E ogni tanto, dopo
minuti di silenzio, se ne esce, improvvisamente, con una battuta o con una
frase, a bieco tradimento, che fa montar su proprio la persona giusta e, con
chirurgica precisione, con esatto riferimento per la situazione più debole e
fragile in quel momento.
Mente
nel gioco, sapendo di mentire… in modo serafico e inappuntabile, da gran
signore.
Ettore Farina con alle spalle il
Principe
Il
Principe (Fabrizio Pezzetti) ha una
lunga storia di sontuoso “vissuto” alle spalle, ciò gli consente di ritenersi
su un cordiale e bonario piano superiore… noblesse
oblige. Sorseggiando con eleganza uno, forse anche due, bicchieri di
frizzantino, non di rado molto simpaticamente pontifica, per altro con una
certa saggezza, sulle più varie situazioni di vita o di gioco. Tutti gli altri
rassegnati, bontà loro, gli lasciano generosamente credere che egli stia
effettivamente pontificando. É affermato autore di due famosi libri gialli di
gran successo, ma … mai pubblicati, e attento compilatore (su richiesta) di
liste di ottimi e costosissimi ristoranti da frequentare in Italia e in Costa
Azzurra, locali da evitare accuratamente.
Il Principe con Mauro Orlandi
Lele Forghieri
(fratello di Graziano)… ricercato dead or
live e famigerato in tutto il mondo col nome di battaglia di BILLY… o anche di SchiacciaCachi… A settant’anni, indossati disinvoltamente, porta
con eleganza e naturalezza il codino e nessuno ha mai avuto niente da eccepire
al riguardo. Giocatore di non eccelse qualità, è difficile che riesca a giocare
se non a fine turno; infatti fa stabilmente parte della formazione B: quella
che entrava in ballo in caso di assenze per malattia o simili.
Spigolista
scorrettissimo e senza la minima discrezione: abitualmente insignito di
cartellino giallo e cartellino rosso, più volte espulso dal campo di gioco con
ignominia, pesanti offese e dure sanzioni. Infatti pur non essendo in partita è
solito rivelare ad alta voce, o con segni inequivocabili del braccio e della
mano (Pace e Bene +), situazioni riservate del giocatore a cui, dal di
dietro, stava guardando le carte. Ciò provoca ira e vituperi da parte dei
giocatori al tavolo e forte disapprovazione e censure dell’intero pubblico in
sala e la pronuncia della minacciosa frase: “Mò tè … ṡóogh èt?” (sottinteso “No!)
“Alóora tèeṡ!” (Ma tu giochi’ –
No! – Allora taci!)
Lele Froghieri e Buky (Bucchignoli
Giuliano)
Quando Lele è in partita, è solito pronunciare
all’inizio di ogni mano uno sconvolgente ANATEMA … che si concretizza in
terribili terrificanti frasi : “Adèesa a ve schiSSss cóome di caaKi madùur!” (Adesso vi schiaccio come dei cachi maturi!),
oppure “Adèesa a ve squantèeren e a ‘rbèelt al tevèel!” (Adesso vi
distruggo e ribalto il tavolo).
Nonostante le grosse dita che non gli consentono di
distribuire le carte in modo adeguato, la sua vera abilità sta però nella sua
resistenza a oltranza (anche conto terzi) a spellare per ore, lentamente e con
grande intimo piacere, i dannatissimi biglietti del Gratta e Vinci, acquistati
spesso in società dal gruppo nella vicina Tabaccheria di Gianni Luppi (detto al
Lèeder). Più volte vincitore del TelegRatto. Gratta tenendo minacciosamente dritto il mignolo destro, un
antico ricordo che gli lasciò il povero Barry, schiacciandoglielo, per cattiva
sorte, con la porta della cabina telefonica, presente tanti anni fa all’interno
del Caffè Teatro.
Lele è sempre alla ricerca della vincita di almeno
un VIOLACEO (efficace e affascinante nome che egli dà alla banconota da 500
euro per il suo particolare e ben riconoscibile colore). Nonostante l’impegno
profuso, però non ha mai avuto grandi soddisfazioni dal truffaldino e beffardo
azzardo di Stato, salvo (pare) uno striminzito grattugiamento di una pellicola
argentea che celava un ridicolo lingottino del valore di 50 miseri euro.
Lele Forghieri gratta e … NON vince
Lele
da qualche tempo si è messo ad andare in giro con un suo banco èd
ròoba vèecia (roba vecchia), più correttamente del riuso, Frequenta i
mercatini delle pulci, iniziative di finto scambio che hanno trovato sempre più
diffusione sul nostro territorio. Con il suo fedele Ducato da 700 mila km,
carica e scarica ogni genere di anticaglia, sicuro della verità dell’asserto
che… mezzo mondo butta via, ma l’altro mezzo non vede l’ora di ricomprarlo. Io
stesso gli cedo gratis e volentieri oggetti che non uso più. Lele al fa i
mercatèin (partecipa ai mercatini) di solito di domenica e puntualmente
al lunedì, durante la partita a briscola a cinque, ci rende ufficialmente
edotti con certosina ed epica precisione delle vendite fatte e del ricavo
ottenuto. Clamorosa fu quella volta che, con un entusiastico annuncio, ci
comunicò la sua incontenibile soddisfazione: “ÓOO! Aiéer a iò sfiorèe al
violaaceo!” (Ohh! Ieri ho sfiorato i 500 euro). Infatti gli erano
entrati 380 di vendite. Il fato ineluttabile volle che, proprio quello stesso
lunedì, una sorte amorevole e benigna gli concedesse di vincere proprio altri
120 euro col gratta e vinci. Il prestigioso traguardo viola era stato dunque trionfalmente raggiunto.
Il violaceo
La
sua abilità nella briscola a cinque, come prima ricordavo, spesso è fonte di
ampie e crude disamine, soprattutto da quando, in una ormai famigerata prima
mano, ancora al buio, un suo errore incredibile fece guadagnare, senza uso
di alcuna briscola, ben 53 (diconsi cinquantatre) punti in un sol colpo agli avversari. Mi sembra
ancora oggi di udire, disperato, l’ululare delle grida dei suoi sventurati
compagni di gioco, unito allo sghignazzo beffardo e compiaciuto dei vincenti.
Anche questo evento pare sia stato annotato sul Guinness dei Primati.
Un’altra
volta durante una partita, un suo avversario, Alex, stava pensoso quasi
sdraiato sul tavolo: il viso tirato, la bocca piegata da una smorfia quasi di
dolore, una mano teneva su la fronte con la testa fortemente inclinata da un
lato, mentre l’altra reggeva le carte aperte a ventaglio.
Dopo
qualche secondo di silenzio, Lele fa partire un sogghignate e compiaciuto: “Vèee,
omòun! A t òmm faat gniir al mèel d tèesta!” (Attenzione, caro il mio
Alex, che con le nostre abili giocate ti abbiamo fatto venire il mal di testa.)
Al
ché, prontissimo il perfido Alessio gli rispose di rimando:”Èd
sicùur a ne viin mìa a tè… al mèel d tèesta! S te gh iss la raprensentaansa
dl’Aspiriina … t andrèvv falìi!!!”. (Di sicuro non viene certo a te…
mal di testa. Se tu avessi la rappresentanza dell’Aspirina … andresti fallito
per mancanza di vendite.)
Giorgio
Maccari, al Tindèer, fantasista irruento della carta, è uno con la doppia nervatura, dimostra molti anni di meno di
quelli posseduti e sprizza energia in quantità. L è uun… scòomed, ma scòomed dimònndi (è uno scomodo, molto
scomodo) di carattere impulsivo e impetuoso, ha poca pazienza nel gioco e
spesso improvvisava a istinto con gli esiti disastrosi che tutti possono
immaginare. Messo alle strette dall’evidenza dei fatti, risponde con un
efficace miscuglio di idiomi: “A iò ṡughèe SWING !” … ovvero “Ho
giocato sull’onda del ritmo!”
Giorgio Maccari - Al tindèer
Con l’Ingegnere
(Gian Battista Paltrinieri) ci
conosciamo da sempre e siamo stati a scuola assieme per 13 anni dalle
elementare in poi. Nel gioco è anche detto La Manna … .
L’Ingegnere G.B. Paltrinieri
C’è
chi dà a questo soprannome il significato biblico di regalia o dono dal cielo;
infatti nonostante l’encomiabile impegno profuso e i lunghi studi teorici
effettuati come spigolista decennale, talora compie o azzarda una qualche mossa
disgraziata che ribalta lo stato delle cose, regalando la partita agli
avversari. Ma la vera interpretazione è più sottile e complessa: deriva dal
fatto che avendo iniziato a giocare con la qualifica di ingegnere della briscola
(ciò solo grazie a anni e anni di praticato spigolismo propedeutico, attento,
costante e diligente) a causa però di errori imperdonabili, prima… è stato
retrocesso a geometra e infine a semplice muratore della briscola. Siccome
nella vita professionale si è spesso avvalso della ditta di manovalanza edile …
“ Lamanna”… qualche maligno ha pensato bene di abbinargli il nome.
Per
lui quei suoi 40 minuti al bar erano preziosissimi e vitali. A differenza di Fabiìn
Carretti, ch al ne dirèvv la veritèe
gnaanch al dutóor (che non direbbe la verità nemmeno al suo medico),
l’Ingegnere ha una singolare e rara qualità, quasi incredibile al giorno
d’oggi: non riesce a mentire! Quando uno gli fa una domanda improvvisa a
bruciapelo, ANCHE SE È UN AVVERSARIO, a cui nulla va detto, diventa rosso e
rivela ogni più intima e nascosta verità segreta di gioco, provocando un boato
di risate. Negli ultimi tempi ha però acquistato malizia e talora stupisce i
compagni con chiamate temerarie o addirittura con qualche piccola, ma inaspettata
bugia.
Dopo
una pausa di riflessione, che lo aveva visto assente dal tavolo dall’ottobre
2014, è rientrato a pieno titolo, con minore emotività e più consapevolezza;
aspira ad abbandonare la categoria dei cosiddetti Peones.
