giovedì 6 settembre 2012

Piccola teoria sull’evoluzione del dialetto carpigiano - di Mauro D'Orazi - Carpi



Carpi - V122 del 21-11-2012    
ATTENZIONE: bozza sempre in progress  

che stòoria!

Riflessioni sul dialetto carpigiano

Piccola teoria sull’evoluzione del dialetto carpigiano

di Mauro D’Orazi

Arricchita da fecondi contributi esterni,
con intense considerazioni e testimonianze di vita.
Con un’apposita nota sul Kremlino carpigiano


Revisione e correzione del testo di Anna Maria Ori,
Luisa Pivetti, Giliola Pivetti e Graziano Malagoli
Stesura di base e iniziale di Giugno 2011

















Pubblicato, in parte, sul XXIV libro annuale “ANDÈM AVANTI – Con uno sguardo rivolto al passato” della collana “Carpi di Ieri” del Circolo Culturale Il Portico di Carpi l’8-12-2011.
Norme di trascrizione

Graziano Malagoli autore, assieme a Anna Maria Ori, del “Dizionario del dialetto carpigiano – 2011, ha curato il coordinamento complessivo del testo, la grafia delle frasi e delle parole in dialetto secondo le Norme di trascrizione, finalmente codificate, per la stesura del dizionario stesso.
Graziano Malagoli, Anna Maria Ori, Giliola Pivetti e Luisa Pivetti hanno contributo alla revisione del testo e della sintassi.

Le Norme di trascrizione adottate sono quelle di pag. XXII del “Dizionario del dialetto carpigiano - 2011”
di cui, qui di seguito si riporta il testo integrale.

“Il vocabolario adotta una trascrizione delle voci e della fraseologia modellata sulla grafia italiana, seguendo una tradizione lessicografica che ha quasi sempre impiegato adattamenti a tale grafia. In particolare, si segue il sistema di trascrizione semplificato messo a punto dalla Rivista italiana di dialettologia. Lingue dialetti società.
Le vocali i, a, u sono rese come in italiano, mentre la pronuncia aperta di e, o è indicata con un accento grave, la pronuncia chiusa con uno acuto; il fenomeno della lunghezza vocalica è particolarmente marcato nel carpigiano e per indicarla si è scelto di ripetere la vocale, sprovvista di accento, onde evitare l’accumulo di segni diacritici sovrapposti, come – nella tradizione – il circonflesso o il trattino: bièeva, butéer, fagòot, arióoṡ (e così per i, a, u: sintìir, cavàal, futùu). Le vocali è, é, ò, ó sono distinte solo sotto accento, mentre in posizione atona sono segnate e, o.
L’accentazione si indica con l’accento grave, salvo i casi citati di é, ó (dove tale accento denota anche la chiusura della vocale), quindi ì, ù, à: ad es. scarnìcc’, fisù, bacalà.
Di norma, per semplicità, non si accentano le parole piane (ad es. bussta), ma soltanto quelle che hanno l’accento sull’ultima (arvùcc’) e sulla terzultima sillaba (ṡàberia); allo stesso modo, di norma (escluse alcune forme verbali come dà, fà, dì) non si accentano le parole monosillabiche (csa, al), a meno che contengano é, ò accentati per indicare la qualità aperta o chiusa (, èl, bòll).
Per indicare sempre con sicurezza le semivocali, senza complicare la grafia con segni estranei al sistema italiano (ad es. usando j), si avverte che, nella parola, i, u a contatto con vocale hanno valore di semivocali, in caso contrario recano l’accento (mìa, tùa).
Sono rese come in italiano le consonanti p, b, t, d, m, n, r, l, v, f. Per le palatali e le velari si adottano le norme grafiche italiane. Le affricate palatali sono indicate con c, g davanti a e, i: ad es. ducèer, bòocia; con ci, gi davanti ad a, o, u: ad es. ciàapa, baciòoch, paciùugh, gianèin, giocaatol, argiulìi; con c’, g’ davanti a consonante e in fine di parola: ad es. òoc’, curàag’. Le occlusive velari vengono indicate con c, g davanti ad a, o, u: ad es. catèer, còpp, cun, galupèer, góob, guàast, (tuttavia – questa volta in ossequio alla
tradizione – si è usato il segno q per aaqua, daquèer e simili); con ch, gh davanti ad e, i, di norma davanti a consonante e in fine di parola: ad es. bachètta, bèech, béegh, sanghnèer, stanghèer, lèegh, liigh, brighèer. Per quanto riguarda le sibilanti dentali, come è noto l’italiano non distingue graficamente tra sorda e sonora: seguendo l’esempio di alcuni vocabolari
nazionali, indichiamo con s la sorda e con la sonora: ad es. baṡèer.
La laterale palatale è resa con gli davanti ad e, a, o, u: ad es. striglièer, butigglia, manigliòun; con gl davanti ad i e in fine di parola: ad es. ègl’idèi. Quanto alle nasali, abbiamo – oltre a m, n – la palatale gn, tutte rese come in italiano, anche in finale di parola: ad es. fuggna, paagn, staagn.
Le consonanti intense vengono indicate, come in italiano, mediante il raddoppiamento della consonante semplice: ad es. bagaiètt, aluminni; in caso di digrammi, come in un paio di esempi già visti (butigglia, fuggna), viene raddoppiata soltanto la prima lettera.
Infine, quando un nesso grafico non rappresenta un unico suono, ma la successione dei suoni indicati dalle singole lettere, esso viene sciolto con l’inserzione di un trattino: ad es. s-ciòop, s-ciafòun, s-ciflèer.”




















Tabella per facilitare la lettura

a      a come in italiano                           vacca
aa    pronuncia allungata                         laat, scaat, caana

è      e aperta (come in dieci)                   martedè, sèccia, scarèssa, panètt, panèin
èe    e aperta e prolungata                      andèer, regolèeda, martlèeda, taièe
é      e chiusa (come in regno)                 méi, mé 
ée    e chiusa e prolungata                      véeder, créedit, pée

i       i come in italiano                            bissa, dì
ii      i  prolungata                                  viiv, vriir, scalmiires, dii

ò      o aperta (come in buono)                pòss, bòll, brònnṡa, pistòun, dimònndi
òo    o aperta e prolungata                      scartòos, scatlòot, malòoch, tròop
ó      o chiusa (come in noce)                   tó, só, indó  
óo    o chiusa e prolungata                      vóolpa, casadóor, móoi, óov, ṡóogh
u      u come in italiano                           parucca, bussla, dubbi, currer, fiùmm
uu    u prolungata                                  bvuuda, vluu, tgnuu, autuun, duu

c’      c dolce (come in ciao)                     vèec’ , òoc’
cc’    c dolce e intensa (come in faccia)      cucc’, scarnìcc’, cutècc’, palpùcc’
ch    c dura (come in chiodo)                   ṡbòcch, spaach, stècch
g’     g dolce (come in gelo)                     curàag’, alòog’, coléeg’
gg’   g dolce e intensa (come in oggi)       puntègg’, gurghègg’
gh    g dura (come in ghiro)                    ṡbrèegh, siigh

s      s sorda (come in suono)                  sèmmper, sòol, siira
ṡ      s sonora (come in rosa)                   atéeṡ, traṡandèe, ṡliṡìi

s-c    s sorda seguita da c dolce                s-ciafòun, s-ciòop, s-ciùmma, s-ciòoch














che stòoria!

Riflessioni sul dialetto carpigiano
Piccola teoria sull’evoluzione del dialetto carpigiano

di Mauro D’Orazi

           È stupefacente il fatto che, nonostante il dialetto sia dato per morto, o quasi, questa antica pianta “butti su” ugualmente e in continuazione nuove gemme, forse non di grande qualità, ma pur sempre dignitose e legate al vivere e al sentimento attuale.

