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Ṡughèer a buciini
ind al Paarco
Momenti di vita giovanile
carpigiana fra gli anni ’20 e ’80.
Palline, figurine, nascondino,
scattini, giochi di carte,
ma non solo …
Pubblicato
NON integralmente in sei puntate
su Voce
di Carpi da giugno a settembre 2010
e anche il
21-07-2011 n 29, il 27-4-2012 n
17 e il 24-5-2012 n 21
Coordinamento e revisione
della grafia del dialetto
a cura di Graziano Malagoli
Correzione e perfezionamento del testo di Luisa
Pivetti e Giliola Pivetti
Versione di aggiornamento n
407R del 09-10-2012
indice
Introduzione pag. 3
Il Parco 4
Testimonianze 12
Il dizionario delle cose
perdute 28
I giochi con le palline 31
Sudisti
al Parco 58
Jeux
des cartes al Parco 66
Cucùu 79
La pelosa 92
I faciutèin 96
I
pattini a rotelle 115
Ròobi vèeci 125
La
Marina 129
note 135
Introduzione
Cercherò di raccontare
vicende legate ai tanti giochi che si potevano fare da parte dei ragazzi che
frequentavano il Parco; in particolare mi soffermerò sulle palline (e anche
molto altro), in un arco di tempo che va dagli anni ’20 agli anni ’80 del …
secolo scorso. Ma racconterò anche di altri giochi, passatempi e passioni.
Descriverò anche, con quanta più cura possibile,
argomenti indirettamente collegati al tema principale, che nel corso delle
varie ricerche sono usciti ripetutamente e che contengono fatti e vicende
interessanti e degni di essere ricordati e che ben delineano quei tempi. Talora
vengono riportati contributi esterni (anche non carpigiani) per meglio cogliere
l’essenza, intima e psicologica delle varie materie e per descrivere il clima e
i sentimenti dell’epoca.
L’intento iniziale era di preparare poche paginette,
ma, con lo scorrere delle testimonianze e delle mie ricerche, è risultato
fondamentale descrivere luoghi, personaggi e situazioni che hanno
caratterizzato la vita sociale di larghe fasce della popolazione di Carpi: in
particolare (ma non solo) il cosiddetto “Parco”, che citerò sempre con la P
maiuscola, che emerge prepotentemente come luogo centrale di importanti
capitoli di vita della nostra città nel recente passato.
Le migliori menti e le più valenti penne carpigiane
hanno voluto dare il loro contributo per descrivere queste tematiche e
ricordare le loro esperienze.
Numerosi sono stati anche i preziosi apporti esterni
alla nostra città, segno evidente che molte esperienze e sentimenti erano
patrimonio comune di più vaste zone.
Inevitabilmente,
quindi, le pagine sono aumentate e assieme alle palline, che hanno acquistato
quasi solo una valenza a pretesto, verranno narrate anche tante vicende umane.
Il Parco
1925 Progetto originale del
progetto del Parco dell’ing Malaguti
Il
principale terreno di gioco ha per esteso il nome di Parco delle Rimembranze.
1925 Il Parco delle Rimembranze
Esso
fu creato nei primi anni ’20 davanti all’allora nuovo Ospedale Civile
Ramazzini; detto delle “rimembranze”, perché ogni albero voleva ricordare i
tanti caduti carpigiani (i cui nomi sono incisi nelle lapidi di marmo appese
alle pareti del Cortile d’Onore del Castello) della Prima Guerra Mondiale.
1925 ca Il Parco delle Rimembranze
Le
tante testimonianze raccolte, regalatemi dai protagonisti sempre con entusiasmo
e passione, unite ai miei ricordi e incontri diretti, hanno creato un quadro
abbastanza completo su fatti, persone, sensazioni e naturalmente giochi, che
hanno caratterizzato gli anni “sine cura” dell’adolescenza di tanti ragazzi
carpigiani nell’arco di oltre cinquant’anni. Reminiscenze che rischiavano di
essere perse per sempre, a causa forse dell’errata convinzione che si trattasse
di cose da nulla.
Invece
oggi, a distanza ormai di decenni, emerge con forza, amore, nostalgia tutta
l’importanza che questi anni di vita e di esperienze hanno poi avuto
nell’esistenza di tante persone e hanno contribuito progressivamente a creare
una cultura e un substrato sincretici di carpigianità che ci caratterizza in
modo indelebile.
Il
gioco è l'espressione più autentica e spontanea dell'infanzia e anche
dell’adolescenza; è attraverso l'attività ludica che si possono intravedere
carattere, tendenze ed inclinazioni del bambino.
Il
gioco è una delle componenti principali nella formazione psico-fisica
dell'individuo; è occasione di socializzazione e di apprendimento; è formazione
ed educazione; il gioco stimola l'inventiva, la curiosità, l'ingegno, la
manualità, la creatività; esso abitua alla competizione senza paura, alla
riflessione interiore, al duro rispetto delle regole; attraverso il gioco si
potenziano abilità fisiche e motorie. Insomma il gioco contribuisce a formare
la mente: rappresenta un vero e proprio allenamento che il bambino compie per
avvicinarsi ed adattarsi alla società degli adulti. Giocando, il ragazzino
misura l'ambiente, prende coscienza dello spazio, valuta e anticipa le reazioni
degli altri ed impara a vivere.
Favorisce
l'integrazione: l'attività ludica non prevede differenze sociali o fisiche o di
razza, durante le fasi di gioco si è solo partecipanti o concorrenti …
nient'altro. C’è poi l’elemento della "competizione" con tutte le
peculiarità che il termine presuppone: abilità, coraggio, astuzia, azzardo,
capacità di alleanze, ecc ...
In
quasi tutti i giochi la più grande soddisfazione sta nel trionfare sugli
antagonisti, tornando a casa la sera con le tasche piene di palline vinte:
l'amore della vittoria è una condizione di esistenza per tutte le specie
viventi e quindi anche per gli assidui e solerti frequentatori del nostro
Parco.
Non
meno importante è l'elemento "emozionale", inteso come piacere di far
parte di un gruppo, di una banda di contrada, di partecipare al gioco, di
sentirsi protagonista della gara, di mettersi alla prova e di riuscire a
superare le difficoltà. Esiste, poi, nel gioco un intimo desiderio di
"piacere" e di "godimento". C’è la soddisfazione impagabile
di riuscire a vincere gli ostacoli, trasformando momenti ordinari, in “eroiche”
sensazioni piacevoli e gratificanti.
1960 Cartoline del Parco delle
Rimembranze
I
fatti e le vicende che narrerò sono spesso anche crudi, ma veri; sono le nostre radici, in un mondo e in una società che è cambiata e cambia
con caratteristiche e velocità che non avremmo allora mai potuto prevedere. La
descrizione dei giochi, che era inizialmente lo scopo primario di questa mia
ricerca, a un certo punto si è mischiata e confusa intimamente con le vicende
dei protagonisti, dei luoghi (in particolare il Parco e i suoi frequentatori) e
delle condizioni sociali presenti nei vari decenni che si sono susseguiti,
tracciando una piccola storia di Carpi e dintorni, vista da una angolazione
davvero particolare e quasi inedita.
Più
che di una nostalgica regressione al passato, si tratta di prendere coscienza
di ciò che è stato e di cercare di lasciarne la parte migliore a chi ci
seguirà.
Uno
scopo forse pretenzioso e immodesto, trattandosi spesso solo di giochi di
palline, di scambi di figurine, di rotelle di scattini, ma chi può e vuole
capire … capirà.
**
Dal
1960 al 1966, fino alla fine della 3^ media, da giugno a settembre tutte le
mattine e tutti i pomeriggi ero al Parco in bicicletta
Era
normalissimo che un ragazzino di 11 - 12
anni andasse da solo al Parco.
Oggi
sembra incredibile !
Al
Parco si “diventava grandi”, si conoscevano ragazzi più vecchi “pieni“ di esperienza e … biṡgniiva stèer dimònndi atèinti ch i n t
ciavissen. Si parlava (e si praticava un po’) di sesso, cominciando a
frequentare per la prima volta le “bambine”, anche se il rapporto era sempre
piuttosto difficile e conflittuale. Bisognava anche evitare, già allora, qualche
gay pedofilo, che frequentava i cessi maschili del Parco; un ruolo molto
pericoloso, perché quando questi disgraziati venivano beccati … erano botte da
orbi da parte dei ragazzi di maggiore età. Vi si ritrovava, in quel continuo
parlarne, come la circolazione di un’attenzione spontanea spinta più dalle
chiacchiere con i più grandi che da un’informazione del tutto assente su questo
delicato argomento. A tale proposito bisogna ricordare che negli anni ’50 e ’60
era normale costume che bande di giovinastri, per passare le serate estive, si
organizzassero e si appostassero dove costoro operavano, per poi intervenire
urlando e schiamazzando, facendoli scappare a gambe levate, per quello che oggi
definiremmo un controllo “sociale” del territorio.
La
bicicletta era il mezzo fidato che non si abbandonava mai, alla stregua del
cavallo dei covbòoi (cow boys); i primi anni avevo un biciclino con ruota del
19 presa usata. Poi, dopo l’ennesima promozione, mio padre mi comprò per 29 mila lire una
super bicicletta cosiddetta americana, marca Lygie, di uno splendido blu
metallizzato e parafanghi super cromati, grosse gomme bianche, completa di
borse e specchietti. Un modello molto in voga a metà degli anni ’60 anche nella
versione da donna e pure nei colori rosso e verde. Insomma una piccola Harley
Davidson a pedali. Un bici che faceva una gran figura, ma indù a gh éera da ṡgugnèer; era, infatti, tremendamente pesante,
quasi 30 kg; fu una mia scelta sciagurata al posto di una bici gialla sportiva
col cambio, snella e veloce.
Con
la bici si girava costantemente nei due anelli più esterni, per vedere chi
c’era e fare incontri. Naturalmente era VIETATISSIMO andare in bicicletta nel
Parco, una cosa assolutamente assurda che nessuno rispettava e io per primo.
Quando,
poveretto, arrivava il vigile per controllare, lo si vedeva distintamente da
lontano, la voce si diffondeva subito e tutti si comportavano di conseguenza.
Penso
che le multe elevate siano state molto poche; il vigile si limitava al
rimprovero e agli insegnamenti.
Altra
figura importante era il guardiano del Parco: quello storico, Giovanni Righi,
aveva avuto un glorioso passato nelle fila della Resistenza. I successori erano
in genere arruolati fra i cantonieri del Comune, con distacco estivo. Compito
del guardiano era quello di mettere dentro e fuori le macchinine a pedali da
dare noleggio (5 lire tre giri dell’anello interno); io però mi fermavo sempre
alla fontanina per un ristoro d’acqua, così i giri erano più professionali e
duravano maggiormente. Le automobiline riproducevano delle "1400" Fiat,
ma c'erano anche i cavallini con tanto di sulky da trotto, che io ho sempre
disdegnato con disprezzo. Il guardiano ci controllava e teneva d’occhio i più
turbolenti: in questo ruolo mi ricordo Zeno Gelmini e poi Sergio Poletti.
Non
di rado mio padre, che era un poliziotto, andava a parlare con loro per sapere
come mi comportavo.
**
Il
ritorno a casa dopo ore randagie di Parco era particolarmente penoso; si era
sempre messi in una qualche maniera: sudati, sporchi, impolverati, cun un quèelch straap. E la madre, la
nonna o la zia rimproveravano, ripentendo come un disco rotto: Mò indó ii t stèe miss acsè ... T ii
pròopria un stremnèe !! Vaa t a lavèer ... spurcaciòun, d un melnètt, d un napoletàan. Tiin t
adrée che la ròoba la còssta!
La
dimensione interclassista del Parco permetteva anche una certa promiscuità e “melange”
di stili anche nel look. Accanto alle precarie soluzioni di abbigliamento che
lasciavano intravedere precise scelte di risparmio, ad esempio misure
striminzite, rivoltamento di abiti, abbondanza delle cuciture … a rimedio, ce
n’erano di quelle che rivelavano piuttosto la provenienza da classi agiate.
Figli
di medici, avvocati, notai, “rentier” possidenti e benestanti (insomma … i fióo di sgnóor) si segnalavano in
genere per due dettagli: le palline appena comprate in cartoleria e non vinte ṡgattando qualche cerchio e i calzoncini detti “all’inglese”. Questi si
distinguevano molto chiaramente dagli altri sopra descritti, sia per elegante
fattura, che per la misura fin sotto al ginocchio, con due caratteristici
bottoncini dorati in fondo all’esterno della gamba. Il portatore veniva
beffardamente apostrofato dal coetaneo sottoproletario con un “iin i dal brèeghi cuurti tròop lunnghi o dal brèeghi lunnghi scurtèedi ?”
(trattasi di pantaloni corti troppo lunghi o di pantaloni corti che sono stati
inspiegabilmente accorciati ?). La piccante domanda preludeva a un invito al
ragazzo di buona famiglia a cimentarsi nel gioco, terreno di confronto
finalmente a pari livello. Lascio al lettore immaginare l’esito dello scontato
finale.
Mi
sembra doveroso ricordare anche il tipico abbigliamento da Parco negli anni
’60, e cioè il mio: classica canottiera con sopra o una maglina estiva a righe
(blu e bianche o rosse e bianche) o una camiciola a maniche corte con taschino
(sempre cucita dalla sarta prima menzionata). Me ne ricordo una a cui ero
affezionatissimo con fondo scuro e la raffigurazione di tante etichette adesive
dei più belli hotel d’Italia, pantaloncini corti con ampie tasche, berrettino
colorato di varie fogge, fatto indossare a forza e accompagnato dalla
immancabile raccomandazione “Stà atèinti a n ciapèer un cóolp èd sóol!” (presta attenzione a non prendere un colpo di
sole) e sandalini classici in corame, che si allacciavano con la cinghietta, o
quelli molto più accattivanti Superga - Pirelli di gomma bianca e telati in blu
o in rosso, sempre con bordino bianco, a chiusura con automatico. Un genere
allora molto diffuso, sia per maschi che per femmine, che si comprava nel
negozio di Mantovani Gomma in Corso A. Pio; provvidenzialmente lavabili e
rilavabili !!!
Erano
anni dove ancora non si guardava per il sottile e in caso di scarpe chiuse, che
per la crescita ben presto diventano corte, non di rado nelle famiglie meno
abbienti, d’estate, si provvedeva al brutale, ma efficace, taglio della punta
davanti. Le sole controindicazioni potevano essere le dolorose conseguenze per
i ditoni dei piedi, se con quelle calzature si giocava anche a pallone.
Essendo
la stagione delle palline coincidente con i mesi estivi era frequente anche
l’uso degli zoccoli (che non ho mai amato sia perché si perdevano facilmente,
sia per il rumore fastidioso). In dialetto sòochel o suclèin, a misura
infantile; truclòun (molto
onomatopeico) quando la dimensione si faceva più adulta. Lo spessore del legno
a fine stagione, si riduceva a una sottile linguetta lignea levigata dall’uso
intenso, compreso quello delle frenate in bicicletta nel caso non infrequente
di freni rotti. La libertà che essi lasciavano al piede era direttamente
proporzionale alla rumorosità e all’iscurimento delle estremità inferiori a
fine giornata. Interessante ricordare in questo piccolo ambito il termine
dialettale saclòun che definisce una persona
trasandata e rumorosa nell’incedere e nell’agire.
Altra
cosa da notare è che negli anni ‘40 e ‘50 i bambini non avevano soldi …
assolutamente!! E quindi si dovevano arrangiare in ogni modo, non solo per
integrare il pasto o per racimolare un po’ di legna, ma anche per avere a
disposizione quei pochi e poveri giochi che era possibile rimediare.
Fra
i più ambiti, a parte le palline, c’erano i soldatini: covbòoi, indiani,
nordisti, sudisti, fortini, carri e carovane dei pionieri, cavalli, cactus,
tende, accampamenti, ecc … Tutti riferiti al mitico mondo del western, nel
quale l’intero immaginario collettivo era stato coinvolto dalla produzione
cinematografica di Hollywood. Film puntualmente proiettati nelle sale
dell’Eden, del Corso, del Super o del Modernissimo, dove il mitico Settimo
Cavalleggeri arrivò puntuale per anni, a suon di tromba, in soccorso dei
“nostri”. Appunto “Ecco i nostri!” si sospirava, tirando fiato e fra le grida
entusiaste del pubblico di ragazzi.
Queste sensazioni indimenticabili ci avrebbero anche fatto poi
innamorare per sempre dell’immortale TEX, intrepido e amatissimo eroe dei
fumetti ancora oggi a distanza di più di 50 anni.
Marco Giovanardi ricorda che quando si desiderava fortemente un
gioco che altrimenti non sarebbe mai arrivato (tipo le nuove pistole ad acqua
simili alle Colt 45 degli americani, che tiravano spruzzi anche a 13 metri) lui
e i suo amichetti andavano da Riṡèina (i Lugli che preparavano gli
imballaggi) in Nicolo Biondo e si facevano dare delle cassette per frutta da
confezionare. Per due settimane inchiodavano le assicelle per poi andar a
riscuotere il necessario preciso per l’acquisto. Un’altra soluzione era andare
a “ferro”, girovagando per città e dintorni per raccogliere fili di ferro ed
altro da portare poi da Brani (il rottamaio) allora in viale Manzoni; ma quando
non c’era più niente da raccattare qualcuno cercava anche di smontare qualche
cancello. Su questo tema tornerò più avanti.
**
Un
importante particolare: presso la barachiina
- chiosco di Aves detto Ṡbargina,
posta all’ingresso del Parco, si andavano a prendere i ghiaccioli Indianino
della Ditta BIF di Cavriago (RE).
Ghiaccioli dell’Indianino
Il
prodotto, nato nel 1960, prese in tutta l’Emilia il nome del produttore. Con i
bastoncini ciucciati dei bif si
costruivano delle zattere che si cercava di far navigare nella vasca. Se uno
era fortunato sullo stecchino di legno c'era scritto che si vinceva un altro
ghiacciolo gratis. Il termine bif è
tuttora comunemente usato ed è l’acronimo dei 3 soci che lo inventarono.
Testimonianze
Nei
giardini pubblici e al Parco i ragazzini provavano la vita reale che avrebbero
incontrato crescendo. I ragazzi spesso si organizzavano in “ bande” di
quartiere e di contrada. E’ preziosa la testimonianza sui ragazzi della
Cremeria di Viale De Amicis negli anni ’40 e ’50. Marco Giovanardi ricorda che, quando decidevano di andare al Parco,
dovevano essere almeno in tre o quattro. Un “single” non avrebbe avuto un
destino certo facile.
Andare
al Parco era quasi come mettere piede nella "Casba"; a gh éera giint èd tutt i quartéer e ch i nn
iiven paùura d gniinta (c’era gente di tutti i quartieri che non avevano
paura di nulla). C’erano anche personaggi diventati leggendari: “Guèerda guèerda lè lò . . . mò al sèe t chi
l è ? . . . l è al fióol dal pòover Sugamàan!!” La zona di gioco era quella
dove ora c'è una costruzione in muratura con un bar, subito dopo la pista di
pattinaggio. Il terreno era riconoscibile perchè non c’era l’erba. Il gioco di base era "al ciircol", ma non come si faceva
al quartiere; infatti lì era … enorme!
Il diametro arrivava anche a un metro. I ragazzi di Viale De Amicis erano
sempre molto timorosi ed emozionati, perché coloro che dominavano erano quelli
“di casa” della vicinissima "Cagnóola"
(Via Manicardi). Tutti dicevano che era gente terribile, senza mezze misure: “Vèdd èt lè lò l è Curzio!” .. veniva
sussurrato con allarmato timore. Poi
giravano strani personaggi e il buco sotto le scarpe l'avevano tutti. Ma c’era
chi con le mani in tasca e fischiando, quàand
‘na buciina la se ṡluntanèeva e i ṡugadóor i s tacagnèeven, lò al l'incamerèeva
cun al buuṡ ind la sóola dal schèerpi e poi, zoppicando, al se ṡluntanèeva fènnd
fiinta d gniinta. Per non dire di quelli che gli era girata bene e i gh iiven al fróodi dal bisaachi taant
piini d buciini, che uscivano da sotto i calzoni corti fin a rivèer èggh sòtt ai ṡnòoc’.
C’era
anche chi, abilissimo, con lesta mossa afferrava la pallina fra le dita di un
piede facendola scomparire. Vanni
Previdi ricorda ancora con dolore e disappunto di essere stato vittima
della sparizione di un suo cavaliere, posto nel cerchio, da parte di tale
Aristide, famoso per la sua scaltrezza.
**
Lo
scrittore carpigiano Carlo Alberto Parmeggiani
ricorda anch’egli quell’epoca.
Negli
anni ’50 c'erano grandi scontri e grandi sfide fra le varie bande di bambini,
ossia quelle della Cremeria, della Cagnola e di Corso Fanti (alla quale
apparteneva), per non parlare poi dei tremendi ragazzini del “Palamaio” – il
condomino popolare in fondo a Via Santa Chiara, considerati come gli Unni.
Spesso, per vincere delle biglie, si organizzavano trucchi e inganni. Anch’egli
conferma l’astuzia di chi si faceva un buco nella suola di un sandalo o una
scarpa, o ne metteva un paio di quelle già consumate. Fingendo di verificare il
numero di "buli", o “bulli”, e di boccine, andava con un piede dentro
al cerchio, metteva la scarpa sopra la pallina o le 5 o 10 lire. Con un'abile
mossa dell'alluce, risucchiava e lestamente scompariva il bulo, la moneta, o la
buciina ... dentro al buco
della suola. A questo si aggiungeva poi un finto e risentito biasimo verso gli
avversari (a volte ignari dell'inganno ordito) per non avere messe tutte le
palline o le monetine in gioco. Sicché, dopo un breve litigio che si risolveva
con una spintonata, oppure un "Va’ a
caghèer!" si provvedeva a riorganizzare la partita, nominando un
arbitro "imparziale", che spesso era poi quello con il buco nella
suola. Costui, ridendo sotto i baffi che ancora non aveva, continuava
proditoriamente coi suoi traffici di piede. Oppure si ritirava spontaneamente
dall'agone, avendo già ottenuto quello che voleva. E già da allora, ad osservare bene, si poteva
ben capire di che pasta fossero fatti i futuri cittadini del nostro amato
Principato.
**
Anche Pietro Marmiroli,
amatissimo professore di lettere, ha vivi e gustosi ricordi di una intensa
estate del ’59 al Parco, un luogo anche per lui di quotidiana frequentazione,
anche perché sua madre era la Piera: una distinta signora bionda che serviva
presso la baracchina. Egli racconta che quando andava a giocare alle vetre al parco, prima di cominciare una
partita al cerchio bisognava guardare chi era in gara. Pochi giocatori infatti
avrebbero voluto fronteggiare l’attacco di Domenico (Domingo Iscariòoca, da la
bèela tòoca, alludendo alle
lentiggini), giocatore dalla mira infallibile e dal cricco letale, capace di
svuotare il cerchio dopo un solo colpo. Per questo si avvaleva di una serie di
collaboratori, ragazzi più piccoli, che avevano il compito di raccogliere nelle
loro tasche dei calzoni quelle palline, molte, che non potevano trovare posto
nelle sue. Lui era un grande, anche per l’età, maggiore di tanti, e portava già
le braghe lunghe, quei blue jeans con il risvolto, marca Rifle originali,
comprati direttamente al porto di Livorno portati da navi USA, e definiti da
molte madri “braghe da teddy boys”, perché sospette di trasgressione. Dome
aveva la stoffa del leader e perciò capeggiava una banda alla Cagnola, dove
abitava, nella casa di Lando Degoli, il campione di “Lascia o raddoppia”. (Il
professore melomane dopo la sconfitta televisiva, aveva voluto chiamare il suo
cane amatissimo Fagottino, in memoria del controfagotto, strumento su cui era
caduto nel quiz televisivo).
Quando Domenico usciva da quella casa di via Manicardi, già
passando davanti all’osteria e al gioco delle bocce, sorpassato il Maglificio
Tom, uno dei primi in città, pregustava le sue vittorie e le vittime che
avrebbe miss a gaat.
Le biglie che vinceva in parte le rivendeva ai ragazzi rimasti a
secco; la tariffa era 10 lire ogni 4 vetre,
il ricavato avrebbe finanziato i progetti della banda. Obiettivo prioritario:
la costruzione di un proiettore di immagini in legno, con cui visionare le
avventure di Blek Macigno. La vendita dei “cavalieri”, pezzi particolarmente eleganti, da esibire in gare con giocatori
di rango, avrebbe reso molto al mercato del libero scambio del parco dove
valevano di più., perché erano un contrassegno di eleganza che designava una
élite di giocatori un po’ aristocratici. Il vetro di cui erano fatti non era
trasparente come per le altre palline, ma bianco, opalescente, latteo, venato
solo da due linee sinuose, che potevano essere blu o rosso vinaccia. Averne uno
era l’orgoglio di tutti quelli che lo possedevano; allo stesso modo era
importante avere nel proprio corredo da gioco anche una bella vetra “di cambio”.
Questa serviva ad evitare di essere colpiti nella manovra di
avvicinamento al cerchio, quando gli altri giocatori, colpendola in corsa
l’avrebbero allontanata dalla meta. Proprio per questo, se lo si annunciava per
tempo era possibile cambiare la propria pallina con una più piccola, meno
visibile. La più ambita era la vetra
che funzionava come valvola nei super alcolici, all’interno della bocca della
bottiglia del brandy Stock 84 e del Sarti Tre Valletti Finsec. Liberata dal
tappo a vite in cui era inserita diventava un perfetto, piccolo, trasparente e
incolore “cambio”, giusto per evitare colpi nemici. Oltre a un buon
assortimento di palline la qualità per cui il buon giocatore si distingueva era
la potenza del cricco. Dome usava la posizione di leva del pollice sull’indice
che schizzava in avanti criccando e tenendo il resto della mano appoggiata a
terra. Ma altri ponevano l’unghia del pollice dietro il polpastrello dell’indice
e spingevano avanti il primo. Il tiro più diffuso, normale, era invece quello
in cui il pollice afferrava e faceva leva sul medio che veniva spinto in avanti
a colpire la biglia. Insomma al parco c’erano tanti modi criccare e tanti
giocatori. A volte la potenza dell’urto prodotto poteva “smiccare” qualche
boccina, ma se erano di buon vetro non si sarebbero rotte.
Però c’erano anche bambini che non si potevano permettere
l’acquisto delle vetre, troppo
costose e ricorrevano ad un loro succedaneo, le biglie di terracotta. A
venderle era Gana, l’uomo del carrettino che offriva anche spirali di
liquirizia con al centro una pallina di zucchero colorata, del costo di 5 lire,
insieme ai Mignìin, una sorta di
wafer rivestiti delle immagini dei calciatori, agli spadini e alle sciabole di
pochi centimetri che trafiggevano con la lama caramelle gommose dal gusto molto
similfrutta.
I
wafer
I mignìin furono gli antesignani dei wafer e i custèeven déeṡ fraanch
Il venditore era un uomo dall’età indefinibile, non giovane, che
si addormentava spesso seduto su una sedia, di fianco alle sue merci. Le
palline che vendeva lui erano sfere tristi, ricavate da un’anima di argilla
malamente colorata di verde salvia, di rosso “vinovomitato”, come dicevano i
bambini. Con 10 lire ne dava una dozzina, ma quelli delle vetre non le volevano
nei loro cerchi, nemmeno se ne mettevi un numero doppio. E poi spesso quando
venivano centrate da un cricco potente si aprivano lì sul terreno di gioco,
spaccandosi in due, come un cocomero maturo.
Gana aveva il suo bel da fare a magnificarle. A volte per
attrarre clientela al suo carretto chiamava in aiuto Titina, una “basker ante
litteram” che veniva in corriera da Soliera, e già di suo animava con un spettacolo. Aveva fatto a lungo la
mondina in Piemonte dove aveva imparato molte cante che ora aveva deciso di proporre nei giardini pubblici dei paesi
limitrofi.