***
Una
nota interessante è che la figura dello spigolista, in altri bar carpigiani
prende il nome di angolista o asistèint al tevèel (assistente al
tavolo). Esistono due tipi di spigolisti: con e senza diritto di parola. In
quest’ultimo caso si tratta sempre di personaggi altamente autorevoli o al
contrario di emeriti coglioni che di cui non si riesce a tenere a freno la
lingua malaccorta; chi appartiene a questa categoria può pronunciare qualsiasi
frase a commento alla partita, come se fosse un giocatore.
***
Glauco Belmondi
invece sfida il gioco della briscola come affronta la sua vita o una salita in
bicicletta o una partita di calcio come attaccante. Sempre deciso, positivo e
concreto verso l’obiettivo.
Ai
suoi danni è stato orchestrato da Fabiìn Carretti nel 2012 un subdolo inganno per assegnarli meno vittorie
nel librone annuale dei punteggi a tutto vantaggio dell’Ingegnere.
La
notte di Natale però l’Ingegnere, colto da senso di colpevole rimorso e
desiderio di ravvedimento, gli ha confessato l’orribile complotto.
L’inesauribile e sempre competitivo
Glauco Belmondi
Paolo
Colliva, il gioielliere, gioca di
rado, fa lo spigolista ed è solito impostare soporifere e letargiche tematiche
sui valori alimentati dei cibi o sulle ultime maratone effettuate, per le quali
riceve ampie e numerose complimentazioni dagli astanti, miste a una certo
compatimento, per altro non immune da una certa invidia per tali impegnative
prove.
Il gioielliere Paolo Colliva
Vanni Previdi
è un fine ragioniere e gioca come tale… asciutto e senza fronzoli, mirando al
concreto, in modo preciso e calibrato… punto dopo punto. Lasciare agli
avversari una mano con due o tre figure lo fa intimamente soffrire. Calcolatore
al millimetro, non di rado, con colpi di teatro, butta le carte per aria, dopo
qualche sballata giocata altrui. Ha
lunghi periodi di assenza, in base al mutevole umore.
Vanni Previdi
Gianni
Luppi, il tabaccaio, (Giannino) è stato fra gli acquisti più
recenti; per anni non aveva mai superato il grado di vice spigolista muto,
senza diritto di parola; curioso dei fatti insoliti della vita e dei più
bizzarri personaggi che circondano e affollano l’esistenza di ognuno di noi,
alla Tazza d’Oro si è subito trovato a casa sua. É assurto via via a un ruolo
importante di fornitore unico di pacchi
di Gratta e Vinci che spesso vengono acquistati in compagnia.
Viene
offeso spesso con l’epiteto di “Lèeder !!!”, dopo le croniche
sconfitte dovute ai suoi stitici grattini.
Dal
suo paltino provengono anche i mazzi
da gioco di carte piacentine Modiano. Nel 2016 si è dato al gioco attivo, con
esiti non proprio lusinghieri.
Gianni il Tabaccaio
**=M=**
Presenti solo a tratti, ma con forti qualità
distintive: Bruno (Gaianèela) Gagliani, gentleman player dotato di eleganza e
garbo, un vero signore che non si scompone mai, neppure nei momenti più caldi
Bruno Galliani
e
Buky (Giuliano Bucchignoli), il cui
gioco senza speranza passa per proverbio; se fosse un cavallo da corsa sarebbe
completamente suicida puntare su di lui. Su Buky si potrebbe scrivere un libro
sulle sfighe al gioco, ma non è questa la sede. Basterà ricordare però che per
parecchi anni è riuscito a tenere in piedi la famiglia… avendo venduto loro
anche le sedie. Quando Fabiìn Carretti vuole vincere al casinò o ad altre scommesse, punta sempre
esattamente all’opposto delle scelte operate da Giuliano.
Giuliano Bucky Bucchignoli
**=M=**
Gli Inguardabili – Ze
Inguàrdeibol
Francesco
e Giannino
Nel
2016 dopo un lungo tempo passato a fare gli spigolisti, sono entrati in
un’accesa, quanto deludente, fase agonistica (fortemente e intimanemente)
partecipata Giannino il Tabaccaio e il giovane farmacista Francesco Orlandi
(figlio di Mauro).
Spesso
compiono errori imperdonabili di strategia e di valutazione; quando poi si
ritrovano assieme, dopo la chiamata vincente, è uno spasso per gli altri
vederli giocare. Tant’è che di fronte all’ennesimo abominio, che li ha visti
sconfitti in una partita già vinta, eseguendo l’unica calata possibile su un
milione per… perdere, Alessio li ha chiamati Gli Inguardabili, con pronta traduzione in inglese maccheronico Ze
Inguàrdeibol, parafrasando il titolo di un noto film di gansgster di alcuni
anni fa: Gli intoccabili (The Untouchables) 1987, diretto da Brian De Palma con
Kevin Costner e Sean Connery.
I
progressi dei due sono lenti, talora penosi e di fronte alla richiesta di un
giudizio sul suo livello di gioco, Francesco si è sentito rispondere sempre da
Alessio: “Te nn ìi gnaanch a gli aasti!”
Non sei neppure alle aste; cioè a quegli esercizi di allenamento alla scrittura
che si facevano in preparatoria (in
paparuccia dal sóori del Sacro
Cuore in via Menotti) a 5 anni di età, prima di iniziare le elementari.
L’entrata
dei due in gioco ha poi fatto sorgere concretamente la categoria dei Peones; a questa miserevole schiera
appartengono vari giocatori scarsi, senza visione di gioco e quasi sempre
perdenti, perché non entrano nella loro testa le regole fondamentali della
tattica di gioco della briscola in cinque. Nel periodo estivo, coi campioni di
razza in ferie, i Peones giocano fra di loro col risultato di abbassare e
peggiorare ulteriormente il loro livello prestazionale.
È
in atto una guerra inesorabile fra le due fazioni; chi ritiene di sapere vuole
umiliare a sangue gli altri e questi ultimi cercano il riscatto a ogni costo.
Missing
Passiamo a chi è stato protagonista, ma a un certo
punto non ha più potuto partecipare.
Tralasciando il Grande
Esule… Millo, va ricordato innanzitutto Mauro Orlandi, attore di gran scena e interprete di tante gloriose
giornate all’insegna dell’allegria e dello scherzo; veniva spesso con i figli
per far veder loro una singolare e forse irripetibile scuola di vita. A un
certo punto si è trovato nel buio, incapace di sopportare le avversità, il
dolore e il duro peso dell’esistenza; gli siamo vicini per quanto ci è
possibile e gli vogliamo bene. Mauro era a capo della cosiddetta “Cupola dei
Milanisti” con Alessio e Ettore; costoro si incontravano abitualmente per
vedere in TV le partite della squadra del cuore; nel corso di queste riunioni
segrete ed esclusive, erano adusi ordire sordidi e subdoli inganni da
consumarsi, con occulto e artato coordinamento, durante le partite dei giorni
successivi, in specie, con voluta crudeltà, ai danni del Mago.
Mauro Orlandi
Una
altra volta a casa di Fabiìn Carretti, alle 13 e mezza,
suonano al campanello; la madre di Fabio stupita gli dice: ”C’è un taxi giù; ti
sono venuti a prendere!!!” Fabiìn anch’egli meravigliato, ma
curioso, non se lo fa dire due volte e sale subito sulla vettura, che lo
scarica dopo poco davanti al Bar. Cos’era successo? Mancando il 5° giocatore e
avendo bisogno di lui per la solita partita, era stato Mauro a inventarsi e a
organizzare il colpo di scena e appena sceso accennò un inchino a Fabio e gli
disse: “Un giocatore da briscola come te… NON può mancare e biṡòggna mandèer èl a
tóor a ca cun un taxi !! (bisogna mandarlo a prendere il taxi!)“.
Tre persone poi ci mancano; ci hanno purtroppo
lasciato per sempre: il grande piccolo Biṡiiga (Lauro Bisighini), spigolista puro al più elevato livello, con ampio
diritto di parola e osservazioni, con le sue battute taglienti e precise, Dino Cavazzuti con il suo tratto
elegante nel muoversi e nell’agire e il gentleman
old style Giovanni Lazzaretti.
Lauro Bisighini
Un assiduo frequentatore del bar era dunque Lauro Bisighini, “Biṡiiga” per gli amici e… ne aveva tanti di amici che oggi lo
piangono. Se ne è andato a 50 anni, nel 2005; aveva una moglie carissima e una
figlia che porta il suo stesso nome e che come per tutti i padri era in cima ai
suoi pensieri e preoccupazioni.
Valente
meccanico dentista, umanamente generoso e sempre disponibile ad aiutarti nei
momenti più difficili.
Una
persona profondamente corretta, saggia e giusta, costantemente interessata a
Carpi e alla sua vita sociale e civile. Una volta che lo conoscevi era
impossibile non avere con lui un rapporto di affetto spontaneo che poi spesso
si trasformava in amicizia e complicità di frasi, di battute, di frecciate
scherzose.
Disincantato
e dotato di un umorismo piccante e “spietato”, castigava ridendo i costumi
(così come ci insegna un vecchio motto latino).
“Teneva”,
ahilui, l’Inter che digiunò da coppe scudetti per ben 17 anni e questo fatto,
in mezzo a un fitto entourage di
milanisti, provocava spesso vivaci e godibili scambi di opinioni. Un vero
peccato che non abbia potuto godere della merita riscossa e in particolare
dello scudetto strappato alla Juve (vinto a suo tempo con l’inganno).
Me
lo vedo arrivare col suo scooter alle due alla Tazza d’Oro, togliersi
cappellino, sciarpa e guanti; non giocava quasi mai, ma aveva diritto
all’ambito titolo di “spigolista”, cioè di chi colui che siede a fianco dei
giocatori, ma con diritto di parola e soprattutto di critica.