Mi sono soffermato più volte su questi neologismi di uso comunissimo ad esempio chèerta èd créedit, telefonèin, ciavètta (chiavetta USB), gratèin (un cartoncino del Gratta e Vinci), ecc.
Ciò denota che a ogni buon conto, anche nel suo difficile stato attuale, il dialetto è vivo --- VIVO. Non in buona salute, ma VIVO e ciò che oggi sembra maccheronico o un po’ forzato, non rappresenta altro quello che domani sarà normale e accettato da tutti. Il dialetto vive e si trasforma, in continuazione; non è quello di ieri e nemmeno quello di domani. È il destino dinamico di tutte le lingue.
Chissà fra 100 anni aràans sarà forse l’unica parola per indicare il frutto (e non il “rancido”) e per capire portogàal  bisognerà sfogliare il dizionario MALAGOLI-ORI?  Il fenomeno è come sempre nelle lingue … inarrestabile.
Dopo aver letto tutto il proto-dizionario del Saltini 1830-40, azzardo poi una mia teoria che espongo qui per la prima volta. Anche se debbo in ogni caso anche tenere conto della scarsa affidabilità di questo pur interessantissimo manoscritto.
In ogni caso sono pronto, con sconsiderato sprezzo del pericolo, a ricevere critiche, colpi e strali.
È un’analisi da dilettante e istintuale, che si basa sulla lettura del testo sopra ricordato, sullo scritto di Scaglioli del 1886, sulle poesie di Mario Stermieri (il più alto poeta carpigiano), su quelle di Ubaldo Urbini, pregevole autore “aristocratico”, su tanti altri ottimi poeti tra i quali spicca e si distingue Loris Guerzoni. Fondamentale poi mi sorregge la robusta base del mio mondo familiare e amicale, in cui io ho vissuto - bene e a mio agio - dalla fine anni ‘50 a oggi.
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Mi preme segnalare alcune caratteristiche e punti fermi che mi aiuteranno in questo percorso.
Il dialetto sgnurèel (signorile) o, come dico io sulla base del sentire familiare, sgnurèe (dei signori) riguardava i nobili, i benestanti, i possidenti, la borghesia media e alta, coloro che avevano studiato, ecc … Si trattava di una parlata pulita, distinta, misurata, come si confaceva ai prestigiosi ceti di riferimento. È qui evidente l’inizio della fase di italianizzazione del dialetto. Quasi tutti i nostri poeti a cavallo dei due secoli più o meno lo usano e quando Mario Stermieri se ne discosta lo fa con un’irresistibile parodia del dialetto della plebe ignoràanta.
Non bisogna confonderlo con dialetto cittadino, quello parlato dentro le mura e appartenente alle classi più popolari, spesso molto povere.
Per descrivere questo modo di discorrere bisogna usare molti aggettivi: vivace, arguto, caustico, maleducato, spietato, ironico, sbeffeggiante, irriverente, ecc …
Ma soprattutto è in continua mutazione e specializzazione, non tanto nelle singole parole, ma nei modi di dire. Le osterie, le contrade, i luoghi di lavoro, le bande dei ragazzini, ecc … tendevano a crearsi proprie formulazioni che in certi casi prendevano poi piede in territori più vasti.
Si poteva riconoscere anche la parlata da una contrada all’altra. Io ho diretta testimonianza di quella de L’Ùultma, cioè dell’ultima strada prima delle mura a nord est, oggi Via Giordano Bruno, con frasi particolari di uso diffuso fino a 20 anni fa. Frasi taglienti e spietate contro lo sprovveduto di turno e che ho cercato, con molti esempi, di riportare puntualmente nelle mie ricerche, come modelli di pregnante e ruspante carpigianità.
Addirittura in certi fumini … birocciai, muratori o in genere avventori con spiccate personalità, durante le bevute, il gioco delle carte o delle bocce INVENTANO veri e propri linguaggi cifrati, quasi del tutto incomprensibili ai frequentatori occasionali o a chi doveva essere escluso.
Ahinoi ! Queste preziose e curiose realtà sono praticamente scomparse e le parole e i codici dispersi … nel Viale dei Cipressi. Questo anche perché fra le tante qualità e vocazione di questi personaggi non c’era certo la penna e il calamaio, ma al pèecher dal lambrùssch e la chèerta da ŝóogh.
Come prima accennavo il ritrovato proto dizionario, attribuito a Giuseppe Saltini (1796 - 1863), rappresenta una straordinaria eccezione di un diligente e curioso scrivano che voleva forse lasciare qualcosa ai posteri (oltre alla nota Cronaca di Carpi). In esso troviamo purtroppo non modi di dire, che ci avrebbero fornito uno specchio delle società di allora, ma solo lemmi per lo più dimenticati.
La lettura di questo testo non porta a certezze, ma fa nascere ancora più dubbi da risolvere.
Al dialetto cittadino si contrapponeva quello arióoŝ delle varie frazioni di campagna. Le pronunce, in particolare le vocali, spesso sono diverse: chelò e chilò. I dileggi sono reciproci e costanti.
Il dialetto della campagna, come ovvio, registra un infinito catalogo di parole, modi di dire e di proverbi legati alla dura e incerta vita dei campi, all’allevamento degli animali e alle situazioni meteorologiche.
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Molto interessante è stato anche capire dove passava il confine territoriale fra la nostra “e” e la “a” mantovana (lavèeda - lavàda).
A Rovereto di Novi si usa e si usava già la “a”, ma per testimonianza diretta posso affermare con certezza che la nostra “e” si fermava fino agli anni ’80 al curvone delle cosiddette Botteghe Ferrari, pochi chilometri prima del paese appena ricordato.
Presso le Botteghe Ferrari c’era un paltèin, importante non solo per in tabacco, ma anche per il sale e addirittura per il chinino da usarsi contro la malaria. Fungeva anche da punto di ristoro per uomini e bestie.
Ho conosciuta e parlato tante volte con l’ultima discendente della famiglia Ferrari: la signorina Anita (1900-1992). Ebbene il suo dialetto era essenzialmente carpigiano, con un’intonazione decisa e a tratti tagliente, accompagnato da un sottofondo di leggera cantilena querula.
Quel paltino segnava dunque un importante confine etnico linguistico.
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Non posso qui non ricordare un  famoso un aneddoto degli anni '50, quando una signora, che veniva da la Bàasa e si vergognava un po' della sua parlata con la "A" aperta, andando in tabaccheria dal Ŝambèeli (le sorelle Zambelle – Carretti, in viale Carducci) chiese … un pachèet ed tabech, perchè a dire tabach a gh parìiva ed ciacarèer in larèeg!
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L’appassionato di dialetto Gian Luca Vecchi sottolinea che ciacarèer in strètt (parlare in stretto) ha nella nostra zona due significati. A Carpi vuole dire parlare in dialetto stretto, cioè bene e velocemente; ma in alcuni dei paesi vicini questa espressione ha invece il valore di una bonaria derisione nei confronti dei carpigiani. Il motivo va ricercato nella parlata della nostra città; infatti, sebbene il nostro dialetto possieda entrambe le intonazioni di e ed o, quando il Carpigiano parla in italiano pronuncia tutte le e e le o sempre aperte (cioè con accento fonico grave). Questa inflessione attira a volte le prese in giro degli abitanti di quelle città (ad esempio Modena) dove invece si rispetta la pronuncia italiana ufficiale, che ci rimproverano di ciacarèer in laaregh (parlare in largo) rispetto a loro. Da notare la presa in giro con l’uso di laargh: parola usata naturalmente nel mantovano e zone limitrofe, ma non certo a Carpi, dove si direbbe lèeregh.
Zone del dialetto nella provincia di Modena
cartina non troppo corretta
Il prof Giorgio Rinaldi, noto pittore ed esperto dei nostri dialetti, contesta la validità della cartina trovata su Wikipedia. Ritiene che la carta dei dialetti sia tutta da rifare: nell'area rossa il sassolese figura come il vignolese (ricorda che sua moglie - bolognese - ha scoperto a Sassuolo, con piacevole nostalgia, i dittonghi di tante parole proprio come quelli che usa lei, es.: dutòur, arzdòur, ecc ..., fonemi mai usati a Vignola, sebbene molto più vicina al confine bolognese).
A Vignola si dice bicicláta e non biciclèina come a Modena e nemmeno bizicláta come a Savignano.
Il territorio savignanese è diviso in tre aree fonetiche differenti e sia là che nel vignolese e a Guiglia al fòrbes (le forbici) sono i sgiurèin (da cesoie), termine non usato in area modenese.
Ancora i dialetti del Frignano sono diversissimi tra loro: nell'area fiumalbina vi sono accenti veneti e lucchesi; a Polinago hanno un frignanese molto arcaico e diverso dal sestolese ecc. ecc.
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Tutto ciò premesso, arrivo al nocciolo della mia ricerca e delle mie ipotesi; noto, azzardo e cerco di delineare grosso modo quattro epoche dialettali, tenendo conto che per il ‘700 (e prima) non ho i mezzi culturali per addentrarmi e indagare. Ho anche raccolto vari pareri, impressioni, ricordi di vita di autorevoli personaggi carpigiani o di città vicine, che intendono dare il polso su sentimento possa in questo momento interessare il dialetto. Al lettore poi spetterà in piena libertà trarre le proprie personali conclusioni.

1) Fase preunitaria – Il dizionario del Saltini è della prima metà dell’ ‘800 e, a ben osservare, non mi sembra di esagerare se noto che quasi i due terzi delle parole in esso contenute NON esistono più … nemmeno nelle curiosità, neppure nella memoria. Segno evidente, sempre che tali vocaboli siano effettivamente carpigiani, che si è vissuto un grande cambiamento da quell’epoca in poi. Anche se il testo non è del tutto affidabile, la tendenza mi sembra in ogni caso chiarissima. Lo scrittore carpigiano Carlo Alberto Parmeggiani nota che il dizionario del Saltini sembra in molte parti un po’artefatto in funzione forse del desiderio di nobilitare, con apporti semantici a volte astrusi, una parlata dialettale che resta incompleta come lingua. A tale riguardo penso valgano le parole di Pasolini quando afferma che la parlata dialettale emiliana manca della completezza di altre lingue dialettali, come il napoletano, il veneto, il siciliano, ecc. Ciò perché essendo l’Emilia una regione di snodo e di incrocio fra il nord e il sud, molte parole che darebbero completezza alla lingua sono invece mediate dai dialetti nordici, oppure meridionali, se non addirittura ricalcati sulla lingua nazionale. Si pensi ad esempio al fatto che il verbo “amare”, in tutte le sue coniugazioni da noi non esiste ed è sostituito con il “volere bene” … a t vóoi bèin … che non è la stessa cosa come ricalco dalla lingua italiana. Questo fatto ci unisce all’illustre napoletano, dove si trova la stessa caratteristica verbale.
Ricordiamo lo strano caso anche alla parola “arcobaleno” che nessuno fino ad ora è mai riuscito a trasporre in dialetto carpigiano.
A tale proposito, visto che la cosa era davvero curiosa, ho fatto  un’ampia indagine per cercare di risolvere il mistero. Le risposte sono state varie, ma insoddisfacenti e inattendibili. L’unica decente sarebbe èerch in céel,  che pare si usi nel reggiano e simile nel bolognese, ma che deriva pari pari dal francese Arc en cièl. L’eclettico Parmeggiani, disperato e incapace di farsi una ragione di tale angosciosa e deplorevole mancanza, con sprezzo delle critiche e indomita capacità creativa, ha coniato ex novo una fantasiosa definizione, di cui però ironicamente vanta e reclama il copyright: bliŝgòun d culóor (una sorta di cascata, di tabooga di colori su cui scivolare con l’immaginazione e la fantasia).
Il prof Giorgio Rinaldi di Vignola aggiunge che i suoi nonni di area fonetica vignolese chiamavano l’arcobaleno èrch bdàgn, arco pedagno, ossia ponte tra il tempo brutto e il sereno.

2) Fase dal fine ‘800 – anni ’60. Con l’Unità d’Italia e con il progresso sociale travolgente, anche Carpi si trova collocata in una società sempre più in movimento politico, culturale ed economico; molte cose sono cambiate velocemente e fra di esse anche l’esprimersi e il dialetto.
È presumibile che i ragazzi del 1850 e ’60, nati dopo l’Unità, abbiano modificato il modo di parlare preesistente. Nasceva un tipo di “normo” dialetto, che definirei per il mio sentire …“classico”. Esso durerà, sia pure con lentissime evoluzioni, fino al boom economico di Carpi. Ancora oggi le persone più anziane lo parlano, ricordando i tempi passati. L’individuazione di questa parlata si basa su una mia disamina della prosa di Ubaldo Urbini (nella mia ricerca pubblicata da Voce di Carpi nel 2010 “Un biglietto d’auguri dal passato” - 1886), sulla lettura di vari esemplari de La Rondine (periodico satirico a cavallo dei due secoli), sulle poesie di Stermieri, Urbini, Namis, Micin, Forghieri, Guerzoni, Luppi, ecc  … sui contemporanei Libera Guidetti o Roveda  … fino via via ad arrivare ai numeri unici satirici di tante Pasque e Natali, ecc . Questo linguaggio scritto è quello che io chiamo al dialètt sgnurèe (o sgnurèel) signorato o signorile: cioè il dialetto dei signori e di coloro che avevano studiato o comunque … cittadino di classe medio alta. Ma per me era anche quello molto simile che ascoltavo nella mia famiglia e dalle persone che frequentavo. Ciò che leggevo o ascoltavo era per me il parlare SOPRATTUTTO dei “grandi “e degli “anziani”;  anche se mi accorgevo delle piccole differenze fra città e campagna, o fra benestanti e persone modeste, o fra le varie contrade di città, o fra le varie compagnie dei bar.
Tutto sommato piccole discrepanze che nulla toglievano, ma che anzi arricchivano il corpus del parlare carpigiano di quei tempi.
È insomma il mio dialetto di riferimento, che mi serve per capire cosa sia cambiato e cosa si sta modificando. Un dialetto questo che, con mio gran dolore, sta scomparendo con il graduale passaggio all’Oriente Eterno dei miei concittadini.
Franco Bizzoccoli, grande esperto di carpigianità, ricorda che il pittore poeta Nando Miselli (in arte Namis) era solito collocare la fine di un certo dialetto “classico” nel momento in cui nelle case di nuova costruzione non si mettevano più i ganci per attaccare i cavalli. Ganci che si possono ancora vedere in alcuni muri del centro storico
Sempre Bizzoccoli nota che una certa evoluzione nel parlare locale in una Carpi, precedentemente poco abituata a frequentazioni furastéeri, la si ebbe anche con la 1^ Guerra Mondiale, con l’affluenza e la frequentazione nella nostra città di truppe provenienti da ogni parte d’Italia, sfollati e prigionieri.

3) Fase del benessere diffuso – Dalla fine degli  anni ’50 a Carpi tutti lavorano, tutti vanno a scuola e migliaia di immigrati dal sud invadono Carpi; tutti hanno la TV con l’italiano ufficiale tosco/romanesco.  Il dialetto è visto malissimo e considerato peggio; viene rappresentato come segno d’ignoranza, di arretratezza, di un passato da puvrètt e da ignoràant, da scurdèer più a la svéelta ch a s póol. Era VIETATO … capolinoo …PARLARE in dialetto, anche se il lungimirante Pasolini non era d’accordo. Mio padre, laziale, che ricordo qui con commozione, mi intimava durante i nostri frequenti scontri generazionali: “Fatte capì! ParRla italiano!”.
L’ingenua apposizione in un tema di italiano di una parola in dialetto era segnata pesantemente con un segnaccio blu: capolino, invece di ciabattino o calzolaio, ti portava dritto all’insufficienza.
Il dialetto – piaccia o no – cambia ancora a causa di tutti questi nuovi elementi sociali ed economici. Si semplifica, si destruttura, si italianizza, perde tante parole, spesso quelle più belle e caratteristiche, cioè quelle più lontane dalla lingua nazionale. Ne guadagna però di nuove, ma di basso pregio lessicale: semplici trasposizioni grafico- fonetiche di neologismi, anche per l’italiano.
Ecco un paio di esempi eclatanti per capire il fenomeno:
·        parlare = descòrrer e ciacarèer; ma da ieri l’altro e oggi anche … parlèer
·        uguali e diversi = cumpàagn e descumpàagn o diferèint, ma oggi anche ugueèl e divèers.
Il dialetto, quèll d ‘na vòolta, arranca … a pèer ch al tiira i uultem. Il dialetto non è più di moda.
Salvo, per fortuna, il grande Loris Guerzoni, Lauro Luppi, Libera Guidetti, ecc … la Sezione Etnografica del Museo Civico con l’instancabile Luciana Nora, alcune iniziative editoriali, come quelle annuali del Circolo Il Portico, l’opera degli studiosi Contini e Cassoli e le recite di qualche compagnia teatrale dialettale, non c’è quasi nulla o nessuno che operi e lavori in controtendenza.