La cantante si gloriava di avere fatto esibizioni a quelli di
Formigine e presto avrebbe allargato la sua turnée includendo anche
Campogalliano. In verità si trattava di una vera donna spettacolo, capace di
fare orchestra da sola. Infatti estraendo dalla tasche profonde del grembiulone
di cui era vestita un pettine, lo avvolgeva con un foglietto di cellophan
trasparente e, soffiandoci sopra con le labbra accostate come fosse
un’armonica, emetteva un suono vagamente musicale, che serviva di
accompagnamento alla voce. Il repertorio era molto ampio, andava dal sociale
“Son la mondina, son la sfruttata”, al melodrammatico “Come pioveva”, passando
per l’impertinente “Spazzacamino”, che narrava dell’artigiano ecologico alle
prese con la cappa in difficoltà di tiraggio di una qualche bella signora.
L’ironia allusiva del brano i bambini non potevano ancora capirla, presi
com’erano dal gioco delle vetre, ma gli avventori del chiosco dei gelati di
Sbarginna, se la ridevano tutta, stando seduti ai tavolini della bella pagoda
di legno colorato, sul cui piano centrale faceva mostra di sé la lunga stecca
di ghiaccio da grattare a mano, per confezionare le granite.
Quando l’esaltazione raggiungeva il limite, il pur assopito Gana
era capace di rialzarsi dalla sedia, estrarre da un cassetto del suo carro il
suo organetto e accompagnare la cantante-orchestra, esibendosi a sua volta in
un goffo passo di danza con un sorriso tra il vacuo e il compiaciuto.
Il pezzo musicale più richiesto dagli avventori della gelateria
di Aves era uno che a Sanremo era andato forte, portato al successo da un
cantante, Rocco Granata, che fino allora aveva fatto il minatore in Belgio.
Raccontava di un tizio che aveva preso una grossa sbandata per
una certa Marina, una ragazza mora, ma carina che non voleva saperne del suo
amore, per cui lui era agitato dal dilemma di come fare a conquistarle il
cuore. E quel turbamento gli procurava una forte accelerazione cardiaca; una
volta che l’aveva incontrata tutta sola, il cuore gli era battuto a cento
all’ora.
Quei cento all’ora che faceva anche la Seicento, la nuova
utilitaria di un’Italia che stava cambiando costume, mentre accelerava verso il
boom economico, in quell’ormai lontano 1959.
E
qui finisce il prezioso racconto testimonianza di Pietro Marmiroli, già
stimatissimo professore del Liceo Scientifico Manfredo Fanti di Carpi.
1950 Tempo di palline
**
Il
sagace e sregolato scrittore e saggista di costume Gianfranco Imbeni ricorda che appena finita la guerra nel ’45-’46
frequentava le scuole comunali nel Castelvecchio; già allora davanti alle
“Fanti” c’era già una baracchina con dolci e cibarie per bambini, gestita da
tale Ivano.
Il
gioco delle palline, nelle sue molteplici forme, tra le quali complicati
tracciati che simulavano le tappe del Giro d’Italia, era praticato assiduamente
proprio sul terreno del Gioco del Pallone (vedere nota 1) trasformato in … Gioco delle Palline e in una vera
propria bisca per ragazzini. Infatti il fondo in terra battuta, un po’
polverosa, dell’odierno Piazzale Astolfo era ideale per le epiche sfide di
allora. L’intera vasta superficie era piatta e liscia, priva di alberi e senza
i cubetti di porfido che furono collocati di lì a poco dal sindaco Bruno Losi.
Una scelta urbanistica che fece cessare ogni attività ludica nel sito e di
fatto portò poi al trasferimento al Parco di quasi tutto il denso operare dei
ragazzini cun al véedri.
Tante palline con tanti preziosi
cavalieri
Fino
agli anni '50 i giochi
praticati dai ragazzi, quasi mai si identificavano con la necessità di mezzi
finanziari. Per qualche giovane fortunato possessore di una bicicletta, di un
monopattino, di un paio di pattini a rotelle o di un vero pallone di cuoio del
n 5 (oggetto questo rarissimo e in ogni caso sempre di uso molto difficoltoso,
causa la cronica assenza di ago e pompa per gonfiarlo), tanti erano i ragazzi
che avevano solo la voglia di giocare.
Ma
allora come si divertivano, dal momento che lo svago è una necessità naturale
per la gioventù? Semplicemente
inventando giochi fatti di niente o con molto poco, ma dove era necessario
dimostrare bravura, forza e scaltrezza: il gioco delle palline, nei suoi vari
aspetti, era una delle attività più divertenti e formative.
A
quei tempi, bisogna ricordare, la villeggiatura era solo riservata ai ricchi o
a dei fortunati che avevano parenti in località marine o montane. C'erano sì le
colonie, ma vi vigeva una disciplina che raramente poteva andare d'accordo con
l'istinto libertario dei giovani. Qualcosa si poteva fare negli oratori delle
parrocchie, ma sempre troppo poco. Il Parco rappresentò dunque un irripetibile
terreno di incontro per tante generazioni di giovani, almeno fino agli anni
'80.
**
L'amico
fraterno Giovanni Bulgarelli, oggi
trasferitosi a Parma, ricorda che all'inizio degli anni '50, anche lui
frequentava quotidianamente il Parco con la sua banda di ragazzini di 10-11
anni di Via Giordano Bruno (via detta L'Uultma,
cioè L'ultima strada prima delle mura, in direzione est verso la stazione) ma,
dati i loro miserrimi mezzi economici, non potevano neppure permettersi di
giocare a palline. Organizzavano però con grande passione il "Giro
d'Italia" o il "Campionato di calcio" con i cuercìin (coperchini), cioè i tappi di lamiera a corona usati per
chiudere le bottiglie. Nei bar allora si usava direttamente la terra come
cestino per depositare senza tanti problemi tappi, sputi e cicche. I ragazzi,
con perseveranza e pazienza, attendevano il momento giusto li raccoglievamo ad
uno ad uno per formare le squadre e dar vita al Parco o in qualche cortile a
infinite partite e tornei. Una volta d’estate, mentre giocavano arrivò un
ragazzo, un po' più grande di loro, che con voce concitata urlò: "óo, in piàasa a gh è un néegher!! (Ohh
in piazza c'è un nero!!)". Immediatamente i piccoli giocatori si misero i
coperchini in tasca e corsero a vedere. Era proprio vero! In mezzo alla piazza
c'era proprio un néegher che
chiacchierava, camminando tranquillamente con un bianco. Stupiti e incuriositi,
tutti i ragazzini della banda cominciarono a seguire i due che parlavano una
lingua che non era certo il carpigiano. La voce di "un néegher a Chèerp" si diffuse con gran velocità e dopo pochi
minuti altre bande si unirono a loro, aumentando a dismisura il vociante
codazzo. Ad un certo punto, i due, forse infastiditi, lasciarono la piazza per
andarsene per i fatti loro.
Come
cambiano in fretta i tempi !!
Chissà
se ai ragazzini d'oggi farebbe lo stesso effetto sentir dire che in piazza c'è
un carpigiano vero?
Riprendendo
le testimonianze, altre vive sensazioni della vita al Parco negli anni ’60, ce
le racconta Vanni Fregni. Egli
ricorda che le palline di vetro erano supercolorate, in diverse dimensioni
(ogni pezzatura aveva un nome diverso); poi ce n'erano di quelle traslucide a
tinta unita. Si andava al Parco, finite le scuole in giugno e comunque quando
il tempo lo permetteva, e cominciava a far caldo. In quel periodo il profumo
dei tigli riempiva l’aria, insistente e inebriante, facendoci compagnia per giorni e giorni. Al
Parco ci si incontrava vicino alla piccola piscina vasca che avevano costruito
a forma di S. Poco lontano c'erano dei posti in cui si giocava a palline; il fondo
giusto era su terra, pari e livellata, sulla quale si disegnava un cerchio, con
uno stecchino; dentro venivano inserite alcune palline per ogni giocatore. Poi,
da alcuni metri, si iniziava a tirare col "cricco". C'erano palline
che valevano più di altre, ma i parametri di valutazione erano soggettivi e
dettati dai giocatori stessi. Di solito si giocava solo tra "uomini",
ma ogni tanto c'era una bimba, anche molto carina, che giocava coi maschi e che
poi diventò sua cognata.
Si
trascorrevano pomeriggi interi a giocare assieme agli amici di scuola ed altri
che si conoscevano al Parco.
Era
normale che ai genitori si dicesse che si andava al Parco e che questo bastasse
per poter stare fuori diverse ore. Si facevano 1 o 2 km a piedi o in bici,
attraversando strade e incroci; sempre senza alcun controllo da parte dei
genitori che erano impegnati a lavorare. Bei tempi, quelli!! C’erano meno
vincoli e paura, molto più autonomia, ma anche più responsabilità. Le regole
erano chiare: se cadevi dalla bici o dal motorino, ti stracciavi i pantaloni,
ti sbucciavi il gomito ed il ginocchio, tornando in casa, oltre al dolore, ti
beccavi due scappellotti, uno per i pantaloni e uno per le sbucciature. Era
normale; la responsabilità era quella di stare attenti a ciò che si faceva; in
caso di errore arrivava la giusta punizione. Al giorno d'oggi se un bimbo cade
in bici viene caricato sull'ambulanza, si cerca di scoprire se la colpa è
d'altri, si fa una denuncia ad ignoti, si tagliano amicizie, se è anche
coinvolto un figlio di amici, e si fa fare un anno di analisi al ragazzino
caduto per farlo uscire dal trauma.
**
Carlo Lodi ricorda che negli anni '60 frequentava l'Osteriola
e che l'unico esercizio pubblico che allora esisteva era appunto ... L'Osteria.
Essa svolgeva le funzioni di "paltino" con la rivendita di sali e
tabacchi, gestita dalla famiglia di Martinelli Dorando. Quello era l'unico
posto dove si potevano trovare dei coperchini. L'osteria, nata un tempo come
cambio di cavalli, era situata di fronte all'attuale distributore di benzina
Q8.
La
pista di gioco cun i cuercìin era proprio nell'area
del distributore, che allora non esisteva. Lui e gli amici avevamo creato una
pista in terra battuta e tutte le volte che pioveva la si doveva rifare. Si
gareggiava anche con le palline di vetro, che allora l'erano un vero un lusso. Infine
si giocava anche con le palline di plastica con all'interno la foto dei più
famosi un corridori in bicicletta. Passato quel periodo in quel triangolo di
terreno i ragazzi iniziarono a giocare a pallone e fu in quell'epoca che nacque
la squadra del CIBENO che tutt'ora esiste presso il Circolo GUERZONI di via
GENOVA.
**
Primo Saltini, artigiano idraulico, dà questo interessante
contributo del clima e delle sensazioni dell’epoca, ricordando gli anni quando
era ragazzino a cavallo del 1950 a Limidi. A quei tempi c’era naturalmente
moltissima ristrettezza di soldi, ma i bambini avevano le loro palline, tempo e
spazi per giocare.
Si
comperavano a Limidi da
Righètti, una mitica bottega dove avevano (e hanno tuttora)
di tutto e di più. Un leggendario emporio, quasi da far west, che il Comune di
Soliera dovrebbe salvaguardare come luogo protetto e che meriterebbe un libro
tanto è fuso con la storia di Limidi degli ultimi decenni.
Si
giocava nella “corte”, dove Primo abitava e c’erano molti bambini con i quali
passava intere giornate con i “cricch ind
la pissta”.
Si
usavano “al buciini d préeda” che
erano di tutti i colori; solo più avanti, nei primi anni ’50, furono
disponibili quelle bellissime di vetro, compresi i “bulòun” o i “sfiròun”.
Si
giocava in continuazione, con grinta, competizione e slancio. Le litigate, le
discussioni e qualche ṡburlòun erano
frequenti, ma si risolvevano altrettanto alla svelta.
Si
costruiva la pista nel cortile comune, tutto ghiaiato; con le mani si preparava
la pista, ammucchiando i sassolini ai lati, poi si usava la sabbiolina che
rimaneva sotto, dopo averla bagnata per aumentare la consistenza del fondo.
Non
sempre si usava l’acqua, talora si provvedeva con liquidi personali e di facile
e pronta disponibilità. Piano piano con le mani si batteva il fondo e si
lisciava. Si provvedeva a mettere anche “al
buuṡi e i trabuchètt”, simboli anticipatori degli imprevisti e delle future
avversità della vita da adulti. Chi non saltava questi ostacoli e restava
intrappolato, doveva pagare la “ṡvilupiina”.
Un concetto che stava a significare: “ Se hai commesso l’errore … pèega!!
Acsè te t ṡvilùpp!” Infatti lo sfortunato tiratore doveva pagare un pegno
in palline a chi in quel momento era in testa alla gara.
In
prima media ci si incontrava anche altri amici di scuola di Limidi; il punto di
raduno divenne ben presto dietro alla casa del popolo … a ṡughèer al véedri. Era un gioco prevalentemente maschile ed erano
pochissime la bambine che erano ammesse a partecipare.
Se
qualcuna lo faceva, veniva subito battezzata come “mas-ciùss”, che stava a significare che la bambina era un
maschiaccio con poca femminilità.
Si
giocava anche in colonia a Pavullo; si costruiva una pista presso un pino
gigantesco che si trova nel bellissimo Parco ducale.
La
pista era fatta un po’ in salita e un po’ in discesa; con le radici sporgenti
dal terreno si ottenevano dei tunnel e anche dei ponti; la terra era bella
pastosa rossa, adattabile a fare qualsiasi curva o cunetta. La pista girava
tutto intorno al grande albero e aveva una lunghezza considerevole di almeno 15
metri.
Si
procedeva a squadre: una con 6 bambini in basso e un'altra nelle parte alta della pista; ogni
squadra metteva il traguardo dove voleva e le regole erano a piacere sempre
modificabili, all’inizio di ogni partita.
Il
difficile era salire, ma siccome la pista era dotata di comode e opportune
anse, la buciina andava, con la
calibrata spinta di un cricco perfetto, a rifugiarsi in queste rientranze,
fermandosi a una certa altezza da cui partire nel tiro successivo. Ma era
complicato anche scendere perchè la biglia non doveva uscire di pista, pena la
squalifica dopo un tot di volte. I bambini i
se ṡvilupèeven e ricorrevano a qualche trucco; quando toccava loro a
ciccare con la dita facevano sulla pista delle righe a scaletta, senza farsi
vedere dagli altri, per poter frenare la
sfera nella sua corsa in discesa.
**
Il
mio amico Gianfranco (Gigia) Sgarbi,
imprenditore nel ramo compressori d’aria, anche lui assiduo frequentatore del
Parco negli anni ’60, ci dà un interessante confronto con i cambiamenti odierni
del sentire socio familiare. La vita sociale dei bambini di allora è
completamente cambiata rispetto a quella di oggi. Pochi anni fa sua madre
regalò ai due nipotini una scatola di palline di vetro coloratissime e
bellissime. I figli di Gigia
naturalmente impazzirono di gioia e se ne appropriarono subito per giocarci, ma la moglie e la suocera
gliele tolsero altrettanto immediatamente dalle mani perché, a loro dire,
potevano ingoiarle o farsi male, scivolandoci sopra. Se fossero prevalse queste
logiche ... al Parco sarebbero avvenute delle stragi. La nostra attuale società
non prevede più un'esistenza autonoma e costitutiva di esperienza in
campo aperto per i bambini, ma stanze piene di quintali di giochi, che vengono
utilizzati, sotto stretta sorveglianza, solo per qualche ora, quando sono nuovi
e poi abbandonati a strasarìa in
inutili cataste. Oggi è poi anche difficile trovare un terreno di gioco adatto:
è tutto prato, oppure cemento, asfalto, porfido, palladiana, anche nei parchi
comunali. Non esistono più aree in terra battuta, con quel dito di polvere
nocciola necessario per tracciare
anche un semplice cerchio.
1968
Parco della Rimembranze - il carrettino col cavallo
Davide Cattini, classe 1962, ricorda alcuni dei più bei pomeriggi
della sua vita.
Là
in periferia, lontani dal Parco, sui polverosi cortili di sottovallo fine, reso
duro dalle piogge e dal calpestio di frotte di bambini non c'erano bisce o
altri giochi di palline: si praticava solo (s)picc’
e spaana e ... il cerchio. Si
disegnava, emuli di Giotto, una linea per quando possibile tonda a terra, tracciata col dito nella polvere e
dentro veniva messa la posta: uno, due, tre palline per partecipante. La conta (a-stam-blam-feminili-li-gutan-gali-gali-stick-e-stuck-me-rin-gutt)
per chi parte per primo, secondo e così via.
I tiri rigorosamente col cricco, mai col lancio. Il primo tiro partiva
da dietro una apposita riga, parecchio lontana (dieci, quindici passi) dal
cerchio.
La riga di partenza
Lo
scopo del gioco del cerchio era naturalmente quello di prendere quante più le palline della posta. Il metodo era
quello di entrare con la propria pallina nel cerchio, precedendo gli avversari,
e "picciare" o “tacciare” fuori le biglie al suo interno. Le regole
erano che si può continuare a tirare chi "picciava" la pallina,
stando dentro al cerchio. Prendeva la pallina chi la getta fuori dalla riga.
Passava di mano chi finiva fuori dal cerchio o sbagliando mira o facendo un
tiro corto senza colpire la pallina in posta, pur rimanendo dentro il cerchio.
Era consentito gettare fuori dal cerchio gli avversari per render loro
difficile il rientro, mandandoli il più lontano possibile. La riga faceva
cerchio.
Usavano
vari tipi di biglie: palline (vetro, normali e mini), dame e damoni (di
ceramica, di diametro superiore a quello delle palline; erano però più leggere
e veloci, per tiri lunghi), e grosse palline di vetro dette bulloni, grandi
come due o tre palline di vetro normali.
Facendo
precedere ogni proprio tiro da un’esplicita dichiarazione, era possibile
sostituire la normale pallina con una delle altre, con tutti i vantaggi e gli svantaggi che
questo poteva comportare nel prosieguo del gioco. Il bullone, per
esempio, difficilmente poteva essere buttato fuori dal cerchio, ma era pure più
facile da colpire e difficile da usare in tiri superiori ai pochi centimetri.
Con
solenne dichiarazione, prima di ogni proprio tiro, era possibile sostituire la
normale pallina con una di diversa dimensione, sempre con tutti i vantaggi e gli svantaggi del caso.
Si
poteva giocare anche sulla palladiana, con regole simili, ma con i tappi della
coca cola o aranciata, razziati a sacchi presso le fabbriche del quartiere, che
avevano i distributori automatici con cavatappi incorporato. Il cerchio si
faceva col gesso, con un frammento di laterizio o si sceglieva uno degli
spicchi più grandi della pavimentazione. I
cuercìin servivano anche da munizioni per fucili di legno a elastico.
Davide
si confrontava con gli imbattibili Claudio, detto Claudino, e Marco, ma anche
coi i più normali Corrado, Massimo, Alfredo e Luca e con tanti altri, lasciati
dentro un tramonto estivo, mentre giocavano su uno dei cento cortili del loro
quartiere, là dedrée da la Siilan, e, in seguito … mai più ritrovati.
**
1968
Frequentatrici del Parco della Rimembranze
Come
abbiamo visto, salvo rare eccezioni, il gioco delle palline era molto sessista
e le bambine erano allontanate con modi bruschi; solo dopo la metà degli anni
’60 qualche rara ragazzina fu ammessa al gioco, dando per altro buona prova di
abilità e destrezza. Questo parziale inserimento fu chiaro segnale di preavviso
di un ’68 ormai imminente e ineludibile.
Le
bambine però frequentavano anch’esse numerose e assidue il Parco; Anna Maria Ori, amabile storica
carpigiana, ci regala questi interessanti momenti degli anni ’50.
"Ho anch'io una serie di ricordi di
pomeriggi nel Parco da bambina, anche molto piccola da sola con amiche, dai
sette-otto anni circa. Era il modo di crescere, di socializzare, perché no? di
imparare a gestire i conflitti con gruppi diversi.
In questi giorni, chissà perché, mi sono tornati in mente i
momenti che oggi considero più belli: quando in autunno, gli operai del Comune
scavavano grandi buche rettangolari al centro di uno dei settori del Parco,
diverso ogni anno, e lo riempivano di foglie secche. Le pareti erano
perfettamente verticali, fonde forse due metri, con una scaletta scavata nel
terreno in un angolo. Noi bambine - i maschi avevano altre occupazioni - quando
era mezza o quasi piena di foglie, ci divertivamo a saltarci dentro e a
risalire. Ricordo ancora il profumo delle foglie secche, la loro diversa
asperità, il loro crocchiare, come ci si affondava e come a volte era faticoso
correrci sopra per raggiungere la scaletta, risalire e tornare a saltare, con
un rimbalzo tutte le volte diverso. Alcuni anni le buche erano anche due e solo
nel lato nord del Parco, quello di fianco allo stradone per Mantova.
Riflettendoci, quello era un bel modo per smaltire i rifiuti e
contemporaneamente concimare in modo naturale il terreno.
Nelle belle giornate già fredde, ma col sole, i colori del Parco
erano bellissimi; lungo il fosso che costeggiava lo stradone c'erano molti
platani, che hanno le foglie coriacee, che non si disintegrano così presto, a
differenza di quelle degli ippocastani, che sono ancora attorno all'anello
centrale e che si sfogliano prestissimo. Ogni tipo di foglia aveva il suo profumo. Le buche restavano aperte finché
le foglie non cominciavano a disfarsi, poi venivano richiuse, e in primavera
non si conosceva più niente, tutto era pari come prima. Forse le foglie, ormai
diventate concime, venivano tolte e sparse dove era necessario. Un giorno,
all'improvviso, spariva il mucchio di terra che segnalava la presenza della
buca e restava solo un rettangolo di terreno smosso al centro di un settore del
Parco. “
**
Concludo
le preziose testimonianze con il noto esperto e cultore di tradizioni locali Attilio Sacchetti, di lui dobbiamo, ad
esempio, menzionare in particolare una completissima e preziosa raccolta degli scutmàai carpigiani, cioè dei soprannomi
familiari.
Sacchetti
ricorda che il gioco delle palline nei primi anni '30, veniva praticato in un
mondo molto arretrato e diverso
da quello degli anni '50 e '60.
A
quei tempi il gioco delle palline era molto in voga, ma vigeva una regola non
scritta, ma da tutti rispettata: si giocava al
buciini solo al tèimp da l'ùa (al
tempo dell'uva) in autunno, come invece si giocava ai faciutèin (figurine) solo in primavera. Giocare fuori dal tempo
era considerato un non senso, un tradimento e comunque chi ci provava non
trovava corrispondenza alcuna negli altri ragazzi.
Le
biglie degli anni '30 erano tutte di terracotta; di vetro esistevano solo le
"vedre", recuperate dalle bottiglie di gasosa di cui erano il tappo a tenuta. Le palline di terracotta costavano da la Roṡiina Tutòuna, quella che inventò la baracchina per la
vendita delle caramelle nel gioco del Pallone, ora pomposamente chiamato
Piazzale Re Astolfo (vedere nota 1). Costavano
1 centesimo di lira l'una; cioè con un soldo (la moneta più piccola in
circolazione) se ne compravano 5. I
sfiròun di acciaio erano le sfere di recupero dei cuscinetti delle ruote dei
camion; erano merce rarissima e ambita, difficilmente oggetto di gioco.
1930 tesoretto di biglie di
terracotta 216
sfere magnetiche
I giochi dei ragazzi di allora non erano pratiche
fini a se stesse, ma vere e proprie attività di abilità per arricchirsi ... di
palline. Infatti esse avevano un vero e proprio valore economico e commerciale:
1 pallina corrispondeva a 1 centesimo. Le biglie potevano essere usate come
moneta di scambio per ogni tipo di transazione nel piccolo mondo frequentato
dei ragazzi. Le specialità con le
palline erano picc' e spaana, la buṡóola, al
mucìin, la turètta, al ciircol e
solo a metà degli anni '30 fu inventato il cricco.
Circa
le bande di ragazzi, ogni strada ne aveva una e quelli che le componevano si
dividevano, d'estate, in 2 categorie: chi aveva i sandali e chi era scalzo.
Sacchetti
si ricorda molto bene la banda di Via De Amicis, formata da una ventina di
ragazzi nati negli anni '20. Non rammenta invece bambine e, se esistevano,
appartenevano certo ad un altro mondo, che i maschietti di allora non
conoscevano. La bicicletta era un oggetto solo per i grandi; c'era solo un
ragazzino che aveva una piccola bicicletta, ma non la usò mai, quando era nella
banda, anzi per prudenza e per paura di sommari espropri, non ne parlava
nemmeno.
1920 Bambini intenti al gioco
Al ṡóogh dal buciini negli anni '30 aveva anche una funzione istruttiva:
abituava a far di conto, a soppesare economicamente un bene materiale (la
pallina) e a valutare situazioni, giochi, transazioni, scambi, baratti che
insegnavano il modo di affrontare la realtà che si sarebbe poi ripetuta, in
scala maggiore, da grandi. Insomma la pallina e il suo mondo erano, sia pure in
piccolo ed in modo molto primitivo ed elementare, una scuola di vita. Un
aspetto che si sarebbe molto attenuato negli anni ‘60, quando i ragazzini si
trovarono calati in una realtà diversa e ben più comoda: quella del miracolo
economico. Una "nuova" società del benessere che avrebbe cambiato
costumi, abitudini e il modo di affrontare la vita fin da piccoli.
**
Giuliano Lugli,
della rama dei Sabessùm (perché
il nonno mangiava volentieri la “saba”), già vigile comunale, mi racconta che a
Fossoli da bambini le palline se le facevano soli, appallottolando il fango.
Approfittavano del forno esterno; finita la cottura del pane o di altri
alimenti, perché giustamente per motivi di pulizia primma i vèec' i n vliiven mìa (prima i vecchi non volevano),
mettevano le palline a cuocere con il calore residuo. In questo modo facevano
anche le casine del presepio. I Sabessùm
erano in undici fratelli.
Forno di campagna
**0**
1950 Garèin èd cariulèin in Via De Amici con Marco Giovanardi.
Il dizionario
delle cose perdute
2012 Francesco Guccini alla
presentazione del suo libro
Anche
Francesco Guccini nel suo libro “Il dizionario delle cose perdute” (ed
Mondatori 2012 Libellule), fra una pompetta del Flit contro le zanzare e uno
slip di lana grossa e inasciugabile fatto dalla mamma per le vacanze al mare,
dedica un capitoletto alle immancabili palline.
Francesco
Guccini compie un viaggio nel passato e scava nella memoria facendo emergere
emozioni, condizioni e ricordi ormai sepolti.
Il
cantautore modenese ha deciso di “tirar fuori dal vecchio baule” tutte le
sensazioni e le situazioni del nostro passato recente e ciò che è emerso l’ha
inserito in quest’ultimo suo lavoro. Dizionario delle cose perdute è infatti un
omaggio al nostro ieri, alle cose che ormai sembrano irrimediabilmente perdute.
Guccini cerca di farle rivivere con un testo che le ripercorre e le ripropone
all’attenzione di tutti. È un’analisi divertente e puntuale del nostro vivere
quotidiano di ieri affinché tutto ciò che è stato non cada nel dimenticatoio.
In
questo libro tutto evoca il passato, a cominciare dalla copertina del volume
che è un evidente richiamo ad un marchio verde di sigarette nazionali che si
fumavano anni fa. Il libro, scorrevole e di piacevole lettura, si divide in
capitoli ognuno dei quali dedicato ad un argomento.
L’autore
descrive nel dettaglio i giochi della sua infanzia: le palline, il
chioccaballe, le fionde o i cariolini, con minuzia spiega come riusciva a
crearseli da solo e di quanto ne andasse fiero. Racconta con grande entusiasmo
la scoperta del chewing-gum, si sofferma su quanto siano mutati i costumi e ci
narra di un tempo in cui i bambini andavano in giro con le braghe corte anche
d’inverno e al cinema si poteva ancora fumare.