Lo
ricordo nei tanti momenti conviviali passati insieme con le famiglie e gli
amici, allo Sporting d’estate…
Nell’ottobre
del 2005 era invitato un sabato sera a casa di mia moglie Anna per una cena e
per passare qualche ora serena con gli amici, purtroppo all’ultimo momento
aveva dovuto rinunciare…. aveva la febbre alta a causa dell’ennesima e
maledettamente inutile seduta di kemio… Poi le cose sono velocemente e
dolorosamente peggiorante. Riposa a Ponte Motta, accanto a suo padre, che tanto
ammirava. Non lo dimenticheremo mai. Grazie Lauro di averci arricchito con la
tua presenza e la tua amicizia.
Poi Dino
(Giuseppe - al Caplòun) Cavazzuti,
seduto al suo solito posto, il primo, all’entrata con le spalle al muro, quello
detto del Legionario, per avere il controllo della situazione. Sempre elegante
e inappuntabile con la perenne sigaretta in bocca e un fine braccialetto d’oro
al polso di solito di una candida camicia.
Giuseppe (Dino) Cavazzuti
Dovete sapere che sopra il Bar, adiacenti al Portico
del Grano, si affacciavano anni fa le finestre della nota e prestigiosa
Associazione degli Industriali. Erano le prime ore di un caldo e soffocante
pomeriggio estivo; le segretarie della associazione stavano lavorando con
impegno a finestre aperte. Ma non riuscivano a concentrarsi, venendo
disturbate, oltre che dall’afa, anche dal fastidioso e sconveniente baccano
proveniente dai tavolini della Tazza d'Oro. L'esasperazione raggiunse un punto
tale che, per impulso incontenibile, una di esse rovesciò un bicchiere d'acqua
sul mucchio sottostante, per abbassare un po’ i bollori dei vocianti scalmanati
che stavano giocando a briscola. L’improvvisa doccia toccò al povero Dino e ai
suoi vestimenti candidi (insomma… l éera vistìi d biàanch – era
vestito di bianco). Egli probabilmente pompato dai suoi amici, prese la cosa di
punta e la leggenda narra che chiamasse i carabinieri e che essi facessero
irruzione nella sede dell’associazione alla ricerca della colpevole. Le ragazze
si assunsero la piena responsabilità, invocando la legittima difesa con
attenuante dell’insopportabile calura. E così Dino non sporse denuncia, avendo
ottenuto le scuse pur a denti stretti
**
C’era poi il Nonno
Lazzaretti, una persona di una certa età, che si distingueva per la sua
disinvolta e specifica eleganza nel vestire, sfoggiando ogni grado e sfumatura
di marròun e tinte abbinate con gusto
e misura. Non mancavano mai quotidiani
riferimenti ai suoi anni; i commenti, anche i più provocatori, sembravano
scivolargli via senza effetto alcuno… della serie “parlatene anche male, purché
se ne parli e si scherzi, purché si stia assieme, si faccia squadra!”.
Il Nonno Giovanni Lazzaretti
Ci ha lasciati il 7 marzo 2016 con dignità; mi hanno
molto commosso alcune parole del suo necrologio, che è apparso nei giornali
locali: “Era suo desiderio
salutare caramente gli tutti gli amici, ringraziandoli con affetto per il tempo
trascorso insieme, le risate e le simpatiche discussioni.”
Che
dire di più?
Bè!
Una cosa simpatica ce l’avrei… J Primi anni ’70, il nostro Lazzaretti era “molto
avanti” e si era comprato niente meno che una Miura Lamborghini: IL MASSIMO!
Che invidia!
Una
mattina era alla Tazza d’Ora con sua splendida
auto bianca, rigorosamente parcheggiata, come d’obbligo per ogni carpigiano
dell’epoca, davanti al bar.
La splendida Miura bianca
All’amico
Paolo Setti(mo), che osservava
l’auto con grande interesse, a certo punto propone: “Dai! Fòmmia un girtinèin?”
Tenete
presente che la Miura è forse la più bella auto mai costruita e ha un
motore molto potente.
I
due salgono e Lazzaretti, accende e parte a tutto gas, ROMBANDO…
VVVVRRRrrrr… VVVVRRRrrrr…
Corso
Pio, Comune, via Berengario, poi mentre sta girando a destra per imboccare via
Menotti, incontra il terribile vigile Bartoli, che comincia a fischiargli e a
inseguirlo… come poteva, essendo a piedi. Il nostro pilota manco se ne accorge
e sempre sgasando allegramente, arriva in corso Fanti, per poi parcheggiare in
Piazza (trionfalmente) davanti al Bar Roma.
La
nostra Piazza era allora gioiosamente aperta al traffico.
Mentre
i due sorseggiano un meritato caffè per celebrare l’impresa, arriva Bartoli
trafelato, ansimante, esausto e tutto sudato; il tapino era corso dietro alla
Miura per tutto il percorso.
Gli
contesta una serie di trasgressioni e gli fa una bella multa.
Lazzaretti
lo guarda fra il sorpreso e il divertito: “Mò
chi? Mé? Sòoia faat… pò? Gniinta!”
E
poi tranquillamente paga la contravvenzione. Un Signore!… carpigiano…
**=M=**
1995 Afro Galeotti detto Biida - cromatore
Ma
anche Biida ci manca; la sua presenza alla partita era costante, nel
ruolo di spettatore. Rivestiva e rappresentava la qualità di irriducibile
osservatore di sinistra; una posizione, certamente ormai antistorica, ma
convinta e consapevole, a cui mai avrebbe rinunciato, anche dopo la scomparsa
del PCI.
Negli
anni ’50 - ’60, per gli appassionati di moto, al crumadóor uficèel (il
cromatore ufficiale) l éera Afro Galeotti, detto Biida, che aveva al
sò
budghìin (il suo botteghino) in via Matteotti, dopo il negozio dei
Forghieri, verso sud, quando la strada diventa più stretta. La sua bottega era
piccola e buia; quando entravi eri assalito da un odore penetrante di acidi e
di altre sostanze alchemiche fra le più misteriose e nefaste.
Il
carattere di Biida era impastato di impietoso sarcasmo. La sua azione di
dileggio era vivace e corrosiva come i suoi acidi fetenti e irrespirabili.
Erano frequentissimi gli sfottò fra lui e me, che eravamo su fronti politici
decisamente avversi e allora incompatibili.
Negli
anni ’60 ogni tanto andava a trovare, su in Municipio, detto al
Palàas èd Gòmma (il Palazzo di Gomma) per la quantità di gente che
veniva assunta, l’amico assessore Luciano Guerzoni, poi con una scusa lo faceva
alzare dalla poltrona del suo ufficio e subito vi si accomodava lui. “
Óoo… A vóoi pròopia vèdder cum a se stà su ’na pultròuna da asesóor! (Voglio
proprio vedere come si sta su una poltrona da assessore!”
Negli
anni ’80, mentre aiutava ad allestire l’ennesima Festa dell’Unità, venne una
disastrosa tromba d’aria e un lamierone lo colpì in testa. La testa di un
comunista par suo era ovviamente MOLTO dura e i danni furono limitati.
Quando
una delegazione dei capi del PCI locale, guidata da Campedelli padre, lo andò a
trovare in ospedale, disse subito loro: “Óoo ragàas! Adèesa a pòos diir quèll ch a m
pèer! A iò ciapèe ’na bòota in tèesta pèr al Partìi! (O ragazzi! Adesso
posso dire quello che mi pare. Ho preso una botta per il Partito!)“
Gli
ultimi anni amava frequentare la briscola a cinque alla Tazza d’Oro, dove
rivestiva il ruolo che gli era più consono… quello di “spigoloso spigolista”
con ampio diritto di parole e di provocazione su giocatori e fasi di gioco.
Un
brutto giorno nel gennaio del ’98 si sentì male e non lo vedemmo più.
Devo
dire che la sua vis polemica, la sua
ironia caustica e il costante duello a colpi di fioretto e di mazza mi mancano
molto.
**=M=**
Una nota a parte va dedicata a una misteriosa
anziana signora sulla settantina; ogni tanto ci veniva a trovare e si metteva a
seguire le partite, in silenzio e con attenzione. La chiassosa compagnia era
certo un buon antidoto alla solitudine; nacque subito un sentimento di
reciproca simpatia e da parte nostra di cordiale e umana accettazione. Qualcuno
gentilmente le offriva sempre un caffè. Nessuno però sapeva come si chiamasse e
fu subito soprannominata E-Velina,
prendendo spunto dalla mode televisive e dalle vallette.
Pare
fosse innamorata segretamente di qualcuno di noi… dal fascino (solo
apparentemente) tenebroso… (il Principe).
L’E-Velina
**=M=**
Pistolotto finale
Tutto sembra scorre lento, immutabile e senza fine…
in un ripetersi cronico di gesti, abitudini, tempi di vita… . Ma tutto può
cambiare a ogni istante, nulla è eterno… soprattutto passata una certa età
Eppure
anche oggi sono tutti lì, inguaribili adolescenti, col cuore di 200 mesi (e forse qualcuno è di troppo) attorno
ai due tavolini, con le carte in mano, il bicchiere o la tazzina di fianco,
come se nulla fosse, fra urla e frasi scherzose, come se il tempo non si
muovesse.
Tutto come sempre… dunque…
finché
si potrà…
Le
immutabili scene da briscola
Le belle carte Piacentine in uso
nelle nostre zone
Fasi di gioco nella briscola in
cinque.
**=M=**
Alcune frasi in dialetto d’uso
nella briscola normale e a 5
di Mauro
D’Orazi
revisione del testo e
della grafia del dialetto
a cura di Graziano
Malagoli
Il gioco della briscola in quattro o nella più
complessa variante in 5 (briscola chiamata) con le carte piacentine racchiude un
universo complesso di significati che si sono andati intrecciando alla
perfezione con il dialetto. Al punto che le due sfere - la terminologia e la
lingua del popolo - si sono perfettamente sovrapposte, sicché la briscola è
divenuta un "gioco dialettale" per eccellenza, fucina di espressioni,
vocaboli, modi di dire che hanno travestito i ruoli e le combinazioni imposti
dalle regole, attingendo per lo più ai codici della sessualità, dei misteriosi
significati dei numeri, dell'inganno e della dissimulazione.