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Apro, questo punto, una doverosa e necessaria nota su …

Il Kremlino
luogo di suprema carpigianità cittadina
È un circolo molto chiuso, unito, ma nello stesso tempo disunito, auto referenziale di ispirazione spesso comunista, soprannominato il Kremlino, si riunisce … pèr ragiunèer (pensare e discutere) all’ultimo piano del Castello dei Pio nello studio del pittore Renzo Baraldi e successivamente dai pittori Azio Bisi e Ivo Voltolini (detto il Prof o Ivòun) dagli anni ’30 fino agli ’80. Si ritengono, e certo non a torto, i depositari della carpigianità cittadina e di conseguenza del dialetto … cittadino, senza infiltrazioni delle parlate delle campagne o di paesi circostanti.
Erano e si sentivano una èlite, anche se di matrice democratica. Ecco alcuni nomi: Darfo Dallai, Luigi Ferrari del Castello (Luigiòun dal Castèel), l’avv Poli, Ersilio Bagni, Rinaldo Pellicciari (Plicio), Renzo Baraldi, Lugli Gracco, Roberto Casarini, Umberto Severi, Eros Ongari (Mao), Turiddu Massari, Ottorino Savani, Bruno Losi (Raschìin), Marco Cucconi, ex pugnace e sanguigno comandante partigiano, chiamato anche "Melo dipinto" perché Azio Bisi lo ritrasse dormiente sotto un albero di mele, Ferruccio Bertolani, Arialdo Neri, Dante Areta, Guido Guidi, ecc …  
L’inquietante e affascinante ritratto (anni ’40) del pittore carpigiano Renzo Baraldi

Ecco qui sotto una rara foto del Kremlino e dei suoi frequentatori che possiamo datare attorno al 1948-49. L’immagine è stata gentilmente fornita da Luciana Nora, ex direttrice della sezione etnografica del Museo Carpi. Essa ritrae, non troppo nitidamente, assieme ai tanti, Mario, il padre di Luciana, Guido Guidi e, dietro la statua, Renzo Baraldi.

Una riunione del Kremlino in Castello nello studio di uno dei pittori del gruppo

In particolare Azio Bisi fu un esponente di spicco, ma dissidente del Kremlino, soprattutto dopo il ritiro dalla scena pubblica di Raschìn (Bruno Losi), a causa della cocciutaggine, talvolta staliniana, dei membri del Kremlino (ciechi e acritici nei confronti dell'URSS). Dissidenza surrogata e sostenuta con ironia e battute da Nurèina, il padre di Luciana Nora, spirito mordace e veloce alla risposta che spesso metteva a tacere chi la vedeva in altro modo.
Gli ultimi tre giovani adepti di Luigiòun (fra il 1945 e ’48) furono Felice Marzi, Norberto Beltrami e Franco Bizzoccoli, costretti a sedere, sui gradini dell’entrata, silenti e intimiditi per ben tre anni, con il divieto di non oltrepassare il limite, previsto per gli apprendisti muti, del pronaos del Tempio (in camera caritatis). Solo dopo aver osservato questo lungo silenzio, degno di ben altri percorsi iniziatici, poterono essere ammessi a pieno titolo, prima nella Camera di Mezzo e poi nel sacro luogo del Cenacolo, a similitudine del lunga e lenta progressione della scuola pitagorica.
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Anche Fermo N.H. Grillenzoni, detto Mimo, recentemente scomparso, pur nella sua stranezza mentale, riconosceva l’importanza di questo luogo d’incontro e nel contempo del concetto culturale urbanistico di essere nati e vissuti dentro alla Mura. Anche dopo tanti anni, davanti ai componenti di quel gruppo di artisti, intellettuali e mormoratori, li salutava uno a uno con rispettosa deferenza: “Adìo, sgnóor Plicio! Adìo, sgnóor Plicio!” Finché non arrivava quella a cui negava il saluto … “Perchè te t ii dla Cagnóola!” Perché tu sei della Cagnola, cioè di Via Sergio Manicardi, allora l’unica contrada fuori dal perimetro un tempo occupato dalla cinta muraria cittadina
Il Kremlino (termine coniato nel 1942 in un rapporto di polizia dopo un’irruzione nel Castello … “covo di antifascisti denominato Kremlino”) svolse poi anche il suo puntiglioso compito presso il gruppo di tavolini a ridosso del portico del bar Milano (oggi chiuso definitivamente), dove dopo pranzo e dopo cena si riunivano i Tamelli, gli Sbrillanci, i Plicio, ecc … ossia i compagni fedeli alla linea ex staliniana, anche per discutere e criticare aspramente i vari governi scudocrociati.
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Antonio Casarini (ed L’Ùltma  - Cuntrèeda Tèeranòova - Via Giordano Bruno) ricorda che Roberto Casarini era suo zio, fratello di suo padre;  conosceva tutti gli amici dello zio che erano fra gli altri: Plicio, Gracco, Guidi, Bizoccoli, Areta, ma soprattutto Bisi Azio. Antonio frequentò anche lui Bisi, il quale lo aveva soprannominato "Fòogh Sachèer", perchè appena dopo essere entrato nel suo studio di pittore, Antonio Casarini non riusciva a stare fermo e scappava quasi subito a casa sua per disegnare o dipingere. Anche oggi gli è sufficiente annusare il pungente e caratteristico odore dei colori a olio per rivivere quelle atmosfere.
Correva a casa, mentre gli altri amici restavano lì con Bisi a parlare d'arte e a guardarlo dipingere
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Gianfranco Imbeni ricorda di quegli anni:
*L’intero palazzo dei Pio formava all’epoca un enorme falansterio intensamente popolato. Al suo ultimo piano, non lontano dalle inesplorate scartoffie degli archivi municipali, il Comune aveva ricavato degli alloggiamenti divisi da paratie di legno compensato, che ospitavano i “profughi romani”, soprattutto tanti bambini (molti altri erano stati accolti anche all’interno delle famiglie in città) in fuga da Roma, disastrata “città aperta”. Faceva parte di quella umanità un certo Luigi, un vetusto “professore” di misteriosa provenienza (un ex carcerato politico, sembra, munito di un provvisorio permesso di soggiorno) alto e dinoccolato, il quale si guadagnava da vivere impartendo lezioni, al prezzo di una “offerta libera”, su discipline le più disparate. Un coetaneo del sottoscritto compì l’iter liceale grazie anche alle “ripetizioni” di latino, disegno tecnico e artistico e di matematica, impartitegli proprio da colui che noi chiamavamo il Luigione del Castello, il quale, come gli antichi peripatetici, amava insegnare all’aperto, nell’incolto giardino comunale dietro il Teatro. “Educare –  diceva mostrando un virgulto – significa estrarre, cioè aiutare l’alunno a tirare fuori quello che ha già dentro di sé, nel suo ancor vergine trasporto per la poesia, cioè verso la vita”.
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Ecco una straordinaria foto di Luigòun dal Castèel, risalente si può presumere agli anni ’40. Luigione Ferrari (del Castello) viveva in alcune stanze nel Palazzo dei Pio a Carpi in mezzo a centinaia di libri. Era alto quasi due metri; un singolare personaggio che indossava sempre una papalina; era esperto di Dante e in discipline classiche. Si dice che venisse da Parma (o Piacenza) dove era segretario di pretura. Uccise la moglie e, finita la detenzione, fu mandato in domicilio coatto a Carpi; ciò appare verosimile se consideriamo l’assegnazione di alcune stanze del Comune in Castello.
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Il figlio di Mario Nora, Livio, ricorda fra i luoghi di incontro di una carpigianità autentica e consapevole anche la bottega dei f.lli Saetti (I fratelli Karamàzov (Братья Карамазовы) dall’ultimo romanzo di Fëdor Dostoevskij; un efficace soprannome inventato dal cinico e anticlericale Gracco Lugli) dell’omonima drogheria di fronte al Municipio. Quelli citati erano i posti abituali di ritrovo, di questo gruppo di amici carpigiani, dove spesso la madre di Livio mandava il ragazzino a "recuperare" il padre. Ma anche il ritrovo domenicale estivo presso il Secchia all’osteria La Barchètta, dopo partite a bocce e carte, di fronte a un buon salame e una bottiglia di lambrusco, o quello serale alla trattoria a Lesignana erano posti di ritrovo abituali per incontri e lunghe discussioni, quasi una succursale del Kremlino.
  
1960 ca -Osteria La Barchetta, presso il Secchia -Pranzi estivi di carpigianità
Mario Nora e amici

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L’anagrafe, il tempo inesorabile e la ristrutturazione del Castello porranno fine a queste esperienze di denso spessore culturale, interessanti e intense, ma che non ebbero la capacità di lasciare degli eredi riconoscibili. Oggi, ma ormai da tempo, anche gli stessi bar della Piazza di Carpi non hanno più alcuna caratterizzazione politica. Il PCI o i suoi successori vendettero il bar Milano circa vent’anni fa.



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Dopo l’approfondimento doveroso sul Kremlino, proseguiamo nell’approfondimento sull’evoluzione del nostro dialetto.