Una
carrellata dunque di ricordi e di piccole cose che sono state il centro del
mondo di un adolescente e poi di un adulto, una sorta di lungo amarcord a
tratti nostalgico, ma di intensa vena poetica.
Del
resto il passato, la memoria di posti, persone, cose di un altro tempo sono da
sempre il motore di ricerca dei testi di Guccini ed il Dizionario è proprio una
riflessione sulla velocità dei cambiamenti generazionali, cambiamenti questi
che rendono il confronto tra passato e presente sempre più difficile. Il
cantautore, uno dei più amati dagli italiani, sente il dovere di riportare a
galla emozioni e situazioni che ha vissuto e che lo hanno accompagnato lungo un
pezzo della sua vita: dalla maglia di lana ai treni a vapore, dai cantastorie
di piazza al caffè d’orzo, cerca nella memoria un senso di appartenenza al
passato.
Questo
libro, agile e scorrevole, che rappresenta il tentativo dell’autore di aprire
uno scorcio sul nostro quotidiano di ieri, si presenta come un lungo discorso a
metà tra romanzo e riflessione e mantiene dalla prima all’ultima pagina un tono
elegante e poetico.
La copertina de “Il dizionario
delle cose perdute”
Le palline
Come per i coperchini, ognuno di noi aveva una discreta
dotazione di palline di terracotta, più qualcuna, rara e preziosa, di vetro.
Le palline venivano messe in gioco, nel senso che si potevano
vincere o perdere. Il nostro sistema di gioco era il “castellino”, e cioè,
stabilito quante palline c'erano in palio, se ne sistemavano tre l'una accanto
all'altra e se ne aggiungeva una in cima. Si decideva poi a che distanza tirare
un'altra pallina; questa, di solito, di vetro.
Se abbattevi il castellino, lo vincevi.
In Appennino, con gente più intimamente legata alla terra, con
questo sistema potevi giocarti delle noci.
Si tirava a mano e le palline che non avevano colpito nulla
rimanevano sul terreno; se qualche castellino restava in piedi, il gioco
riprendeva dal giocatore con la pallina andata più lontano.
Per colpire invece un'altra pallina o
fare una gara, diciamo, di fondo, il modo di tiro era diverso: potevi tirare da
terra con il normale cricco (sistema cittadino), o col complesso sistema
appenninico, consistente nell’appoggiare la pallina fra pollice e indice e poi,
piantato il mignolo a terra, sparare il colpo. Questo metodo barocco era bello
a vedersi ma di difficile realizzazione, oppure richiedeva davvero grande
abilità e lunga pratica.
Provai a importarlo in città ma venne
prestamente rifiutato. Mi si dice invece che a Bologna usavano questo
particolare tiro con regole ferree, tipo “palmo”, cioè la distanza dalla quale
potevi tirare, e "cicato”, forse il suono della pallina che bocciava
contro un’altra.
Ma non ho capito bene, cito queste
cose solo per evidenziare l'enorme complessità. di regole dei giochi di noi
ragazzi di allora.
Si giocava anche a una specie di golf:
dopo aver scavato una serie di buchette (amici di Bologna mi hanno raccontato
che estraevano cubetti di porfido dal manto stradale; dopo li rimettevano a
posto,
certo!), si faceva il percorso di buca in buca con una pallina.
Ma era un gioco piuttosto statico e lo si praticava abbastanza di rado.
Questo invece il prediletto. Nel dopoguerra fiorivano in ogni
dove cantieri di case in costruzione, che avevano, a fianco, deliziosi mucchi
di sabbia umida. Quando i muratori, alla sera, smontavano dal lavoro, i mucchi
venivano presi d’assalto e piccole operose mani costruivano piste con audaci
gallerie e arditi ponti in salita, deliziose curve a gomito e numerosi “tourniquet”:
il tutto in vista di un altro Giro d’Italia, non più con i tappini, ma con le
palline.
Mi dicono che un gioco simile veniva fatto, in anni più recenti,
al mare, usando sfere di plastica con l'immagine di un corridore ciclista o
automobilista. Mi sembra però si tratti di pallida
imitazione del nostro gioco, che aveva una caratteristica di
selvaggia improvvisazione in più e anche il piacere del proibito, che
comportava l’ingresso di soppiatto nel cantiere dopo essersi assicurati della
mancanza del guardiano, e la triste certezza che sicuramente, il giorno dopo, i
rudi muratori avrebbero distrutto con nonscialansa il nostro capolavoro di
pista, per costruirci banali case.
I giochi con le palline
Per
descrivere il gioco delle palline, che in sé sembrava cosa semplice e
innocentissima, ho dovuto raccogliere preziose testimonianze di molti dei
protagonisti delle varie epoche: sia dei grandi campioni, di cui si è
tramandato il nome grazie a una fama meno effimera di quanto si potesse prevedere, sia dei perdenti
incalliti.
Le
testimonianze che ho raccolto vanno dagli anni ’30, fino agli anni ’80, quando
l’epopea del gioco delle palline scomparve in modo lento e silenzioso. Non ho
invece notizie invece sul passato più lontano e sul periodo iniziale dello
scorso secolo.
Ogni
decennio ha avuto le sue specialità, le sue regole, i suoi personaggi, i suoi
modi di dire e come sempre, in questi casi, non esiste mai una sola verità, ma
si evidenzia una complessa sfaccettatura delle vicende, per altro sempre in
continua trasformazione.
Brevemente
un “escursus” storico sulle palline
può essere così riassunto come segue.
Numerosi
scavi hanno rivelato che con le biglie si giocava già ai tempi dell’antica
Babilonia e nella Roma dei Re. Quelle più antiche risalgono al 3000 avanti
Cristo. Nella tomba di un bambino egiziano, infatti, sono state trovate diverse
gemme rotonde. Il museo britannico, invece, ha esposto biglie rinvenute a Creta
in scavi minoici eseguiti ai piedi del monte Petsofa. Esse risalgono al 2000
-1700 a.C. . Nell’antica Grecia, invece, i bambini giocavano con le noci.
Diversi
scavi archeologici hanno dimostrato che dal 1500 in poi i vari giochi con le
biglie iniziarono a conquistare l'Europa e quindi anche l’Italia.
A
Roma, ad esempio, è sempre esistito il gioco delle palline o "berge"
(forse dal nome di una antica munizione “Palla Berger”), le piccole sfere di
coccio o di vetro, tutte colorate che avevano anche loro regole e cerimoniale.
Questo gioco è vecchio di secoli, gli sfaccendati dell'antica Roma lo
praticavano con assiduità. Ancor oggi si possono vedere sui gradini di tanti
edifici pubblici dell'epoca le buchette (o "bucette") che servivano
per questo gioco. Basta andare al Foro Romano per vederne un certo numero sulla
scalinata della Basilica Giulia, vicino ai segni di altri giochi, come il
filetto e un fac-simile della dama.
Gli
svaghi con le palline sono sempre state considerate un’evasione rispetto ai
compiti di scuola. Un poema anonimo del 1600 descrive uno scolaro inglese come
“una nullità in sintassi, ma un esperto in biglie.”
Grandezza,
materiale e colore delle palline variava a piacere. Oltre alle diverse biglie
d’argilla, si trovano soprattutto quelle in pietra marrone e, dal 19^ secolo in
poi, anche di vetro.
I bambini inglesi parlano delle biglie, secondo le diverse
varietà, dalle commoneys, le comuni, le inferiori, fino alle alleys - biglie
d’alabastro - tra cui le più quotate sono quelle di sangue cioè quelle di un
bianco purissimo, venato di rosso.
I bimbi americani le chiamano: kabolas, steelies, jumbos,
milkies, peewees, a seconda del formato, dalle più grandi alle più
piccole.
Dal XVIII secolo fino al XX, la Germania è stata il centro
mondiale dell’industria delle biglie, originariamente erano di marmo, come è
indicato dal nome inglese marbles, poi furono confezionate con materiali più
economici, come la terracotta e il vetro. Oggi, i bambini americani, possiedono
palline di acciaio cavo.
La
produzione di biglie di vetro iniziò solo nel 1848 a Lauscha, città della
Turingia, dove il soffiatore di vetro Christoph Simon Karl Greiner inventò una
speciale forbice per tagliare le biglie. Nel settembre 1848, Christoph Simon
Karl Greiner ottenne la concessione per produrre in esclusiva biglie in materia
sintetica e gemme semipreziose. Queste biglie nei colori più svariati con al
centro straordinari motivi a spirale si ottengono in modo tradizionale
aggiungendo colore o nastri di vetro colorati al vetro fuso.
In
Italia nel secolo passato le biglie di vetro venivano nei primi tempi fatte a
mano a Murano con una speciale tecnica di preparazione: da stecche di vetro
trasparente intorno altre liste di vetro colorato viene preparata un'unica
stecca; essa viene ritorta e poi tagliata a pezzetti di lunghezza uguali.
Questi, ancora morbidi, venivano fatti rotolare su un piano e, con l'aiuto di
un’apposita tavoletta in movimento, assumevano la forma rotonda desiderata e
intanto si raffreddavano.
Davvero incredibile la precisione degli artigiani, che lo facevano anche come
dimostrazione per il pubblico. Successivamente negli anni ’70 furono introdotte
delle apposite macchine industriali.
**
Buciini, véedri, sféeri: questi erano i tre tipi di palline usate dagli
anni ’40 fino ai primi anni ’80. I terreni di gioco furono principalmente due:
prima il giardino pubblico dietro al Comune, poi in particolare dagli anni ’60
il Parco delle Rimembranze, detto semplicemente “il Parco”, davanti
all’ospedale. Accanto a queste superfici pubbliche, intensamente frequentate,
occorre poi aggiungere anche i tanti cortili privati, sempre aperti ai giochi dei
bambini di ogni epoca. Allora i cancelli erano sempre spalancati.
Il
gioco con le palline era molto diffuso e a Carpi si diffuse un modo di dire per
mandare a quel paese, in qualche altro posto della malora, uno tedioso
seccatore: “Mò va a ṡughèer a buciini ind al Paarco!!” (Ma vai a giocare
palline nel Parco!!)
*Al buciini erano di terracotta colorata e furono usate fino ai
primi anni ’50, poi sostituite gradualmente da quelle ben più belle di vetro.
Erano un oggetto povero e avevano una caratteristica molto importante: erano
molto fragili e, spesso, non sopportando i tiri violenti dei ragazzini,
si spezzavano in due e venivano buttate via.
Io
non ho fatto in tempo a giocare con questo tipo di palline e sinceramente non mi sono mai piaciute.
Ma
esisteva anche una variante ancora più povera: prima della guerra, la miseria
era tale, che i bambini fabbricavano da soli le palline con un impasto di terra
bagnata. Una volta seccate al sole estivo, se c’era a disposizione del colore,
venivano anche pitturate.
*Al véedri erano invece le palline di vetro, quasi sempre a
occhio di gatto. In altre zone prendono svariati nomi: vetroniche, marmorine,
galassine, ecc ... . Negli anni ’50 erano molto costose e molto meno diffuse,
ma nei successivi anni del boom economico divennero quelle di uso comune. Erano
di vetro trasparente con bei motivi colorati all'interno dal diametro standard
di 16 mm. Esistevano anche delle biglie più piccole da 10 mm, ma soprattutto
più grosse di varie misure, i cosiddetti vedròun
(o vidròun) (negli anni ’50), o bulòun, bulòuni, bulli e buli (dagli anni ’60 il poi). Essi avevano un
valore da 2 a 6 palline normali e venivano usare quando il gioco si faceva pesante e raggiungeva le fasi finali.
Si hanno notizie anche di un grosso bulo
da 10, ma forse era un soprammobile di Murano.
C’erano
poi i “cavalieri”e “i fanti”; questi ultimi erano di misura più grande, mentre
i primi erano biglie particolarmente pregiate, di vetro lattiginoso non
trasparente con spicchi esterni colorati. Valevano due o tre palline normali a
seconda della bellezza. Tale criterio era molto soggettivo e dipendeva dalla
libera interpretazione del proprietario. Queste sfere erano molto molto ambite e difficilmente
messe in gioco. Accanto al cavaliere, c’era anche la presenza della Dama Nera,
una voluttuosa pallina che comparve alla fine degli anni ’70. La Dama Nera era
di vetro trasparente, grande e con il motivo
all'interno completamente nero, un colore davvero raro nelle palline di
allora. Proprio questa ultima fase temporale vide l’ingresso sul mercato
di varianti sempre nuove di palline; per gli scambi c’era una vera propria
“borsa” con tutti i rischi relativi. Una ambita pallina che d’estate era
costata 100 lire, l’anno dopo poteva non valere quasi più nulla.
I
più temerari avevano preso anche il vizio di scaldare sul fuoco le biglie di
vetro, tenendole con una pinza per poi immergerle in acqua fredda; questa “tempratura”
rompeva il vetro dall'interno, ma non all'esterno, rendendo la biglia molto
bella. Era una pratica puramente estetica, in quanto le biglie divenivano
estremamente fragili e quindi non adatte al gioco.
*Al sféeri e i sfiròun
erano di acciaio: lucidissimi e oggetto di smisurato desiderio, provenivano
dalla rottamazione di grossi cuscinetti .. appunto a sfere; non di rado
ricavati da mezzi militari della 2^ GM in demolizione.
Solo
pochissimi potevano permettersele e talora venivano usate con intenti assassini
con la sfrummbla (fionda). Nel gioco potevamo
essere usate per i primi lanci, perché molto pesanti e con precise traiettorie.
Io non ne ho mai avuto uno, con invidia e dispiacere, così quando pochi anni fa
me li sono trovati davanti, in
una scatola presso una bottega di ferramenta, me ne sono comprati dieci per una
fischiata.
Bambini inglesi e americani intenti
al gioco universale delle palline
*
Possiamo classificarne anche un quarto tipo; in tempi più antichi dagli anni
’20 in poi si trovano le palline in vetro ricavate dalle bottiglie di gazzosa (gasosa), la prima bevanda analcolica
gassata ai tempi di Gerbi, Binda e Girardengo, campioni di ciclismo. Questa
bibita era anche detta “bicicletta” o “champagne della pallina”. I bambini recuperavano la biglia di vetro di
tenuta, rompendo senza tanti complimenti la bottiglia ormai vuota che la
conteneva. A quel tempo queste bevande erano un vero e proprio lusso destinato a pochi e la biglia trasparente era
ricercatissima, perché più tonda e pesante rispetto alle palline di terracotta.
Bibite con la sfera
**
Se
le palline di terracotta si spezzavano o si sbriciolavano, quelle di vetro
erano più robuste, ma si smiccavano, cioè ne veniva via una briciola,
soprattutto nei pesanti bulloni, se
cadevano su una superficie dura. L’uso di tali palline fallate era sempre
oggetto di contestazione da parte degli altri giocatori e spesso richiedeva un
arbitrato con compensazione.
Le
palline di vetro si compravano da Romano il cartolaio - merciaio in corso
Fanti, dove oggi c’è la pasticceria di fronte a Palazzo Gandolfi, poi anche da
Palmati sempre nella stessa strada. Il primo dei due, sotto al bancone, però
teneva anche qualche pubblicazioncella letteraria erotica; niente di ché agli
occhi odierni. Roba classica, ad esempio “Fanny Hill Memorie di una donna di piacere” dell’inglese John Cleland scritto nel 1748, che cedeva in prestito in
cambio di poche lire per alcuni giorni. Negli anni ’50 i ragazzini di allora
andavano anche presso il tabacchino di
conosciuto con il nome di Munndèṡ,
sotto il Portico di Corso Fanti. Il titolare, seconda la diffusa vulgata
dialettale a nn éera mìa dimònndi
bundàant (non coltivava la virtù della generosità disinteressata); al cuntèeva al buciini cóome s i fussen
stèedi dal pèerli presióoṡi (contava
e centellinava le palline come fossero state delle perle vere). I ragazzi
dell’epoca mi testimoniano concordi che occorreva tenere gli occhi bene aperti,
perché, se per 10 lire spettavano altrettante vetre, l éera faacil ch i fussen sóol nóov (era
molto facile che fossero solo nove).
A
metà degli anni ’60 si commerciavano palline anche al Parco presso una
baracchina ambulante su furgone rosso, che forniva anche il primo servizio
ristoro per i parenti dei degenti all’ospedale. Il gestore, di alcuni anni più
anziano di noi, ci raccontava, con dovizia e precisione di particolari, le sue
imprese amatorie mercenarie consumate al venerdì sera precedente con prostitute
a Modena. Inutile dire che il pubblico era molto attento e godeva della
possibilità di porre domande molto precise. Non vi dico la delusione quando
moltissimi anni dopo scoprii che l’improvabile
narratore si inventava ogni cosa e che addirittura le sue preferenze si
collocavano sulle vibrazioni … del canone inverso.
Se non ricordo male nel 1965 il listino prezzi
prevedeva 5 lire per 3 palline di vetro normali e 10 lire 7 palline; i ṡugadurètt meno abili (i giocatori
improvvisati, senza talento o novizi dell’arte) andavano a fare frequenti
rifornimenti, così come i giocatori del casinò con le fiches (óo … chè a s ciacaara in francéeṡ
!!
Non equivocate!).
Le
palline si vendevano anche presso la baracchina ambulante di Emilio Diacci
(fratello del nonno del mio amico Daniele Diacci), su una specie di carretto a
ruote, che stazionava tutti i giorni in piazzale Astolfo davanti alle Scuole
elementari Fanti. Per noi bambini era un vero e proprio mini Paese dei Balocchi
con caramelle colorate, girelle di liquerizia con una pallina di zucchero
colorata al centro, gomme da masticare, giochini e paciughi vari. Al mattino
c’era anche una sezione alimentare con al
chisóoli (focaccine salate rotonde, in italiano “chizze”), che per una
miglior cottura venivano quasi bucate al centro dalle dita del fornaio, e con
le famose pesche di pasta dolce, dall’impegnativo primo morso: due emisferi
viola, bagnati di alchermes e zuccherati, ripieni di cioccolato morbido che
incollava le due parti. Ricordo anche che con 10 lire si compravano dei
“librini”, dove in ogni paginetta c’era un disegno progressivo di una storia;
facendoli scorrere velocemente col dito, producevano un rudimentale cartone
animato in movimento, accompagnato dal caratteristico fruscio d’aria.
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Anche
presso al paltèin della Zambella (vedere nota 2), antica
tabaccheria situata nello strategico angolo fra Viale Carducci e Via Gobetti, i gestori, tra i quali la
notissima e sempre beninformata Zambèela,
avevano tentato negli anni ’60 di commercializzare le biglie di vetro; ma non
avevano fatto i conti con il loro figliuolo, il noto e famigerato Fabiìn
Carretti (vedere nota 3). Il terribile ragazzino, che avrebbe poi avuto una
fulgida carriera in ogni tipo di gioco d’azzardo, dando eccelsa prova delle
proprie capacità nelle più varie specialità legate all’astuzia, all’alea, alla
sorte e al rischio, aveva un
inspiegabile buco nero: era una vera schiappa nei giochi con le palline.
Ancora oggi egli rammenta con vivo dolore e afflizione quella pesante e
negativa fase della sua vita, densa di umiliazioni e sconfitte. Quasi ogni sera
al turnèeva a ca a gaat (rientrava
ripulito di tutte le vetre), con
tutte le palline perse; così all’indomani era costretto a infrangere i sacri
doveri legati ai corretti vincoli familiari e a dare un “colpo al cassetto”
nella bottega dei genitori. Con abile e veloce mossa portava via, non visto,
una manata di biglie, che invece sarebbero state destinate alle vendita.
Naturalmente a un certo punto questi inspiegabili cali di magazzino trovarono
la loro intestina spiegazione e i
genitori, prendendo atto che non era nemmeno lontanamente possibile
ipotizzare un ravvedimento operoso o un’intima e spirituale redenzione del
figlio, pensarono bene di sospendere l’improduttivo commercio delle palline di
vetro.
Il
ragazzino, svelto e astuto già da allora, pensò bene di associarsi con un forte
e coetaneo giocatore del tempo, Federico Borsari: il socio giocava con talento
e abilità, mentre Fabiìn teneva cassa
e magazzino, avendo cura di organizzare incontri, montepremi e riscossioni. Un vero procuratore
“ante litteram”, insomma! Da quel
momento la sua sorte nel mondo delle vetre
mutò radicalmente con sostanzioso e stabile successo. Una preziosa esperienza
di vita che egli replicherà poi in futuro su altri piani ... di gioco,
fruttandogli anche la fama di òmm da
paréer. Cioè di persona saggia e di vasta esperienza di vita e di uomini, a
cui si può rivolgere per avere un avveduto, astuto e preventivo consiglio circa
una tal faccenda, avendo comunque sempre l’avvertenza di non chiedere mai il
suo aiuto, se in una vicenda è anche solo marginalmente coinvolto come
controparte.
**
Nel
giardino retrostante il Comune, i ragazzi giocavano ai piedi della montagnola,
un tempo molto più alta, dove finalmente si godeva di una superficie pari e
adatta per le varie sfide.
Mentre
al Parco il campo di gioco era esattamente dove oggi ci sono i tavolini
dell’attuale ristorante Clorofilla; lì il terreno era ben livellato in terra
battuta con un paio di millimetri di polvere nocciolina, che consentiva di
segnare bene il cerchio e di avere la giusta scorrevolezza per le palline di
vetro.
1930 Ragazzini americani
**
Per
tirare le palline esistevano essenzialmente due metodi: al volo, tipo
gioco delle bocce, o con il cricco (in dialetto al cricch): tale parola è
certamente di origine onomatopeica, in quanto riproduce il suono del dorso
dell’unghia che picchia sulla pallina; si pratica mettendo in tensione e
schioccando l’indice o il medio con la falange del pollice sottostante.
I
più bravi con il talento e l'esercizio riuscivano a colpire con facilità una
biglia a 3-4 metri di distanza!!
C’era
anche un terzo tipo di tecnica: il lancio facendo rotolare la pallina su
terreno, ma era più raro.
Tecniche di cricco
Per
tutti i tipi di tiro occorreva in ogni caso predisposizione naturale, occhio e
allenamento, a cui si aggiungevano, per il “cerchio”, anche importanti elementi
di tattica e strategia.
Le varie specialità
I
giochi con le palline erano tanti e spesso variavano con le epoche, con i
luoghi e coi mezzi (sempre poveri e semplici) a disposizione. Una
caratteristica che è importante segnalare è che in tutti i giochi vi era sempre
parità perfetta fra i contendenti, il che insegnava il senso della giustizia ed
equità. Inoltre i giochi nella loro semplicità ed elementarità non si
prestavano a brogli. I primi brogli e ambiguità comparvero col gioco del cricch: spargere in un certo modo le
palline, spingere, non criccarle, dava adito ad un gioco poco pulito; i monelli
più piccoli evitavano il gioco del cricch.
Elenco
di seguito i giochi più importanti e famosi.
Al
séerc’ (il cerchio) o al
ciircol - Gioco principe,
paragonabile alla briscola per diffusione e popolarità.
Si
disegnava per terra un cerchio o con un bastone o con un bulone. Le dimensioni variavano a seconda del numero di giocatori e
delle palline in palio: si solito due o tre a testa.
Si
faceva una riga a una certa distanza e poi ognuno lanciava la propria pallina.
La vicinanza determinava l’ordine di partenza. In caso di dubbi si poteva
invocare il “Farcene! “ o in dialetto “Fèer
gh èn!!” che significava misurare con metodi empirici i centimetri: con la
spanna della mano, uno stecco, un bastone, ecc … se la semplice valutazione a
occhio non era condivisa.
Da
qui e dall’intreccio delle regole scaturiva una gamma di espressioni gergali,
in parte mutanti da decennio a decennio, che contribuivano a creare una vera e
propria “lingua delle palline”; nascevano, si modificavano, scomparivano, si
tramandavano espressioni e modi di dire per lo più dialettali molto
caratteristici.
C'era
il rito della pulizia della pista prima del tiro. Si stava accovacciati a
terra, con le ginocchia scoperte e sbucciate, indossando pantaloncini di tela
corti; infatti quelli lunghi, dopo una certa età, si mettevano solo alla
domenica, altrimenti un uso eccessivo li avrebbe rovinati. Si iniziava a
livellare il terreno, battendo con il palmo della mano, poi si toglievano tutti
i piccoli ostacoli minerali e vegetali; infine si soffiava a pieni polmoni per
togliere la polvere residua. Dopo aver preso la mira si tirava per raggiungere
il cerchio, quanto prima e esattamente possibile.
Le
regole e i relativi codici verbali erano ben presenti. Ma chi si incaricava di
farli rispettare? La risposta stava nel modo e nel tono perentorio col quale
erano urlate le frasi che più sotto riportiamo. Valeva il principio che avesse
ragione chi per primo le invocava, gridandole a proprio vantaggio.
A
turno si criccava sulla propria pallina che in vicinanza del cerchio si poteva
sostituire con un bulone. Se nel
percorso di avvicinamento si colpiva qualche ostacolo, sassi, foglie o simili,
si urlava “Friida!” (ferita) o anche
“Bussca léeva!” (togliere l’ostacolo)
e si poteva ripetere il tiro, dopo aver pulito il percorso; l’invocazione però
poteva essere contestata e chi si opponeva gridava subito: “Bussca laasa!”(ostacolo ininfluente o
addirittura di fatto inesistente). O ancora, sempre con identico significato: “Bussca còunta quèel!” o al contrario: “ Bussca còunta gniinta!”.
Una
ulteriore variante era: “Bussca còunta!
” e “ Bussca còunta mìa!”.
Un’altra
regola che si poteva invocare era il “Ticèer
fin ch a m pèer!” (Ticchettare fin che mi pare !). Si strillava in favore
di questa opzione, il cui nome aveva una stretta derivazione onomatopeica,
quando si era all’interno del cerchio con la propria pallina, ciò al fine di
cercare, in modo dinamico, la posizione più favorevole per ripulire
vantaggiosamente il terreno di gioco. Si facevano tanti piccoli tiri(ni)
ripetuti con la propria pallina (ticc’,
ticc’, ticc’, …), guadagnando progressivamente le posizioni migliori, per
criccare poi fuori dal cerchio quante più le biglie in palio possibile.
Spesso
valeva il principio che chi prontamente per primo urlava la frase a suo
vantaggio, poteva applicare la regola. Le frequenti diatribe erano risolte
immediatamente, in unica istanza senza appello, con una discussione e anche, se
necessario, fisicamente per vie di fatto.
Una
situazione particolarmente favorevole di gioco si creava quando avevi l ucialèin (l’occhialino), cioè quando
due palline nel cerchio erano quasi sulla stessa traiettoria; ciò faceva sì
che, allargandosi la sagoma del bersaglio, fosse molto più facile colpire e
farne uscire almeno una.
Quando
si avvicinava al cerchio si poteva invocare il “Venircene!” o in dialetto “Gniir gh èn!” che significava spostare
la pallina in una posizione più favorevole, libera da ostacoli, ma sempre dalla
stessa distanza dalla riga. Era una compensazione balistica basata sull’uso
intuitivo e rudimentale della prospettiva, corroborata, se necessario, dalla
misurazione dei centimetri effettivi che veniva effettuata con le dita unite o
a spanna.
Quando
la pallina dell’avversario era vicino alla tua, si poteva criccarla lontano,
colpendola violentemente con la propria.
Qualcuno
era solito tramare “combine” o meline per far poi tirare il complice che sapeva
di più o per altri vantaggi; allora arrivava l’intimazione:”Gniinta ṡuglèin! “ o ”Niente giochini !” e si invitava il
giocatore a un tiro secco e deciso. La stessa frase si poteva dire per parare
la mossa del “Ticèer fin ch a m pèer!” (Ticchiare “ad libitum”).
**
La
partita poteva essere interrotta in qualsiasi momento per oggettivi motivi di
forza maggiore con il grido: “ Ali-mortis”. Il gioco si interrompeva per un
qualsiasi motivo o problema, risolti i quali si invocava la formula contraria:
“Ali-vivis!”. Queste due esclamazioni
sono di estremo interesse e appare indubbia la loro origine latina. Mi viene in
mente anche quando si giocava a nascondino (scundróola,
cucùu o pòmma) sempre al Parco si poteva chiedere una sospensione dicendo:
“Mortis” e poi si riprendeva con un “Vivis!”. Questi richiami erano anche
adattati a qualsiasi altro gioco sociale (palla prigioniera,
palla avvelenata, la settimana,
ecc …).