Non
c'è da meravigliarsi, dunque, che alcune espressioni siano decisamente crude o
politicamente scorrette. Sono solo la sublimazione dell'aggressività insita
nella lotta tra chi alla fine deve vincere e chi per forza deve perdere.. Non è
un caso che il verbo più significativo della briscola, quello che esprime il
trionfo accompagnato dal forte sbattere della mano con la carta vincente, sia strusèer.
Significa "strozzare", ma a briscola non si è mai sentito di qualcuno
realmente "strozzato". O, almeno, non ci risulta.
**=M=**
Ṡóoga
un caaregh! = gioca un carico
da 10 o 11 punti.
Un
caaregh muntanèer = carico
montanaro cioè un carico che via via aumenta di peso; quando in una mano si
giocano alcune figure (fantini, cavalli o re) e la loro somma arriva (o quasi)
a fare il punteggio di un carico. È una mano che dispiace molto lasciare agli
avversari.
Al
gh à un caaregh adòos = ha un
carico addosso; quando un giocatore ha un carico che non riesce a girare al
compagno; ciò può comportare la sconfitta nelle partite più tirate.
La
manòon = Ironica definizione di
una mano quasi sempre decisiva, dove vengono giocati tre o più carichi. Deriva
dalle omonime opere Manon Lescaut di Giacomo Puccini, Jules Massenet e/o Daniel
Auber; dubito che i giocatori conoscano anche solo la prima, figurarsi le altre
due …
‘Na
maan spòorca è una
mano non sicura che facilmente sarà a vantaggio degli avversari. L’abilità sta
nel farla propria con “alte strategie”.
Andèer
(a) liss = Andare liscio
giocando una flinnga da zero punti.
Fèer
al ṡóogh dla lisòuna = Fare il
gioco della “lisciona”, cioè andare a liscio per diverse mani in modo da far
giocare l’ avversario, o perché si difetta di briscole e non si può fare altro,
o perché, astutamente a s tiira ‘na
traapla = si tende un trappolone agli avversari. Una tattica rischiosa che
si usa anche per il cotecchio.
Strusèer = Strozzare; quando si gioca il carico dello stesso
seme della prima giocata della mano, senza uso di briscole.
Strusèer
a la mutta =
quando la giocata viene eseguita e vinta senza proferire parola; è un vero è
proprio schiaffo agli avversari. A chi fa questa giocata a gh ridd aanch al cuul =
gli ride anche il culo.
Pronto a strozzare
Liss
ch a stròos = Liscio che
strozzo … si ordina al compagno che gioca per secondo, quando si è ultimi nella
mano.
Èsser
sòtta stròos = essere sotto
strozzo, quando c’è il pericolo che un avversario giochi un carico dello stesso
seme della prima carta giocata nella mano; a tale timore si risponde calando un
brisculèin. La frase viene usata anche nella vita normale per indicare
una situazione nella quale una persona non può agire serenamente e in libertà,
in quando si avverte un incombente pericolo a cui assolutamente occorre far
fronte con atti preventivi.
Ṡughèer
pèr al capòot = Giocare per il
cappotto; partita particolarmente ambita e sperata che porta far sì che la
coppia riesca a fare tutte le otto mani e i 120 punti con scorno dei tre
rivali. La posta diventa doppia. Ma se non si raggiunge l’obbiettivo, vincono
gli altri.
Ciamèer = Chiamare la futura possibile briscola in base
alle carte che si hanno in mano.
Si
può passare o chiamarne una più bassa; dopo il due si impostano anche il punti: A
ciàam al duu cun 62, 63, 64, ecc … puunt.
Ciamèer(e)s
in maan = Chiamarsi in mano;
altra ambitissima giocata dove il fortunato ha carte talmente belle che non ha
bisogno del compagno e così avrà ben 4 rivali; questa giocata, soprattutto se
come da regola fosse fatta in silenzio, provoca forte disorientamento e servirebbero
diverse mani prima di capire cosa stia succedendo.
Tastèer
in bòcca = tastare in bocca
quando si gioca una carta sotto strozzo di piccolo-medio valore, per vedere se
l'avversario ha carichi o briscole e osa giocarli.
Fèer
ssantùun =
servono 61 punti per la vittoria. Finire a 59 punti invece significa andèer
ind al buuṡ di caiòun = andare nel buco dei coglioni. O anche al
puunt dal caiòun = il punto del coglione, quello che manca per la
vittoria.
La
primma l'é di caiòun! = la
prima mano di una partita è dei coglioni, modo di canzonare chi andava subito
in vantaggio.
Sempre
per la prima mano c’è questa filastrocca: Chi fa duu, armàagn futùu; chi fa trii,
rèesta frii; chi fa quàater, va a teàater = Chi fa due, rimane fottuto
(perde il segno), chi fa tre, resta ferito (segno difficile da aggiudicarsi),
chi fa quattro va a teatro (è quindi facile che vinca). Una variante: chi
fa trii, al s lècca i dii = chi fa tre, si lecca le dita.
Dopo
una mano si può sentir contare: Trèddeṡ e trii dii ind al cuul … sèddeṡ = 13 punti e tre dita nel culo, fanno
16. Prego notare la triviale finezza, dove sèddeṡ in dialetto significa anche cuul
– vedi la ben conosciuta frase: tóo la ind al sèddeṡ! . Tale numero
trova spiegazione nella Smorfia napoletana e cioè … 16 = o’ culo.
A
suun òoreb! (cum un
quàai) = Sono orbo! Come una
quaglia, ovvero senza briscole. Situazione deprecabile che facilmente porta
alla sconfitta, se non hai un compagno ch al t tiin su, che ti tiene su con
le sue briscole.
Con
lo stesso significato: A suun in céeṡa o in Dòom = Sono in
chiesa o meglio … in Duomo (senza risorse, nelle mani della Provvidenza)
A
n gh ò gniinta in maan! = Non
ho niente in mano; quando si hanno delle brutte carte.
Ṡóoga
‘na ròssa ! o ‘na
chèerta vistiida = gioca una rossa o una carta vestita; sono le figure.
Ṡóoga
la Bereniice! Gioca la Berenice! cioè occorre
giocare il due di denari.
Il
due di denari è chiamato anche blaanda, oppure i òoc’ dla nòona (gli
occhi della nonna).
Óo incóo finalmèint a m
sèint importàant! Oggi mi sento importante!
Cuntèer cumme al duu
d còpp
Cumme
al duu d còpp cun brisscola bastòun ! Assolutamente nullo, come il due di coppe con briscola bastoni.
Mètt
èggh mò un brisculèin ind al cuul!
significa buttare, per stringente necessità, un’inutile briscola più bassa di
una già presente sul tavolo.
Si
può anche usare il termine fermèin o un sgniin cioè metterci
un fermino, un segnino, una briscola svestita che impedisce la strozzata.
Mètt
mò ṡò un fa-rabìir! Cala un “fa
arrabbiare”! Nel nobile gioco della briscola è un
briscolino messo per rompere il gioco degli avversari o anche una presa di
misura sulla prima carta giocata: il primo gioca il 6 di bastoni e il secondo
butta il 7 dello stesso seme, senza che ci siano ancora briscole in tavola.
Magnèer
’na brisscola =
significa invece calare una briscola più grossa di una già giocata.
Quando
si decide una tattica di attacco, con la giocata di briscole o carichi, si può
incitare la squadra con un trascinante: Dàai mò! ch a gh sunòmm l’Aìida!!! con
riferimento alla celeberrima marcia trionfale dell’omonima opera lirica.
Oppure: Adèesa a v fòmm cantèer Vìvere = una nota canzone degli anni ’30.
L
amìigh (uṡvìi) èd cal dònni =
l’asso di bastoni = l'amico (l’attrezzo) delle donne, per evidenti motivi; o
anche al ṡguravèddvi = il ripulisci vedove, anche qui ogni commento è
superfluo.
La Piita o la
Pitòoca =
l’asso di denari = il rapace raffigurato.
Al
bicéer o al
campanòun = l’asso di coppe = il bicchiere.
L
anṡlèin o l
angiulèin = l’asso di spade = l’angelo con la spada.
Cun
brisscola spèedi a viins i gusadóor = con briscola spade vincono quelli che hanno successo con le donne. Cun
brisscola bastòun a viins i caiòun
= con briscola bastoni vincono invece i coglioni.
Con
briscola coppe si ha: La maan di puòos = la mano dei ”puossi” (di coloro che sono dediti al
bere smodato di vino).
Infine
la
maan di sgnóor = la mano dei signori, quando briscola è denari.
A
briscola a 4 può succedere che chi deve distribuire le carte (il mazziere)
millanti minaccioso: L è da quàand a suun nèe ch a n pèerd mìa al
mè sèggn! = È da quando sono nato che non perdo il mio segno. Gli altri
giocatori lo guarderanno con evidente commiserazione, mandandolo senza indugio…
in
cal pòost = in quel posto.
Quando
le cose per una coppia si mettono davvero male, uno dei giocatori potrà dire
rassegnato: Pèers a s è pèers, èd viinser a n gh è vèers!! = Perso si è
perso, di vincere non c’è verso.
La
ṡughèeda dal cèrregh = la
giocata del chierico, quando si gioca il 7, un numero che ricorda
la fascia diagonale verde del diacono.
**
Chèerta Sèggn
* Aas èd brisscola labbra chiuse in fuori (quasi a
lanciare un bacino)
* Trii èd brisscola lieve deformazione della bocca
* Rè èd brisscola
occhi al cielo
* Cavàal èd brisscola alzata di una spalla
* Fantèin èd
brisscola punta della lingua
fuori velocemente
* 7 èd brisscola segno diagonale sul petto che
accenna alla gambina del numero
* 7, 6, 5, 4 e 2 èd brisscola pollice ed indice sfregati velocemente (dette fermini)
* Caaregh – Aas e Trii rapida apertura delle labbra (amm! carico
disponibile da mangiare)
non di briscola rigonfiamento guance (quando si è
impegnati - A suun piin)
* Assenza di briscole strizzatina
d'occhio o occhi chiusi.