4) Fase dopo il 2000. L’ultima … per adesso. La società cambia ancora; i nuovi media imperversano. La crisi economica nazionale e del modello carpigiano si fa sentire sempre più. Molte aziende chiudono; gli immigrati extra superano abbondantemente il 10% della popolazione. L’informatica e la globalizzazione stanno causando, sui dialetti in genere, uno sconquasso ancora più grande  di quello conseguente all’Unità d’Italia. Le parole inglesi ci invadono, ritornandoci buffamente e beffardamente, dopo giri perigliosi, dal nostro latino. Tàaca mò al dissch (attacca l’hardisk all’USB del computer) … si sente dire comunemente.
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Carpi, da sempre conservatrice, ormai da un po’, non si riconosce più e forse non si accetta. Nella ex falegnameria dei Beltrami, in via Trento Trieste, sorge una possibile sede, a ritmo sincopato, talora sgangherata e malferma, della intellighentzjia carpigiana. Nasce e si forma un momento di disamina critica di analisi del momento. Si discute se il dialetto muore, se rinascerà, se sopravvivrà e in che modo. Sono stimolanti semi che non cadono nel deserto.
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La grande interprete carpigiana Jolanda Battini porta la sua arte in centinaia di serate gratuite, il meglio della cultura dialettale carpigiana; cose non banali o di basso conio, ma quasi sempre di alto contenuto filosofico e morale, senza rinunciare al divertimento e alla battuta arguta; diventa la musa posposta di quell’elegante gigante di interiorità che è il poeta Loris Guerzoni; migliaia di persone la applaudono e tornano a casa con qualcosa in più.
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I giornali locali e in particolare la Voce di Carpi cominciano a trattare il dialetto, con cose curiose, simpatiche, leggibili … vive e ancora attuali. La gente ri-comincia ad apprezzare a parlare in dialetto e del dialetto; rinasce, per quanto possibile, un punto di coesione riconoscibile nel quale identificarsi e sentirsi legati da una cultura comune.
Non è lo stanco e frusto dialetto dal sirudèeli, per lo più bolsi componimenti che facilmente si concretizzavano in sciocchi testi che avevano contribuito non poco a trasformare le reliquie del dialetto quasi in una macchietta. Si tratta e si approfondiscono frasi vissute, sempre sentite in famiglie e con gli amici, ancora ben vive e usate tutti i giorni nella quotidianità carpigiana.
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Su Face book, quasi per scherzo, fondato da Simone Soncini nel settembre del 2008, nasce dal niente il Gruppo “Chi parla dialetto Carpŝàan?”. Oggi oltre 800 (dico ottocento) aderenti perseguono il nobile scopo di tutelare e promuovere la Carpigianità nel mondo, il suo dialetto e i suoi prodotti locali e tutto ciò che provenga da Carpi.
Tutti i giorni nelle pagine di Facebook si studiano e si approfondiscono, con divertimento e passione, frasi, parole, modi di dire, varianti e preziosissimi aneddoti di vita vissuta e si ricordano i personaggi più curiosi che hanno vissuto a Carpi.  Spesso partecipano, per confronti reciproci, amici di Limidi, Campogalliano, Modena, ecc …
Non si pratica lo stupido e ottuso campanilismo; ma c’è sempre vivo interesse e rispetto per ogni variante o per i molteplici significati di una parola o di una frase. Si valutano e si diffondono le gustose differenze presenti a distanza di pochi chilometri.
Ognuno porta la propria esperienza che vale tanto quella degli altri. Nessuno si erge a tutore della verità, a maestro, perché nel dialetto le verità vissute sono infinite: in ogni famiglia, in ogni compagnia, in ogni bar.
Il Gruppo organizza alcune cene del tutto informali e ben presto le sedie dei locali prenotati NON bastano più. La gioia delle gente in queste semplici serate è palese e spontanea. E sempre ci si lascia con un “ Alóora, quàand a s turnòmm ia a vèdder?
Con una sorprendente e pregevole iniziativa, costata anni di lavoro e di fatica, Graziano Malagoli e Anna Maria Ori, affiancati da un valoroso gruppo di appassionati, colmano con coraggio, nell’aprile del 2011, una lacuna di secoli: un dizionario del dialetto carpigiano, che resterà per sempre una preziosa testimonianza del dialetto di oggi.
Il sorprendente successo del dizionario, che esaurisce in soli due giorni le 1000 copie stampate (poi tempestivamente ristampato in altre 2500 copie), ha svegliato in tanti, oltre ai ricordi d’infanzia, anche un sopito desiderio di rivalutare la propria appartenenza, che di solito è lontana da qualsiasi confuso principio leghista. Ho saputo di gente che organizza cene all’insegna del dialetto, di genitori che, col dizionario al fianco, mostrano ai figli il significato di parole o detti sentiti dai nonni. Un bar ha esposto il dizionario, come si faceva con l’elenco telefonico, a disposizione dei clienti. C’è chi cerca (come sempre) le brutte parole, c’è chi si meraviglia per l’eleganza con cui sono stati tradotti detti o proverbi “volgari”. C’è chi è allarmato dal timore di restare senza la copia da portare ad amici e parenti, anche non carpigiani.
L’uscita del dizionario ha posto anche un problema di grande importanza: quello della necessità di giungere prima o poi ad una unificazione della SCRITTURA del dialetto. Il dizionario, avvalendosi di noti esperti, ha fatto delle scelte molto coraggiose e che si distaccano dalle tradizioni passate. Forse è venuto il momento di cercare e applicare un metodo definitivo.

Malagoli, uno degli autori, mi raccontava che pochi giorni fa un giovane tecnico, che non conosceva, è andato a casa sua per la manutenzione di alcuni impianti; subito gli ha riferito che una sua vicina di casa, ottantenne, aveva scoperto che mancava una parola fra le migliaia elencate. Poi lui stesso, per curiosità, si è messo a sfogliare il vocabolario e all’autore del dizionario ha chiesto lumi sulla pronuncia.
Uno degli intenti più importanti del nuovo dizionario è quello di arrivare nelle scuole; vedremo se qualche volonteroso insegnate saprà cogliere questa preziosa occasione.
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In maggio 2011 Notizie, il settimanale della Diocesi di Carpi, trattando del tema handicap, apre per la prima volta la pagina di apertura col titolo in dialetto: A sòmm tutt divèers!  Dal titolo di una poesia di Luciana Tosi.
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Sempre nello stesso mese una guida interculturale del Consiglio Comunale dei Ragazzi di Carpi dedica una pagina al dialetto con le parole di uso più frequente.
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Il 2 giugno 2011 a Carpi in sala Consiglio si è svolta una cerimonia dove si festeggiavano tutti i consiglieri comunali di Carpi dal '45 in poi, in occasione del 150° dell'Unità e del contemporaneo anniversario della nostra Repubblica.
Uno dei quattro relatori ufficiali Mauro Dotti, assessore negli anni '70, nel suo intervento che si riteneva potesse essere noioso e didascalico (come quasi sempre capita in queste occasioni ufficiali) invece, con un colpo da vero maestro, in chiusura del sobrio e sentito eloquio, ha letto una poesia in dialetto di Ciccio Siligardi.
Egli la scrisse nel 1985 alla fine della sua esperienza di consigliere del PSI. Questo testo il nostro Ciccio ce lo lesse allora in un'apposita cena di chiusura legislatura a casa di Mario Brani.
Dopo i primi versi letti da Dotti ... tutti i presenti (almeno 100, me compreso) come per magia si sono bloccati ad ascoltare, con un sorriso compiaciuto e convinto, le rime ben marcate e riconoscibilissime scritte da Siligardi, nel suo noto corposo e ruvido stile. Stupiti, divertiti e commossi, tutti abbiamo prestato grande attenzione alla inaspettata lettura. Alla fine c'è stato un forte e spontaneo applauso … diverso da tutti gli altri. La lirica dialettale ha quasi dato un senso compiuto alla cerimonia, un senso di appartenenza, di piacevole consapevolezza di appartenenza all’identità carpigiana. Ebbene dobbiamo ancora una volta constare che a Carpi c'é BISOGNO di dialetto e di viverlo.
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Tutti questi fatti grandi o piccoli che siano mi fanno pensare che la gente percepisca questa esigenza di dedicarsi almeno un po’ al dialetto; in primis come fatto di curiosità, se si vuole, ma poi scatta qualcosa e si prova o si ri-sente nascere dentro di sé qualcosa di profondo e non sempre facilmente spiegabile. Il piacere di sentirsi legati a sensazioni nostre, culturalmente delineate. Si fa spazio l’esigenza di identificarsi in un genius loci che si era sempre trascurato, o che veniva dato per scontato, come una cosa senza valore. Avevamo un tesoretto e finalmente ce ne siamo accorti. Sento con piacere di giovani adolescenti che cercano la compagnia dei nonni per giocare a briscola, proprio per ascoltare e  imparare a parlare il dialetto. Sento di bambini che chiedono ai genitori o ai nonni cosa vogliono dire parole misteriose come ghiggna o galòun.
Gli occhi e la mente non sono però rivolti al passato (per altro guardato con grande affetto), ma a un futuro da vivere e da … parlare. Un dialetto attuale, vivo, che può essere usato tranquillamente tutti i giorni, per esprimere con immediatezza concetti senza tanti giri di parole.
Sarebbe davvero ridicolo rivolgersi al prossimo con una stucchevole frase del genere: “Gentile signore, vista l’inopportunità del suo stolido, antipatico e sconveniente agire, la invito e la esorto a ritirarsi immantinente in un acconcio loco di decenza a espletare le sue funzioni fisiologiche, a cui per altro è aduso, e conseguentemente a eclissarsi dalla mia percezione visiva e uditiva!”.
Il dialetto risolve la cosa semplificando al massimo con un bel “Va mò a caghèer… imbambìi ! “ Frase schioccante di impagabile e piena soddisfazione. Ma c’è molto di più ! Naturalmente. Molto di più. Un mondo intero da conoscere e da reinterpretare.
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Il delicato e sensibile poeta carpigiano Sauro Roveda condivide in gran parte l’analisi di questa ricerca sull’evoluzione del dialetto carpigiano. Il dialetto a tratti sembra resistere, con i suoi sussulti consonantici sballottati tra il sussurrio della piazza e il cortile degli animali. E con accozzaglie di termini che mutano ogni tre strade. Certo è che il dialetto si destruttura sempre più, si italianizza e perde tante parole, salvo recuperarne poi altre artefatte e più accomodanti al linguaggio odierno. Accanto alla giusta necessità di avere strumenti unitari per comunicare con gli abitanti di ogni parte del pianeta, il pluralismo linguistico mantiene vivo un pensiero migrante che si nutre di parole, di mondi e terre … e libera lo sguardo. Quasi sicuramente il dialetto più genuino e fedele era nelle bocche dei nostri emigranti che per necessità andavano a lavorare all’estero. Ognuno partiva con il proprio idioma che veniva depositato nelle varie comunità di appartenenza, e quindi in luoghi circoscritti dove non veniva inquinato da altre lingue, e soprattutto dalla lingua italiana. Quindi ci si dovrà sempre più abituare ad un dialetto maccheronico. Ma del resto le esigenze e le abitudini sono cambiate e di conseguenza anche il linguaggio d’un tempo. Il carpigiano, come del resto tanti altri dialetti, si sta ritirando sotto l’occupazione della lingua nazionale che gli cancella via via sempre qualche altra riga del suo dizionario. Difficile prevedere se, come e per quanto tempo un certo dialetto sopravvivrà. Da questo lato Roveda è un po’ pessimista. Certo è che sta ai cultori e amanti del dialetto ritardarne la scomparsa e ci sono alcuni strumenti che si possono usare … dizionari, l’opera amorevole di studiosi (Contini, Cassoli, Nora, ecc …), vari scritti, senza dimenticare poi i libri che ci hanno lasciato i vari Luppi, Guerzoni, Urbini, Stermieri, Forghieri.
E … come dimenticare il contributo altamente qualificante e prezioso che fornisce la nostra Jolanda Battini ? Tanti autori dialettali carpigiani e modenesi sono stati rivalutati e rivissuti a pieno grazie alle sue eccezionali doti recitative. Evviva anche la tecnologia di Facebook, se essa può contribuire alla causa!  “Intàant nuèeter a tirèmm dritt pèr la strèeda dal dialètt!”
Sauro, su questa tematica, ci ha regalato questa preziosa riflessione poetica che corre fra un passato sempre più evanescente e i dubbi dell’animo umano di fronte a un futuro incerto; lo ringraziamo di cuore e lasciamo alla sensibilità del lettore cogliere le proprie personali considerazioni:

El paroli antîghi
ormai i sfiurìsen
in dèl bòchi dî vèec.
Cal nôvi i’m supplìsen…
dišerbânt cal sèca la raîš,
velêin butèe in dal pòss
a’n dû a bvùu i mée.
Mè a’n sò più
a’n dû andêr a bèver…
pèr cavêrom stè sèe.

Le parole di un tempo/ormai rinsecchiscono/nelle bocche dei vecchi./Le nuove mi seppelliscono…/diserbante che secca la radice,/veleno gettato nel pozzo/dove hanno bevuto i miei./Io non so più dove andare a dissetarmi…/per togliermi questa sete.
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Sempre Sauro Roveda ci regala questo ritratto del poeta carpigiano Lauro Luppi vissuto in tutto l’arco del XX° secolo. Egli rappresenta per il nostro dialetto il testimone, la cerniera fra il vecchio e l’attuale parlare. Si cominciava con Luppi in modo serio a fissare per la prima volta alcune regole di grafia di base.