Ecco
ciò che risulta da ricerche effettuate; si tratta di ipotesi affascinanti, che
però non trovano un sicuro e certo sostegno scientifico:
“Alimortis (o anche arimortis) è una espressione del lingua
lombarda e di varie zone del nord Italia, convenzionalmente in uso tra i
bambini, durante i loro giochi, allo scopo di invocare una sospensione del
gioco e/o attività in corso per piccoli "incidenti" quali una stringa
slacciata, pipì, un richiamo materno per merenda et similia. È l'equivalente
del time-out negli sport agonistici. L'espressione contraria, che indica la
ripresa del gioco, è alivivis ( o arivivis).
Alcuni ipotizzano che il termine derivi dal latino «arae
mortis» (gli altari della morte). Questi altari venivano costruiti per
celebrare i caduti al termine delle guerre. Erano quindi una indicazione di
tregua in atto. Un etimo più probabile si può trovare nelle locuzioni latine
alea vivis e alea mortis con le quali gli antichi giocatori d'azzardo
accompagnavano il lancio dei dadi; con alea vivis (dadi vivi) il giocatore
annunciava il lancio e con alea mortis (dadi morti) dichiarava la conclusione
dello stesso e la possibilità per l'avversario di raccoglierli e giocarli a sua
volta. Quindi, è assai probabile che da alea vivis e alea mortis derivino, per
composizione, alimortis e alivivis, dai quali i moderni arimortis e arivivis.
Nel resto d'Italia, sono generalmente utilizzati, per identici scopi, i termini
mortis e vivis.”
**
La
lingua delle palline contemplava anche altri casi. Se, dopo un tiro, la sfera
di un giocatore finiva proprio sulla riga del cerchio, il giocatore
proprietario poteva prendere qualsiasi posizione sulla stessa circonferenza, a
suo giudizio e vantaggio.
Lo
scopo era quella di “cavèer al buciini”
… una a una, con la regola del bigliardo, cioè finché si faceva uscire una
pallina dalla riga del cerchio, il giocatore continuava a tirare. Se un ragazzo
molto abile tirava fuori tutte le palline ”l
iiva ṡgatèe al séerc’” (aveva
sgattato o vuotato il cerchio) e assumeva la rispettabile nomea e fama di “ṡgatadóor”. Quando invece un ragazzino
aveva perso tutte le palline, si lamentava dicendo: “A suun armèeṡ a gaat!”. Nonostante gli sforzi e le indagini
effettuate non sono mai riuscito fino ad ora a capire cosa centrassero questi
“gatti” con le altalenanti fortune al gioco.
Il
modo dire si usava anche in senso più ampio, quando uno perdeva tutto in giochi
vari o in vicende della vita. “I m àan
miss a gaat" (Ho perso tutto!).
Il
colmo, però, con un gioco di parole sarebbe: “A iò ṡughèe cun di caan e i m àan
miss a gaat !!” (Ho giocato con dei cani e mi hanno messo a gatto).
Fra
i grandi campioni di tutte le epoche, quelli che una volta entrati nel cerchio,
non ne uscivano se non dopo averlo svuotato completamente, si ricordano al Cinéeṡ negli ’30, Brenno Previdi, detto Braṡóola, campione imbattibile di turètta, (garzone da muratore e poi spazzino, fratello di Maurizio,
detto Baciccia) negli anni ’40, poi
anche enumerato fra gli assi del biliardo, Giuliano Bucchignoli detto Buky, di
professione tragatèin (ovvero da
traghettatore, dicesi di colui che improvvisa affari nei modi e nei momenti più
impensati, senza tanto stare a badare a luci e ombre), Luciano Menotti e
Domenico Sbreviglieri (già prima citato come Domingo Iscariota da la bèela tòoca) negli anni ’50 e
Giulio Manicardi negli anni ’60. Quest’ultimo, mio coetaneo, era davvero un
gran giocatore e ogni volta che vinceva usava un intercalare canzonatorio e
senza pietà del dolore e del pianto degli avversari sconfitti: “Goccia fa pin
pin!” e pronunciando queste parole, mimava con la mano, una goccia immaginaria
che scendeva dal naso e con l’altra metteva al sicuro le biglie vinte.
E’
interessante ricordare che i ragazzi più grandi avevo di solito grande
disponibilità di vetre, ma nel
contempo i loro interessi, crescendo di età, si indirizzavano gradualmente
verso obiettivi diversi: ragazze, motorini, ecc … . Allora poteva succedere
che, per puro gusto sadico, qualcuno lanciasse l' urlo di richiamo: "A la mucciaa!!" (all’ammucchiata)
e, dopo aver atteso che si formasse una massa vociante e spintonante di
maschietti agitati, gettavano in aria sulle loro teste, con alti e
lenti lanci a parabola, delle vetre in regalo, generando naturalmente delle
risse e mischie.
Era
un chiaro segnale di passaggio e di evoluzione nella piccola, ma vivissima e
dinamica società del Parco delle Rimembranze. Era arrivato il momento
dell’adolescenza, della crescita, mentre tanti altri più piccoli continuavano
ad avvoltolarsi ancora per un po’ nell’infanzia.
**
Il
look del Parco e la comparsa negli anni ’60 del primo denaro (le 5 e 10 lire
nel cerchio), fattori solo in apparenza marginali, sono precisi rivelatori dei
cambiamenti sociali ed economici in atto.
Intanto
essi parlano della situazione sociale non proprio sorridente della maggioranza
dei nuclei familiari di Carpi negli anni, post guerra, ancora condizionati da
quei tragici eventi e non ancora approdati pienamente alla sponda del miracolo.
E
poi sono dettagli, ricordi e riferimenti che svelano l’importanza formativa del
gioco, la sua funzione socializzante e le prime lezioni esistenziali delle
quali, i più accorti, capaci o furbi, avrebbero fatto tesoro per il futuro.
E’
interessante notare che negli anni ’40 e ’50 non si trovava roba confezionata e
anche i pantaloni corti dei bambini venivano tagliati e cuciti in apposite
botteghe di sarte, magari dopo aver acquistato il tessuto in “pezze”,
commercializzate dal Magazzino Comunale (cioè l’Ente di Consumo Comunale per
tanti anni sito in Piazza Martiri e diretto egregiamente dall’eminenza grigia
del PCI di Carpi Plicio Pellicciari).
Quando
si prendevano le misure al ragasóol
(ragazzino), questi era solito raccomandare: ”Sgnóora .. a m arcmàand … al
bisaachi la mi faaga bèeli fònndi!” (Signora ... mi raccomando … non lesini sulla profondità delle tasche e
me le faccia belle fonde). Questo accorgimento consentiva una vasta gamma di
impieghi: andare a rubare la frutta ai contadini, depositandovi uva, prugne e
marusticani, a nascondere le fionde e per tenere le palline. Era buffo vedere
spuntare dai pantaloni corti dei vincitori le saccocce piene zeppe di palline
vinte agli altri. Altri bambini si facevano cucire in famiglia dei sacchetti di
tela, da tenere in cintura, che si chiudevano con un laccio scorrevole.
Dopo
il boom degli anni ’60, le famiglie cominciano a disporre di denaro e c’erano
la paghette settimanale e i regali di qualche nonna o zia.
E
allora poteva succedere che nel cerchio venisse messa anche una moneta da 5 o
10 lire di alluminio. Cavèer la dal
séerc’ (estrarla dal cerchio) era molto difficile, perché era piatta e
richiedeva una tecnica speciale. Infatti la pallina doveva arrivare lentamente
a toccare la moneta, scoprendosi nei confronti degli avversari e di fatto quasi
perdendo un turno di gioco; poi con un cricco forte verso il basso, si cercava
di farla uscire dal cerchio, producendo un certo spolverio.
Quando,
passando davanti alle tante situazioni di gioco, ci si imbatteva in un cerchio
in cui, accanto alle vetre,
luccicavano delle monetine, anche dall’assorto e concentrato silenzio dei
presenti, si capiva subito che
lì si giocava ormai fra … adulti.
Buuṡa
o buṡóola o buchètta
In
questo semplice gioco i due giocatori contendenti scavavano nel terreno una buṡóola (piccola buca) del diametro di circa 5 - 6 centimetri ed uguale
profondità e vi conferivano la posta concordata: 4 - 5 palline ciascuno. Si
portavano alla distanza di 4 - 5 passi, sempre concordati, e con il lancio di
una pallina ciascuno si cercava di farla entrare nella buca. La posta veniva
vinta da chi centrava la buṡóola; se
il bersaglio veniva colto da entrambi il gioco … si ripeteva, magari mutando la
distanza. Una specie di primitivo golf per poveretti.
Qualcuno,
in questo e altri giochi di lancio, cercava scorrettamente anche èd fèer manèina (di fare manina) che era
il reato di chi, tirando, allungava troppo il braccio per colpire o centrare il
bersaglio.
Marco
Giovanardi ricorda che fèer manèina
era un'azione disonesta nel gioco delle palline; giocando al cerchio, al tiro
alla torretta o ad altri giochi, chi era di turno rubava un poco di spazio,
avvicinandosi per quanto poteva e non visto al bersaglio. Un po' come fanno i
giocatori di calcio che, rimettendo il pallone da fuoricampo, i fréeghen un quèelch méeter (rubano
qualche metro). In senso più ampio fèer
manèina, poi lo si poteva usare anche in altri campi, intendendo che
qualcuno cercava di avvantaggiarsi irregolarmente e imbrogliando.
Ma
qualcuno di quei ragazzi, ci ricorda Gianfranco Imbeni, diventato più grande,
si dedicò al “fare manina”, nel senso registrato dai dizionari, cioè di usare
la “manomorta”, per una sorta di rustica molestia sessuale, limitata al tatto
fugace di parti morbide delle donne.
Un
certo Fiaschìin divenne un virtuoso
di questa greve arte: i suoi campi di azione preferiti erano le code in genere
per entrare nei locali, i veglioni in teatro o il cinema del dopo lavoro
ferrovieri di Modena. Da vero professionista in un cine estivo all’aperto,
arrivò a svitare un listello di una sedia di ferro e legnetti, accomodandosi in
quella dietro; aspettava pazientemente la sua preda e poi agiva delicatamente a
piede nudo, non più cun la manèina, ma
cun al didòun dal pée (non con la mano, ma con l’alluce). La cosa si
riseppe e divenne proverbiale. Giocava sul fatto che le ragazze con accanto il
marito o il fidanzato, per non innescare reazioni imbarazzanti … facevano finta
di niente, limitandosi a cambiare di posto.
**
I
furti con destrezza erano dunque all’ordine del giorno. Un ragazzino che aveva
questo vizietto era chiamato rangingìin,
cioè ladruncolo, dal francese "s'arranger" (industriarsi con
qualsiasi mezzo anche non lecito). Rangingìin,
nel nostro dialetto, era la forma diminutiva di rangìin, per intendere uno che rubacchia d'abitudine.
Un
tempo a Carpi si apostrofavano i ladruncoli, anche nell’ambito dei giochi con
le palline, con la formula che, in quel caso specifico, suonava in tal maniera:
Vée! Rangingìin colombo! Mètt ṡò cla
buciina! Era uno scherzoso omaggio alla destrezza del furto, compiuto il
quale, l'autore s'involava con la rapidità d'un piccione.
‘Na
vòolta a s giiva: San Ṡvaan a n vóol ingàan. Una volta si diceva San Giovanni non
vuole inganni! Una possibile spiegazione (ma ce ne sono varie di simili) la
troviamo presso il muro esterno della chiesa di San Giovanni Evangelista a
Reggio Emilia.
Lì inciso c'era il campione delle unità
di misura usate al tempo. Durante i mercati era uso andare a confrontare la
misura allora usata dal venditore (notoriamente corta, oggi si direbbe: al gh à al méeter cuurt) con quello di
S. Giovanni. Il santo grazie a questo confronto diretto appunto non voleva
inganni.
La frase veniva anche usata nei giochi
dei ragazzini al Parco per sventare o protestare contro gli imbrogli. Colui
che, pur imbrogliando sbagliava ugualmente il tiro con la pallina, veniva
dileggiato e rimproverato con un bel: “San Giovanni non vuole inganni!”. Nel
senso … a t stà bèin … imbruiòun!
**
Un
altro gioco era la piramide o la turètta (torretta) o anche mucìin (mucchietto) – In
quest’ultimo caso chi teneva banco faceva una piramide da quattro con tre
palline alla base; il terreno sabbioso consentiva una stabile costruzione, cosa
impossibile su una superficie liscia.
Chi
tirava, colpiva la torretta (10 palline con tiro da sette passi), faceva cadere
la costruzione … vinceva le biglie,
altrimenti perdeva quelle che tirava. Il grido di invito di chi teneva banco
era: “Chi tiira al mè mucìin ?”
oppure “Chi tiira a la mè turètta ?”
(chi tira al mio mucchietto o alla mia torretta ?)
La
distanza di tiro al volo era di tre o quattro passi, misurata e segnata da una
riga dal banchista; egli percorreva il tratto con falcate più lunghe possibili
e spesso con la scarpa inclinata a coltello segnava il limite invalicabile.
Avete presente la battuta di piede per il salto in lungo alle Olimpiadi? Bene!
Ancor più severità si adoperava al Parco a Carpi. La piramide doveva cadere. Non era ammesso
colpire il mucchietto di “seconda “, dopo che la pallina lanciata era atterrata
prima e aveva colpito il bersaglio rotolando. Ammonimento perentorio lanciato
ad alta voce era: “Al primm picc’ ! Gniinta
d secònnda!!” Oppure, sempre con simile significato si chiedeva: “Al vóolo o d secònnda?” Se il banco era
già in buona vincita, al giocatore poteva anche essere graziosamente concesso
di tirare facendo rotolare la biglia sul terreno; allora il banco diceva:”Aanch èd ruṡṡel!” (anche di ruzzolo!).
Questi
accordi sulle regole erano ferrei e se si tentava di trasgredire, si cercava
prima un accomodamento poi, nel caso questo non desse l’esito sperato, si
passava a vie di fatto fisiche. Gli esiti e i lividi delle zuffe, una volta
tornati a casa, venivano per quanto possibile tenuti nascosti, per evitare che
i genitori aggiungessero un’ulteriore dose.
**
Fra
banco e giocatori si contrattava anche il fatto che la piramide venisse
sistemata “in paansa” col lato in
faccia al tiratore, o “in puunta”; in
quest’ultimo caso il giocatore aveva una sagoma più vantaggiosa essendo la
diagonale più lunga del lato. Tuttavia c’è chi interpretava la cosa esattamente
all’inverso e pensava che la sistemazione in punta desse minor bersaglio utile
a chi tirava, in quando la pallina pur colpendo la torretta scivolava via senza
provocare troppi danni. Una questione mai risolta !!
Negli
anni ’50 era possibile preparare
anche piramidi più grandi e con più palline, ma la distanza di tiro aumentava.
C’era quella da 10 palline con base di 3 x 3, fino ad arrivare alla gigantesca
da 55 sfere con lato 6 x 6. Questa super torretta era chiamata la “ La bella
Pondaia” e purtroppo l’origine di questo nome si è perso nel tempo. La Bella
Pondaia l éera un mucìin cóome chi èeter
… ma formato da ben 55 palline! Un vero
è proprio patrimonio. Si tirava al volo con accurata traiettoria balistica a
parabolica da almeno 10 passi e chi colpiva prendeva tutto!
Richiedeva
una certa organizzazione, perciò era allestita sempre da delle compatte bande
di contrada. Il capo stava seduto per terra a gambe divaricate con la Pondaia
piazzata davanti; uno della banda manteneva la fila dei giocatori allineati in
fila indiana, ognuno aspettava il suo turno, poi c’erano anche gli antesignani
dei boy gard che proteggevano a distanza al
mucìin gròos. Infatti non di rado, dal mucchio di gente che circondava la
partita, saltava fuori un impavido di gran volata che, sburlonando e saltando,
con una doppia manata tirava su quasi tutta la Pondaia e di corsa spariva fra
le urla, inseguito dai boy gard inizialmente colti di sorpresa.
Circa
la fragilità delle palline di terracotta a cui più sopra accennavo, Marco
Giovanardi ricorda la singolare pratica truffaldina dl’inculaduura dal
buciini (óo!! ’s’ii v capìi?? dell’incollatura delle palline). Era
arrivato alla raffinatezza di incollare le biglie spezzate, usando un empirico
impasto di latte in polvere e acqua. Queste palline venivano sistemate
delicatamente all’interno della torretta e rifilate al vincitore; era anche
prevista una salutare fuga precipitosa di corsa, prima che costui mangiasse la foglia.
*
Per
tenere banco o giocare era possibile organizzare delle piccole società di due o
tre ragazzi. Quàand a s ṡughèeva in
coperatiiva (assieme), sia per al buciini
vinte al Parco, o anche con le figurine a
batmùrr, la divisione delle cose si poteva fare anche cun la còunta (con la conta): uun pèr tè, uun pèr mè e uun pèr la vèecia èd San Martèin ch la fèeva
balèer i buratèin.. (la vecchia di San Martino che faceva ballare i
burattini).
(S)picc’
e spaana - È gioco molto semplice, ma con molte varianti e ricorda per
alcuni aspetti il gioco della bocce.
Uno
dei due giocatori lanciava una pallina bersaglio, l’altro per conquistarla
doveva colpirla al volo di precisione e in modo che fra le due palline a terra
non ci fosse la distanza maggiore della spanna di una mano. Più recentemente si
giocava anche con il cricco. All’inizio del gioco si poteva pretendere che la biglia avversaria fosse colpita
in pieno e non di striscio e allo diceva: “Niente di spazzola, sóol èd piin !” (solo di tiro pieno.)
Marco
Giovanardi ricorda anche lui la ferrea regola "èd primm picc'!" All’avvio della competizione, veniva subito
richiamata solennemente ad alta voce la regola "del primo picchio",
che obbligava chi tirava a colpire direttamente la pallina bersaglio con la
propria; non era quindi ammesso centrarla di rimbalzo o per rotolamento. In
questi casi il tiro, pur raggiungendo l’obiettivo, non era convalidato. Colpire
“di prima” un bersaglio così piccolo richiedeva grande maestria; questo
sapiente lancio a parabola tesa può ricordare molto da vicino la bocciata al
volo nel gioco delle bocce, certamente il tiro più spettacolare ed emozionate
di questa disciplina.
Circa
la misura della spanna, che veniva usata come “campione ufficiale” di
riferimento e doveva essere concordata all’inizio del gioco, era quanto di più
incerto e approssimativo possibile, con discussioni a non finire.
Bisogna
fare attenzione a non confondere questo gioco con l’assonante (s)picc’ umbrigghel, un tipo di svago
praticato fin dalla più lontana antichità che definisce, in forma onomatopeica,
il rumore cioccante prodotto dal reciproco sbattere delle pance di due amanti
appassionati, al ritmo veemente, in un crescendo orgasmico, delle fasi finali
di un sano rapporto sessuale, in particolare durante l’umidore della calura
estiva padana.
**
La
giMcaana - Era un percorso
calibrato a serpentina da effettuarsi sul fondo incavato delle panchine del
Parco. Fino a pochi anni fa al Parco c’erano delle panchine di cemento a
graniglia con lo schienale, l’appoggiata dove ci si sedeva era concava e aveva
4 fori per lo scolo dell’acqua. Si mettevano 4 palline nei fori come fossero
delle boe e utilizzando la curvatura della superficie della panchina si dava un
calibrato cricco alla propria biglia tentando una traiettoria a S . Se il percorso era
giusto e completo, senza toccare nulla, si guadagnavano le 4 palline,
altrimenti perdevi la tua.
Per
accaparrarsi una panchina di pregio (le più vicine al bar che
fu costruito alla fine degli anni ‘60, dove oggi c’è il ristorante), si doveva
pranzare in fretta e poi bisognava arrivare all'una e venti. Si poteva anche cercare
di comprarla o affittarla. Naturalmente si pagava in vetre.
**
La panchina - Si utilizzavano sempre gli arredi del Parco
appena descritti; si metteva la pallina in palio nell’ultimo foro e dall’altra
parte il giocatore doveva tirare la sua biglia e colpire il bersaglio,
percorrendo il tratto concavo della panchina. Al suono del classico “ticc’ ” si vinceva una pallina; la
difficoltà stava nel fatto che il percorso era accidentato e che i tre fori
rimasti vuoti sul fondo facevano deviare la traiettoria. Se si faceva anche
uscire la biglia dal foro, il premio raddoppiava. La pallina del bersaglio, a
seconda dei casi e delle regole del momento, poteva essere quella piccolina da
un centimetro di diametro, quella normale o anche un bulone.
**
La
scaatla - Si tratta di un gioco
praticato fin dagli anni ’40. Si prendeva una scatola, per lo più da scarpe,
sul lato lungo sul bordo si praticavano delle piccole aperture rettangolari di
varia dimensione. Si appoggiava la scatola rovesciata per terra e i giocatori
stando dietro alla solita riga tiravano le palline per centrare una delle
aperture. Sopra ognuna di essere era scritto il numero delle palline che si
vincevano; più l’apertura infilata era piccola e più il premio era alto. Talora
accadeva che il buco più piccolo fosse, in perfetta malafede, troppo … piccolo.
E allora si passava alle solite contestazioni, regolate subito anche
fisicamente per vie di fatto.
**
Al
scatlèin - E’ la versione povera e antesignana della
precedente; essa risale almeno agli anni ’30. Si prendeva una scatola da
scarpe, senza coperchio; sul lato più
lungo, sopra nel bordo dove andava il coperchio, con le forbici si
tagliavano 10 finestrelle. Alcune larghe
3 cm e alte 5. Poi si metteva per terra con le finestrelle sul davanti,
numerate da 1 a 10, si contavano tre o
quattro passi poi cominciava il gioco. I ragazzini di munivano di noccioli di
ciliegia chiamati scatlèin e da quella distanza bisognava cercare di
fare entrare un nocciolo in una delle apposite aperture della scatola; più
punti si facevano e più noccioli si vincevano. Anche allora quando qualche
ragazzo finiva i noccioli veniva preso in giro con la consueta frase: “ Vè mo’ lè lò ... l è andèe a gaat!”,
oppure lui stesso mestamente si lamentava: “I
m àan strasèe! (Mi hanno stracciato!)”.
**
La bisca - Al Parco colui che teneva il banco disegnava sul
terreno una ampio rettangolo; al suo interno si ricavano poi tanti quadrati e
ognuno di essi aveva scritto valore da
zero a cinque; talora si mettevano anche 10 o 5 lire. Il ragazzo a banco
imboniva gli astanti al grido ripetuto: "La bèela bisScaaaa!!”. Il
giocatore a debita distanza, tre o quattro passi, tirava le proprie biglie e
vinceva un numero di palline pari a quello scritto sulla casella. Le palline
che non entravano nel rettangolo o si fermavano sui numerosi zero venivano
incamerate dal banco. Se una pallina di fermava sulla riga veniva tirata di
nuovo.
1960 Bambini in gara
**
La vasca del Parco - Un
geniale tecnico comunale fece costruire a metà anni ’60 una strana e sinuosa
vasca in cemento e piastrelline azzurre a forma di S, lunga una ventina di metri e alta 60/70 cm. Figurarsi !! Il
primo anno ci misero dei pesci rossi e ragazzini si buttavano dentro per
prenderli, mentre altri bambini più piccoli giocavano pericolosamente con le
barchette, sporgendosi sul bordo. Il secondo anno naturalmente restò vuota e
dopo un altro paio di stagioni fu riempita di terra e foglie secche, perché i
bambini non si facessero male. Si tiravano le palline più “scomaccate” da
un lato verso l’altro, facendo percorrere la S a forte velocità. Chi arrivava
più vicino alla parete finale opposta vinceva le altre palline in gioco.
Nel
breve periodo in cui la vasca fu in funzione, si cercò di praticare qualche
giochino nautico.
**
Capùrrio e/o Pampurio a seconda dei quartieri - Le palline erano messe in fila
indiana. Ci si spostava di circa 5 metri. Con una pallina lanciata al volo si
tentava di centrarne una della
fila. Se si prendeva la prima a destra si vincevano tutte le altre, se si
centrava la seconda, si vincevano da quella alla fine, e così via.
In
Viale De Amicis, sul marciapiede di fronte alla Cremeria (oggi per una strana
nemesi adibita in buona parte a sala scommesse) lo stesso gioco, non si sa
perché, prendeva il nome di Pampurio (il Sor Pampurio di Carlo Bisi fu un
famoso personaggio del Corriere dei Piccoli, nato nel 1925, che non trovava mai
la casa giusta e traslocava ogni settimana).
In
quel punto di Viale De Amicis il marciapiede era inclinato e, a delimitare il
lato più basso, c'era una riga incisa nel cemento a tutta lunghezza. Sopra tale
solco si mettevano le palline in fila (conferite in parti uguali dai vari
giocatori), partendo da destra verso sinistra. Le prime erano intervallate a
circa 4 cm e poi, man mano che si procedeva verso sinistra, la distanza andava
aumentando fino a che non si arrivava all’ultima lontana circa una spanna …
questa era “la buciina Pampurio”! Si
tirava una pallina contro il muro della casa, e questa nel ritornare (con la
discesa) se colpiva una di quelle in fila, si accaparrava tutte quelle da
destra in poi. Colpire l’ultima significava vincerle tutte.
Graziano
Malagoli ci dà anche per questa specialità un’ulteriore descrizione con alcune
varianti. Ogni giocatore poneva un ugual numero di palline a terra alla
medesima distanza una dall'altra in senso orizzontale. Da una distanza pari a
tanti passi quante sono le palline e secondo un ordine sorteggiato in
precedenza, ogni giocatore lanciava una sua pallina o bulòun. Si cercava di colpire le palline a terra. Chi colpiva una
pallina vinceva quella e tutte quelle che le stanno alla sua destra. Capurrio era, ovviamente, la prima
pallina più a sinistra, cioè quella che dava diritto al premio maggiore. Ad
ogni tiro ci si avvicina al bersaglio di tanti passi quante erano le palline
già vinte.
**
Ticc’ - E’ una variante del (s)picc’ e spaana che si
giocava negli anni ’80; col cricco si doveva colpire la biglia
avversaria; le regole di ingaggio iniziale (cioè il piazzamento per terra prima
di cominciare) erano abbastanza vaghe ed aleatorie, mentre quelle sul cricco
erano molto rigide, dovendo essere teso e diretto. Oppure si tirava anche
ad un bersaglio fisso: chi aveva una biglia pregiata (tipo la Dama Nera)
la metteva in palio e la si doveva colpire tirando da molto distante.
**
Altra variante col cricco anni ’50 – Ogni giocatore metteva in palio alcune biglie che
venivano disposte a semicerchio a circa cinque centimetri l’una dall’altra. Si
stabilivano solennemente le spanne di distanza da dove tirare, poi ogni
giocatore doveva tentare di colpire una pallina - bersaglio dell’avversario,
criccando una propria biglia. I turni per tirare erano stabiliti con un’apposita
conta, eseguita la quale, si dava inizio alla sfida. Chi centrava il bersaglio
vinceva la biglia colpita e poteva effettuare un altro tiro. Se il tiro era
sbagliato si perdeva la pallina a vantaggio di chi teneva banco e si passava al
concorrente successivo. Quando le biglie rimaste erano poche ci si poteva
accordare per una distanza di tiro inferiore.
**
Queste
che seguono sono forse le uniche foto esistenti del gioco delle palline al
Parco, tratte da un filmato della Feste dell’Infanzia di domenica 20 settembre
1959.
Nella
zona dell’attuale ristorante, dietro la giostrina, si vedono in secondo due
ragazzini, uno in pantaloni corti e uno lunghi che stanno giocando con le vetre.
Dopo
aver tirato, sembrano voler raccogliere le palline vinte.