**=M=**
Altre
frasi e modi di dire carpigiani e delle zone vicine.
Dòunca … che brisscoli àan i ṡughèe ? Dunque… che briscole hanno giocato?
A
iòmm faat (es)saanta. Tóorna mò a dèer fóora. Abbiamo fatto sessanta. Torna a distribuire le
carte.
Tè, tè te t tiin in mèint i puunt e mè
al brisscoli. Tu ti tieni in mente
i punti, io le briscole.
A psiiven ṡughèer a chèerti scuacèedi. Potevamo giocare a carte scoperte.
Nuèeter ’sa fòmm ia ind al maas?
Adèesa a vaagh a cuntèer. Noi
quanto facciamo nel mazzo? Adesso vado a contare.
’Sa faan i lóor … dèinter ? Quanto fanno loro… dentro?
A gh òmm
(es)santùun in maan. Noi abbiamo sessantuno in mano.
Chi stà a fèer (al chèerti)? Chi sta a fare (le carte)?
S a perdòmm quèssta, a vaagh a ca a
pée. Se perdiamo questa, vado a
casa a piedi.
Tè ! indù al fèe t l aas? Tu! dove lo fai l’asso?
A
gh òmm viint in maan. Abbiamo vinto
in mano.
Ii t sóolo ? (strichènnd ’n òoc’). Sei solo? (stringendo un occhio).
Se l aas l è ded sà a gh magnòmm al
caaregh, s l è ded là a iòmm pèers.
Se l’asso è di qua gli mangiamo il carico, se è di là abbiamo perso.
A suun in bulètta duura. Sono in bolletta dura.
A gh ò in maan trée flinnghi. Ho in mano tre scartine.
A gh è l aas in tèevla … andòmm a liss
fin a la fiin. C’è l’asso in
tavola… andiamo lisci fino alla fine.
A sii pròopia duu ṡugadurètt da staala
(o da strapàas). Siete proprio due giocatoretti da stalla (o da
strapazzo).
Te n sèe gnaanch tgniir al chèerti in
maan. Non sai nemmeno tenere le
carte in mano.
A psòmm dèer èggh a l’éelta. I vèdden (I gh àan in maan) tutt lóor. Possiamo darci a
monte. Vedono (hanno in mano) tutto loro.
Ṡóoga ’na baasa, che po’ a la léev mè!
Gioca una carta bassa che la alzo
io.
Ṡóoga un caaregh ch al vaaga da pèr
lò. Gioca un carico che vada da
solo.
Se al chèerti i gh issen al maan, i t
darèvven taant èd chi s-ciafòun! Se
le carte avessero le mani, ti darebbero tanti di quegli schiaffi!
A sòmm a la cróoṡ. Siamo alla croce (al quarto e decisivo segno).
A ṡóogh un caaregh fèmmna (o maas-c’)?
Gioco un carico femmina (o maschio)?
Bòoia caan, zio canta… mò
che cuul !! I vèdden tutt lóor. Boia cane… ma che culo!! Vedono tutto loro.
A gh fa aanch al vaachi vóodi. Gli vanno bene anche le vacche non fecondate.
A fòmm dóo partiidi e la bèela, s la
gh vóol. Facciamo due partite e la
bella, se serve.
Nòota al sèggn (o raag’) pèr
chi sà! Nota questa parte di una partita a favore di chi sa.
A gh dòmm ia viint al sèggn (o raag’)?
Gli diamo vinto questa partita?
Mò ch cuul! Mò indù ‘ndèe v a caghèer? Ma che culo! Ma dove andate a cagare?
A ṡóogh un caaregh e tè te gh in mètt
’n èeter. Io gioco un carico e tu
ce ne metti un altro.
A nn è mìa savéer queschè, uun al
caata al brisscoli e cl èeter i caaregh! Non è saper giocare questo, uno trova le briscole e l’altro i carichi!
Al pèer al ritràat dal fantèin d còpp. Sembra il ritratto del fante di coppe (si parla di
uno che è sempre col bicchiere in mano).
Vèe, a s vóol al quèert, viin èt? Ehi,
ci serve il quarto, vieni?
La primma a Bulòggna i s la quistiòunen. La prima (parte di partita) a Bologna se la litigano.
Ciamèeres viint in maan. Chiamarsi vincitori in
mano.
Ṡóoga quèll che al te stà mèel in maan.
Daa gh al duu ind al cuul!
Quàand a daagh fóora mè a dà fóora ’n ignoràant!
A sòmm a la bèela.
L’è ’na maan da sgnóor.
A iòmm pèers cun la ṡughèeda dal caaregh.
A gh ò in maan trée flinnghi.
Al sèe t quàant galètt a iò viint a cal ṡóogh chè?
Al gh à al còol lunngh ... al gh à al
mèel dal ṡlungòun ... di chi vuol
sbirciare le carte d'altri.
Te n sèe gnàanch stèer a guardèer!
Al cutècc’ - Il
cotecchio
De rerum Coteci aut Ludus perfidorum
Sulle cose del
Cotecchio, detto anche al ṡóogh
dal
tróoi
Io non sono mai stato un gran giocatore da carte, non
sono tagliato e quando uno lo capisce, è meglio rinunciare. Però di fronte a
un’ offerta di fare un partita a cotecchio non so dire di no. Infatti in questo
gioco si è da soli, senza la rottura di dover rispondere a un compagno esigente
e fastidiosamente critico nei tuoi confronti.
Il
giocatore deve dunque rispondere solo a sé stesso e chi sbaglia paga subito e
pesantemente gli errori commessi. Una breve premessa sulle regole a Carpi. Si
gioca in quattro giocatori con le carte da briscola. Le regole sono simili a
quelle del tresette, ma all’inverso; infatti il giocatore perdente è quello che
realizza più punti. Lo scopo del gioco è quello di non prendere, ma si ha
l'obbligo di rispondere al segno giocato. In ogni caso si deve effettuare però
almeno una presa, altrimenti si è perdenti. A volte si possono creare tacite
alleanze tra due giocatori per non permettere agli altri due giocatori di
effettuare alcuna presa; in questo caso, il punteggio vale doppio. Si può
verificare il raro caso di un giocatore che riesce a non permettere nessuna
presa agli avversari; il punteggio viene triplicato per i perdenti. Le carte
hanno un loro punteggio: gli assi valgono tre e le figure uno, chi fa l’ultima
mano si fa carico di tre punti aggiuntivi.
In
ogni partita i punti in ballo sono 35 (32 +3). Fino a 14 punti si paga una
busca, fino a 17 = due, fino a 20 = tre, fino a 23 = 4, fino a 25 = 5; dopo i
26, ogni punto una busca. Terminata la partita si assegnano le busche solo a
chi ha fatto più punti. I primi due che arrivano a 10 busche escono e perdono,
ma se un giocatore arriva a 20 perderà solo lui. Il gioco ha tante varianti
regionali e provinciali e di conseguenza tanti nomi: traversone, busche, rovescino, matassa, vinci-perdi, ass' e mazza, alla
meno, tressette a non prendere, tressette a perdere e ciapa no. Della
terribile variante carpigiana con il Pigugnino ne tratteremo alla fine.
La
simbologia del gioco sta nel riuscire con abilità e fortuna a schivare i colpi
e le responsabilità dell’esistenza umana.
Ma lo scopo sottile e intimo del gioco è il dileggio spietato
dell’avversario, fatto sia dagli altri giocatori, ma anche dagli spigolisti
autorizzati con diritto di parola. Il dileggio scatta in varie occasioni:
quando uno va a venti e paga per tutti, quando uno prende su degli assi, quando
uno paga molte busche in un singolo segno, ecc ... La derisione ha un
esplicarsi corale e progressivo che si protrae nel tempo.
**=M=**
Il
noto scrittore carpigiano Carlo Alberto Parmeggiani ritiene invece, con
autorevole parere, che il cotecchio, fra i veri giocatori, debba essere
considerato il "gioco delle carogne, ovvero al ṡóogh dal
tróoi", per cui ci vogliono delle autentiche e ferrate doti in
questo senso. Infatti basta poco per cambiare di nascosto un'alleanza e dare
addosso a chi è messo male in arnese, anche se è l'amico con il quale vai a
donne, oppure in gita. Il cotecchio è sì, il gioco del dileggio, ma soprattutto
è il gioco che genera un diabolico prestigio e stabilisce una gerarchia fra
conoscenti o amici. Infatti il "tradito", il perdente, anche se
bravo, e che magari fino a poco prima aveva goduto di rispetto e di alleanze
sottaciute dai più pavidi e meno capaci, spesso e volentieri si allontana
umiliato, da sconfitto, dai tavoli da gioco per giorni, se non per dei mesi
interi. Il Parmeggiani ama ricordare, con grande soddisfazione, che quando
mandò a venti il più grande giocatore che egli abbia conosciuto (Franco Benzi
lo zio di Tito Ligabue, che in terza mano sapeva già chi aveva certe carte in
mano), per la vergogna, il poveretto si rifugiò a San Remo per tutta l'estate,
tornando poi a coda bassa a settembre inoltrato, deciso a fargliela pagare in
ogni modo.
Il
vero gioco, per i veri giocatori, dunque non consiste nel salvarsi dai
"colpi e dalle responsabilità dell'esistenza umana", bensì
nell'imporre la propria supremazia e il proprio prestigio sugli altri e
soprattutto sul destino. Ciò anche quando questo non metta in mano che delle
brutte carte per la vita. È filosofia e ferrea matematica applicata, dove una
sola momentanea distrazione è sufficiente per perdere il controllo delle
giocate altrui e scatenare un tracollo emozionale. Tracollo di cui gli altri, i
più avveduti, i più bravi, i più carogna, ne approfittano in meno che non si
dica. Questo avviene anche correndo magari a volte il rischio, come talora è
capitato, di uscir fuori a far cazzotti. Chi gioca invece per solo salvarsi, lo
fa per passatempo ed è spesso definito ironicamente "estroso", poiché
dimostra di non capire il gioco, facendo giocate illogiche, se non addirittura
strampalate. Ma tanto, dopo qualche "raggio", se costui non è
cacciato via in malo modo, lui stesso si alzerà da solo e tornerà a casa, come
se fosse andato al cine.