Carissimo Mauro, desideravo farti avere questo mia ricerca scritta in occasione di un convegno sul dialetto, in cui mi si chiedeva di sottoporre all'attenzione del pubblico un personaggio che in qualche modo aveva contribuito alla causa dialettale carpigiana. Non ho avuto in tale circostanza nessun esitazione nel mettere in risalto la figura di Lauro Luppi ... carpigiano d.o.c., profondo conoscitore della nostra parlata ed innovatore, riuscendo a trasformare il dialetto da lingua puramente frivola e ridanciana a lingua poeticamente eletta. Ciao e complimenti per la bella serata dell'altra sera

Per molti autori e appassionati di poesia dialettale carpigiana e non, Lauro Luppi poeta e scultore ha rappresentato e rappresenta tuttora un vero punto di riferimento. Profondo conoscitore della parlata dei Pio , parlata di confine tra le province di Modena e Reggio Emilia, fu il primo a valorizzare sia il mezzo puramente espressivo, che il contenuto poetico del testo. Tenace e convinto assertore sulla necessità di usare in modo corretto e univoco accenti e segni diacritici , ha lasciato una immagine indelebile nel panorama linguistico dialettale. Nato a Carpi nel 1918 e scomparso agli inizi del secondo millennio, amava dare il titolo alle sue opere poetiche con pregevoli sculture in terra cotta.
Parlare di questo autore … è anche parlare dei miei primi approcci col dialetto e la poesia. Luppi negli anni ‘70, l’epoca in cui lo conobbi, gestiva nel cuore di Carpi un laboratorio elettrotecnico che era punto di riferimento e meta di molti dialettali e appassionati di poesia. Sta di fatto che invece di accendere lampadine e televisori, in quel laboratorio si accendevano idee. E di idee Luppi ne aveva a iosa . Attivissimo, testardo, fermo nelle proprie convinzioni, è stato a mio modesto parere uno dei veri traghettatori della poesia dialettale locale. Da strumento ludico e lingua barzalettiera nelle sue mani il vernacolo diventava lingua espressiva e raramente volta al passato. Lo stesso autore amava dire che chi scrive poesia ha il dovere di trasmettere le emozioni di tutti i giorni. C’è nel vero dialetto il pudore dei propri sentimenti, nel tono leggero delle sue espressioni la sottile gelosia delle cose amate, quasi il timore che il libresco possa profanarne l’intima essenza.
Lauro Luppi sapeva perfettamente utilizzare in modo pieno e perfettamente disinvolto tutte le più riposte risorse del dialetto, giungendo in talune liriche a risultati di sorprendente immediatezza comunicativa. In Lauro Luppi l’adesione spontanea e naturalissima al mezzo dialettale non assume mai la mera connotazione del fatto esotico, per investire invece tutta una gamma ampia e polivalente di esigenze profonde, di irrinunciabile  autenticità espressiva. In effetti, tutta la tematica dell’autore, sembra sgorgare pienamente dalla più normale e comune esperienza di vita quotidiana per poi essere composta, senza alcun forzoso piegamento alle esigenze della letterarietà, nelle pregnanti e umanissime progressioni dialettali. Mai come in questi casi, la lingua sembra perdere le connotazioni di puro elemento convenzionale, di razionale sistema funzionalmente fonematico, per lasciarsi assaporare con tutte le inedite risorse di un parlato vivo e mosso, animato e sensibilissimo.
Il dialetto resiste, fino a quando non so, ma resiste, coi suoi sussulti consonantici sballottati tra il sussurrio della piazza e le mura domestiche…e con accozzaglie di vocali che mutano ogni tre strade. E’ la coscienza impastata di terra, di quella terra e solo di quella…e mescolata alla storia che ha immagazzinato ricordi, i suoni.
Scriveva il modenese Giulio Bertoni con gusto sicuro del paradosso che l’influsso letterario costituisce la maggior tragedia dei dialetti. Ma aggiungeva subito che per fortuna, questo influsso che è la stessa forza che li consuma, sveglia in essi un nuovo fermento di vita. Infatti concludeva, la loro sorte è di essere assorbiti dalle lingue letterarie, ma di risorgere sempre  grazie ad una palingenesi, che è la loro morte e in pari tempo la loro rinascita. Sul modo di rendere comprensibile e fruibile il dialetto carpigiano Luppi scriveva in uno dei suoi volumi: Se il difficile compito di imbrigliare la lingua parlata è stato quasi risolto nei grandi centri urbani e nei piccoli centri isolati, a Carpi, come nei paesi dove l’emigrazione e l’immigrazione  sono continuamente in atto, è cosa impossibile. Noi carpigiani non abbiamo una lingua collaudata e gli stessi termini variano nel giro di qualche chilometro. Accenti e segni diacritici. Si è molto discusso, meditato. Il loro uso, la loro interpretazione rimane materia di studiosi…inaccessibile in grandissima parte ad autori e lettori del dialetto. Da parte mia … Ecco, questo andava dicendo Luppi non più di un decennio fa prima della sua scomparsa … queste difficoltà in ogni caso, non gli impedirono assieme al dottor Contini, anch’egli carpigiano, di  raccogliere testimonianze, registrazioni e canti popolari direttamente dagli ospiti delle case di riposo locali per non disperdere quell’immenso patrimonio ereditato dai nostri avi. Vi è in questo autore carpigiano una saggezza e una lungimiranza unica tradotta in poesia che s’insinua nella realtà dei fatti e che appunto vi aderisce, ma che si conia sui gradi della psicologia, sulle evenienze della memoria, sugli accenti provveduti dall’arte e sui dettati dell’esistenza, partecipando così alla ventura alta e ai modi più efficaci della cultura letteraria di questo ultimo scorcio di tempo.”


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Il poeta e scrittore Oscar Clò crede che il segreto per riuscire a far “sopravvivere” il dialetto ancora per un po’ di decenni sia proprio nel seguire la sua evoluzione e in qualche modo “assecondarla” senza , ovviamente, rinunciare a ricordare quello vecchio (e qui è encomiabile l’opera degli autori del dizionario) però prima di “portare nelle scuole” quelle che sarebbero solo “parole di un dizionario” crede che il compito che spetta un po’ a tutti quelli che ancora parlano il dialetto (non più quello di una volta!) sia di saperlo rendere di nuovo “interessante” alla generazioni che poi , a loro volta, saranno in grado di far “interessare” i loro figli. Non si subirà più l’intimazione degli anni ’60 :“Guàai a tè s te ciacàar in dialètt !”. Frase che veniva pronunciata proprio in dialetto visto che non sapevano parlare diversamente.
Dell’evoluzione del dialetto si può certamente parlare anche a scuola (il più sarà trovare i “docenti”), ma “parlare in dialetto” si può imparare solo nella vita di tutti i giorni (famiglia prima di tutto, amici, ambienti di lavoro e di divertimento). Il clima oggi sembra sia tornato abbastanza favorevole e stanno nascendo cose interessanti su vari fronti: “MO pensa te” in TV, vari gruppi di FB (come il nostro), qualche canzone di successo, poeti e poesie che si staccano un po’ dalla piatta e avvilente tradizione del binomio dialetto = nostalgia del passato, ecc … Insomma si stanno muovendo un po’ di cose.
Ci fu tra gli anni ’80 e ’90 un fiorire di compagnie dialettali che portarono un po’ di “ossigeno” al dialetto. Tuttavia però forse non è stata “una boccata d’aria” troppo salubre, anche se volonterosa e in buona fede, perché in genere si trattava di spettacoli che, per ambientazione sia temporale che scenografica e di sviluppo dei testi,  facevano riferimento a periodi che non potevano interessare a chi era già “lontano” dal dialetto. Se poi si tiene presente anche che di solito si faceva leva sulla parlata in dialetto quasi esclusivamente per la sua maggiore efficacia comica, si ha il quadro completo di quelle esperienze che continuano ancora oggi, ma più ridotte e con sempre più fatica. Queste esperienze potranno continuare solo se sapranno dare un respiro un po’ più ampio e di prospettiva al linguaggio che utilizzano.
Insomma il dialetto non può servire solo … per far ridere !!!  Lo stesso dicasi  per sirudèeli o simil-poesie che, sinceramente non si sa se sia più il bene o il male che fanno alla “valorizzazione” del dialetto.  Altra idea che si sente ogni tanto in giro è quella della “necessità” di dare una “grammatica” e un’unica grafia al dialetto se si vuole che sopravviva.  Se proprio si vuole fare questa grammatica che si faccia pure, però poi c’è da chiedersi per quanta gente essa potrà “valere”, visto che il dialetto nasce solo parlato e proprio per questo è estremamente “flessibile”. Talmente malleabile che ci sono paesi neanche tanto grandi, per non dire di Carpi, in cui in centro si parla in un modo ed in periferia in un altro, anche come costruzione della frase! Quindi probabilmente tempo ed energie utilizzate non al meglio che lasceranno tracce non indelebili.
Chi ancora conosce (un po’) il dialetto e lo parla non deve però mettersi sopra ad un piedistallo per “insegnarlo” a chi non lo sa. Sarebbe deleterio: coloro, proprio come ricorda anche D’Orazi, che si riunivano come gruppo di “eletti”, quasi alla maniera dei “carbonari” per parlare di e in dialetto, sono scomparsi senza lasciare quasi nulla al prossimo, in una sorta di “autoerotismo verbale” che era certo appagante (in parte), ma che non ha mai dato vita a quasi niente di duraturo e trasmissibile.
Si deve cercare di produrre, realizzare, proporre cose che mettano al centro il dialetto e tutte le sue potenzialità, la sua “cultura”, il suo saper divertire e, allo stesso tempo far riflettere sulle tradizioni da cui  deriva, ma che può adattarsi anche a tutte quelle situazioni che col tempo vedono cambiare il mondo che ci circonda e, ovviamente, anche se stessi per primi. Insomma, per fèer la cuurta … il dialetto (o meglio chi conosce il dialetto) deve riuscire ad andare incontro alla gente (possibilmente quella “più giovane”), rendendosi “interessante” (e per questo una sua “evoluzione” è indispensabile!!) e non pretendere per presunto diritto acquisito che la gente lo vada a cercare…. Questa sì che sarebbe la fine del dialetto! Circa la lirica di Sauro, occorre sottolineare che egli è sempre molto bravo e incisivo. Ma, aldilà della poesia e del suo “succo”, Clò crede che le “nuove” parole che andranno a far parte del dialetto del futuro non sia del tutto esatto considerarle “diserbante” delle nostre radici, ma propenderebbe di più per ... “nuovi germogli” che si sviluppano proprio da quelle stesse radici. Ma forse alla fine che cambia solo il “punto di vista” (bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno), ma non la sostanza.
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Annamaria Loschi, insegnante, mi fa notare che ci sono stati gli anni a cavallo del '50 che hanno radicato un dialetto che in precedenza era fortemente arroccato su pochi temi sempre ricorrenti: agricoltura, lavoro, famiglie e problemi di vita quotidiana. Con il dopoguerra non solo c'è stata un'evoluzione economica, ma anche una fortissima apertura sociale che ha contribuito a mantenere il dialetto però introducendovi neologismi o modificando altri termini. Ad esempio il mondo dell'auto era alla portata di tutti, il traffico, la struttura viaria della città: i semàafer, da cui il mitico "semafero"! È proprio vero: la scuola ha letteralmente "strappato", facendole seccare, molte radici, anche se alcune erano dure a morire: ricordo con tenerezza una signora molto chic, ma decisamente parvenue, che dal fruttivendolo Magnanini in Corso Fanti, ancora negli anni '70, chiese ad alta voce: "Mi dia mò due sedróoni e anche un po' di sèlero per il brodo"… Lei certamente non aveva frequentato la scuola che imponeva l'uso assoluto dell'italiano forbito lessicalmente. Gli esempi sarebbero tanti e comicissimi.
Far conoscere e parlare l'ITALIANO, però, era uno dei compiti dell'Italia ancora da unire, degli Italiani che avevano conosciuto di persona un meridionale o un piemontese solo con la 1^ Guerra Mondiale. La lingua nazionale era la seconda  per molti ma era assolutamente necessario, come compito primario e culturalmente pregnante, che si diffondesse anche nel quotidiano. E così diventava imbarazzante esprimersi in dialetto: erano i buzzurri a farlo e le giovani generazioni degli anni '80 l'hanno sentito soltanto occasionalmente, specialmente in città.
La televisione, poi, ci ha messo tutto il suo peso, parlando all'inizio un italiano perfetto e di riferimento tratto dall'”Accademia della Crusca", inquinandosi poi via via con accenti locali, soprattutto romaneschi, a volte davvero insopportabili.
Da qualche tempo però la scuola sta cercando di "recuperare" le radici (non è forse anche questo, oggi, il suo compito?; specialmente là dove il dialetto non si è perso, è ancora di uso comune, cioè nelle frazioni. A Budrione una mamma, concordando il programma con dirigente ed insegnanti, va a raccontare vecchie filastrocche e "conte", abbinandole a giochi di movimento oggi quasi scomparsi in città: cucùu, pòmma mantvaana, la stmaana, rubabandéera, i quàater cantòun, ecc.     Un'iniziativa lodevole che andrebbe ampliata.
Un elemento molto positivo è la totale differenza fra le motivazioni per la conservazione del dialetto rispetto alle posizioni leghiste. Là il dialetto è un'identificazione popolare con accezione esclusiva, qui invece ha il sapore di conservazione di una pianta da coltivare con cura e continuità, come fosse un melo che produce i pòmm campanèin, quasi scomparsi, ma forse la migliore qualità in assoluto per gli amanti di questo frutto.
Dunque il dialetto visto e considerato come un prezioso "bene" aperto e possibile a tutti, anche a chi, venendo da paesi lontani, sente il proprio figlio parlare in dialètt carpŝàan perfetto!
Sempre Annamaria Loschi ritiene come certamente oggi l'italiano la faccia da padrone, ma basta fare un giro nelle frazioni o al mercato o ai circoli sociali per sentire come lingua più diffusa il dialetto. Certamente è l'uso che sviluppa l'organo, ma alcune operazioni che in qualche modo "sdoganano" il dialetto da quell'angolo in cui era stato confinato pare funzionino: non erano solo vecchi babbioni o aficionados quelli che hanno fatto volatilizzare il dizionario e quelli del sito di Facebook non sono tutti radical-chic. C'è un movimento sotterraneo che sta muovendosi e che fa ben sperare.
Il ristoratore di Budrione aveva adottato 4 bambini brasiliani; in seconde nozze ha sposato una ragazza di Santo Domingo che aveva già due figli grandi. Morale: in quella casa ci sono 7 ragazzi, di varia "abbronzatura", che parlano un dialetto perfetto ed in maniera appropriata.
Sono le famiglie che inculcano una o più lingue naturali: se socialmente al dialetto si darà poca importanza, esso diventerà oggetto da museo. Ma se proseguirà da parte dell'intellighentzjia la sua rivalutazione, esso "tornerà di moda" (e si sa quanto i carpigiani siano sensibili alle mode), perché in fondo non si è ancora perso, anche se non lo si sparla spesso. Lo si respira ancora nell'aria.
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La poetessa Luciana Tosi viene da Budrione, la ciacaara un dialètt arióoŝ. Ritiene, non senza una vena di antica e insanabile polemica, che per capire gli anni ’50 bisogna anche menzionare i locali da ballo che distinguevano i ragazzi di allora per il tipo di frequentazione. I "sitadèin caghìin" residenti in città, ragazzi che studiavano, figli delle famiglie bene, andavano all'Arlecchino un locale sotto il portico di Piazza, mentre i figli della classe operaia pestavano la pista di mattonelle francesi esagonali rosse del "Festival", che era poi la sala palestra del Castello comunale.
All'Arlecchino si parlava in Italiano; infatti se una ragazza usava il dialetto era subito considerata “’na greŝŝòuna"  ... proprio da quelli che poi oggi sembrano voler riscoprire il dialetto. Al Festival non c’era questo snobismo: si parlava come uno voleva e come veniva naturale; certo che se qualcuno adoperava un italiano forbito e lezioso, lo si prendeva in giro, dicendogli che aveva sbagliato locale.
Poi, lentamente, con i prima anni ’60, con gli unici locali aperti d'estate "I gramustèin" e "La Grotta Azzurra" le frequentazioni gioco forza si imbastardirono e i ragazzi si mischiarono: isòmma i éeren dvintèe tutt fióo de ste sitèe e de ste tèera.