Alcuni fotogrammi di un filmato del
20 settembre 1959
con bambini che giocano sulle giostre
del Parco
**0**
Biglie da pista
La pista con le biglie, oggi denominata “cheecoting”
Anni ’40 - pista per gare di biglie
Progettare
e costruire una pista da biglie è sempre stata un’impresa epica, sia che si
operasse nel cortile della casa propria o di amici, o in un mucchio di sabbia
di un cantiere edile o, naturalmente, in spiaggia.
Il
gioco sulla pista può avere quanti concorrenti si vuole. La gara delle biglie
in cortile consiste nel costruirsi una pista o disegnarla col gesso. Poi si
sceglie una biglia, la si posiziona sulla linea di partenza e con il cricco a
turni si procede con i tiri ben mirati, La prima biglia che arriva in fondo
alla pista, o termina i giri prestabiliti, fa vincere il suo proprietario.
Le
regole sono apparentemente semplici, eppure fu proprio una disputa
interpretativa sul turno di tiro che fu per me occasione di un disgusto
insanabile.
Eravamo
nel 1960 e la mia famiglia si era da poco trasferita in un nuova abitazione
dell’INA Casa.
Quattro
edifici, posti nella cosiddetta area ex Gandolfi (dal nome delle due sorelle
proprietarie in origine del terreno) fra le vie Luigi Galvani e Alessandro
Volta; sedici famiglie in tutto che per un certo periodo, prima di mettere le
recinzioni, ebbero in comune un grande cortile.
Siccome
i lavori non erano finiti, c’era ancora una bella montagnola di sabbia; così
noi ragazzi pensammo di costruire una bella pista. Ma la gara durò … poco …
pochissimo.
Per
stabilire il turno di partenza non ci fu problema: si ricorse a una
tradizionale conta. Ma le complicazioni sorsero subito dopo il primo turno di
tiro. La maggior parte di noi era dell’idea che i turni dovessero proseguire e
susseguirsi nello stesso ordine fino al termine della gara, ma Elidio
Rustichelli, un ragazzino che era un po’ più grande di noi, affermava con
ferrea convinzione che dal secondo tiro in poi, si doveva procedere in ordine
di posizione occupata in quel momento: il primo per primo, il secondo per
secondo e così via fino all’ultimo per ultimo.
Il
dissidio fu insanabile e verbalmente cruento.
Io
presi la mia pallina e tornai a casa mia arrabbiatissimo e non giocai mai più con quei
ragazzi, preferendo il Parco, dove c’erano delle regole più “certificate”.
Non
ho mai saputo con certezza, ormai a distanza di tanti anni, quale delle due
modalità fosse quella giusta.
Le piste nei giochi in spiaggia
Una
variante molto diffusa del gioco delle biglie su pista, è il gioco delle biglie
su sabbia. In questo caso le biglie sono di plastica, più grandi rispetto alle
tradizionali biglie di vetro e spesso al loro interno sono stampati immagini di
ciclisti, auto o personaggi di animazione. Un dischetto trasparente con la foto
viene collocato fra una semisfera colorata e l’altra trasparente.
Anche
oggi in estate nei giochi da spiaggia, tra beach-football, beach-tennis,
beach-rugby e altri beach-sport, figura anche il “cheecoting”. Ci si ritrova
sul bagnasciuga a far rotolare biglie colorate contenenti le immagini delle
monoposto Ferrari o MacLaren. Piccoli bolidi sferici, che corrono lungo
tracciati sabbiosi che riproducono fedelmente i circuiti della Formula 1. A
quanto pare l'origine del “cheecoting”, o almeno del suo nuovo nome, è
messicana: dalle spiagge di Acapulco il gioco si è diffuso sulle lunghe spiagge
californiane. Dal Pacifico la tradizione dei "Chicos", ossia dei
ragazzini messicani, è arrivata sulle sponde dell'Adriatico, dove però già
esisteva già decenni una solida tradizione del gioco delle biglie, direi da ben
più di mezzo secolo.
Nel
senso che non c’era quasi nulla da inventare che già non fosse stato fatto o
praticato in Italia. Le solite mode di ritorno, che ci propongono cose da
sempre conosciute; si dà loro una riverniciata, confezionando loro su misura una nuova appetibilità buona per gli … ignoranti.
Palline ciclisti anni ‘60/’70 per
piste di sabbia
Per
circa vent’anni ho frequentato la Riviera Adriatica, nella ridente località di
Misano Brasile, proprio subito dopo Riccione e delle Fonti del Beato Alessio.
Naturalmente
fra i giochi in spiaggia c’era anche quello della pista con le biglie.
Si
compravano in sacchettini a rete di plastica colorata presso i negozietti sulla
via per raggiungere il mare; il prezzo era ragionevole e tutti se le potevano
permettere.
E
poi una volta entrati in possesso della fornitura, la dotazione non era in
pericolo, perché a differenza delle vetre,
le palle da pista non venivano messe in palio, servivano solo per correre.
Anni ’60 – Sulla spiaggia di Rimini
si costruisce una pista.
I
giorni ideali per fare la pista erano quelli dopo una bella piovuta; la sabbia
umida e marrone permetteva audaci costruzioni, curvoni mozzafiato, ponti arditi
che garantivano la NON uscita della pallina, anche dopo un cricco molto
potente. Le curve andavano accarezzate con sapiente effetto, dosando potenza e
inclinazioni. Bisognava essere capaci di sfruttare al massimo l’effetto
parabolico dei curvoni rialzati appositamente dotati di alti argini di
contenimento.
Se
la sabbia era bella solida e aggregata era possibile prevedere anche ponti e
gallerie; se necessario si bagnava con l’acqua il materiale da costruzione per
dare la maggiore consistenza possibile; il trasposto del liquido veniva
effettuato utilizzando il secchiello del
ragazzino più piccolo presente. Si usavano anche i bastoncini da BIF, come
strutture portanti, soprattutto all’ingresso dei tunnel.
Circuito su sabbia con un ardito
ponte
Il
tracciato della pista doveva essere
il più complicato possibile.
Se
uno usciva dal tracciato, perdeva il tiro e ripartiva dalla posizione
precedente, compromettendo la propria prestazione. Si contava sulla propria
abilità, ma anche sugli errori degli altri.
Talora
era lecito e ammesso anche tagliare le curve o saltare gli ostacoli, purché la
pallina nel suo atterrare si collocasse all'interno della pista. Si trattava di
tiri da grande campione o testimonianze di un incommensurabile “culo”.
Vinceva
chi arrivava primo dopo un certo numero di giri.
A
me non è mai capitato di mettere in palio le biglie, si giocava solo per
vincere la corsa.
In
altri ambienti invece si poteva arrivare a perdere anche la pallina preferita.
Nel
caso la sabbia fosse asciutta, si procedeva con una pista architettonicamente
molto più essenziale e di veloce costruzione; di solito la tecnica usata per
tracciare il circuito, era quella di trascinare per le gambe un ragazzo,
lasciando il compito al suo posteriore di creare l’alveo necessario e stando
anche attenti che lo slip non scivolasse via; dopo di ché si provvedeva a una
rifinitura veloce e si tracciava la linea di partenza con una linea
trasversale.
Le
palline da gara, apparse sulle spiagge a partire dagli anni ’50, come già prima accennato erano fatte di plastica dura, una metà
colorata vivacemente, mentre l’altra era trasparente. Un “santino” rotondo con
la foto a colori dei più grandi campioni del ciclismo dell’epoca veniva
collocata fra le parti prima del loro incollaggio. La misura standard era di 27
mm di diametro, ma, in un'epoca più recente, se ne trovano anche di 30 mm,
forse più di figura, ma decisamente meno gestibili con il cricco.
Oggi
queste biglie di plastica sono oggetto ambito di collezionismo da parte di
appassionati di biciclette e di ciclismo.
La
biglia più preziosa e rara (la Perla
Nera) pare sia quella del grande Eddy Merckx,
con la plastica nera, una tinta ritenuta rarissima, anche se non so dire in
base a quali criteri.
Moderno torneo di biglie sulla
spiaggia
Matteo
Bocciolesi, tecnico di computer, ricorda che un’altra variante era il gioco
delle biglie sui mucchi di sabbia dei muratori nei cantieri che, una volta,
erano accessibili anche dai non addetti ai lavori. Le biglie erano quelle di
vetro. Spesso quando una biglia era in attesa del proprio turno sotto una
galleria, ed essa franava, la biglia veniva persa. Ma c’erano
anche altri inconvenienti del gioco, soprattutto durante lo scavo della pista:
bisognava stare attenti ai muratori scorbutici ed agli escrementi dei gatti.
Sudisti al Parco
v
25 26-10-2012
di Mauro D’Orazi
Consulenza di Alice Ianniciello
Provincia di Avellino
Nei
primi anni ’60 cominciarono a frequentare il Parco i figli degli immigrati dal
sud Italia e definiti in gergo dialettale, oggi politicamente scorrettissimo,
ma che riporto, con un certo imbarazzo, per dovere di cronaca e per far capire
meglio il clima di allora, come maruchìn a Carpi, maruchèin a Modena, oppure anche taròun, taròoni o
mandarèin. Oggi, in presenza
di ben altre immigrazioni e per non perdere l'abitudine piccolo-provinciale
alla distinzione, si usa per specificare … maruchìn di nostèer. In quegli anni in zona ex Bar Mercato fu
coniata anche questo modo di dire: Musica èelta, màachina bàasa, a gh è un
maruchìn ch a l pàasa!
Fu anche coniato il termine di marucaja,
nel dopo guerra, con riferimento ai gruppi di gente meridionale che per i loro
usi e costumi lasciava perplessi gli indigeni locali. E’ forse uno fra gli
ultimi esempi dell’uso specifico dei suffissi -aja. Si tratta di un
neutro plurale collettivo che enfatizza il significato base del termine a cui
si aggiunge. Nella generalizzazione si coglie un vago senso di negatività,
dovuto alla sostanziale incomprensione tra due mondi, venuti repentinamente a
contatto coi primi effetti del decollo economico di Carpi.
Ecco ad esempio una poesia del 1954 dal
numero unico umoristico La scupàza,
che dà una chiara idea dei sentimenti preoccupati e allarmati di quel tempo da
parte dei carpigiani; oggi un tale testo non sarebbe pubblicabile, ma lo riporto per capire i
sentimenti dell’epoca:
di anonimo (probabilmente Micin)
Già da un po’ avevano iniziato ad arrivare a Carpi
attirati dal nascente BOOM della maglieria, da un lavoro stabile e
dall’invidiabile clima sociale e civile delle nostre zone.
Quasi tutte queste persone, spesso intere famiglie,
dopo anni anche molto difficili, si integrarono bene a Carpi e divennero e sono
oggi parte viva e sostanziale del suo complesso, ma solido tessuto sociale.
Rammento l’immigrazione dall’Irpinia e il suono dei nomi delle famiglie più note e
numerose cominciò a diventare consueto alle nostre orecchie: gli Ianniciello, i
De Minico, i Venuta, ecc …
I rampolli di queste articolate e ampie famiglie
cominciarono subito a frequentare anche loro il Parco … dunque nuove bande
apparivano, altre si dissolvevano nel nulla. Ma il territorio di conquista era
sempre quello: il Parco, un luogo dove potevano sfogare la loro grande vitalità
ed energia giovanile.
Si trattava in genere di ragazzi con caratteri
personali piuttosto primari e diretti, in dialetto si direbbe sèinsa
tanti vultèedi (senza tante voltate, andando direttamente al punto).
Erano abituati subito a sistemare le questioni di
territorio e di precedenze con la forza fisica, coraggio e sprezzo del
pericolo, qualità di cui certamente loro non difettavano . Spesso avevano una tribolata carriera
scolastica e contesti familiari difficili.
Avessero incontrato i loro feroci omologhi
carpigiani ante guerra e fino ai primi anni ’50, non ci sarebbe stato nessuno
spazio per loro, ma invece incontrarono solo “noi”, “rammolliti “ dal crescente benessere economico
e materiale. Ormai eravamo molto meno
avvezzi a un sano e muscolare esercizio arbitrario delle nostre ragioni. Noi
avevamo tutto da perdere, loro quasi nulla. Al lettore non sfuggiranno, mutatis
mutandis, impressionanti analogie con la situazione attuale.
Tuttavia la convivenza pur difficile non era
impossibile; ricordo solo qualche lite per uso improprio di bici altrui,
discussioni sull’applicazione delle regole nei vari giochi di palline e, più
tardi, sui “diritti di frequentazione
delle “bambine” e poi delle “ragazzine”..
**
Dei tanti ragazzi meridionali assidui frequentatori
del Parco ne voglio ricordare due in particolare, fra i tanti possibili, la cui
conoscenza ha lasciato una traccia
indelebile nella mia esperienza di vita e di frequentazione del Parco. Li
richiamo alla mente con un sentimento di affetto umano, dovuto alla tragicità
della loro vita; un duro destino che sembra talora malignamente prediligere e
perseguitare certe persone. Un “perverso gioco “ della vita, che a un certo
punto porta a confondere l’origine oggettiva e incolpevole delle cause di certi
comportamenti, con quanto poi
scaturisce dalla piena e cosciente consapevolezza personale e dall'esercizio
del libero arbitrio. Erano portati a perseverare e aggravare progressivamente
certe scelte socialmente negative fino a raggiungere punti tragicamente di NON
ritorno.
Il passare del tempo e la morte, che tutto
ridimensionano e attutiscono (è appena il caso di citare Totò "A morte 'o
ssaje ched'è ? ... è una livella!"), mi consentono di addentrarmi, con
tutto il rispetto possibile, in vicende dolorose e spiacevoli che andrebbero
perdute per sempre.
Si tratta di due veri protagonisti di quell’epoca: Silvano Ianniciello, detto Franco, e di Prisco Ianniciello.
Franco era un po’ più grande di me e nacque a Carpi
da una delle prime famiglie di immigrati; un bel ragazzo, non troppo alto,
corporatura da ginnasta, carnagione scura, fitti ricciolini, due occhi
penetranti velati da un’ombra di angoscia e insoddisfazione. Aveva un passo
molto caratteristico, felpato e morbido, leggermente ondulante, che stava a
significare: “ Sto arrivando! Sono qui ! Attenzione!”
Ottimo nuotatore, era noto per i suoi splendidi
tuffi a pendolo e carpiati dalla piattaforma alta della piscina comunale di
Modena (allora a Carpi non c’era ancora e poi, chissà perché, nelle piscine
della nostra città è sempre
stato vietato tuffarsi). Prima di buttarsi, si preparava per decine di secondi
con mosse lente e studiate per assumere la posizione definitiva; quando era
certo che il maggior numero possibile di persone lo stesse guardando …
finalmente si lanciava con meritata ammirazione.
Una persona inquieta, che cercò sempre di integrarsi
con noi, talora anche disperatamente; ma purtroppo non riuscì mai a trovare un
suo equilibrio interiore stabile.
Dario D’Incerti ed io lo conoscevamo bene, nel
periodo della tarda adolescenza. Per i suoi atteggiamenti decisi, lo
consideravamo con un certo rispetto.
Ci raccontava storie di vita improbabili, ma mai
sentite prima, che riesaminate con gli occhi di oggi, erano quasi totalmente di
fantasia. Ma allora era anche bello crederci.
Me lo ricordo come fosse adesso quando si presentò
al Parco in sella a un lucido e cromato motorino da cross Mondial da 50 cc;
orgoglioso e appagato del suo nuovo invidiabile status.
Mondial
cross da 50 cc
Decantava, senza risparmio di lodi, le fantastiche
doti del mezzo e noi lì in cerchio ad ascoltare a bocca aperta. Dopo un po’ si
seppe che si era eclissato da Carpi, senza mai aver pagato nemmeno la seconda
rata del prestigioso acquisto.
Lo rivedemmo raramente, anche perché andò all’estero
in Europa a cercare miglior fortuna.
Ad ogni incontro continuava a narrarci il suo
repertorio di affabulatore, al quale noi, pur annuendo, facevamo fatica a
credere. Si sposò ad Hannover in Germania con una tedesca di nome Regina Rinne,
dalla quale ebbe un figlio: Marco.
22-10-1975
- Silvano (Franco) Janniciello e Regina Rinne sposi in Germania
La sua bellezza e prestanza latina, fecero girare la
testa a una contessa bolognese, purtroppo dedita all’uso di droghe e che
naturalmente lo coinvolse nell’abisso. Franco non seppe, o non volle, più fermarsi
e da lì all’alcol il passo fu breve.
Ma una triste sorte attendeva questo singolare e
infelice cavaliere errante, “artista naif”, disperato e intelligente; lo
trovano morto in strada a Barcellona in Spagna nel 1986, avvelenato da chissà
quale maledetta mistura liquida. A un fratello, quello che amava di più, toccò
il triste compito di riportarlo a casa in aereo e seppellirlo nel cimitero di
origine della famiglia.
Imparai la notizia in modo singolare; come
funzionario del Comune il mio compito era di aprire tutta la posta. Aprii una
busta del consolato spagnolo e con dolore e sorpresa trovai il certificato di
morte per l’annotazione allo Stato Civile.
**
L’imprenditore
e fotografo Norberto Magnani conosceva bene Franco Ianniciello, si
frequentavano ed era diventato un po’ il protettore della loro compagnia per
difendersi da altre bande di ragazzi un po’ irruente e irrispettose.
Un
pomeriggio Norberto arrivò in Piazza con il suo Vespone, Franco gli chiese se
poteva prestarglielo per una faccenda urgente. “Non c’è problema! - rispose
Norberto - Però tieni anche il mio giubbotto perché c’è freddo.”
Franco
prese scooter e giubbotto e partì; se non ché nella tasca interna
dell’indumento, Norberto aveva lasciato consapevolmente una non trascurabile
mazzetta di banconote nel tascone interno.
Dopo
un’oretta Franco tornò e nel restituire quanto gli aveva prestato, abbracciò
Norberto e gli disse con commozione: “Ho trovato i soldi e ho capito che ti sei
fidato di me! Questa cosa per me è una prova di fiducia importantissima. Non lo
scorderò mai!”
Negli anni successivi Franco sparì da Carpi e
intraprese la sua complessa e arrischiata strada di vita; per Norberto fu una
grande sorpresa rivederlo, dopo un bel po’ di tempo, in piazza a Carpi esibirsi
in un gruppo di giocolieri e saltimbanchi.
**
L’altro personaggio per vari aspetti eccezionale fu
Prisco Ianniciello, forse lontano cugino del precedente. Un fisico robusto e
muscoloso, capelli scuri e mossi con un ciuffo arruffato sulla fronte; il naso
un po’ aquilino, la mascella decisa e squadrata; due occhi scuri e
fiammeggianti di cui non era possibile sostenere lo sguardo.
D’estate frequentava il Parco, un capo popolo sempre
con atteggiamenti esuberanti e senza regole. Spesso quando lo vedevamo arrivare
facevamo su roba e palline per evitare pericolosi confronti. Infatti sfidarlo
sarebbe stato un atto suicida ed io e tanti altri preferivamo prudentemente e
preventivamente lasciare campo libero, spostandoci in zone più lontane … a
distanza di sicurezza.
Ogni tanto appariva al Parco, o anche presso il
pratino di via Hans Semper, dietro al vecchio macello - cremeria, armato di
carte da gioco ed insisteva con tutti i presenti perchè si giocasse con lui. Ma
in pochi avevano voglia di affrontare la sua foga, la sua abilità e di perdere
le 10 o 20 lire, posta che subito proponeva, in evidente bella vista, prima di
iniziare. Poi se ne andava e spariva per
giorni, ... per ripresentarsi allo stesso modo.
Mai avremmo pensato o previsto che invece in lui era
ben presente un prezioso e eccezionale talento … quello della musica. Quasi da
autodidatta si mise a suonare con perizia e passione la tromba e il sassofono.
Prese parte a continue tournèe su prestigiose navi da crociera. Fu anche
componente occasionale del complesso che accompagnava Toto Cotugno e che si
chiamava Toto e i Tati nella seconda metà degli anni ’60.
Un sassofono e un disco 45 giri
di Toto e i Tati
Poi si trasferì a Torino a fare l’imbianchino. Ma
anche per lui c’era un tragico destino ad aspettarlo. Verso i 40 anni nella sua
testa qualcosa cominciò a non funzionare a dovere. Smise di girare e poi anche
di suonare.
Passò gli ultimi anni a Carpi, dove svolgeva ancora
saltuari lavori da imbianchino, arrotondando all’occorrenza; non era difficile
vederlo pedalare con fatica su una scassatissima bici da donna per le strade
del centro, sempre più tragica ombra di se stesso. Una sera d’estate del ’93
era fermo davanti al Mattatoio (Via Rodolfo Pio) e mi attentai a chiedergli:
“Prisco ti ricordi quando eravamo al Parco: i giochi, le palline, le liti …?
“Lui, con gli occhi persi nel vuoto, picchiandosi più volte col palmo della
mano destra sulla fronte, mi rispose: “Io non mi ricordo niente … la mia testa ha cancellato tutto … tutto !!! Non so più nemmeno suonare !!“ Il
tono era certamente triste, ma dava anche l’idea di una liberazione (finalmente)
da dolori e tormenti di un passato che egli preferiva dimenticare dietro una
coltre di oblio, per vivere un presente certamente vuoto, ma privo di
sofferenza.
Lo guardai sorpreso e attonito, incapace di
proferire una frase di replica minimamente sensata, al di là di un mio muto
accenno del capo di pura circostanza. Il breve colloqui finì così e mi
allontanai cupo e angosciato.
Qualche anno dopo, nel 2002, Prisco lasciò il mondo
silenziosamente e da solo; lo trovarono a letto esanime, insalutato ospite di
un mondo che non era più suo da tempo.
Ecco in conclusione come lo ricordò Gianfranco
Imbeni su Voce di Carpi in una sua efficace nota del 25 settembre 2002:
“PRISCO
IANNICIELLO
Non
è vero, come ha scritto frettolosamente un quotidiano locale, che Prisco
Ianniciello "amava suonare la chitarra", neanche nella giovinezza si
era mai concesso a piacevolezze da compagnons de la chanson, quelli che
esprimono sensazioni e che trasmettono emozioni. Quando suonava vibrava come le
labbra al bocchino della tromba (il suo strumento principe) ed era una sonorità
virginale. Suoni gratuiti, necessari, com'è della vera musica, un po' Miles
Davies e un po' Gerry Mulligan, per intenderci. Fraseggi limpidi e liberi in un
fluire di "legati", consoni alla sua indole, più ricorrenti rispetto
agli "staccati" tipici invece di chi vuole colpire la fantasia.
Fantastico lo era fin troppo del suo, e sapiente di tecniche, altro che l'autodidatta che si diletta o vuole stupire!
Intorno
ai trent'anni qualcosa lo distolse dalla sua tromba (e dalla tastiera del
pianoforte che percorreva da virtuoso): non un "incidente", come
anche è stato scritto, e forse nemmeno una cupa delusione amorosa. Da allora
Prisco continuò fino ai 50 anni ad accompagnare in silenzio i suoi blues
interiori, trascinando per mano la bicicletta, il passo elastico ritmante, lo
sguardo celeste facile ad aprirsi a un sorriso disarmato, specie se qualcuno lo
incitava a riprendere a suonare. Come per dire: "Che senso ha fare musica
in una città come questa?!".
**0**
Anche lo scrittore Carlo Alberto
Parmeggiani ricorda bene Prisco. Con lui ebbe una bella scazzottata che finì
fortunosamente in favore del Parmeggiani; dopo diventarono addirittura buoni
amici, tanto che da essere citato alla veloce nel suo romanzo "La vera
storia di Leon Pantà".
Jeux des cartes al Parco
Il
Cotecchio
Il
Parco non significava solo “palline”, ma anche tante altre cose.
Ad
esempio si imparava anche a giocare davvero a carte; lasciati il rubamazzo e la
briscola in due con la nonna o la zia, per altro utilissime e indispensabili
pratiche propedeutiche, si poteva cominciare a entrare nel “serio” mondo del
tresette, della briscola in quattro, ma soprattutto del cotecchio, allora assolutamente
nella versione col Pigugnino.
Al
Parco due giocatori si mettevano a cavalcioni delle basse panchine bislunghe di
cemento biancastro coi puntini neri (ancor oggi esistenti) e gli altri due di
fronte ai lati lunghi, appoggiati in bilico sulla canna della bicicletta. Il
gioco era molto duro e nulla veniva perdonato. Un contorno di ragazzi più
giovani seguiva con attenzione e soggezione le partite dei più grandi. Le
partite venivano accompagnate da un sovradimensionato contorno di parolacce e
di bestemmie, ciò per dimostrare che chi giocava era già “grande”. Tutti erano
sempre attenti che non arrivasse il Vigile, cosa che provocava una veloce
sparizione del mazzo (che altrimenti sarebbe stato subito sequestrato) e un
fuggi fuggi generale. Pare fosse proibito giocare a carte, anche se all’epoca
non ho mai visto girare denaro.
Al
Parco le regole, a netta differenza delle altre zone, erano uguali identiche al
normale cotecchio, ma con in più l’incomodo del Pigugnino (il terribile fante
di spade) che deformava e modificava sostanzialmente il gioco e le sue
strategie. Il fantino valeva in ogni caso due busche che erano a carico di chi
lo faceva malauguratamente proprio. Tralascio i vari particolari tecnici, già
affrontati a suo tempo in una apposita monografia su questo gioco.
Gran
parte del tempo delle partite era impegnato nelle operazioni del dare e del non
prendere la famosa carta e in più c’era sempre il pericolo costante d ingugnèeres al Pigugnìin (ovvero …
l’ingugno del Pigugno da parte di chi lo aveva in mano): una umiliazione
davvero drammatica, dalla quale era difficile riprendersi psicologicamente con
prontezza.
Ma
in generale anche quando si rifilava il famigerato fantino, con meticolosa e
chirurgica precisione, al giocatore messo peggio, si provocano sentimenti di
odio risentimento e vendetta.
Al
Parco era anche in uso la crudele tradizione dal cutècc’ cun la scaarga (cotecchio con la scarica). Lo sventurato
che, andava da solo a 20 e che quindi perdeva per tutti, doveva pagare un duro
pegno. Veniva fatto sedere a cavallo della panchina, gli si dava in mano il
mazzo mischiato e coperto. Mentre, chino, scopriva una carta alla volta alla
ricerca del Pigugnino, crudelmente gli altri giocatori lo battevano a mani
aperte sulla schiena, finché la carta maledetta non veniva trovata. Mi è
capitato solo una volta di assistere alla sconcertante scena, avevo 13 anni, ma
mi è rimasto impresso in modo indelebile nella mente. A m viin i ṡgriṡóor, sóol a pinsèer èggh!! (mi vengono i brividi
solo a pensarci).
Anche
per questa insana pratica, Fabiìn Carretti (vedere nota 3) mi ha
confermato la cosa, ricordandomi che lui (ma chi lo avrebbe detto ??) era uno
dei protagonisti attivi di questa feroce usanza e che spesso in tre si
mettevano d’accordo per giocare tutti contro tale Billy Dotti per farlo arrivare a 20 punti e somministrargli la pena
corporale prevista, fra i beceri e
sguaiati sghignazzi dei numerosi presenti. Per prolungare la punizione qualcuno
ogni tanto toglieva il fantino di spade dal mazzo …
Il
povero Billy continuò, sadicamente e in piena malafede, a essere sottoposto
alla stessa punizione, anche quando seguì una parte dei ragazzi del Parco che
si misero a un certo punto a frequentare, con intenzioni non proprio
devozionali, l’oratorio di S. Nicolò, dotato di bigliardino, tavoli da gioco,
ecc … I buoni frati sopportarono per un
po’, con amore e pazienza, questi ragazzacci indisciplinati che urlavano e
bestemmiavano senza timor di Dio, finché le porte si chiusero e la piccola
banda si trasferì al Bar Scacco Matto, all’inizio di Via Guido Fassi.