**=M=**
Ma
ecco alcune delle frasi tipiche carpigiane che caratterizzano il gioco dal cutècc’
(… o anche cutègg’ come ci informa Franco Bizzoccoli, rivelandoci la
pronuncia arcaica in dialetto intra
moenia … nell’antico borgo fra le mura):
Cuacèer = coprire. Bisogna fare almeno una mano (fèer
‘na maan). Se non si copre, si paga una busca, se i giocatori sono due,
i punti sono altrettanti, fino al caso massimo e rarissimo dove un singolo
giocatore fa cappotto.
Forse
al Bar Mercato di Via Alghisi, si urlava .. "Te vèe pò a cuacèer da l'Adéele!"
... “Vai poi a coprire dall’Adele! ”
. Era una frase ricorrente, con un palese significato di pratica sessuale,
essendo questa Adele una nota e frequentata signora mercenaria di Modena,
quando uno, nonostante gli sforzi non riusciva a fare una mano.
Oppure “Te
vèe pò a cuacèer sòtt al pòordegh èd BorgNóov! “ cioè in Corso Fanti
dove c’è il Vescovado.
Andèer
a liss = andare liscio, un
termine derivato e preso a prestito dalla briscola. Qui lo si può usare per il
gioco di una carta bassa; se lo si fa poi in modo reiterato a s
fa al ṡóogh dla lisòuna = si fa il gioco della “lisciona”. Ma
espressione più corretta è tirèer al ṡóogh = tirare il gioco,
cioè non si prende per diverse mani, in modo da far giocare gli avversari,
sperando che le carte girino bene. Si tratta di una tattica furbastra e
rischiosa; se le cose andranno male, si pagheranno parecchi punti.
L’espressione pighèeres (piegarsi) ha lo stesso identico significato.
Fèer
ṡóogh = Fare gioco. Quando un
giocatore ha delle brutte carte alte, tenta da solo o in tacita compagnia di
non far coprire almeno un avversario, che in tal caso pagherà almeno uno.
Quando
hanno già coperto in tre, ed uno di questi cerca di far gioco e di non far
coprire il quarto, gli altri due devono tenere ben presente che: “A gh
è ‘na règola: a n s dà mìa ‘na maan a fèer ṡóogh pèr uun!” = C’è
un’altra regola importante ed è quella che quando si fa gioco bisogna sempre
tentare di non far coprire due giocatori, facendo loro pagare ben due busche.
Se invece solo uno non copre, certamente uno degli altri tre si sarà schivato almeno
tre busche di mazzo.
Aas
èd travèers = Asso di traverso.
Sadica pratica di smollare un asso al poveretto che ha giocato per primo una
carta di un seme a cui si è secchi. Di solito la mazzata viene accompagnata da
una falsa e melliflua costernazione: “Oh, a m in despièeṡ!”
Quando
uno cerca di coprire con un asso, lanciandolo in apertura di mano, e semmai un
altro ha il tre o il due secco, e quindi è costretto a prendere e farsi quindi
l'asso (cosa sempre massimamente indigesta) gli dice, a mò di sfida e di
consolazione personale: “Èt cuàac’ pò cun ‘na chèerta più éelta!”
= copri poi con una carta più alta - e quell'altro gli risponderà: “Mò
tèeṡ, te gh l avrèe sècch!” = ma taci che ce lo avrai secco, il due o
il tre (intuendo naturalmente la verità).
ṡughèer
‘na dècima = giocare una carta
decima. Dopo un paio di giri con lo stesso seme restano su almeno un paio di
carte di quel tipo. Chi le gioca tenta di mettere in difficoltà un avversario,
ma se nessuno prende, perché ha sbagliato i calcoli, saranno guai seri per il
provocatore.
La
decima franca è una carta che non
può essere presa dagli avversari, perché è la più alta rimasta in gioco di un
seme e nel caso di brutte carte, la sua presenza rende il possessore molto
inquieto.
Il colpo della cento pistole - giocata suprema in danno altrui. Si tratta di una
ironica citazione dumasiana dal romanzo I tre moschettieri “ Io mi avvicinai a lui, e siccome vidi che
offriva cento pistole per un sauro ... ebbi perduto il mio cavallo con nove
punti contro dieci (pensate che colpo!) “. La frase viene pronunciata con
grande e sadico piacere, quando uno sprovveduto giocatore, verso la fine della
partita, cala una “decima franca” e si becca tre assi di traverso, perché tutti
sono secchi a quel seme. Se si verifica questo drammatico episodio, lo
sbeffeggio sarà molto pesante con frasi del tipo: “ Óo, t èe ciapèe trii aas a cavàal
a la schiina o ind al gruggn!” = Hai preso tre assi
sulla schiena o sul grugno.
Alla
fine degli anni ’80, ai tempi d’oro del Caffè Teatro gestito dal grande e
sfortunato Vittorio Garzon, Giancarlo Tartari, detto Taras, ma anche Delon o
Delone per la sua avvenenza a cànone inverso, nel gioco cotecchio era la
vittima designata e costante di ogni partita: quasi tutti gli assi e le decime
erano suoi. Da ciò nacque, con un colpo di geniale creatività di Mauro Prandi,
questa frase ironica e memorabile derivata da un antico proverbio delle nostre
zone : “Dio al s sèelva da la siilta e dal tròun e dal dècimi èd Delòun!”
= Dio ci salvi dalle saette e dal tuono e dalle decime destinate a Delone, o da
lui giocate in modo improvvido.
Ciàapa
e pò tóorna = Prendi la mano e
torna a giocare lo stesso seme. Regola aurea del cotecchio. In tal modo
si cerca di rimanere secchi a un gioco o di non farsi trovare in mano con una
decima.
Èsser
sècch a un ṡóogh = essere
secchi a un seme. Situazione molto favorevole che consente di scaricare di
traverso sugli altri, assi o altre carte pericolose.
Andèer
a déeṡ = andare a 10. Quindi
perdere la partita.
Andèer
a vèint = andare a 20. Queste
eventualità è davvero il massimo della ignominia. Significa essere l’unico a
perdere per tutti. Il dramma per lo sventurato è davvero grande. La notizia
farà subito il giro della sala. Chiunque entrerà successivamente nel bar o nel
luogo della partita, verrà immediatamente informato del grave fatto, rigirando
il dito nella piaga: Óo incóo Giig’ l è andèe a vèint ! =
Ohh oggi Gigi è andato a 20. E ṡò èd cal gnòoch a tóor èl pr al cuul
= e giù di quel gnocco per prenderlo in giro. Il fatto, soprattutto se al
ṡugadóor l è uun d ghiggna = cioè reputato un gran giocatore, resterà
per giorni nella memoria e non mancherà chi alla prima occasione gli urlerà: Mò
tèeṡ tè che l èeter dè t ii andèe a vèint! = Ma taci, proprio tu che
l’altro giorno sei andato a 20.
Guèerda
che t ii andèe a Nóov =
Guarda che sei andato a nove busche. Al chè lo sfortunato giocatore, con finta
e stizzita sicumera, risponde con prontezza: "A n gh è probléema !!
DALCERO, al gh è stèe taant aan a Nóov!" = Non c'è nessun
problema, tale DalCero (un residente immigrato nel vicino comune dal sud) c'è
rimasto tanti anni a Novi di Modena!". Nel senso che gli altri giocatori
non si illudano, prima di andare a 10 e perdere .. deve ancora passare un bel
po' di tempo.
Dòop
Nóov a gh è la Móoia = dopo Novi c’è Moglia. Una frase a doppio senso
che in partita deve essere interpretata che quando si è arrivati a nove punti,
la successiva e decima busca metterà lo sfortunato o incapace giocatore a mollo
(a
móoi) nella acqua.
La battuta ... davvero notevole ... di origine ottocentesca era sempre citata dall'indimenticabile Mauro Prandi (elegante giocatore) e voleva tracciare un immaginario itinerario, dai riscontri però ben reali, da Carpi al Po. A piacere … sullo stesso tono ci si può sbizzarrire e aggiungere … T ii a la Zanzara, ristorante prima di Novi, al Puunt dla Préeda, per chi viaggia sulle 7/8 busche; mentre chi arriva a 20 busche, pagando per tutti, si indica, superata la Móoia, il mesto arrivo a S. Benedetto Po, con relativa immersione completa e infamante nell’acqua non certo profumata del Grande Fiume.
“Maagna, bèvv e tèeṡ e va a
ciamèer Malavèeṡ!” Mangia, bevi e taci e va a chiamare Malavasi.
È una frase usata per far tacere qualcuno e indurlo finalmente a
compiere un atto, ad esempio un bambino che continua a parlare anche col piatto
pronto davanti e non si decide a mangiare
Malavèeṡ ... s la va bèin l è un chèeṡ! Malavasi ... se va bene è un caso.
Il Parmeggiani ci aiuta a risolvere il "mistero" di
questi modi di dire legati al cognome Malavasi; nei suoi ricordi giovanili di
giocatore di cotecchio con persone molto più anziane di lui, Malavèeṡ veniva spesso citato nella
locuzione: "Ormàai t ii andèe da Malavèeṡ!" Questo succedeva durante
una partita durante la quale un giocatore era ormai sul punto di andare fuori a
10 o, peggio, a 20 busche.
Si intendeva significare che per lui la partita era ormai
finita, essendo stato, Malavèeṡ, a loro dire, un antico
personaggio carpigiano (1800 ??) che di mestiere faceva al buṡèer, ossia il
fossaiolo, il becchino al cimitero di Carpi.