Luciana confessa di essere un’autrice spontanea che scrive in dialetto, istintivamente perché questa lingua è dentro di lei, fa parte intimamente della sua personalità. Tuttavia non si ritiene fra coloro, come Ciccio Siligardi, Lauro Luppi, una rappresentante dialettale verace e pura. È, non per nulla, di alcune generazioni più giovane di questi autori e già a undici anni era a lavorare in fabbrica assieme tante donne meridionali e mantovane. Certo si parlava in dialetto, ma per rispetto e gradualmente, cominciarono a utilizzarne una versione non stretta, ampiamente italianizzato (incóo in ingléeŝ a s dirèvv … LIGHT). Scaturiva da un’esigenza per la reciproca comprensione. 
È già stato ricordato che il settimanale Notizie, ha preso il titolo" A sòmm tùtt divèers" da una poesia di Luciana, che fu premiata in un contesto che parlava della diversità e della disabilità in un concorso Nazionale.  Ma tante occasioni ci sono state in passato e tanti altri importanti appuntamenti l’aspettano per il futuro: in quelle sedi continuerà a rappresentare il dialetto e la carpigianità. Sente interesse intorno alla poesia in dialetto che con semplicità parla, trasmette, manda messaggi, fa riflettere, arrivare al cuore della gente. 
Quando si scrive in dialetto si deve essere se stessi e diretti. Non si deve pensare di essere sempre giudicati, analizzati per come si è messo l'accento o per una parola che si può dire in diverse versioni.
In molti pensano che con il dialetto si debba solo far ridere, ma ciò è profondamente sbagliato: il dialetto è lo specchio di ogni sentimento. Esso andrebbe valorizzato di più, perché è un patrimonio prezioso e unico; a parte il dizionario, iniziativa lodevole, tutto il resto è un fai da te … da bòun carpŝàan, ognùun al pèinsa pèr sè e …  pèr chi èeter s’a gh n è!
L'idea di insegnarlo nelle scuole venne a Luciana ben 15 anni fa e fece al riguardo delle concrete proposte (gioiose e giocose) già per la scuola materna. Ma il messaggio non fu recepito. 
Ma il mondo cambia, la società si è trasformata, i mestieri son mutati; di conseguenza anche il linguaggio, se si vuole essere capiti, deve adattarsi alla mutata situazione, però senza svendersi e rivendicando sempre in modo civile e positivo l’identità carpigiana.