**
Io
non sono mai stato un gran giocatore da carte, non sono tagliato e quando uno
lo capisce, è meglio rinunciare. Però di fronte a un’offerta di fare un partita
a cotecchio non so dire di no. Infatti in questo gioco si è da soli, senza la
rottura di dover rispondere a un compagno esigente e fastidiosamente critico
nei tuoi confronti. Imparai a giocare al Parco a 13-14 anni e quella fu una
scuola dura, ma utile in generale per la vita successiva.
Il
giocatore deve dunque rispondere solo a sé stesso e chi sbaglia paga subito e
pesantemente gli errori commessi. Ecco un breve riassunto e modi di dire sulle
regole a Carpi e al Parco. Si gioca in quattro giocatori con le carte da
briscole. Le regole sono simili a quelle del tressette, ma all’inverso; infatti
il giocatore perdente è quello che realizza più punti. Lo scopo del gioco è
quello di non prendere, ma si ha l'obbligo di rispondere al segno giocato. In
ogni caso si deve
effettuare però almeno una presa,
altrimenti si è perdenti. A volte si possono creare tacite alleanze tra due
giocatori per non permettere agli altri due giocatori di coprire. facendo almeno una mano; in questo caso, il punteggio vale doppio. Si può
verificare il raro caso di un giocatore che riesce a non permettere nessuna
presa agli avversari; il punteggio viene triplicato per i perdenti. Le carte
hanno un loro punteggio: gli assi valgono tre e le figure uno, chi fa l’ultima
mano si fa carico di tre punti aggiuntivi.
In
ogni partita i punti in ballo sono 35 (32 +3). Fino a 14 punti si paga una
busca, fino a 17 = due, fino a 20 = tre, fino a 23 = 4, fino a 25 = 5; dopo i
26, ogni punto una busca. Terminata la partita si assegnano le busche solo a
chi ha fatto più punti. I primi due che arrivano a 10 busche escono e perdono,
ma se un giocatore arriva a 20 perderà solo lui. Il gioco ha tante varianti regionali e
provinciali e di conseguenza tanti nomi: traversone,
busche, rovescino, matassa, vinci-perdi, ass' e mazza, alla meno, tressette a
non prendere, tressette a perdere e ciapa no.
La
simbologia del gioco sta nel riuscire con abilità e fortuna a schivare i colpi
e le responsabilità dell’esistenza umana.
Ma
lo scopo sottile e intimo del gioco è il dileggio dell’avversario, fatto sia
dagli altri giocatori, ma anche dagli spigolisti autorizzati con diritto di
parola. Il dileggio scatta in varie occasioni: quando uno va venti e paga per
tutti, quando uno prende su degli assi, quando uno paga molte busche in un
singolo segno, ecc ... La derisione ha un esplicarsi corale e progressivo che
si protrae nel tempo.
**
Il
noto scrittore carpigiano Carlo Alberto
Parmeggiani ritiene invece, con autorevole parere, che il cotecchio, fra i
veri giocatori, debba essere considerato il "gioco delle carogne,
ovvero dal tróoi, per cui ci vogliono
delle autentiche e ferrate doti in questo senso. Infatti basta poco per
cambiare di nascosto un'alleanza e dare addosso a chi è messo male in arnese,
anche se è l'amico con il quale vai a donne, oppure in gita. Il cotecchio è sì,
il gioco del dileggio, ma soprattutto è il gioco che genera un diabolico
prestigio e stabilisce una gerarchia fra conoscenti o amici. Infatti il
"tradito", il perdente, anche se bravo, e che magari fino a poco
prima aveva goduto di rispetto e di alleanze sottaciute dai più pavidi e meno
capaci, spesso e volentieri si allontana umiliato, da sconfitto, dai tavoli da
gioco per giorni, se non per dei mesi interi.
Parmeggiani ama ricordare, con grande soddisfazione, che quando mandò a
venti il più grande giocatore che egli abbia conosciuto (Franco Benzi, lo zio
di Tito Ligabue, che in terza mano sapeva già chi aveva certe carte in mano):
per la vergogna, il poveretto si rifugiò a San Remo per tutta l'estate,
tornando poi a coda bassa a settembre inoltrato, deciso a fargliela pagare in
ogni modo.
Il
vero gioco, per i veri giocatori, dunque non consiste nel salvarsi dai
"colpi e dalle responsabilità dell'esistenza umana", bensì
nell'imporre la propria supremazia e il proprio prestigio sugli altri e
soprattutto sul destino. Ciò anche quando questo non metta in mano che delle
brutte carte per la vita. E' filosofia e ferrea matematica applicata, dove una
sola momentanea distrazione è sufficiente per perdere il controllo delle
giocate altrui e scatenare un tracollo emozionale. Tracollo di cui gli altri, i
più avveduti, i più bravi, i più carogna, ne approfittano in meno che non si
dica. Questo avviene anche correndo magari a volte il rischio, come talora è
capitato, di uscir fuori a far cazzotti. Chi gioca invece solo per salvarsi, lo
fa per passatempo ed è spesso definito ironicamente "estroso", poiché
dimostra di non capire il gioco, facendo giocate illogiche, se non addirittura
strampalate. Ma tanto, dopo qualche "raggio", se costui non è
cacciato via in malo modo, lui stesso si alzerà da solo e tornerà a casa, come
se fosse andato al cine.
**
Ma
ecco alcune delle frasi tipiche carpigiane che caratterizzano il gioco dal cutècc’
(… o anche cutègg’ come ci
informa Franco Bizzoccoli,
rivelandoci la pronuncia arcaica in dialetto “intra moenia” … dell’antico borgo
fra le mura):
Cuacèer = coprire. Bisogna fare almeno una mano (fèer ‘na maan). Se non si copre, si paga una busca, se i giocatori
sono due, i punti sono altrettanti, fino al caso massimo e rarissimo dove un
singolo giocatore fa cappotto.
Forse
al Bar Mercato di Via Alghisi, si urlava ..
"Te vèe pò a cuacèer da
l'Adéele!" ... “Vai poi a coprire dall’Adele! ” . Era una frase ricorrente, con un palese significato di pratica
sessuale, essendo questa Adele una nota e frequentata signora mercenaria di
Modena, quando uno, nonostante gli sforzi non riusciva a fare una mano.
Oppure “Te
vèe pò a cuacèer sòtt al pòordegh èd Borghnóov “ cioè in Corso Fanti dove c’è il Vescovado.
Andèer a liss = andare liscio, un termine derivato e preso a
prestito dalla briscola. Qui lo si può usare per il gioco di una carta
bassa; se lo si fa poi in modo reiterato
a s fa al ṡóogh dla lisòuna = si fa
il gioco della “lisciona”. Ma espressione più corretta è tirèer al ṡóogh = tirare il
gioco, cioè non si prende per diverse mani, in modo da far giocare gli
avversari, sperando che le carte girino bene. Si tratta di una tattica
furbastra e rischiosa; se le cose andranno male, si pagheranno parecchi punti.
Fèer ṡóogh = Fare gioco. Quando un giocatore ha delle brutte
carte alte, tenta da solo o in tacita compagnia di non far coprire almeno un
avversario, che in tal caso pagherà almeno uno.
Quando
hanno già coperto in tre, ed uno di questi cerca di far gioco e di non far
coprire il quarto, gli altri due devono tenere ben presente che: “A gh è ‘na règola: a n s dà mìa ‘na maan a
fèer ṡóogh pèr uun” = C’è
un’altra regola importante ed è quella che quando si fa gioco bisogna sempre
tentare di non far coprire due giocatori, facendo loro pagare ben due busche.
Se invece solo uno non copre, certamente uno degli altri tre si sarà schivato
almeno tre busche di mazzo.
Aas èd travèers = Asso di traverso. Sadica pratica di smollare un
asso al poveretto che ha giocato per primo una carta di un seme a cui si è
secchi. Di solito la mazzata viene accompagnata da una falsa e melliflua
costernazione: “óo, a m indespièeṡ!”
Quando
uno cerca di coprire con un asso, lanciandolo in apertura di mano, e semmai un
altro ha il tre o il due secco, e quindi è costretto a prendere e farsi quindi
l'asso (cosa sempre massimamente
indigesta) gli dice, a mò di sfida e di consolazione personale: “èt
cuàac’ pò con ‘na chèerta più éelta!” = copri poi con una carta più alta
- e quell'altro gli risponderà: “Mò tèeṡ, te gh l avrèe sècch!” = ma taci che ce lo avrai secco, il
due o il tre (intuendo naturalmente la verità).
Ṡughèer ‘na dèecima = giocare una carta decima. Dopo un paio di giri
con lo stesso seme restano su almeno un paio di carte di quel tipo. Chi le
gioca tenta di mettere in difficoltà un avversario, ma se nessuno prende,
perché ha sbagliato i calcoli, saranno guai seri per il provocatore.
La
“decima franca” è una carta che non può essere presa dagli
avversari, perché è l’unica rimasta in gioco di quel seme e nel caso di brutte
carte, la sua presenza rende il possessore molto inquieto.
Il colpo della cento pistole - giocata suprema in danno altrui. Si tratta di un’ironica
citazione dumasiana dal romanzo I tre moschettieri “ Io mi avvicinai a lui, e
siccome vidi che offriva cento pistole per un sauro ... ebbi perduto il mio
cavallo con nove punti contro dieci (pensate che colpo!) “. La frase viene
pronunciata con grande e sadico piacere, quando uno sprovveduto giocatore,
verso la fine della partita, cala una “decima franca” e si becca tre assi di
traverso, perché tutti sono secchi a quel seme. Se si verifica questo
drammatico episodio, lo sbeffeggio sarà molto pesante con frasi del tipo: “óo, t èe ciapèe trii aas a cavàal a la schiina
o ind al gruggn!” = Hai preso
tre assi sulla schiena o sul grugno.
Alla
fine degli anni ’80, ai tempi d’oro del Caffè Teatro gestito da Vittorio,
Giancarlo Tartari, detto Taras, ma anche Delòon o Delone per la sua avvenenza,
nel gioco cotecchio era la vittima designata e costante di ogni partita: tutti
gli assi e le decime erano suoi. Da ciò nacque questa frase ironica: “Dio al s sèelva da la siilta e dal tròun e
dal dèecimi èd Delòon!” = Dio ci salvi dalle saette e dal tuono e dalle
decime destinate a Delone.
Ciàapa e tóorna = Prendi la
mano e torna a giocare lo stesso seme. Regola aurea del cotecchio. In
tal modo si cerca di rimanere secchi a un gioco o di non farsi tornare in mano
con una decima.
Èsser sècch a un ṡóogh = essere secchi a un seme. Situazione molto
favorevole che consente di scaricare di traverso sugli altri, assi o altre
carte pericolose.
Guèerda che t ii andèe a Nóov = Guarda che sei andato a nove busche. Al ché lo
sfortunato giocatore, con finta e stizzita sicumera, risponde con prontezza:
"A n gh è probléema !! DALCERO, al
gh è stèe taant aan a Nóov!" = Non c'è nessun problema, tale DalCero
(un residente immigrato nel vicino comune dal sud) c'è rimasto tanti anni a
Novi di Modena!". Nel senso che gli altri giocatori non si illudano, prima
di andare a 10 e perdere .. deve ancora
passare un bel po' di tempo.
Dòop Nóov a gh è la Móoia = dopo Novi c’è Moglia. Una frase a doppio senso
che in partita deve essere interpretata che quando si è arrivati a nove punti,
la successiva e decima busca metterà lo sfortunato o incapace giocatore a mollo
(a móoi) nella acqua.
*
“Maagna,
bèvv e tèeṡ e và a ciamèer Malavèeṡ!” Mangia, bevi e taci e va a
chiamare Malavasi.
È
una frase usata per far tacere qualcuno e indurlo finalmente a compiere un
atto, ad esempio un bambino che continua a parlare anche col piatto pronto
davanti e non si decide a mangiare
Malavèeṡ
... s la và bèin l è un chèeṡ! Malavasi ... se va bene è un caso.
Il
Parmeggiani ci aiuta a risolvere il "mistero" di questi modi di dire
legati al cognome Malavasi; nei suoi ricordi giovanili di giocatore di
cotecchio con persone molto più anziane di lui, Malavèes veniva spesso citato
nella locuzione: "Ormai t i andèe da Malavèes!"
Questo succedeva durante una partita durante la quale un giocatore era ormai
sul punto di andare fuori a 10 o, peggio, a 20 busche.
Si
intendeva significare che per lui la partita era ormai finita, essendo stato, Malavèes,
a loro dire, un antico personaggio carpigiano (1800 ??) che di mestiere faceva
al buṡèer,
ossia il fossaiolo, il becchino al cimitero di Carpi.
*
La battuta ... davvero
notevole ... di origine ottocentesca era sempre citata dell'indimenticabile Mauro Prandi
(elegante e spietato giocatore) e voleva tracciare un immaginario itinerario,
dai riscontri però ben reali, da Carpi al Po. A piacere … sullo stesso tono ci
si può sbizzarrire e aggiungere … T ii a
la Zanzara, ristorante prima di Novi, al
Puunt dla Préeda, per chi viaggia sulle 7/8 busche; mentre chi arriva a 20
busche, pagando per tutti, si indica, superata la Móoia, il mesto arrivo a S. Benedetto Po, con relativa
immersione completa e infamante nell’acqua non certo profumata del Grande
Fiume.
Un’altra
bella e tagliente frase ad effetto che si indirizza al disgraziato perdente da
parte di uno della combriccola, ma assente al momento della disfatta e al quale
è stata prontamente comunicata la lieta notizia, anche tramite cellulare, è
questa:
“
Óo, a iò sintìi che su a la Sèera a tiira
di bée vèint! A gh è da tgniires stricch!” (Oooh, ho sentito che su a
Serramazzoni tirano dei bei venti - 20- ! C’è da tenersi ben stretti). Pur
colto di sorpresa, prontamente lo sciagurato risponde … minaccioso e assetato
di rivalsa: “ Stà atèinti … ch a n gh ò
mìa la memòoria cuurta!” (Stai attento che non ho la memoria corta e prima
o poi avrò la mia crudele vendetta!).
Nel
caso vincano partita dei giocatori non reputati particolarmente abili, a
scapito di personaggio esperti e blasonati, questi ultimi masticheranno molto
amaro (per lesa maestà) e noteranno acidamente: “L’aaqua la va a la Sèera!” (l’acqua, contro natura gravitazionale,
va dalla pianura a
Serramazzoni che è in collina!)
Andèer a déeṡ = andare a 10. Quindi perdere la partita.
Andèer a vèint = andare a 20. Queste eventualità è davvero il
massimo della ignominia. Significa essere l’unico a perdere per tutti. Il
dramma per lo sventurato è davvero grande. La notizia farà subito il giro della
sala. Chiunque entrerà successivamente nel bar o nel luogo della partita, verrà
immediatamente informato del grave fatto, rigirando il dito nella piaga: Óo incóo Giig l è andèe a vèint ! = Ohh
oggi Gigi è andato a 20. E ṡò d cal
gnòoch e a tóor èl pèr al cuul = e giù di quel gnocco per prenderlo in
giro. Il fatto, soprattutto se al ṡugadóor
l è uun d ghiggna = cioè reputato un gran giocatore, resterà per giorni
nella memoria e non mancherà chi alla prima occasione gli urlerà: Mò tèeṡ tè che l èeter dè t ii andèe a
vèint! = Ma taci, proprio tu che l’altro giorno sei andato a 20.
Si può ricordare una scenetta che spesso
si ripeteva nei caffé del centro e della piazzetta, fino agli anni '80, durante
il gioco del cotecchio, allorquando un giocatore, chiamiamolo Mario, faceva una
giocata delle più balzane e chi ci capitava sotto, Carlo, reagiva in questo
modo:
Carlo: Tè te n sèe gniint ... T ii ’n ignoràant!
Mario: A nn ofènnder mìa... Ignoràant te
l vèe po' a diir a tò surèela!
Carlo: Óo, mòRRo ... Mè a n t ò mìa oféeṡ ... A n t
ò mìa ditt t ii un cretèin!... A t ò sóol ditt t ii ’n ignoràant ... ch a vóol
diir che "Sei uno che ignora"...
E
in quel modo si ristabiliva una pace armata al tavolo dei giocatori.
Il
noto Mauro Prandi, raffinato giocatore di cotecchio, quando aveva a che fare
con un tavolo di avversari non ritenuti particolarmente valenti, così
sentenziava: "A gh è più pèss che
aaqua!" (Ci sono più pesci che acqua, ne senso che è facilissimo
gettare la rete o l'amo e fare una ottima pesca).
Può
disgraziatamente capitare a cotecchio di sbagliare clamorosamente una giocata o
di rifiutate, pur avendo il seme in mano (peccato massimo). Lo sventurato si
può giustificare: "A gh iiva 'na
chèerta frudèeda!" cioè .. avevo una carta foderata, nascosta e
appiccicaticcia perfettamente sotto un'altra e quindi ... invisibile.
**
Nota
storica, testimoniatami da Attilio
Sacchetti: negli anni ‘70 nella sede del Club del Corso di Carpi era
presente un grosso campanello di bronzo del diametro di 8 centimetri (scartato
in chiesa per l'avvento delle Messe post conciliari); il barista avvisava con
rigorose scampanellate quando uno sfortunato o incapace ṡugadóor era andato a 20
punti: provocando uno sbeffeggio generale.
Franco
Bizzoccoli ricorda però che tale usanza fu ereditata dal cafè ustarìa “Garibaldi” in Piazzetta. Un locale che fu a lungo il
più vecchio di Carpi. Nei primi del ‘900 il ritrovo fu dotato, per lo stesso
scopo, di un apposito campanello, regalato da don Bertani dla céeṡa dal Crisst al gestore Gigìin
Caròobi. In altri locali, in mancanza,
si picchiava rumorosamente sui bicchieri.
In
altre conventicole venivano, ma anche oggi vengono, tenuti specifici diari
giornalieri, redatti con minuziosa cura su appositi registri o quaderni con
annotati i vincitori delle Maglie Nere.
Ecco
le foto eccezionali del “Registro Nero dei 20 punti” usato nella bottega di
Tito Ligabue di Viale Carducci negli anni dal 1996 al 1998 e tenuto con
certosina cura da Carlo Alberto Parmeggiani.
**
Un
giocatore di grande capacità come Fabiìn Carretti (vedere nota 3) mi racconta, in confidenza, di avere l’abilità di
ricordare e contare a mente le carte giocate e i punti nei mazzi di ogni
giocatore, via via che le mani si dipanano. Ciò consentente di calcolare e
calare con precisione i semi e le decime, cose fondamentali per non pagare o
quanto meno pagare il meno possibile. Con la situazione sempre sotto controllo
e con un appropriato smistamento degli assi e delle figure, l’astuto personaggio
tenta sempre, quando è possibile, di far raggiungere lo stesso punteggio a due
o tre avversari in modo che paghino, come da regola, doppio o triplo.
**
Conclusioni
sul cotecchio
Il
gioco del cotecchio e in particolare del Pigugno serve in particolare se hai
una persona con cui vuoi disgustarti. Un amico mi ha raccontato che un'estate
coinvolse il padre e dei vicini di casa a giocare a Pigugno; giocarono parecchio
e sèinsa remisiòun. Un
giorno, dopo l'ennesima partita finita ad
aas èd travèers, uno dei vicini sentenziò: "St'èetra vòolta a ṡugòmm po’ cun i curtée piantèe insimma a
la tèevla … !”… “Quest’altra volta giochiamo poi coi coltelli piantati
sul tavolo !” …
Scherzava o diceva sul serio ??? *0*
La Briscola
La
mia carissima zia materna Valentina Compagnoni (che tirò su mè e al mè fradlèin - io e il mio
fratellino - mentre i miei andavano entrambi a lavorare e alla quale va il mio
grato e commosso ricordo) mi insegnò a giocare a briscola in due a 5-6 anni, un
passo successivo al semplice rubamazzo imparato un paio d’anni prima. Il fatto
di imparare regole e strategie in ambito familiare fin da piccoli è
fondamentale per capire come ci si deve comportare e un anziano parente è
sempre un ottimo e premuroso maestro. Successivamente mi dedicai a partitine
con i miei piccoli amichetti, ma come al solito il terreno di gioco vero e duro
arrivò con la frequentazione del Parco e delle sue scomode panchine; lunghe ore
di pratica d’estate, sotto le generose ombre degli alti ippocastani, fra un
crocchio urlante di giocatori e spigolisti. Eravamo lentamente cresciuti, senza
che ce ne fossimo troppo accorti, ormai adolescenti pieni … le palline
cominciavano a non essere più al centro dei nostri interessi. Si giocava un po’
a cotecchio e un po’ a briscola. I due che perdevano nel primo incontro,
facevano coppia contro gli altri due, nella successiva partita a briscola: i sfighèe còuntra i brèev (gli
sfortunati contro i bravi). Si cercava la rivalsa, la rivincita per sanare il
disonore subito, mentre gli altri cercavano la conferma del dominio totale,
fondato su capacità, abilità e fortuna; fattore quest’ultimo importante, perchè
còuntr’al cuul, a n gh è ragiòun!! (contro
il cul non v’è ragione!!)
Il
gioco della briscola in quattro o nella più complessa variante in 5 (briscola
chiamata) con le carte piacentine racchiude un universo complesso di
significati che si sono andati intrecciando alla perfezione con la nostra
cultura locale e, naturalmente, con il dialetto. Al punto che le due sfere - la
terminologia e la lingua del popolo - si sono perfettamente sovrapposte, sicché
la briscola è divenuta un "gioco dialettale" per eccellenza, fucina
di espressioni, vocaboli, modi di dire che hanno travestito i ruoli e le
combinazioni imposti dalle regole, attingendo per lo più ai codici della
sessualità, dei misteriosi significati dei numeri, dell'inganno e della
dissimulazione.
Non
c'è da meravigliarsi, dunque, che alcune espressioni fossero e siano
decisamente crude o politicamente scorrette. Sono solo la sublimazione
dell'aggressività insita nella lotta tra chi alla fine deve vincere e chi per
forza deve perdere.. Non è un caso che il verbo più significativo della
briscola, quello che esprime il trionfo accompagnato dal forte sbattere della
mano con la carta vincente, sia strusèer.
Significa "strozzare", ma a briscola non si è mai sentito di qualcuno
realmente "strozzato". O, almeno, non ci risulta.
**
Ṡóoga un caaregh = gioca un carico da 10 o 11 punti.
Un caaregh muntanèer = carico montanaro cioè un carico che via via
aumenta di peso; quando in una mano si giocano alcune figure (fantini, cavalli
o re) e la loro somma arriva (o quasi) a fare il punteggio di un carico. E’ una
mano che dispiace molto lasciare agli avversari.
Al gh à un caaregh adòos = Ha un carico addosso; quando un giocatore ha un
carico che non riesce a girare al compagno; ciò può comportare la sconfitta
nelle partite più tirate.
La manòn = Ironica definizione di una mano quasi sempre
decisiva, dove vengono giocati tre o più carichi. Deriva dalle omonime opere
Manon Lescaut di Giacomo Puccini,
Jules Massenet e/o Daniel Auber;
dubito che i giocatori conoscano anche solo la prima, figurarsi le altre due …
Andèer (a) liss = Andare liscio giocando una flinnga da zero punti.
Fèer al ṡóogh dla lisòuna = Fare il gioco della “lisciona”, cioè andare a
liscio per diverse mani in modo da far giocare l’ avversario, o perchè si
difetta di briscole e non si può fare altro, o perchè, astutamente a s tiira ‘na traapla = si tende un trappolone agli
avversari. Una tattica rischiosa che si usa anche per il cotecchio.
Strusèer = Strozzare; quando si gioca il carico dello stesso
seme della prima giocata della man, senza uso di briscole.
Strusèer a la mutta = quando la giocata viene eseguita e vinta senza
proferire parola; è un vero è proprio schiaffo agli avversari. A chi fa questa
giocata a gh ridd aanch al cuul = gli ride anche il culo.
Liss ch a stròos = Liscio che
strozzo … si ordina al compagno che gioca
per secondo, quando si è ultimi nella mano.
Èsser sòtta stròos = essere sotto strozzo, quando c’è il pericolo che
un avversario giochi un carico dello stesso seme della prima carta giocata
nella mano; a tale timore si risponde calando un brisculèin. La frase
viene usata anche nella vita normale per indicare una situazione nella quale
una persona non può agire serenamente e in libertà, in quando si avverte un
incombente pericolo a cui assolutamente occorre far fronte con atti preventivi.
Ṡughèer pèr al capòot = Giocare per il cappotto; partita particolarmente
ambita e sperata che porta far sì che la coppia riesca a fare tutte le otto
mani e i 120 punti con scorno dei tre rivali. La posta diventa doppia.
Ciamèer = Chiamare la futura possibile briscola in base
alle carte che si hanno in mano.
Si
può passare o chiamarne una più bassa; dopo il due si impostano anche i punti: A
ciàam al duu cun 62, 63, 64, ecc … puunt.
Ciamèer(e)s in maan = Chiamarsi in mano; altra ambitissima giocata dove
il fortunato ha carte talmente belle che non ha bisogno del compagno e così
avrà ben 4 rivali; questa giocata, soprattutto se come da regola fosse fatta in
silenzio, provoca forte disorientamento e servirebbero diverse mani prima di
capire cosa stia succedendo.
Tastèer in bòcca = tastare in bocca
quando si gioca una carta sotto strozzo di piccolo-medio valore, per
vedere se l'avversario ha carichi o briscola e osa giocarli.
Fèer ssantùun = servono 61
punti per la vittoria. Finire a 59 punti invece significa andèer ind al buuṡ di caiòun = andare nel buco dei coglioni. O
anche al puunt dal caiòun = il punto del coglione, quello che
manca per la vittoria.
La primma l’é di caiòun! = la prima mano di una partita è dei coglioni, modo
di canzonare chi andava subito in vantaggio.
Sempre
per la prima mano c’è questa filastrocca: Chi
fa duu, armàagn futùu; chi fa trii, armàagn frii; chi fa quàater, va a teàater
= Chi fa due, resta fottuto (perde il segno), chi fa tre, resta ferito (segno
difficile da aggiudicarsi), chi fa quattro va a teatro (è quindi facile che
vinca). Una variante: chi fa trii, al s
lècca i dii = chi fa tre, si
lecca le dita.
Dopo
una mano si può sentir contare: Trèddeṡ e
trii dii ind al cuul … sèddeṡ = 13
punti e tre dita nel culo, fanno 16. Prego notare la triviale finezza, dove sèddeṡ in dialetto significa anche
cuul – vedi la ben conosciuta
frase: tóo la ind al sèddeṡ! Tale numero trova spiegazione nella
Smorfia napoletana e cioè … 16 = o’ culo.
A suun òoreb! (cóome un quàai) = Sono orbo! (Come una quaglia), ovvero senza
briscole. Situazione deprecabile che facilmente porta alla sconfitta, se non
hai un compagno ch a t tiin su, che ti tiene su con le sue briscole.
Con
lo stesso significato: A suun in céeṡa o
in Dòom = Sono in chiesa o meglio … in Duomo (senza risorse, nelle mani
della Provvidenza)
A n
gh ò gniint in maan! = Non ho
niente in mano; quando si hanno della brutte carte.
Ṡóoga ’na ròssa ! o ‘na chèerta
vistiida = gioca una rossa o una
carta vestita; sono le figure.
Ṡóoga la Bereniice! = Gioca la Berenice! cioè occorre giocare il due
di denari.
Mètt èggh mò un brisculèin ind al
cuul! significa buttare, per
stringente necessità, un’inutile briscola più bassa di una già sul presente sul
tavolo.
Si
può anche usare il termine fermèin,
cioè metterci un fermino, una briscola svestita che impedisce la strozzata.
Magnèer ’na brisscola = significa invece calare una briscola più grossa di
una già giocata.
Quando
si decide una tattica di attacco, con la giocata di briscole o carichi, si può
incitare la squadra con un trascinante: Dàai
mò! Ch a gh sunòmm l’Aida!!! con riferimento alla celeberrima marcia
trionfale dell’omonima opera lirica. Oppure: Adèesa a v fòmm cantèer “Vivere”
= una nota canzone degli anni ’30.