Un’altra bella e tagliente frase ad effetto che si indirizza al
disgraziato perdente da parte di uno della combriccola, ma assente al momento
della disfatta e al quale è stata prontamente comunicata la lieta notizia,
anche tramite cellulare, è questa:
“ Óo, a iò sintìi che su a la
Sèera a tiira di bée vèint! A gh è da tgniires estricch!” (Oooh, ho sentito che su a Serramazzoni
tirano dei bei venti - 20- ! C’è da tenersi ben stretti). Pur colto di
sorpresa, prontamente lo sciagurato risponde … minaccioso e assetato di
rivalsa: “ Stà atèinti … ch a n gh ò mìa la memòoria cuurta!” (Stai
attento che non ho la memoria corta e prima o poi avrò la mia crudele
vendetta!).
Nel caso vincano partita dei giocatori non reputati particolarmente
abili, a scapito di personaggio esperti e blasonati, questi ultimi
masticheranno molto amaro (per lesa maestà) e noteranno acidamente: “L’aaqua
la va a la Sèera!”
(l’acqua, contro natura gravitazionale, va dalla pianura a Serra Mazzoni che è
in collina!)
Si può ricordare una scenetta che spesso
si ripeteva nei caffé del centro e della piazzetta, fino agli anni '80, durante
il gioco del cotecchio, allorquando un giocatore, chiamiamolo Mario, faceva una
giocata delle più balzane e chi ci capitava sotto, Carlo, reagiva in questo
modo:
Carlo: Tè te n sèe gniint ... T ii ’n
ignoràant!
Mario: A nn ofènnder mìa ... Ignoràant
te l vèe po' a diir a tò surèela!
Carlo: Óo, mòRRo ... Mè a n t ò mìa oféeṡ
... A n t ò mìa ditt t ii un cretèin! ... A t ò sóol ditt t ii ’n ignoràant ...
ch a vóol diir che "Sei uno che ignora"...
E in quel modo si ristabiliva una pace
armata al tavolo dei giocatori.
Il
noto Mauro Prandi, raffinato giocatore di cotecchio, quando aveva a che fare
con un tavolo di avversari non ritenuti particolarmente valenti, così
sentenziava: "A gh è più pèss che aaqua!" (Ci sono più pesci che acqua,
ne senso che è facilissimo gettare la rete o l'amo e fare una ottima pesca).
Può disgraziatamente capitare a
cotecchio di sbagliare clamorosamente una giocata o di rifiutate, pur avendo il
seme in mano (peccato massimo). Lo sventurato si può giustificare: "A gh
iiva 'na chèerta frudèeda!" cioè .. avevo una carta foderata,
nascosta e appiccicaticcia perfettamente sotto un'altra e quindi ...
invisibile.
**=M=**
Nota storica, testimoniatami da Attilio Sacchetti: negli anni ‘70
nella sede del Club del Corso di Carpi era presente un grosso campanello di
bronzo del diametro di 8
centimetri (scartato in chiesa per l'avvento delle Messe
post conciliari); il barista avvisava con rigorose scampanellate quando uno
sfortunato o incapace ṡugadóor era andato a 20 punti:
provocando uno sbeffeggio generale.
Franco
Bizzoccoli ricorda però che tale usanza fu ereditata dal cafè ustarìa “Garibaldi”
in Piazzetta. Un locale che fu a lungo il più vecchio di Carpi. Nei primi del
‘900 il ritrovo fu dotato, per lo stesso scopo, di un apposito un campanello,
regalato da don Bertani dla céeṡa dal Crisst al gestore Gigìin
Caròobi. In altri locali, in mancanza, si picchiava rumorosamente sui
bicchieri.
**=M=**
In
altre conventicole venivano, ma anche oggi, vengono tenuti specifici diari
giornalieri, redatti con minuziosa cura su appositi registri o quaderni con
annotati i vincitori delle Maglie Nere.
Ecco
le foto eccezionali del “Registro Nero dei 20 punti” usato nella bottega di
Tito Ligabue di Viale Carducci negli anni dal 1996 al 1998 e tenuto con
certosina cura da Carlo Alberto Parmeggiani.
**=M=**
Un
giocatore di grande capacità come Fabiìn Carretti mi racconta, in
confidenza, di avere l’abilità di ricordare e contare a mente le carte giocate
e i punti nei mazzi di ogni giocatore, via via che le mani si dipanano. Ciò
consentente di calcolare e calare con precisione i semi e le decime, cose
fondamentali per non pagare o quanto meno pagare il meno possibile. Con la
situazione sempre sotto controllo e con un appropriato smistamento degli assi e
delle figure, l’astuto personaggio tenta sempre, quando è possibile, di far
raggiungere lo stesso punteggio a due o tre avversari in modo che paghino, come
da regola, doppio o triplo.
**=M=**
Veniamo
al cotecchio con il Pigugnino, che
individua il fante di spade. L’etimo della parola pigugno non è chiara e,
nonostante le ricerche compiute, sono arrivato al massimo all’ipotesi in cui il
Parmeggiani suggerisce l’origine forse da pigòun. Un termine che nel dialetto
della bassa indica il picchio, che fa i buchi negli scuri con grave
disapprovazione e stracancheri al suo indirizzo del padrone che se li è pagati.
È gioco di carte diffuso soprattutto in provincia di Modena, in particolare a
Spilamberto e dintorni. Viene anche chiamato pigugno o pico (o, più raramente,
pigo) oppure pigòggn e pigugnìin nei vari dialetti della
zona. Prende il nome dal fante di spade (o di picche), che è appunto "il
Pigugno" e che riveste un ruolo importante nel gioco. Ogni zona ha le sue
regole, io narrerò SOLO del “mio cotecchio” che si giocava a Carpi negli anni
’60 al Parco (delle Rimembranze) èd fròunt a l uṡdèel = di fronte all’Ospedale Ramazzini e
negli anni ’70, ai tempi delle medie, coi miei amici Millo, Giorgio, Giuseppe,
Giamba, Biccio, ecc … . Se non ricordo male mi sembra che le uniche differenze
fossero che anziché a 10 e 20 busche, si uscisse a 11 e 21.
A
Carpi oggi tale versione è caduta in disuso, ma non ho mai capito il perché.
Al
Parco due giocatori si mettevano a cavalcioni delle panchine bislunghe di
cemento biancastro coi puntini neri (ancor oggi esistenti) e gli altri due di
fronte ai lati lunghi, appoggiati in bilico sulla canna della bicicletta. Il
gioco era molto duro e nulla veniva perdonato. Un contorno di ragazzi più
giovani seguiva con attenzione e soggezione le partite dei più grandi. Tutti
sempre attenti che non arrivasse il Vigile, cosa che provocava una veloce
sparizione del mazzo (che altrimenti sarebbe stato subito sequestrato) e un
fuggi fuggi generale. Pare fosse proibito giocare a carte, ma sinceramente non
ho mai capito il perché.
A
Carpi le regole, a netta differenza delle altre zone, sono uguali identiche al
normale cotecchio, ma con in più l’incomodo del Pigugnino che deforma e
modifica sostanzialmente il gioco e le sue strategie. Il fantino vale sempre
due busche che sono a carico di chi lo fa malauguratamente proprio, tale
giocatore può quindi essere diverso da chi paga le normali busche del giro; nel
caso un giocatore non copra vale uno.
Gran
parte del tempo delle partite era impegnato nelle operazioni del dare e del
non prendere la famosa carta, in più c’era sempre il pericolo costante d ingugnèeres al Pigugnìin = ovvero … l’ingugno del Pigugno da parte di chi lo aveva in mano: una umiliazione
davvero drammatica, dalla quale era difficile riprendersi psicologicamente con
prontezza.
Ma
in generale anche quando si rifilava il famigerato fantino, con meticolosa e
chirurgica precisione, al giocatore messo peggio, si provocano sentimenti di
odio risentimento e vendetta.
**=M=**
Al
Parco era anche in uso la crudele tradizione dal cutècc’ cun la scaarga
(cotecchio con la scarica). Lo sventurato che andava a 20 doveva pagare pegno.
Veniva fatto sedere a cavallo della panchina, gli si dava in mano il mazzo
mischiato e coperto. Mentre, chino, scopriva una carta alla volta alla ricerca
del Pigugnino, crudelmente gli altri giocatori lo battevano a mani aperte sulla
schiena, finché la carta maledetta non veniva trovata. Mi è capitato solo una
volta di assistere alla sconcertante scena, avevo 13 anni, ma mi è rimasto
impresso in modo indelebile nella mente.
A
m viin i ṡgriṡóor, sóol a pinsèer èggh !.
Fabiìn Carretti mi ha confermato la cosa,
ricordandomi che lui era uno dei protagonisti di questa feroce usanza e che
spesso in tre si mettevano d’accordo per giocare tutti contro tale Billy Dotti
per farlo arrivare a 20 punti e somministrargli, con sadismo giovanile, la pena
corporale prevista.
Sempre
al Parco negli anni ’60, le partite venivano accompagnate da un
sovradimensionato contorno di parolacce e di bestemmie, ciò per dimostrare che
chi giocava era già “grande”; si usavano anche frasi grevi e stupidamente
ridondanti del tipo: “A n t à da gniir domilla caancher, mas-cìin
e femnèini, acsè i faan raasa e a t in viin un milièerd!”
**=M=**
È
poi da segnalare, non a Carpi, ma in zone limitrofe, l’insana e idiota
variante, nata in tempi più moderni, del così detto "Pigugno Etilico".
Essa prevede l'assunzione di bevande alcoliche, in corrispondenza delle
tradizionali busche; questa variante che in tutto e per tutto resta identica al
gioco originale del luogo, si è diffusa particolarmente negli ambienti
scolastici o generalmente negli ambiti comunitari.