Da scolara Luciana prese severe sgridate dalle maestre delle elementari. Le dicevano che il suo modo di esprimersi era irrimediabilmente dialettale e che ben volentieri l’avrebbero bocciata. Si salvò solo perché la madre garantì loro che la figlia sarebbe andata a lavorare. Così fu promossa. Per anni rimase convita di non sapersi esprimere, ma poi si accorse che era un falso problema, così quando in età matura sentì incontenibile l’esigenza di scrivere emozioni, sentimenti e pensieri  … lo fece nel modo che le era più naturale … in dialetto.  Oggi, una marea di fantomatici esperti (ma lasòmm stèer pèr piaséer la paròola “espèert”) la criticano di non saperlo scrivere, perché non mette gli accenti … ebbene anche l'Italiano ha una fonetica piena di accenti, ma nella scrittura non ci sono. 
Quindi si comporta come faceva Loris Guerzoni, usando sempre meno accenti possibili e annotando con sobria malizia: “E  po’ te vedrèe, ch a s capiròmm l istèss!”
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L’instancabile esploratore della galassia carpigiana Dante Colli osserva che la stesura e l’esposizione di questa teoria è stata intrapresa dall’autore con spavaldo coraggio, degno della migliore tradizione carpigiana. Ci si addentra in un terreno minato sull’evoluzione del nostro dialetto che sembra raggiungere ben maggiori dimensioni di quelle dichiarate. Vengono lasciati alla vicina Modena studi in merito assai più dotti, mentre qui si percorrono sentieri che evidenziano ben più immediate configurazioni di questa evidente trasformazione del nostro dialetto; ciò attraverso un rapido raffronto tra quanto offrono le pagine già scritte in passato e la ancor più pressante e attuale realtà quotidiana.
Il risultato, mirato, ma senza eccessivi clamori, è quello di un ringiovanimento dell’intera materia, in misura tale da interessare centinaia di persone, trasformate e promosse in entusiasti collaboratori e solerti rivelatori di preziosi tesoretti di un mondo per il quale si sono sentite suonare le campane a morto in tante occasioni.
Nel 150° dell’Unità d’Italia si potrebbero utilizzare come riferimento quei versi del nostro Inno che recitano: “Si apron le tombe, / si levano i morti.” o quelli che erroneamente si credevano tali. Perché questo è il senso dell’attuale rilancio del nostro dialetto, in un’ampia operazione, spontaneamente corale, che vede in prima fila il contributo appassionato di tanti carpigiani appartenenti alle più varie realtà..
Intendiamoci … non è solo un elenco di vocaboli, più o meno desueti per il cambiare dei costumi e dei mestieri, ma la riproposizione di una vera e propria Commedia dell’Arte locale, a canovaccio perennemente variabile, ma con passaggi ben caratterizzati. Una commedia di vita, … di tante esistenze, che si rinnovella al cuore di chi l’ha vissuta e la vive anche oggi in ogni frase caratteristica, in ogni proverbio, battuta, immagine, ricordo. Le tante espressioni riprese dalla memoria, ma anche dalla pratica quotidiana, diventano deposito di grande valore di un dialetto carpigiano da sempre conosciuto e praticato, che si riscopre attuale. Ne esce una geografia intima che arricchisce e completa (a oggi) quel tanto che si è detto e scritto sulla carpigianità. Una difficile “scienza” che manifesta lati vivaci e sanguigni, ben plasmati dalla natura e dall’ humus sociale che ci nutre.
Questo rinnovato filone di ricerca ha il pregio della sistematicità, tanto gradevole e riconosciuta, da trovar posto tante volte sulle pagine di Voce di Carpi e sui volumi del Portico “Carpi di ieri”. Un’azione insistente e costante che contribuisce alla dignitosa sopravvivenza del dialetto.
Come codicillo alle sue annotazioni il dr Colli aggiunge: è vero che in dialetto non esiste il verbo amare, ma è largamente usata l’espressione feèr l amóor, che da un punto di vista pratico forse pesa molto di più.
Invece per la vexata questio dell’arcobaleno ci fornisce un’ulteriore elegante, ma incerta, soluzione trasmessagli dal concittadino Aldo Gherpelli e cioè … arbàai, probabilmente da abbaglio.
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Ci sono però anche pareri più disillusi e pessimisti di cui è opportuno dar conto: ad esempio l’esperto di “cose e costumi” carpigiani Attilio Sacchetti afferma con amarezza di essere già da tempo convito che il dialetto sparirà. Ciò non avverrà però in un unico momento, ma è in atto una lenta e costante dimenticanza, accantonamento, oblio. Inesorabilmente si dimenticano e poi si ignorano i vocaboli. La storia è scritta dai vincitori, dalle classi dominanti, altrettanto è la lingua: oggi si parla un tosco-romanesco, perché è la lingua delle classi culturalmente dominanti, o quella dell'apparato statale, bancario, dei politici romanocentrici. Inoltre è da tenere presente l'immigrazione dal Mediterraneo, dall'Est e dall'Asia. In viale De Amicis, dove nacque Sacchetti, negli anni '30 nella casa di fianco alla sua abitava una famiglia immigrata da Piadena (Cremona). Queste persone venivano considerate degli stranieri, perché parlavano male il dialetto carpigiano, ma poi alla fine lo impararono. Oggi in quella stessa casa abitano dei cinesi che non sanno una parola d'italiano. Impareranno il dialetto? Difficile poterlo credere. Nello spazio di due o tre generazioni il dialetto non sarà più parlato o usato come strumento di comunicazione. Ma questo però non vuol dire che sarà ignorato, farà un po'la fine del cavallo. Oggi i cavalli non servono più a nessuno, come forza lavoro o di trasporto, però ci sono delle persone che li allevano, perché li amano. Così sarà del dialetto, perché ci sarà sempre una minoranza colta che lo studierà, per passione o per snobismo culturale.
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Anche la poetessa carpigiana Luisa Pivetti ha forti dubbi sulla sorte del nostro dialetto. Ritiene che non si possa dire di sentirci aderenti alla cultura carpigiana se non si sente dentro sé di appartenere ad essa tramite l'aggancio del dialetto.
Esso è, infatti, il cordone ombelicale che ci unisce. È quel latte materno dal quale non ci si vuole assolutamente svezzare. Purtroppo ritiene di collocarsi tra coloro che vedono il dialetto in agonia. Si riferisce a quello che definisce "dialetto puro" quello non italianizzato (insomma quella della seconda fase che qui trattiamo). Oggi molti cercano di parlare in dialetto perché fa tendenza, ma non per amore.
È pur vero che nella scuola, nell'ambiente di lavoro e con persone autorevoli o altolocate è praticamente "obbligo" dialogare in italiano.
In tal modo si disimpara quella parlata che si è assorbita fin da bambini, quando il dialetto era masticato con gusto e naturalezza, come il pane appena sfornato.
Bisogna, però, continuare a crederci e seminarlo ovunque perché non vada in
letargo, anche se l’esito finale sarà estremamente incerto.
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La ex Direttrice della Sezione Etnografica del nostro Museo e autrice di tante importanti ricerche sul dialetto e gli usi locali, Luciana Nora sulla tematiche che stiamo trattando si è lasciata andare a una serie di significative osservazioni, che ci lasciano intuire un certo scetticismo sulla sorte del dialetto. Nella sua vita ha frequentato moltissimo il dialetto. In quella lingua, che comprende benissimo, si esprimevano i suoi nonni e in parte anche i suoi genitori: particolarmente suo padre, specialmente quàand  al s arliéeva. Si accorge anche oggi, quando le salta la mosca al naso o desidera essere molto ironica, rasente all’acido, che si ritrova a usare d’istinto qualche frase in dialetto della serie “Sii v caiòun o gh ii v infièe?!
Comprendere il dialetto le è poi servito moltissimo per intrattenere relazioni con le tantissime persone incontrate durante i suoi percorsi di ricerca e il suo lavoro. Il suo non fluente dialetto parlato è un ibrido che subisce le influenze della vulgata di molti dei tanti che le è stato dato di conoscere, particolarmente di quelli che l’hanno toccata nel sentimento. Tanti discorsi che alle volte ha trovato intraducibili in italiano, pena il ridurne la profonda intensità e significanza. Ormai queste persone sono quasi tutte defunte: parlavano in dialetto, pensavano in dialetto e quasi sicuramente sognavano in dialetto. Attualmente Luciana vive quasi sempre in campagna e ha come vicini una famiglia in cui gli anziani parlano quasi solo in dialetto, i loro figli lo usano per interloquire con loro, ma i nipoti non lo usano proprio, anzi, anche gli anziani rivolgendosi ai nipoti usano rigorosamente l’italiano, cosicché anche nelle aree rurali accade quello che è già avvenuto nelle realtà urbane a partire dagli anni ’50. Queste ultime generazioni, così come lei, forse capiranno il dialetto, ma parleranno e penseranno in italiano.   
Non raramente ha interloquito in dialetto: brevi frasi che aiutavano il dialogo, ma non molto di più, perché si trovava ad incepparsi, particolarmente quando  il discorso usciva dal contesto dei bisogni di una quotidianità ormai remota dove la mortificazione era frequente, per entrare nella più complessa sfera degli ideali e dei progetti: allora entrambi gli interlocutori passavano dal dialetto all’italiano, salvo l’intercalare con imprecazioni più o meno lievi dovute dal riportare condizioni di vita oggi difficilmente concepibili. Si chiede se sia un caso che non pochi canti di lavoro, di lotta e di protesta siano in italiano e, in merito a ciò, avanza l’ipotesi che dipenda dall’assoluta necessità degli autori e interpreti di essere compresi universalmente e oltre il tempo.     
Nel parlare il dialetto ha poi sempre avuto in memoria il monito di suo padre, un purista in quel campo. Egli si soffermava a considerare la musicalità del dialetto e considerava una insopportabile stonatura il dialettizzare l’italiano da parte dei giovani (già quelli degli anni ‘50). A differenza del fratello Livio, Luciana è stata sempre molto sensibile alle critiche paterne  e non dimentica quando di fronte agli sfondoni dialettali del fratello, il padre lo apostrofava con un: Tèeŝ!! Biŝgnarèvv taièr et la tèesta! 
La nostra pianura è stata un crocevia di relazioni delle quali il dialetto locale ha risentito fortemente, evolvendosi nel tempo.  Ciò anche grazie in particolare alla vocazione commerciale di Carpi, un ampio settore dove si è cimentata sicuramente per mezzo millennio.
Si può certo prendere ad esempio della sopravvivenza del dialetto e del suo evolversi  l’acquisizione di nuovi termini come “telefonèin”; ma non bisogna dimenticarsi che anche in tempi passati ci sono stati tantissimi altri neologismi. A tal proposito si può ricordare Umberto Becchi, il celebre fotografo carpigiano; egli era un purista del dialetto che si esprimeva anche in un italiano perfetto, quasi aulico; era capace di riconoscere, secondo le inflessioni, la frazione di provenienza di qualsiasi persona.  Quando Umberto (ma anche Ondino Miselli o Guerrino Siligardi) portava i suoi discorsi all’iperbole, allora si esprimeva in dialetto e per sottolineare l’assoluto benessere di certe famiglie carpigiane, aggrottando il tono di voce, diceva: “I gh iiven la locomòobil!!”. Si tratta della traduzione dialettale dell’italiana denominazione “locomobile”, una parola oggi completamente sparita, poi trasformata nell’attuale automòobil. Ma ancora la lavatrice e la lavastoviglie, rispettivamente lèeva paagn o lèeva piàat. Interessante è la corrispondente evoluzione della riproduzione dell’audio e del video: si parte dal giira dissch, poi al maagna dissch, al maagna casètta, al videoregistradóor, al digitèel, ecc …  Insomma quasi tutto il mondo tecnologico è stato tradotto dall’italiano al dialetto, o almeno ci si è provato.
Per i nati negli anni ’50, questa riconsiderazione del dialetto appare come il bisogno di soffermarsi a guardare indietro, perché dopo il tanto correre dei decenni passati si avverte la certezza, un po’ amara, di aver lasciato qualcosa per strada. Ciò vale anche per il linguaggio nel quale pure si era cresciuti, con il quale sono stati trasmessi schemi o stili di vita, alle volte rinnegati, che però hanno lasciato il loro segno e, con la saggezza della maturità avanzata, riemergono con prepotenza. Così come si evidenzia chiaro il bisogno di riconoscersi in un’identità sociale comune e condivisa. È però vero che anche coloro che si dedicano a questa tematica scrivono e pensano perlopiù in italiano, concedendosi il dialetto quando si intrattengono con persone conosciute da sempre.
Luciana conosce personalmente Sauro Roveda; la commuovono le sue poesie che legge mentalmente e che la portano a viaggiare anche nel suo personale più intimo; tuttavia se le sente recitate anche dalla bravissima Jolanda, ha l’impressione che perdano di intensità e virino ad un ambito retorico, che non è in loro.
Rileva però che le volte che si incontra con Roveda, il dialogo che intrattengono è sempre in italiano.
Loris Guerzoni e sua sorella Elda fanno parte dell’infanzia di Luciana (Loris era fratello di suo zio Iris, marito della sorella della madre Anna Gualdi); le sue intense poesie sono la trasmissione di quanto ha assorbito specialmente in famiglia dove, come ricorda e riferisce Elda, il fabular padano erano quasi un mestiere. Le poesie di Loris hanno una forte vena di critica sociale, sono dei dazebao viventi che lo rappresentano per tutto quello che il suo retaggio familiar/sociale  gli aveva dato di enucleare.
Facile parlare il dialetto per chi lo ha praticato con assiduità, meno facile scriverlo ed è fin troppo scontato notare che non c’è omogeneità di metodo di scrittura, fino al punto che proprio Loris Guerzoni, strategicamente, ricorreva addirittura al K.
Tutti quelli che scrivono in dialetto si affidano particolarmente alla capacità di conoscerlo o comprenderlo da parte di chi li leggerà. La figlia di Luciana ha bisogno che qualcuno glielo legga il dialetto, non parliamo poi dei nipoti. Per una scrittura e lettura corretta bisognerebbe rieducarsi all’uso degli accenti, che sono pressoché scomparsi dalla scrittura della lingua italiana.
Il dialetto mi appare come una sorta di trincea che più volte è stata sfondata, ma che ha ancora qualche punto franco. Ad esempio la madre ottantottenne di Luciana assistita da badanti polacche, per parlare liberamente con la figlia le chiede: “Ciacaara in dialètt che lóor i n capissèn briiŝa quèll ch a dgiòmm!” Usa quindi il dialetto come mezzo per celare l’espressione dei suoi pensieri e ritrovare intimità di fronte a presenze estranee. Questo è un esempio emblematico proprio di come il dialetto affermi un’identità.
L’uso attuale del dialetto può apparire molto simile per finalità all’ormai scomparso uso del gergo dei muratori (del quale è rimasta ampia traccia scritta) e anche a quello degli ambulanti del quale però si è purtroppo davvero persa memoria
Capita anche e abbastanza spesso di incontrare persone non viste per molto tempo che asseriscono come sia piacevole incontrarne altre che siano davvero di Carpi e, guarda caso, aprono il dialogo in un italiano intercalato col dialetto, e i discorsi sono sempre densi di “a m arcòord”.
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La poetessa carpigiana Fiorella Urbini, degna nipote diretta di Ubaldo e autrice di una raccolta di corrosive e argute poesie “Mé a la pèins acsè”, mi scrive:
Carpi, 29 febbraio 2012
Devo proprio dire che le tue ricerche e riflessioni sul dialetto sono state approfondite proprio in maniera encomiabile.
Per quanto riguarda le sorti del dialetto, so che molti lo amano, ma mi rendo conto che ormai se ne interessano solo persone di una certa età.
Moltissimi fanno fatica a leggerlo e non credo proprio che cercare di creare delle regole o delle grammatiche possa portare all'uso del dialetto da parte delle nuove generazioni. Credo che l'unico modo per far durare un po’ di più il dialetto sia quello di farne sentire oralmente qualche parola. Per il resto non ho molte speranze. Ma forse continuerà, trasformandosi da solo, così, senza nessuna regola particolare.
D'altra parte i nostalgici tra un po’ non ci saranno più.
                                                                                                  Amaramente.
                                         Ciao            Fiorella Urbini
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Concludo con il grande e inarrivabile scrittore carpigiano Gianfranco Imbeni, sollecitato dalle mie numerose, pressanti e fastidiose richieste, mi ha mandato finalmente questa lettera a dir poco eccezionale.
Il testo tracciato dalla sua mirabile mano, guidata da un sopraffino intelletto, è allo stesso tempo è impalpabile, ma pesantissimo, crepuscolare e disperato; alla fine mi prende pure elegantemente, ma implacabilmente per il culo, ma di ciò arrivo a esserne perfino felice e appagato. Diavolo di uomo!