L amìigh (uṡvìi) èd cal dònni = l’asso di bastoni = l'amico (l’attrezzo) delle donne, per
evidenti motivi; o anche al ṡguravèddvi = il ripulisci vedove, anche qui ogni
commento è superfluo.
La Piita o la Pitòoca = l’asso di denari = il rapace
raffigurato.
Al bicéer o al campanòun = l’asso di coppe = il
bicchiere.
L anṡlèin o l
angiulèin = l’asso di spade =
l’angelo con la spada.
Cun brisscola spèeda a viins i
gusadóor = con briscola spade
vincono quelli che hanno successo con le donne.
Cun brisscola bastòun a viins i caiòun = con briscola bastoni vincono invece i coglioni.
Con
briscola coppe si ha: la maan di puòos
= la mano dei ”puossi” (di coloro che sono dediti al bere smodato di vino).
Infine
la maan di sgnóor = la mano dei
signori, quando briscola denari
A
briscola a 4 può succedere che chi deve distribuire le carte (il mazziere)
millanti minaccioso: L è da quàand a suun
nèe ch a n pèerd mìa al mè sèggn! = è da quando sono nato che non perdo il
mio segno. Gli altri giocatori lo guarderanno con evidente commiserazione,
mandandolo senza indugio… in cal pòost =
in quel posto.
Quando
le cose per una coppia si mettono davvero male, uno dei giocatori potrà dire
rassegnato: Pèers a s è pèers, èd viinser a n gh è vèers!! = Perso si è perso,
di vincere non c’è verso.
La ṡughèeda dal cèrregh = la giocata del chierico, quando si gioca il 7,
un numero che ricorda la fascia diagonale verde del diacono.
**
Chèerta Sèggn
* Aas èd brisscola labbra chiuse in fuori (quasi a lanciare un bacino)
* Trii èd brisscola lieve deformazione della bocca
* Rè èd brisscola
occhi al cielo
* Cavàal èd brisscola alzata di una spalla
* Fantèin èd
brisscola punta della lingua
fuori velocemente
* 7 segno
diagonale sul petto che accenna alla gambina del numero
* 7, 6, 5, 4 e 2 pollice ed indice sfregati velocemente
èd brisscola (dette fermini)
* Caaregh – Aas e Trii rapida apertura delle labbra (amm! carico
disponibile da mangiare)
non di briscola rigonfiamento guance (quando si è
impegnati – A suun piin)
* Assenza di briscole strizzatina
d'occhio o occhi chiusi.
**0**
Scundròola, cucùu,
pòmma, taana
giocare a nascondino nel Parco
Parzialmente pubblicata su Voce di
Carpi nel n 29 del 21 luglio 2011
v 30 4-2-2012
Il
Parco con la sua vasta superficie e i suoi tanti alberi e cespugli era l’ideale
per il gioco estivo del nascondino, ben conosciuto e praticato a Carpi in tutto
il suo territorio col nome di cucùu o
pòmma. Un gioco ben noto e praticato
in tutta Italia con nomi diversi e leggere varianti. In questo gioco c’è
piacere e il brivido dell’avventura legato all’atto di nascondersi e scomparire
momentaneamente, il contatto con l’ambiente, la stimolazione di udito e vista,
prontezza di riflessi e rapidità, il senso tattico e strategico nello studiare
i possibili movimenti verso la pòmma.
Nel
dialetto (per me) “classico” e fino a circa il ’40, il gioco si definiva scundróola; ma tale termine già a
partire dagli anni ’60 purtroppo è stato dimenticato ed è caduto in disuso.
Infatti noi lo chiamavano comunemente cucùu,
un nome che dovrebbe derivare dall’abitudine di quest’uccello di nascondere a
tratti la testa per poi riapparire; un moto ripetitivo reinterpretato nei
famosi orologi svizzeri. Il bambino dietro un albero, un cespuglio o un muretto
si affacciava velocemente allo scoperto con il faccino per studiare la
situazione e altrettanto rapidamente si tornava ad eclissare, sperando di non
essere stato notato dal cercatore.
I
partecipanti si mettevano con molta gravità in cerchio per sancire le regole
generali di base e gli accordi preliminari; era meglio essere molto chiari fin
dall’inizio, anche perchè c’era sempre qualcuno che poi tentava di fare il
furbo. Ai miei tempi erano ammessi maschi e femmine, senza alcuna distinzione e
numero; anzi le ragazzine erano sveglie, furbe e belle svelte. L’area di gioco
molto vasta e corrispondeva all’intero Parco delle Rimembranze.
Si
sorteggia poi un partecipante al gioco per stabilire chi dviiva stèer sòtta; la scelta avveniva con un’apposita còunta a eliminazione salvifica successiva.
Si usavano simpatiche
e brevi filastrocche che terminavano
sempre con un “andèer fóora tòcca a tè”
e che poi si ripeteva con quelli che erano rimasti. Colui che dirigeva la còunta a ogni sillaba o parola breve
sfiorava di seguito col dorso della mano il petto dei concorrenti in cerchio.
Spesso c’era qualche imbroglietto nello scandire le ultime sillabe, pronunciate
progressivamente in modo sempre più lento, talora con cadenze diverse a seconda
degli interessi (amicizie o antipatie) di colui che contava. Così, dopo vivaci
proteste e contestazioni, si sentiva ripetere il finale.
Io
mi ricordo questa, ma ce ne sono tante altre, spesso con piccole varianti:
“Sotto
il ponte di Malacca
c’è
un bambin che fa cacca.
La
fa dura dura dura
Il
dottore la misura,
la
misura trentatre,
an
- dar - fuo - ri
toc
- ca - a - te.”
Alla
fine della strofetta, la mano si fermava sul colui o colei che l’aveva fatta
franca. Il fortunato faceva un passo indietro, tirando un sospiro di sollievo,
assistendo poi con curiosità al prosieguo del rito.
Stèer sòtta
“Èsser
o stèer sòtta” era un ruolo certo non
ambito e non piaceva a nessuno: infatti significava essere soli, in forte tensione,
sempre sotto agguato e spesso cocentemente beffati dai vari partecipanti, anche
all’ultimo secondo. Gli avversari invece giocavano di squadra e non di rado
orchestravano azioni coordinate.
Se
a star sotto capitava a una ragazzina, faceva il muso e se ne andava
brontolando, ma consapevolmente rassegnata a mettersi, col viso rivolto
all’alberone di base, con gli occhi chiusi per non vedere; se era un maschio,
faceva finta di essere disinvolto e sicuro di sé.
Il
cacciatore con gli avambracci e la faccia appoggiati all’albero (detto pòmma o anche tana), le mani davanti
agli occhi, senza poter guardare le mosse degli altri, dopo avere contato (uno,
due … cento!) per il tempo concordato, ad alta voce, concludeva la litania dei
numeri con il detto INAPPELLABILE: Chi è
fóora … è fóora! Chi è dèinter … è dèinter! (Chi è fuori e fuori! Chi è
dentro è dentro! sottinteso dal proprio nascondiglio), una sorta di “rien ne va
plus”. A quel punto, se non ti eri già nascosto, t éer fritt … eri fritto.
C'era
anche chi contava così:
unci, dunci, trinci, quari, quarinci,
miri, miminci, ott, fant, dies ...
e chi è fóora … è fóora
e chi è dèinter … è déinter!
Il
tutto detto a ‘na graan velocitèe, pèr
catèer un quelchidùun in castaagna, primma ch a s lughìss bèin a móod.
Oppure
Am barabàm cicci cocò,
trée sivèttli sul comò,
che
facevan all'amor
còn la fióola dal dutóor,
il
dottore s'ammalò,
am barabàm cicci cocò ...
chi è fóora … è fóora!,
chi è dèinter … è dèinter!
Nascondersi bene!
Non
esiste in dialetto una diretta trasposizione del nome italiano del gioco
(nascondino), perchè in dialetto il verbo “nascondersi” si dice lughèeres.
Davvero
arduo capirne l’ascendenza. Secondo l’esperta Anna Maria Ori potrebbe trattarsi di una volgarizzazione del verbo
latino “locare”. Esso ha molti significati, come collocare, dare in affitto, in
appalto, in moglie, prestare a interesse, investire denaro. Insomma … mettere
al sicuro in loco acconcio, in qualche modo sottrarre alla vista o alla
disponibilità di terzi, qualcosa o qualcuno. Chissà? Ci si può limitare a
ricordare alcuni modi di dire che contengono l’uso del misterioso verbo: lóogh èt o mò vaa t a lughèer, nel senso di vatti a nascondere. Frasi riferite
a chi ha appena fatto una figuraccia, o è stato scoperto in gioco sporco, o più
semplicemente aveva vantato grandi possibilità che non hanno retto alla prova
dei fatti.
Nel
lughèeres del cucùu si rivelava poi un’ampia casistica di tipi diversi di
giocatori. C’era quello egoista, che, trovato un nascondiglio per sé, ne
cacciava gli altri, col pretesto che facevano casino e che lo scoprivano; c’era
il giocatore immaginoso, che si ficcava chinato dietro i tavoli e le sedie del
barettino, fra la gente infastidita; c’era il giocatore incerto, che girava fra
un albero e l’altro, senza trovare un cantuccio soddisfacente; c’era quello
audace che si metteva semplicemente quasi dietro all’albero, a due passi dalla
base, aspettando l’attimo fatale di distrazione del cacciatore e c’era
finalmente quello sciocco che si metteva nel posto più facile e intuitivo da
scoprire.
Il
cercatore a sua volta si poneva con attiva prudenza, astuzia, fantasia e occhio
acuto alla ricerca dei partecipanti che si erano nascosti, tenendo sempre ben
in vista e a portata di mano la base.
Cucùu nel disegno di un bambino
Come
è noto lo scopo del gioco era quello di toccare la pòmma con la mano aperta, prima del cacciatore, urlando: Saalvis! (di
stupefacente derivazione latina … direi). Quest’ultimo, a
sua volta, dopo aver individuato un avversario, toccava la pòmma (detta anche la taana)
dicendo ad alta voce il nome del ragazzo individuato e il luogo dove lo
sfortunato giocatore era stato visto. Il
giocatore “tanato” era prigioniero ed eliminato dal gioco attivo; ma anche
colui che si salvava doveva da quel momento fare lo spettatore.
A t ò visst! Viin mò
fóora!
A t ò visst: viin mò fóora! (Ti ho visto: vieni fuori!). Al primo a essere
beccato toccava poi l'onere della conta e della caccia nel giro successivo. Se
uno dei partecipanti, pur se scoperto nel suo nascondiglio, riusciva di corsa a
precedere e a toccare la tana prima del cercatore, strillando "Saalvis!" si mette però in salvo.
E’ in questa fase del gioco che si dipanavano fini strategie e si mettevano in
evidenza le dote atletiche da piè veloce.
Se
poi era l'ultimo a salvarsi, poteva farlo a nome di tutti dicendo "Salvi
tutti!" o “Liberi tutti!” e il gioco si sarebbe poi ripetuto con lo stesso
cercatore … beffato e sbeffeggiato.
Nel
Parco la superficie era vasta e una “manche” di gioco poteva durare anche
mezz’ora. Epiche le corse a perdifiato, quando si veniva scoperti per
raggiungere per primi l’agognata base.
Qualche
volta dopo qualche sgradevole discussione, essendo un po’ tróoia già da allora, mi allontanavo in silenzio e andavo a casa,
che era in via Galvani, quindi molto vicina al Parco, lasciando il cacciatore a
cercarmi per un bel po’ e a litigare con gli altri. E quando l’ora del pranzo
si avvicinava o mentre calavano le prime ombre della sera, il meschino restava
lì a girovagare con una disarmante sensazione di … non finito.
**
Luciana Nora, da sempre appassionata studiosa di etnografia,
storia e costumi carpigiani, ricorda che rispetto a questo gioco si
possono delineare varie "stagioni di vita": la primissima infanzia,
l’infanzia e la preadolescenza. Ecco i suoi ricordi in prima persona:
"Questi periodi li ho vissuti e ho poi potuto osservarli tutti
e tre.
Non ho mai giocato al Parco, ma sempre sotto i portici; quelli di
Corso Fanti e delle vie Giuseppe Rocca,Via Andrea Costa e Berengario; quando, a
differenza di oggi, i portoni delle logge erano aperti e davano su piccole o
grandi corti sui lati delle quali si affacciava l’ingresso alle scale che
portavano a solai odorosi di legna e di forma èd gramustèin, a pianterreno si sviluppavano cantine, lavanderie e
laboratori. Persino le porte delle abitazioni erano aperte. Non eravamo mai
soli, sul marciapiede o sotto i portici, sedute su sedie basse, sostavano
sempre donne che apparivano anziane e forse propriamente non lo erano, vestite
di grisaglie o anche in nero integrale, un fazzoletto annodato in testa, un
grembiule e stavano lì per ore impegnate ad intrecciare e a chiacchierare
sommessamente. Le avresti dette assenti e invece ogni tanto alzavano la voce
per richiamare qualcuno: Fa bèin a móod
che s te n al fèe briiṡa, stasiira al diggh a tò pèeder o a tò mèeder.
Da piccolissima lo spazio entro cui contenere il gioco era
ristretto, vi partecipavano sia maschi che femmine e si attuava in presenza di
adulti che qualche volta si facevano complici. Ci si comportava un poco come
struzzi: nascondendo la testa non si vedeva più né chi ci cercava, né la pòmma e si era convinti di non essere
visti. Non c’erano inganni e ci si alternava alla conta senza tanti problemi,
dato che il gioco si concludeva in breve tempo per poi riprendere e intanto
però, osservando le debolezze degli altri, si affinava l’astuzia, ci si faceva
più arditi e pian piano si allargava il raggio del gioco.
Direi che a partire dai sei anni, in
coincidenza con l’inizio della scuola elementare, quando maschi e femmine
venivano rigorosamente separati e non solo per classi, ma addirittura per
padiglioni con diverso ingresso, anche nel gioco ci si ritrovava separati e se
una bimba fosse stata trovata a giocare con i maschi veniva ripresa e le veniva
affibbiato l’appellativo di “mas-ciùss”
(maschiaccio). Lo spazio si allargava a tutto il portico su cui si affacciavano
tantissime botteghe di artigiani, tutte aperte durante la bella stagione e
tutte possibili nascondigli: Brenno il lattoniere, Giovanni al scarpulèin, i depositi di legna e
carbone dal Zambéeli, al curtìil dla Giasèera, al fóoren dla Bice. C’era l'osteria èd
Romildo Corradi dove, tra l’altro, mentre si stava nascosti sotto il
banco, si cercavano nel cestino i coperchietti delle aranciate San Pellegrino
(quelli dorati con la stella rossa), ambiti ind al zóogh di cuercìin,
praticato quasi esclusivamente dai maschi, ma averne qualcuno poteva essere
utile in qualche scambio di “fifi” (figurine) e potevi anche
incontrare la Regina che ti regalava un pezzo di colla di baccalà fritta.
Poi c’era Prandi che nessuno si sarebbe mai sognato di chiamare marangòun,
bensì restauradóor, l’officina èd Paciòun, quèlla
èd Guldòun e po’ quèlla d Camùrr, la butéega d Canùll, al
scarpulèin, che al schèerpi al li giustèeva, mò al li fèeva aanch e
dove, in una vetrinetta, c’era permanentemente allestito un piccolo presepe con
statuette di bella fattura. La butéega dal cartulèer Forghieri, sèmmper
piina d ragasóo ch i cumprèeven al bustèini èd figurèini, quaderni,
pennini: torrette, gobbetti, Perì,
inciòoster e, lì, un bambino … di più, uno di meno, non se ne accorgeva
nessuno e ci si poteva imboscare per nascondersi. Appena di là dal voltone la pasticceria
èd San Nicolò, dove se eri buona amica di Maurizio, figlio di Camillo il
gestore, entravi facilmente nel laboratorio dal quale quasi immancabilmente
uscivi con un scartucìin d artàai (ritagli di paste); subito dopo il
salumiere Berra e, con sua figlia Rossella, era possibile nascondersi nel
retrobottega, dove capitava di poter anche addentare e ripulire qualche osso di
prosciutto.
Ciò non toglieva però che quando lo spazio del gioco era
erroneamente ritenuto fuori dal controllo degli adulti (ci sono sempre state le
bacchettone che andavano a riferire ai genitori) si contravvenisse volentieri
alla regola della separazione. Avevamo imparato a contare e anche a sillabare e
colui che avrebbe dovuto cercare gli altri era sorteggiato con una conta:
Sot/to il pon/te di
Ve/ro/na,
c’è u/na vec/chia
sco/reg/gio/na,
di sco/reg/ge ne fa tre,
a con/ta/re toc/ca pro/prio
a te//.
Mi rammento del grande, cosiddetto “casermome” di via Berengario,
ex tintoria Menada del gruppo SIT. Su questo edificio si sentiva spesso
ripetere:“Tùtta ròoba lasèeda in ereditèe da Bertéeṡ, quèll che quàand al fèeva i
cumissi l éera bòun éd diir che i béesi i n faan briiṡa la felicitèe: “L’ORO E’ FANGO!” e un quelchidùun, al l iiva miss in vaaca, perchè al gh aviiva rispòost: “Bè mò alóora, s l è acsè,
butt m èn mò bèin ’na ṡbadilèeda!”
Là, nel casermone dove gli adulti erano molto affaccendati, maschi
e femmine si incontravano ed era davvero uno spasso giocare a cucùu.
Ci si nascondeva da soli o, più spesso, in coppia: due
femmine, due maschi. In coppia ci si faceva più arditi. Il mobilificio di
Marchesi, la riseria Beretta (e poi Baetta), l’officina Garuti e Gualdi, la
Litografica dove, come grafico, lavorava anche Guerrino Coppi, il grande
magazzino di stracci di Faglioni … L’alta ciminiera, mobili, balle, sacchi,
scatoloni, rottami, assi accatastate, angoli bui, due o tre automobili, due
furgoni, spesso i camion che caricavano riso, macchine da lavoro. Là eravamo
veramente in tanti e il gioco aveva dei tempi lunghissimi, fino al punto che
chi era addetto alla conta e alla poma e quindi a cercare i compagni, non
raramente veniva aiutato specialmente da chi, avendo fatto poma, non temeva di
ritrovarsi poi nel ruolo di cercatore. Si arrivava al punto di sentirsi
chiamare: - Dai Luciana, vieni fuori! Sei l’ultima! Se riesci, fai poma per
tutti! - Sì, perché, non per dispetto,
mi capitava di perdermi ad osservare il lavoro di pennello di Guerrino, quello
di Tangerini, e anche il sacchetto di francobolli che mi tenevano da una parte
la figlia di Garuti e la signorina Beretta.
Poteva capitare che quando finalmente si usciva per ritornare al
gioco si trovassero i compagni impegnati in qualche altro gioco.
Sei, sette, otto, nove anni e, intorno ai dieci, quando si aveva
ancora tanta voglia di giocare, ma qualcosa stava cambiando, anche il giocare a
cucùu
mutava nel suo significato. Si arriva a nascondersi in coppia, non più solo
femmine con femmine e maschi con maschi, ma un maschio con una femmina e là,
nel nascondiglio avvenivano le prime dichiarazioni:- Vuoi essere la mia
morosa?- Erano amori da preadolescenti più che platonici, entro i quali un stretta
di mano durante una corsa, una carezza sui capelli, l’esporsi di uno per
difendere l’altro, davano emozioni fortissime e forse irripetibili.”
**
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La poetessa Luisa
Pivetti ricorda anche lei questo gioco: “ero una bambina di campagna, nata
e cresciuta tra prati verdi e filari di alberi da frutto. Ho gioito
intensamente di questo divertimento praticandolo, non al Parco o sotto i
portici del centro, ma fra ragnatele e travi umidicce della vecchia
"barchessa" vicina alla casa dove abitavo.
Lì, in quel luogo, zeppo di attrezzi agricoli in
disuso, vivevo il piacere del nascondiglio sicuro, quasi sempre irraggiungibile
dai miei compagni.
Era anche lo spazio per i primi approcci amorosi,
davvero innocui, ma pregni di emozioni e trasgressione.
Da lì, si poteva sbirciare "la monta
taurina", visione vietatissima ai bambini, ma proprio per questo da essi
tanto desiderata”.
**
In
appendice a questa tematica riporto alcune citazioni e note di vario genere per
ulteriori approfondimenti e proficue riflessioni.
Sempre
in tema di nascondino, mi piace ricordare un'antica storia ebraica del 1700 che
riempie di speciale simbolismo anche questo semplice gioco:
Quando rabbi Avraham, il figlio del grande giusto, il Magghìd di
Mezritch, era un bambino, talvolta giocava con un amico a nascondino. Un
giorno, il piccolo Avraham corse piangendo da suo padre. “Cosa è successo?”,
gli chiese questi, preoccupato. Il bimbo spiegò allora, fra i singhiozzi, che,
quando era toccato a lui cercare il suo amico, nel giocare a nascondino, aveva
guardato dappertutto e non si era dato pace fino a che non lo aveva trovato.
Quando invece era toccato all’amico di cercarlo, era rimasto nascosto così a
lungo e ... tutto per niente! Il suo amico se ne era tornato a casa, senza
essersi dato neppure la pena di cercarlo per un attimo! Con immensa sorpresa
del bambino, a quelle parole, anche il padre scoppiò in lacrime, unendosi al
pianto del figlio! Subito questi gli chiese: “Papà, perché piangi?” Gli rispose allora il Magghìd: “Anche Dio è
addolorato! Egli si nasconde, affinché gli Ebrei Lo cerchino, e se lo
facessero, certamente Lo troverebbero, ma noi ci dimentichiamo di Lui e non Lo
cerchiamo!”
*
L’origine della parola “poma” non è chiarissima; sembrerebbe
significare una estremità tondeggiante, parzialmente sferica da trattare con
facilità con la mano: ed esempio … la forma di un pomo (mela), il pomello del
campanello, il pomo dell’ombrello, il pomolo della porta, ecc … Siccome la base
del gioco è spesso un albero, forse si fa riferimento a un grosso nodo della
pianta stessa che veniva battuto a mano aperta rispettivamente per far
prigionieri o liberarsi.
In dialetto carpigiano si sente spesso utilizzare, accompagnata
da un profondo respiro, la frase èsser a
pòmma (essere a pòmma). Così come
quando si gioca a cucùu e dopo un impegnativo percorso ci si libera battendo la mano sulla
tana, la frase carpigiana esprime il senso di essere arrivati positivamente,
sani e salvi, alla fine di una vicenda impegnativa, di un viaggio complicato,
ecc …
Interessante, molto curiosa e per certi
aspetti attualissima se riferita a certi
sport attuali è la definizione che ne dà Francesco Cherubini nel suo
Vocabolario di mantovano - italiano del 1827, segnalando un robusto gioco
mantovano che si può quasi definire come l’antesignano del moderno hokey su
prato, nato in Inghilterra solo a fine ‘800:
“Zugar a la pòma di
Mantova, o semplicemente a la pòma. Specie di giuoco che si fa a presso a poco
nel modo seguente: Uno dei giocatori tira una pallottola di legno in piana
terra perché giunga a un dato punto dove stanno molti altri giocatori divisi in
due partiti, i quali con certi bastoni, alquanto ricurvi in cima, danno alla
pallottola con tutta forza dei colpi, quei d'un partito per allontanarla dalla
meta, e quei dell'altro per rimandarvecela e così va in lungo questo giuoco, in cui di sovente infervorati i giocatori, in luogo di dar
alla palla, si danno delle mazzate sorde fra loro, convertendo spesse volte lo
spassatempo in litigi e in guai. - Esso perciò, e
perché anche è pericoloso per gli astanti e passeggeri, è vietato dalle leggi.
- Questo giuoco poi della pòma è da alcuni
trasportato a denotar quell'altra specie di giuoco che si fa dai fanciulli
sopra una piazza ove, segnata una data linea in terra, e messi da una parte e
dall'altra altrettanti giocatori, si vanno ad assalire, e nel battersi e
divincolarsi, quello dei giocatori che rimane prigioniero è perdente.”
**
Molto molto piacevole e ironica è poi questa
“Tattica
e strategia del nascondino”
("Táctica y estrategia de la
escondida" tratta da Crónicas del Ángel Gris di Alejandro Dolina, 1987
traduzione di Lorenza Pozzi) che aggiungo, come apporto culturale, per
meglio capire lo spirito intimo del gioco.
Non si conoscono molto bene i veri scopi della
Società Amici del Nascondino. Ma è sicuro che questi scopi non si realizzarono.
Ciononostante, ormai qualche anno fa, l’ente
preparò l’edizione di un libretto intitolato Regolamento, tattica e strategia
del gioco del nascondino. In quel momento, il lavoro risvegliò acute
controversie.
Oggi che gli animi si sono calmati, abbiamo
voluto presentare l’argomento ai nostri lettori, che sicuramente ignorano la
maggior parte dei dettagli di questo gioco in via d’estinzione.
Capitolo I: del numero dei giocatori
Può giocare a nascondino un numero qualsiasi di
giocatori. Il minimo è uno. Bisogna però far presente che in questo caso il
gioco è particolarmente noioso: l’unico giocatore cerca se stesso o –cosa che è
ancora più tediosa- cerca altri giocatori inesistenti fino a che si scoraggia e
abbandona il gioco.
Con due partecipanti si guadagna un poco in azione
e si può dire che il clima ideale si ottiene quando intervengono più di sei e
meno di venti persone. Bisogna anche avvertire che risulta sommamente
imbarazzante giocare con più di ottanta giocatori. Quelli che stanno sotto (i
cercatori) sbagliano i nomi di quelli che si nascondono e il più delle volte si
vedono obbligati a tenere un registro scritto nel quale si trovano le persone
che sono già state scoperte e quelle che rimangono ancora in luoghi
sconosciuti. E inoltre, è facile dedurre che quanto più alto è il numero di
giocatori, tanto più faticoso sarà trovare nascondigli vacanti, con il
conseguente appannamento del gioco.
Capitolo II: il luogo dove si gioca
Il nascondino si può praticare tanto in luoghi
aperti quanto in chiusi anfratti. E’ sempre preferibile scegliere orari
notturni, poiché le tenebre migliorano la qualità dei nascondimenti.
Così, se si deciderà di giocare in case o
appartamenti, converrà spegnere le luci. E risulta indispensabile fornire un
chiarimento fondamentale: prima di iniziare il gioco è necessario esplicitare i
limiti geografici della sua estensione. Al di fuori di quelli, sarà proibito
nascondersi.
Alcuni eresiarchi sorvolano su questa
annotazione e ci troviamo quindi di fronte ad un gioco il cui limite è il mondo
intero. E così molti giocatori si nascondono in quartieri lontani e persino in
altre regioni, ritardando la conclusione della gara fino al punto di rovinarla
completamente.
NOTA: il libretto non menziona l’interessante
opinione di Manuel Mandeb, che credeva il nascondino un gioco senza limiti. Per
il pensatore arabo il nascondino perfetto doveva essere giocato da tutta la
stirpe umana, suo scenario era l’universo e la sua durata, l’eternità. Così, il
proposito finale della Storia può consistere nella nascita di un Predestinato,
che si incaricherà di liberare tutti i compagni in un atto che segnerà la fine
dei tempi.
Capitolo III: conclusione del gioco
Il nascondino non ha vincitori né vinti. Per
questo la conclusione del gioco deve essere fissata in modo arbitrario, ma
esplicito. Molte volte i giocatori abbandonano la gara senza avvisare nessuno e
molti partecipanti tenaci rimangono nascosti per ore, senza che nessuno si
preoccupi di cercarli.
I membri di questa Società conoscono
perfettamente alcuni celebri casi di ostinazione. Vale la pena menzionare
l’impresa del giovane Luis C. Cattaldi, che rimase quattordici mesi nel cardine
di una porta di via Moron, allungando il collo con cautela in direzione della
Tana. Gli abitanti della casa se lo trovavano davanti quando uscivano e a volte
gli passavano qualcosa da mangiare. Finalmente Cattaldi tornò a casa sua,
grazie ai consigli di una commissione di questa stessa Società.