**=M=**
Il
Parmeggiani riguardo al Pigugno modenese, che a Carpi non si gioca quasi più e
comunque con altre regole, se non per le feste di Natale, in cui si ha a che
fare con donne e con bambini, ritiene che ciò sia accaduto perché a Modena e
dintorni sono più "gentili" e meno assatanati (c'è chi dice più
effeminati), dato che il loro modo di contare i punti, ossia le
"busche" da pagare, è molto più attenuato e meno esoso. Infatti, fra
i geminiani, che tu copra o non copra, che tu faccia 15 o 18 oppure 21, o 24, o
35 addirittura è sempre quella sola unica "busca" che tu paghi e che
magari aggiungi al Pigugno, che ti è stato scaricato con lieve cattiveria o
aggiungendoci una scusa. E quindi, a conti fatti, viene meno tutto il macheggio
di alleanze sotterranee e di giocate strepitose da vero stratega, per far pagar
di più chi hai deciso di punire o di mettere alla gogna. Cosa che invece a
Carpi, città di commercianti, gagà, arrabbiati e avventurieri, continua ad
avere un certo suo valore.
**=M=**
Conclusione
I
giochi del cotecchio e in particolare del Pigugno si devono usare se hai una
persona con cui vuoi disgustarti. Un amico mi ha raccontato che un'estate
coinvolse il padre e dei vicini di casa a giocare a pigugno; giocarono
parecchio e sèinsa remisiòun. Un giorno, dopo l'ennesima partita
finita ad aas èd travèers, uno dei vicini sentenziò: "St'èetra
vòolta a ṡugòmm pò cun i curtée piantèe insimma a la tèevla … !”…
“Quest’altra volta giochiamo poi coi coltelli piantati sul tavolo !”
Scherzava o diceva sul serio
???
**=M=**
NOTE:
* Il vocabolario della Gallia Cisalpina e celtico di Pietro
Monti - 1836 - Cisalpine Republic - 139 pagine dà il seguente significato al
nome del gioco:
Cotecchio = legno tarlato / fradicio.
Forse per indicare il lento, ma continuo aggravarsi della
situazione legata al punteggio dei giocatori (???). Si attendono conferme!!!
Lo joco de Cotecio
di
Anonimo Carpigiano
Parmeianus et Maurus HOratiorum invenerunt in tenebroso
ac occulto loco A.D.
MMXIII
Lo joco de Cotecio
Est
lo joco de Cotecio per certuni uno joco in veritate moltissimo de intrigo et
gaudjosamente ameno, si bene esso sia
considerato, ne lo intendimento de
le persone ammodo, uno joco abbominevole
et plebeo, sendo pure stato ne li
tempi antiqui nomato “Ludus perfidorum”, che vale a’ nostri giorni quanto lo dicere de “Joco de li bastardi et de le charogne”. Pererebbe
adunque esser per li tali mal dicenti uno joco de lo basso popolo carpense,
congruente a lo divertimento de’ charettieri, mechanici, homini per lo meno de fatica,
tali quali esser sono li manovali aut li vuotafossi, li barbetonsori, li
carpentieri, li cementarii, li
fachini, et similiter homini
blasfemi, et quindi uno joco da praticarsi de preferentia in buja taberna o
pure in loco de equal malsana specie, a lo riparo da li sguardi
de li infanti, de le femine pregne e de li timorati de Nostro Signore.
Per regula lo joco si have da facere intra quatro individui, seduti a’ lati de
tabula quadrata, che solazzano se ipsi per lo medio de uno mazzo de quadraginta
charte, dieci per ognuno, pittate in versicolori ne li quatro semi de spada, denara, copa
et bastone, de lo tipo de uso ne la
contrada piazentina.
Scopo de lo joco de Cotecio est, ad modum, ignoto a molte persone. Per altri de
li tanti versi de lo popolo minuto,
ossia per li molti semplici et quindi nati bene ne le
nostre palustridi contrade,
est credenza che sì fatto joco non have proposito diverso
de uno inocuo far trascorrere lo tempo in lieta
et chiasosissima brigata,
tanto quanto può essere uno modo de far giugnere sera, o vero la hora de lo pasto vespertino et indi la hora de compièta et de riposo per li sopra detti cementarii, vuotafossi, mechanici, et fachini. Altri tali, voltati
forse a mala fede, sono de lo aviso che lo detto
joco de Cotecio have come
intento uno infame et volgare ludo de
casa de piacere, viepiù praticato ne l’attesa
de godere de’ favori de matura cortigiana, su lo quale pur ricade lo anatema de lo Santo Papa che
risiede a Roma et de’ suoi
reverendissimi vicarii, non sapendo perhoc, li Santi Padri, che lo Cotecio
attira a sé più de una lanugine ordinaria
de consunto meretricio. Altri invece sostengono esser lo Cotecio
uno joco praticato con lo
proponimento de dileggio
de taluni figuri sconosciuti
et anco de lo amico de baldoria et de bevuta. Altri tali anchora
dicon de lo joco de Cotecio essere espediente exercitato
a fine de lucro disonesto, ne lo senso de
pecunia non sudata, et a gabbo de vanesio
jocatore, venuto fuorivia
in terra nostrana, per assidersi a la tabula quadrata
con modus jocandi baldanzito, et allo quale tanghero straniero, perlopiù
villico o porcaro, in vero et se capaci, lo bravo jocatore,
pur se scelerato, può sotrarre per scomessa, vietata da’ birri oltre che da papi, qualche
soldo da la sua bigoncia
rigonfia de ducati et bolognini.
Ciò tutto ben essendo
che, per ferrea regula de joco, ognuno de li quatro
jocatori, non havendo amici compari
et ne manco jocando le partite in copula quomodo aviene in altri jochi, have in animo de mettere a profitto de danario le facultà propie de
ragione et de valetudine a contare le charte
calate, et anco ne lo rapido scansare le
trapole et li perfidi trabuchi
che lo joco presenta
per mano proditoria de li altri jocatori, che pure habbino
la medesima pretesa
de guadagno, sempre cheo loro non
sieno li complici compagni de sopra
detto scelerato.
Detto
Joco de Cotecio have regole somilianti
a lo più famoso joco detto
“Treseptem”, si bene tali regole sieno adoptate per lo verso contrario,
sicut dicere ne lo
modo perverso, et ergo altresì vituperato da li homini de Santa Madre Ecclesia,
sendo la chosa innaturale, idest contronatura. Questo perocché lo jocatore vinto est colui che numera più punti, et adunque più prese de charte,
a fine de partita. Inoltre, a differentia de li vicini zeminiani
modonesi, che hanno ridotto lo joco de Cotecio, che in quelle terre nomasi Pigugno, a passatempo
per li garzoni de botega e per le donicciole che non trovano marito, tengasi tenuto per inteso che una regula fundamentale de lo
su detto joco impone qualmente a ogni singulo
individuo jocatore de accipere a se ipso almeno una jocata. Et quoque altra arcigna regula
dispone che allo seme jocato da
altri jocatori, a li quali est data la mano de
giro, si deva respondere con charta de lo
istesso seme, oviamente se lo seme da altrui
jocato compare tra lo mezzo de le propie
charte assegnate a cominciamento de partita. Etiam, se a fine de lo “ragio”,
o vero partita, lo jocatore
che non have proveduto a la debita
presa, detta altrimenti “copertura”, si aspetti per lo tanto de vedersi computati tanti punti de
poenalizatione, detti “busche” in modo volgare, quanti sono li jocatori che in eguale maniera habbino
mancato la consegna de accipere a se
ipsi almeno una singula mano.
De già
detto si est de lo mazzo de charte de
lo tipo in uso ne le terre piazentine. Or dunque ne consegue
che da le dette charte si prende lo spunto de
contare
li punti de pegno, asumendo come extremo
lo totale valore de li punti de uno mazzo intero, vale dicere 32 punti, a li quali si giuntano 3 punti de scorno per la
ultima presa per così giungere a quota
35, come da regula de joco.
Tenendo altresì vivo ne la mente che a pagar pegno ne lo joco de Cotecio
est soltanto
colui
che have computato
lo major numero de
punti et adunque
lo major numero de
prese a fine de partita,
o pure son coloro che habbino contati
un equale numero
de
punti a fine de jocata et ergo, per regula de joco, duplicati
aut triplicati. Et adunque
lo modo de la conta et de imporre quindi
le sopra dette busche, in parlata carpijana, segue lo andazzo hic et hora riportato: Fino a 14 punti si patisce de 1 busca;
fino a 17 se ne patiscono de 2; fino a 20 se ne patiscono de 3; fino a 23 se ne patiscono de 4; fino a 25 se ne patiscono ben 5 et, proseguendo più oltre lo contare 25, ogni punto
majore comporta una “busca” in dotazione,
sed fino al limitare de le 15 busche, majorate de altre busche 3, ne lo caso
de presa de la ultima mano.
Adunque
a lo
proponimento de giugnere
a la conta de lo numero de punti
conclusivo, have altresì da ricordarsi che ogni charta de lo mazzo have uno suo propio valore. Vale a dicere che de ogni seme de la charta, siasi de spada, de copa, de denara
aut de bastone, lo asso vale punti 3,
le figure, dette “charte vistide”,
come lo Re, lo Chavaliere et lo Fante che hanno vestimenti de lo rango che loro compete, et lo due et
lo tre de’ varii semi, li quali sono ignudi, valgono
punti 1, mentre le altre charte, dette “flinghe” in lingua familiale, valgono
un zero, adunque nulla come la aqua
de malva sovra li ossi rotti o le ferute.
Atque, in finis, lo jocatore che per mala jocata have havuto la disaventura de accipere per esso la ultima mano, vedesi assegnati punti 3, in
agiunta a li altri fatti antecedentemente in
corso de partita.
Lo joco de Cotecio
in fine si conclude alor quando almeno
due de’ quatro jocatori sopravanzano la soglia delle 9 busche per ciascuno,
aliter alor quando pur
anco uno soltanto jocatore sovrasta la
vergognosa soglia de le 19 et in
quello sventurato caso vassi ricordato che era pratica
d’uso degli astanti
spectatori de li
tempi antiqui dimandare canzonando a voce alta:
pro quibus verberat campana?... La quale dimanda in lingua vernacola nostrana vale quanto dimandare: Per chi sòunla la campana?... a lo indirizzo et a disdoro de
lo mal capitato jocatore et a subtile et ridanciano godimento de li altri jocatori et convitati.
Antiqua Schola Carpensis Coteciourum cum et sine Pigugno A.D. 1729
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