Carpi, 27 luglio 2011   
                                    Carussume D’Orazi (non ti chiamerò Dorry: tolsi il saluto anni orsono a un tale che aveva preso a chiamarmi Imby!), scusami per l’incivile ritardo con cui rispondo alla tua lettera d’inizio giugno. Gli è che mi ero incaponito a ritrovare, per ricordartelo, il luogo dei Promessi sposi dove il Manzoni ha usato la stupenda esclamazione interrogativa “ahn?” che appartiene sia al nostro dialetto come a quello del Gran Lombardo: credevo di ricordarla verso la fine del romanzo nell’episodio della Casa del sarto, invece si trova al capitolo VI, righe 396-398, messa in bocca a Renzo Tramaglino, “tutto trionfante” per aver escogitato l’idea del matrimonio di sorpresa davanti a don Abbondio nella famosa “notte degl’imbrogli e de’ sotterfugi”. Poco male per me, anzi benissimo, perché l’errore mi ha indotto a rileggere per intero il nostro massimo romanzo che ho sempre frequentato, ma in maniera rapsodica, fin dalle medie inferiori quando un grande professore, l’Aldo Ballerini pisano (che ebbe anche il geniale amico Egidio Zelocchi) ce lo faceva compitare a turno ad alta voce ogni mattina nell’ultima ora di lezione. E’ stato uno dei pochi casi nei quali ho consentito alla scuola di interferire nella mia educazione.
   Quell’“ahn?” lo riascolto, e me ne beo, da circa quindici anni dalla voce di Attilio, pizzicagnolo principe di piazzetta Garibaldi, quando, alla richiesta titubante di un bell’ettone di coppa di testa o di prosciutto crudo, mi insinua tra il naso e le labbra una sottile particola (che non è mai una scaglia però) dei suoi aulenti insaccati. Il suo ”ahn?” guadagna nel cliente un assenso ben più sicuro e confidente di quello che Lucia concede a Renzo.
   Ecco, mercè questo minimo contributo alla tua generosa battaglia di defensor vulgaris confidavo di sgabellarmela, di eludere la quaestio senza considerare che, magari, sfondo una porta aperta, oppure che tu, carussume Mauro (da C.E. Gadda), dell’“ahn?” manzoniano eri già a contezza, eccetera. E che, in definitiva, il problema sia (come al solito) un altro: quello (terrificante?) se il dialetto carpigiano stia morendo, ovvero sia destinato a morire. “As lavora e as fadìga - per al pan e per la figa!” si diceva (e si va ridicendo in questi giorni di carestia) fin dai tempi di Vincenzo detto l’Umòun, mezzadro, padre del mio nonno paterno, ricordato per aver ceduto, solo in un caso, alla propria enorme possanza fisica scaravoltando nel fosso la baracchina, cavallo compreso, del padrone con la consorte che lo dileggiavano, mentre se ne andava a piedi il giorno del santo patrono a Modena dalla sua casa colonica: “casa di cristallo” la chiamavano, perché dentro d’inverno gli spifferi vi giocavano a turbine.
    Non sto sostenendo che il dialetto non vada preservato, con la scusa che di questi tempi le attenzioni si debbano concentrare soprattutto sulla lingua italiana, quella sì pervicacemente colpita da noi modeno-reggio-carpensi che abitiamo gli immaginari bovaristici di una plaga insicura e ignava, prima che dagli invasivi idiomi d’oltreoceano e dai modi d’espressione cyber. Chi scrive in fretta scrive male. In qualsivoglia lingua o slang si esprima. Le abbreviazioni servono i telegrafi, non il contrario. La lingua, amo pensare (le poche volte che si pensa davvero si supera la propria intelligenza, cioè la si adopra a costruire), è quella di tutti. Non so se tu, D’Orazi, l’hai notato. I più grandi poeti carpigiani: Ubaldo Urbini, Mario Stermieri, l’avvocato Scaglioli, l’Argia (grande, di lì non si passa), l’adorabile Jolanda che ti entra sorridendo nell’anima, lo stesso iroso Lauro Luppi (che da ragazzo voleva fare il pugile), il sopravalutato Loris Guerzoni, uomo di eccessivi epos e dolcezze gandhiane, e più giù, anagraficamente, ad Orlandi (puntuale nel registrare secco quello che forse lui, ma noi certamente sentiamo, di più scabro e di più esaltante) scrivono o hanno scritto, i più, bensì in dialetto, ma le loro scaturigini (glottologiche, semantiche?) sono quelle di chi non sa rispondere alla domanda: “Tu, in quale lingua sogni?”.
   Banalità! I citati sono dei poeti veri. Sognano in lingua italica, non ancora in italiano, forse, ma solo per il fatto che l’Italia ancora non c’è, e se c’è è arrivata in ritardo: per adesso siamo solo degli italiani europei e questo non aiuta. Per scrivere in italiano bisognerebbe tornare indietro. Qualcuno lo fa, ma non convince. Sognano in italiano i nostri poeti dialettali e, con opportuno criterio, si traducono in dialetto.  
   Personalmente io sogno delle immagini, più o meno sfuocate, come molti. Mi cullo nel sogno, se non ho esagerato nel cibo (mangio in prevalenza dei legumi) e … s’ciào. Se devo pensare al dialetto carpigiano e al suo destino mi si presentano parole e persone bellissime, mai tragiche. Premetto che del dialetto (perlomeno fino a quello di una quarantina e più di anni fa) avevo dall’infanzia una buona conoscenza. Nel senso che se anche non gli dedicavo acribìa d’attenzione, era lui a circondarmi, a vellicarmi l’attenzione.
   Una sorella zitella di mia madre, exempli gratia, prima della sua drammatica e ferale conversione alla vera fede, era solita  sacramentare così: “Zio scalabrèin!” anche appetto a me, fresco aspirante di Azione Cattolica. Alle mie cristiane rimostranze rispondeva che “scalabrèin” non costituiva bestemmia (contro ogni evidenza, dato che Scalabrino è il pur buffo e fastidioso Calcabrina, diavolo dantesco).
La bestemmia dialettale è, volta a volta, grassa, irosa, ma anche immaginifica e non di rado poetica. Ugo Turrini (bagnino al Cavo Lama), il nostro sommo narratore a voce alta, ci intrattenne una notte “nel tremolare e l’ondeggiar leggiero della luna” sulla nostra piazza più vasta sul tema: Come bestemmiano i lavoratori del braccio e della vanga, e come bestemmia il ceto medio. All’inizio fu lo spasso inquieto e teatrale di un arrotarsi tra cani spinoni e il dio degli eserciti; quasi un assalto alla divinità di bestie affamate: al cagnòun, al porch d’un can, al boja d’un can, al cancher, fino all’azzanno e all’identificazione: can d’un zio, e via sagrando. Il maestro Ugo narrava soltanto, non intendeva di smadonnare, riferiva i modi di un reagire verbale proprio alle diverse classi sociali, dal servitore di contadino al bracciante, e dall’operaio di fabbrica in su. Fino all’impiegato, al ragioniere, al geometra, all’artigiano tenutario di partita Iva. Domineddio da quei livelli raccoglieva improperi non meno giustificati, ma più soft: non più carcinomi e zanne di lupi bavosi, ma accenni a minacciose ritorsioni: Se fai così non vengo più a messa; ha proprio ragione mia figlia che non vuole sposarsi in chiesa, eccetera. Dove il dialetto non c’entra un fico, se non fosse che, per l’appunto, il dialetto non serve più.
   Serve al contrario a noi che l’amiamo, il dialetto, e che dobbiamo adoperarlo, ma parlo dal di sotto dell’ingobbimento di un ultrasettantenne, ohibò!
Il sottoscritto parla in dialetto:
1.    con una sola delle sue due sorelle;
2.    con l’amico-mecenate (Giulio Beltrami - vetraio in Carpi);
3.    con l’immigrato di turno all’osteria che lo trova più frequentato dell’italiano;
4.    con l’altro immigrato che mi vuole venire incontro vedendomi male in arnese;
5.    con nessuno dei miei tre figli che gli preferiscono l’inglese (e pazienza!) e perfino l’italiano;
6.    tra me e me, talvolta e di rado, quando nessuno m’ascolta,
7.    e non ricordo più bene se in gioventù lo usassi e con chi: con le ragazze, loro, le sghirbie, le sghètte, no. Tranne una sola, ma eravamo bambini. Per parlarci in dialetto, e per amare, bisogna essere in due.
   Stai tranquillo, caro Dorry, acquietati, ristai, riposati così come farò io, dopo la fatica che mi hai costretto a sopportare a leggere i tuoi scritti e a risponderti.
Sul dialetto carpigiano ne so una più di Bertoldo, ma non te le dirò mai!
   Con affetto e stima,
                                                              Gianfranco Imbeni
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Il fratello culturale e spirituale di Imbeni, Carlo Alberto Parmeggiani, così ha commentato la sua egregia nota: “Davvero un bel documento del mio serenamente disperato fratellino, e il bello è che non viene meno al suo miglior modus scribendi, che ce lo ha sempre fatto molto caro. Ovvero il suo rispondere a una domanda con una risposta, che solo marginalmente riguarda la questione. Preferisce invece dilungarsi giustamente nella sua biografia personale, evocando la sua vita e la bellezza del suo vivere antico, ancora legato al dopoguerra che ha vissuto, con gli entusiasmi, le ingenuità e le stupidità di allora dei cittadini del nostro Principato.
Che poi velatamente ti prenda "per il culo", fa parte del suo stile ed è un suo segno di affezione, già che per scrivere ha bisogno di vedere e di spiegarsi al suo interlocutore. Ma poiché, alla fin fine, teme di lasciarsi andare con le confidenze alla sua natura altruistica e pure religiosa, ma altrettanto disillusa verso il genere umano, si fa scostante e con amabile ironia si allontana dal pericolo (per lui) di dare di sé più del consentito, per non subire delle eventuali offese al suo amor proprio. Tuttavia ciò gli consente di procurarsi se stesso e di tenere in vita la sua vis polemica e sarcastica, un gioco all'estremo, consentito all’abile scrittore.
Lo so perché è il mio solo fratellino e quando ci incontriamo o ci scriviamo non manca mai di farsi vanto di avermi insegnato a tenere la penna fra le dita e di aver fatto tanti sacrifici per farmi studiare.”
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Il prof Antonio Martinelli, uomo di profonda cultura e grande esperto musicale, ha anche un debolezza per il dialetto. Gli ricorda la cara vita familiare e il parlare di una volta. Ritiene la presente ricerca interessante, anche se suggerisce di approfondire le fonti, in particolare quelle ottocentesche, onde trovare piena conferma di quanto esposto.
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Il noto esperto di dialetto modenese, Giorgio Rinaldi, si chiede anch'egli se il dialetto sia morto o no. La risposta che si dà è positiva, ma nel contempo fatalista. “Per me si sta soltanto trasformando e diverrà ciò che i più giovani vorranno ... e così sia !”
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Ecco mi sembra che a questo punto il ventaglio di opinioni espresse sia molto ampio e che il lettore possa farsi una sua opinione sul dialetto … del passato, attuale e del futuro. Io, pur conscio delle verità incontestabili espresse anche nelle analisi negative sopra riportate, invece resto, o meglio VOGLIO RESTARE, un po’ più speranzoso e ottimista e penso che, nonostante tutto, qualche spazio di lavoro e di fruttuoso impegno ci sia ancora.
Sento come mio dovere e impegno morale tenere accesa almeno la luce della speranza. Così con l’azione, l’amore e l’impegno di tanti amici tentiamo di andare almeno un po' controcorrente e di guadagnare qualche anno.
Se volete il discorrere sarà spesso frammisto all’italiano e il pensiero non sarà direttamente in dialetto e verrà tradotto: ma non importa! Ciò che conta è che esiste e che praticandolo viene concretizzata una chiara risposta a ciò che sentiamo interiormente; serve a farci sentire appartenenti a un’identità appagante e ben precisa. Molti ragazzi osservano con attenzione il fenomeno e cercano di capirlo e di interpretarlo. Vedremo … Noi intanto andiamo avanti. Il dialetto ci appassiona, ci diverte e lo vogliamo condividere.
Ogni giorno scopriamo qualcosa da trasmettere, di nuovo … anzi … d’antico.
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Nota finale.
Questa ricerca coincide con la morte di mio padre, avvenuta improvvisamente l’8 giugno 2011; queste righe rimarranno incise a fuoco nel profondo del mio animo, alternando la gioia di nuove considerazioni e scoperte con il dolore vivo della scomparsa del genitore a cui dedico mio questo scritto.
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Ringrazio di cuore per i loro preziosi pareri e consigli Gianfranco Imbeni, Attilio Sacchetti, Franco Bizzoccoli, Luciana e Livio Nora, Luigi Lepri (BO), Anna Maria Ori, Graziano Malagoli, Luisa Pivetti, Giorgi Rinaldi (MO), Antonio Martinelli, Luciana Tosi, Carlo Alberto Parmeggiani, Fiorella Urbini, Annamaria Loschi, Jolanda Battini, Giuseppina Bertolazzi, Franca Camurri, Anna Bulgarelli, Artemisia (Mimma Lugli), Valentina, Adele e Olga Compagnoni, Florio Magnanini, Oscar Clò, Sauro Roveda, Dante Colli, Marco Giovanardi, Maria Grazia Scaravelli, Anita Ferrari, Natascia Arletti, Millo Cerretti, Giulio Beltrami, Gian Luca Vecchi, Libera Guidetti e Giliola Pivetti, Renato e Dafne Corsi, nonché tutti gli amici di Facebook dello splendido gruppo “Chi parla dialetto Carpsan?” e il rughlètt di affezionati del dialetto del bar Tazza d’Oro di Corso Alberto Pio alle 7 del mattino.
                                                                              Mauro D’Orazi

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