Capitolo IV: svolgimento del gioco
L’idea fondamentale del nascondino è che tutti i
giocatori si nascondano, ad eccezione di uno, che avrà il compito di cercare
tutti gli altri.
Per dare tempo alla scelta del nascondiglio e
alla corretta installazione di ciascuno nel proprio, chi sta sotto (il
cercatore) nasconderà il viso contro la parete, come se stesse piangendo, e
rimarrà in questa posizione per alcuni secondi. La conta di questo lasso di
tempo la effettuerà il cercatore stesso, recitando a voce alta i numeri
naturali in serie, fino ad arrivare ad una cifra stabilita in anticipo (per
esempio, 50). Per avvertire che ha finito di contare, dovrà declamare un paio
di versi rivelatori. I più usati sono “Punto a capo, si arrangia chi il
nascondiglio non ha trovato”. Il luogo dove chi sta sotto (il cercatore)
realizza questo rituale ha nome di Tana. Inizia poi la parte più divertente. Il
cercatore percorre il campo di gioco e perlustra i luoghi dove sospetta ci sia
qualcuno. Quando scopre qualche giocatore nascosto, esce correndo verso la
Tana, la tocca e grida: “Tana libera per Fulano”. Dovrà sempre riferirsi alla
persona scoperta in modo che sulla sua identità non ci siano dubbi. Questo
punto è molto importante, come vedremo anche in un altro capitolo.
A sua volta, il giocatore scoperto può
abbandonare il rifugio e correre fino alla Tana cercando di toccarla prima del
cercatore. Se ci riesce, sarà lui a gridare “Tana libera” e agli effetti del
gioco sarà come se non fosse stato trovato.
D’altra parte, tutti i giocatori possono
abbandonare improvvisamente il nascondiglio e correre alla Tana anche quando
non sono stati scoperti. Ma se il cercatore li sorprende nella loro escursione
e li anticipa nella corsa alla Tana, li si considererà stanati.
Il primo dei giocatori che avrà perso la corsa
alla Tana riceverà – come castigo - l’obbligo di contare nella partita
seguente. Ciononostante, c’è un’ultima risorsa: l’ultimo dei giocatori che
rimane nascosto può anticipare il cercatore e gridare “Tana libera per tutti i
miei compagni”.
Quando accade questo, il cercatore dovrà contare
di nuovo.
Naturalmente, si può facilmente intuire che il
partecipante capace di culminare con successo questa giocata riceverà
l’ammirazione e il rispetto di tutti.
Capitolo V: diverse tattiche
Esistono cercatori conservatori e cercatori
audaci.
I primi non si allontanano mai dalla Tana.
Cercano, in generale, di aspettare che qualcuno commetta un errore o cerchi di
cambiare nascondiglio. Questa razza cospira contro la qualità del gioco.
Invece il cercatore audace abbandona le
vicinanze della Tana e si avventura fino ai confini del campo. Si arrampica
sugli alberi, entra negli armadi e rastrella minuziosamente i campi. Certo,
corre sempre il rischio di venir sorpreso dai giocatori che si sono nascosti
nella zona opposta. Ma il gioco diventa vivace e pieno di sfumature. Abbondano
le corse, i sotterfugi e le sorprese.
Esistono anche i cercatori furbi che fingono di
dirigersi a destra per tentare quelli che si nascondono a sinistra. In un certo
momento, escono sparati fino all’altro settore ed è in questo modo che
sorprendono molti giocatori principianti che abbandonano prematuramente il loro
nascondiglio.
Anche tra quelli che si nascondono, ci sono scuole
distinte. Alcuni preferiscono i nascondigli semplici ma di facile uscita, come
le soglie delle porte. Altri li scelgono complicati e di uscita difficile: le
fronde degli alberi, il fondo del cesto dei vestiti etc. Ci sono anche quelli
che ruotano il loro nascondiglio e cambiano posizione mentre osservano i
movimenti del cercatore.
I migliori sono gli squisiti, che inventano
rifugi che solo loro conoscono e non li rivelano mai. Questa classe di
giocatori è la più temuta da quelli che contano, perché molto spesso liberano
tutti i compagni.
Ciononostante, il nascondiglio non deve mai
essere impenetrabile. A dire il vero, il nascondiglio perfetto termina con il
gioco.
Nel 1959, in un nascondino che si fece in Villa
del Parque, l’avvocato Gerardo Joseph si nascose in un modo tanto efficace, che
non fu più visto da nessuna parte. Ancora oggi molti suoi amici percorrono il
quartiere gridandogli di uscire.
Un racconto riuscito di Edgar Allan Poe sostiene
che il nascondiglio migliore sia quello che sta alla vista di tutti. In questa
narrazione, tutti cercano infruttuosamente una lettera che in realtà era sempre
rimasta alla portata di tutti.
Questa teoria potrebbe essere valida per i
racconti polizieschi, ma non serve per il nascondino. Infinità di giocatori han
preteso di passare per scaltri fermandosi a un metro della Tana con espressione
noncurante. Il risultato è sempre lo stesso: il cercatore guarda meravigliato e
poi, quasi con stupore, mormora: “Tana libera per il Pololo, che è qui fermo”.
Capitolo VI: infrazioni, errori e malintesi
Può accadere che il cercatore scopra un
giocatore nascosto, ma equivochi la sua identità. Questo è molto frequente nei
giochi notturni. Quante volte si grida: “Tana libera per la Amanda”, dopo aver
visto Julian!
Il regolamento permette a Julian di denunciare
l’errore al grido di Sangue! Questa espressione deve essere tradotta come
Reclamo!, o meglio ancora Obiezione!
Se la pratica si protrae e si comprova
l’equivoco, il cercatore dovrà contare di nuovo.
Lo stesso espediente potrà essere utilizzato
quando si sospetta che il cercatore spia o quando si verifica qualche fatto
esterno che rende difficile la normale prosecuzione del gioco (per esempio una
grave lesione di uno dei giocatori o l’arrivo improvviso di un tipo che bisogna
salutare).
Capitolo VII: nascondigli individuali e
collettivi
Molti sportivi preferiscono nascondersi da soli.
Altri, invece, si compiacciono di condividere il loro rifugio, in particolar
modo con persone del sesso opposto.
Questa ultima variante è molto ben vista nei
circoli eleganti e costituisce un’eccellente opportunità per approfondire
amicizie e persino per suggellare storie d’amore.
La cosa più appropriata è scegliere un
nascondiglio lontano dalla Tana. Il luogo deve essere piccolo per ottenere una
vicinanza incoraggiante, oscuro per invitare alla confidenza e ermetico per
evitare di venire sorpresi.
Manuel Mandeb riferisce un’esperienza personale
nel suo libro I miei amori frustrati. Vediamo:
«In tre anni di giocare insieme a nascondino,
non avevo mai avuto l’occasione di condividere un luogo con Beatriz Velarde.
C’era sempre qualcuno che arrivava prima di me. A quanto pare, Beatriz aveva i
suoi nascondigli prenotati per vari anni.
Una notte di primavera, nel vicolo della
Stazione Flores, mentre contava il russo Salzman, vidi che Beatriz entrava da
sola nella casa gialla e abbandonata che si trova in un angolo. Le andai dietro
e riuscimmo a sistemarci sotto un focolare in rovina.
C’era molto buio e riuscii a notare il suo
respiro di chewingum Adams. I sobborghi dei suoi capelli salutavano la mia
bocca.
– Ti desidero – le dissi soavemente. – Dimmelo meglio – rispose Beatriz Velarde.
Cominciai a pensare a qualcosa di ingegnoso,
quando entrò il russo Salzman e brutalmente sancì la fine della mia
storia. – Tana libera per il Turco e
Beatriz. – Sangue, sangue – gridai io e
ero certo, anche se non mi credettero.
Non riuscii più a restare solo con Beatriz e
quella fu l’ultima volta che giocai a nascondino.»
Il libretto della Società Amici del Nascondino
presenta alcuni altri capitoli di interesse inferiore: i vestiti più
convenienti, utilizzo di automobili in marcia, occultamento nel mezzo di una
famiglia in cammino, ecc.
In questi giorni in cui ormai la Società si è
sciolta e i bambini preferiscono altri intrattenimenti più scientifici, non è
mai troppo raccomandare calorosamente la pratica del nascondino. E’ molto tempo
che questo umile cronista non trova l’occasione per mostrare la sua destrezza
in una disciplina tanto appassionante.
Se qualche pietoso lettore desiderasse invitarmi
a giocare, accetto con piacere. Anche se mi sembra ormai troppo tardi.
**0**
La pelosa
Molti
ragazzini che frequentavano il Parco, ogni anno, erano condannati d’estate per
qualche settimana a frequentare le colonie elioterapiche e balneari organizzate
dal Comune dagli anni ’40 in poi a S Martino Secchia, in seguito all’Adriatica
Carpi - Soliera a Ponte Marano e infine a Miramare di Rimini fino anni ’80.
Una
sorta di soggiorno coatto, che permetteva ai genitori di tirare un po’ fiato,
con la scusa che il sole, lo iodio …i fèeven
bèin!! Per i soggiorni al mare, la deportazione iniziava con un viaggio in
corriera verso la località balneare: sacco in spalla, verso l’ignoto. Era quasi
sempre il primo spostamento da solo per ogni bambino, con tutti i dubbi e le
paure del caso; a cominciare dagli spazi privati che drammaticamente,
all’improvviso, non esistevano più.
Una
volta arrivati si procedeva con un severo sistema militare: cancelli chiusi,
area recintata tipo Stalag 17 o La grande fuga, suddivisione in squadre
comandate spesso da vere proprie kapo, divisa e cappellino da “marinaretto-billy”,
traumatico uso comune dei bagni, alza bandiera schierati sull’attenti ogni
mattina, mensa collettiva tre volte al giorno, distribuzione delle posta come
nel film La grande guerra di Dino Risi, un cinemino su lenzuolo
al sabato sera, un dolce marron - budinoso la domenica a pranzo, ecc …
Si
stava per ore sotto le tende a righe blu e bianche in spiaggia e la cosa che
più era lesinata era proprio quella che ognuno di noi desiderava di più: il
bagno in mare. Al via, dato col fischietto, tutti di corsa in acqua, con
spruzzi e schiamazzi, un brevissimo quarto d’ora di agognato e atteso
divertimento e poi tutti su. Al minimo accenno di nuvole o di mare leggermente
mosso, la sergente maggiore, comandante la piazza, sopprimeva sadicamente
l’abluzione salmastra.
Di
tempo sotto le tende ce n’era tanto e un geniale quanto ignoto sconosciuto
inventò, presumo negli anni ’40, un gioco alquanto singolare e di grande presa:
la Pelosa.
Si
trattava di un robusto filo di ferro di una ventina di centimetri, da una parte
a punta smussata e dall’altro chiuso a occhiello. Eccone qui sotto un paio!
Ottenute con una ricostruzione “di gran lusso” utilizzando vecchi raggi da
bicicletta; sono opera del mio amico Graziano
Forghieri, famoso meccanico e campione internazione di vari giochi, tra cui
quello di cui stiamo trattando.
Pelose “di gran lusso” ricavate da raggi di bicicletta da
Graziano Forghieri
Il
gioco richiedeva la presenza di
un piccolo campo di poche decine di centimetri di sabbia secca per far
conficcare il piccolo attrezzo di punta, dopo una lunga serie tra le più varie
e strane evoluzioni. I bambini erano seduti gli uni di fronte agli altri a
gambe incrociate, sotto i tendoni a righe bianche e blu. Si giocava "alla
vecchia" (più facile) e "alla nuova" (più difficile) con tutta
una serie di figure che partivano dalla mano, per arrivare alla testa e
ritorno. Ecco alcuni esempi: si appoggiava la punta sulla testa, sulla fronte,
su una spalla, sull’altra; oppure di piatto sul palmo o il dorso della mano o
su due dita aperte a “corna”, ecc …
Si
lanciava il ferretto facendo perno e appoggio sulla punta o sull’intero asse:
la Pelosa doveva fare alcune evoluzioni … dichiarate e piantarsi dritta o quasi
nella sabbia dalla parte della punta. La serie dei tipi di lancio era
codificata solennemente all’inizio della gara.
Riporto
una classica frequenza di tiri anni ’50 “alla vecchia”.
Fase
1: si partiva con Pelosa puntata sul palmo della mano e col dito indice
sull'anello; si imprimeva una rotazione di 360° (al giir dla mòort) e la Pelosa si doveva
piantare bella dritta nella sabbia.
Fase 2: al prill
l éera da fèer sul mignolo e su tutte le altre dita fino al pollice.
Fase 3: si ripeteva sul dorso della mano, poi si
passava al gomito, alla spalla, al mento al naso alla fronte e sulla testa, per
finire in posizione in piedi, quando si doveva piantare la Pelosa nella sabbia
lanciandola con una rotazione di 180° a guisa di coltello da lanci.
Chi sbagliava al
dviiva paghèer penitèinsa ... (doveva
pagare penitenza).
In
colonia il gioco era naturalmente proibitissimo (cosa del resto non lo
era?) per vari motivi: perché si smontavano senza pietà pezzi di recinzione,
distruggendo la rete divisoria in fondo al cortile, vicino alla casa del
bagnino Serafino, e poi perché c’era pericolo per gli occhi, anche se non ho
mai sentito di nessun incidente. C’era poi un terzo motivo che spiegava la
determinazione posta dalle occhiute vigilanti che erano
incaricate della sorveglianza, del sequestro e della immediata
distruzione dei preziosi attrezzi, ottenuti con sprezzo del pericolo, destrezza
e duri sforzi. Si trattava della efferatezza della penitenza: un rito giovanile
- tribale … spietato, quanto atteso da
tutti i presenti al gioco, che si accomodavano compiaciuti per godersi lo
spettacolo. Quanto prima il giocatore commetteva un errore nella prevista serie
di lanci, tanto più dura era la penitenza che gli altri compagni preparavano e
viceversa.
E’
proprio nella penitenza che risiede l’origine del curioso nome Pelosa, dovuto
al fatto che la baṡlètta (il mento)
si sporcava di sabbia e il ragazzino sembrava avesse la barba. E perché il
mento si sporcava ? Perché quando uno sbagliava il lancio e la Pelosa non si
conficcava dritta secondo i canoni, c’era la penitenza da fare. Non posso tralasciare di annotare che, da più
testimonianze, mi è stata suggerita un’altra ipotesi di derivazione ben più
maliziosa dell’origine del nome, dovuta anche alla forma dell’anella,
tondeggiante e schiacciata: come è facile intuire stiamo parlando di una
simbologia legata al sesso femminile.
Una tesi suggestiva, ma mio parere molto meno provabile.
Il
più volte citato Carlo Alberto
Parmeggiani si rivela dubbioso sulle congetture sopra esposte, suggerendo
una terza interpretazione, che riporto per solo dovere di informazione, ma che
mi pare ancor più inverosimile:”Le ipotesi che ti hanno suggerito mi
sembrano un po' troppo forzate, visto che il gioco della Pelosa è un gioco di
bambini. Io propenderei invece per un'ipotesi del tipo che evoca una coda di
animale (cane o gatto o porcello addomesticato) con tanto di ricciolo alla
fine, che si "impelucca" o si "imPelosa", allorché,
umidiccia di saliva, viene estratta dalla sabbia come penitenza imposta al
maldestro giocatore.”
In
ogni caso gli avversari dello sventurato perdente nascondevano la Pelosa sotto
un mucchietto di sabbia, sprofondandola con un pugno. A questo punto lo
sventurato doveva ritrovare e scoprire il ferretto: in ginocchio e con le mani
dietro alla schiena. Si usava, prima il mento, poi prenderla con la bocca o con
gli incisivi, lavorando, se possibile, anche col soffio. Una volta spianata la
montagnola di sabbia, ci si alzava in piedi con l’anello del ferretto in bocca
e infine bisognava mollare la Pelosa; questa si doveva piantare dritta,
altrimenti era tutto da rifare. Nelle versioni più sofisticate si poteva
stabilire anche un tetto per i colpi di mento e i soffi concessi.
Da
altre testimonianze risulta anche questa variante: in alcune compagnie di
ragazzi già all’inizio del gioco si nascondeva la Pelosa sotto una montagnola
di sabbia; ogni giocatore per partire doveva estrarre coi denti il ferretto, mordendolo per l’anella.
Ancora
una volta ci troviamo di fronte a un gioco del nostro passato semplice, di
grande divertimento, a costo nullo e dove era ben presente un certo tasso di
crudeltà … tutte cose oggi quasi
impensabili.
Tornati
a casa, qualcuno tentò di portare il gioco al Parco, ma con effimero successo.
Certo! il filo di ferro finalmente abbondava, ma mancavano l’ambiente,
l’atmosfera e soprattutto … la sabbia adatta. Meglio dunque le tradizionali
palline.
**
La pulèinta (La polenta)
Un
gioco sempre con la sabbia, ma non certo cruento come la pelosa, era la pulèinta. Due o più giocatori, maschi e
femmine, formavano una piccola montagna di sabbia, mettendo sulla sommità una
bandierina o uno stecchetto. Uno dopo l'altro con la mano si prendeva via
delicatamente un po' di sabbia. Subito a mano piena, poi via via pochi granelli
col dito. Perdeva chi faceva cadere la bandierina o lo stecchetto. Questo gioco
deve proprio il suo nome alla polenta, perché tutti, mentre si era a pranzo o a
cena, ne prendevano a turno una fetta fumante, ma all'ultimo resta solo il
tagliere vuoto.
**
Al furtèin (il fortino)
In
colonia al mare si praticava anche un bel gioco balistico con la sabbia e l éera ciamèe … al furtèin (il fortino).
C'erano
due squadre e ognuna costruiva, con un intenso lavoro ingegneristico, un fortino, a 2-3 metri di distanza, l'uno di
fronte all'altro. Il fortino era in pratica un piccolo argine alto circa 30 cm
e lungo 150 cm. Ogni squadra perforava
la sabbia umida con il dito, creando 10 buchini, ovvero 10 soldati, sul lato
più nascosto all'avversario. Un arbitro controllava che i fori fossero davvero
10 e non qualcuno di più. A turno si colpiva la muraglia avversaria con un
sasso o un pugno di sabbia bagnata; i soldati corrispondenti ai fori che
venivano coperti dallo scivolamento della sabbia erano eliminati. L'arbitro
sanciva la qualità di vittima. Perdeva chi rimaneva senza soldati. Alcune
varianti permettevano al comandante, battezzato prima, di avere due vite e una
volta coperto lo si poteva miracolosamente rigenerare.
I faciutèin - Le figurine
Pubblicato su Voce di Carpi -
parzialmente - il 27-4-2012 n 17 e il 24-5-2012 n 21
2006 francobollo commemorativo
delle Edizioni Panini
Il Parco e l’Oratorio dell’Eden, oltre che a scuola, erano i luoghi
preposti per lo scambio delle figurine. Il mantra: “Céelo, maanca! Céelo,
maanca! “ veniva ripetuto quasi
all’infinito, fino alla visione e all’esame completo dal spighlutèin èd faciutèin (mazzetto di figurine) che io o i miei
coetanei ci eravamo portati dietro per gli scambi. Lo scambio di figurine è un
momento centrale del collezionista, soprattutto di bambini e ragazzi. Durante
l'incontro, mentre uno mostra le figurine del "mazzo delle doppie",
l'altro ne cerca una che non ha. Questo rito ha coniato i termini del "Céelo" e "Maanca",
corrispondenti alle frasi "Ce l'ho" e "Mi manca", che si
riferiscono alle possibili risposte di chi nello scambio cerca una figurina
mancante.
Un rughlètt èd ragàas
degli anni ‘70
Oggi
le mode sono cambiate, ma ci fu un tempo in cui le figurine occupavano un posto
di primo piano nella gerarchia dei valori del mondo visto con gli occhi di un
bambino. Erano gli anni '50, '60, '70. La tv aveva solo due canali Rai e al
pomeriggio interrompevano le trasmissioni fino alle 17, l'ora della "TV
dei ragazzi". Svolti i compiti, si andava al Parco o all'Oratorio e lì in
alcuni periodi dell'anno le figurine erano protagoniste assolute.
Quello
delle figurine è un mondo, a forte prevalenza maschile, che ci fa sempre
sentire bambini, ci riporta indietro nel tempo: ai soldi rubati ai genitori per
comprarsi una bustina per poi nasconderla e guardarsi le figurine di nascosto.
Mi ricordo le figurine scambiate, vinte e perse davanti al cancello della
scuola o al Parco. Le grida del maestro quando, tra compagni ci si cambiava le
figurine in classe. Un mondo che sembrava fosse sparito, svanito nel nulla,
con il trascorrere degli anni. Quelle grida, le litigate con i genitori (’sa strasìin èt tutt chi béesi
lè pèr gniinta? Cosa butti via
quei soldi per niente?), i pianti, le corse dal giornalaio non le ricordavo,
non le sentivo più. Ma un giorno rovistando fra vecchie cose a sèelta fóora il vecchio album del 1961 che celebrava in modo elegante il
Centenario dell’Unità d’Italia edito dalla B.E.A./Album d'Arte. In un attimo
tutti i ricordi … limpidissimi … mi si parano davanti. L’album vuoto e cinque
bustine mi furono regalati, da chi non ricordo … purtroppo, il giorno della
cresima, mentre tornavo dal Duomo, sotto il portico di Corso Fanti, lì dove c’è
il piletto, all’altezza dell’allora salumeria di Gualandi.
Mio
padre scosse la testa, voleva restituire l’album al gentile offerente, ma mia
madre, forse per educazione o per un’inconscia propensione al collezionare,
insistette per tenerlo. Quello fu uno di quei piccoli e formidabili punti di
snodo della mia esistenza e mi cambiò la vita.
Mio
padre, ovviamente, brontolò, così come fece puntualmente in futuro per tutte le
mie passioni: un nemico costante e implacabile che, per legittima difesa, per
sopravvivenza, mi sarei ingeniato continuamente a eludere, con una certa
limitata e idiota astuzia o, se proprio messo alle strette, a combattere coi
miei scarsi mezzi.
È
per questo che, anche oggi, quando vedo un bambino che è sostenuto dal genitore
in un hobby particolare, lo invidio moltissimo e penso con amarezza (stupida
fin che si vuole) al mio passato denso di incomprensioni e ruvidi attriti.
Nei
mesi successivi mi impegnai a fondo, per la prima volta nella mia vita, a
intraprendere in prima persona “un’impresa” e a portarla a termine da solo. Completare l’album … ecco … quello era lo scopo da raggiungere ad
ogni costo; la cosa che mi riuscì con inventiva, costanza e notevole
sforzo.
1961 Collezione Centenario ed.
B.E.A.
Ma
non fu il solo. Sempre lo stesso anno, nel 1961, la Panini pubblicò il primo
album di figurine sul campionato di calcio. Anche questa raccolta era
impegnativa e così decisi di mettermi i società col mio amico Angelo che era
già partito con la collezione.
Ecco la copertina e una pagina
della prima raccolta di figurine Panini
per il campionato di calcio
1961-62, raffigurante Nils Liedholm e La Roma.
Questa
raccolta aveva però un problema molto serio, non si riusciva a finire, perché
mancava la figurina dell’intera squadra dell’Udinese. L’editore per problemi
tecnici (non aveva la foto!!) era partito a stampare le figurine senza quella
della squadra bianconera friulana.
1961 Scudetto dell’Udinese –
Figurine Panini
Per
parecchio tempo questa figurina divenne un miraggio e un incubo; era ricercata
da tutti e al Parco e all’Oratorio era continuo oggetto di discussioni,
illazioni e sospetti. Si ripeteva il caso della figurina del Feroce Saladino
del 1934.
1934 la rarissima figurina del
Feroce Saladino
Finalmente
la Panini ovviò all’inconveniente e l’Udinese fu diffusa. La vidi per la prima
volta all’Eden da un bambino che me la fece vedere, ma solo in mano sua.
Carlo
Lodi, carpigiano allora dodicenne,
ricorda molto bene anche lui bene quella raccolta del 1961/62: non si
trovava la figurina dell'UDINESE. Ma finalmente all'ennesimo acquisto di ben
cinque buste di figurine, dando fondo a tutti i suoi risparmi, presso la
cartoleria Berni all'Osteriola, trovò questa benedetta figurina addirittura
doppia. E subito, molto soddisfatto, pensò: "A
gh ò pròopria avùu dal cuul!" E
fu così che divenne il primo della compagnia a completare quella fantastica
raccolta.
Ma la Panini aveva adottato anche un’altra
accattivante astuzia: ogni tanto nella bustina si trovava una figurina speciale con il verso occupato da un riquadro rosso con la scritta “ VALIDA” in blu.
1961 Figurina VALIDA Panini
Con
100 di queste ambite figurine si vinceva un pallone di cuoio del numero 5 di
gran marca: uno di quei mitici oggetti fra i più desiderati da un ragazzino,
anche se si gonfiava in un modo maledettamente difficoltoso con un ago e con
una pompa.
Le
VALIDE al mercato di
scambio valevano dalla tre alle cinque volte una normale. Incollarne poi una
sull’album, dava un’atroce sofferenza di spreco: era meglio lasciare il buco
vuoto, in preda a un orribile dubbio, ancora oggi irrisolto.
Purtroppo
Angelo e io, nonostante l’impegno profuso, arrivammo solo a 63
VALIDE, un numero che mi è rimasto
ben impresso nella memoria anche dopo cinquant’anni.
Le
figurine si attaccavano con una colla che si trova dentro un barattolino in
alluminio, la Coccoina, dotato di apposito pennellino a setole biancastre.
L’odore di questa colla era … fantastico, di cocco!
Barattolo di colla Coccoina
In
carenza di colla, mia zia Valentina mi aveva insegnato a usare la farina,
sciolta con un po’ d’acqua, a farne una pasta semiconsistente. Funzionava
benissimo.
Negli anni ’60 il costo di una
bustina era di 10 £
**O**
Un mistero risolto
Scorrendo
l’interessante libro “Figurine Panini. Storia di un impero industriale, di una
famiglia italiana e di un fenomeno di costume” di Nunzia Manicardi ed. Guaraldi 2000, dopo tantissimi anni sono
riuscito a trovare la soluzione a un piccolo mistero addirittura
cinquantennale.
Figurine Panini. Storia di un
impero industriale
di Nunzia Manicardi – ed. Guaraldi
2000
Nell’autunno
del 1964, le scuole erano appena cominciate, ma dopo pranzo eravamo ancora al
Parco a goderci gli ultimi pomeriggi di tepore. A un certo punto arrivò un
ragazzino che, concitato, ci disse che nell’area a nord di Carpi, esattamente
dove ora che il campo di calcio di Via Torino, c’era un bel mucchio abbandonato
di figurine e adesivi di scudetti. Tutto materiale nuovissimo relativo alle
squadre dell’album della Panini, appena uscito per quella stagione.
Adesivo di plastica del Bologna
dell'album Panini del 1964-64
Ci
guardammo increduli, chiedemmo conferme e spiegazioni al messaggero. Pur
prevalendo l'incredulità, partimmo subito speranzosi verso questo Eldorado.
Allora
a un undici anni giravano tranquillamente da soli per la città con i nostri
fidi biciclini.
Arrivati
sul posto, in effetti notammo subito, in mezzo al campo fra le sterpaglie
basse, un cumulo fumante, formato da figurine e adesivi semicarbonizzati della
collezione Panini.
Vari
ragazzi erano già intorno e i éeren adrée
a sernìir, spostando la cenere e i detriti; stavano recuperando dei pezzi
interessanti, non intaccati dal fuoco ormai spento. Anche io mi buttai subito
nella bazza e feci del mio meglio: mi appropriai lestamente di una decina di
scudetti adesivi (ben cinque del Lanerossi Vicenza rossi e bianchi), che
servivano a ornavano le due pagine dell'album dedicate a ogni squadra di Serie
A; trovai anche varie figurine in buono stato.
Il
bottino era molto soddisfacente, sia per il fatto che era tutto gratis, ma
anche per la strana e avventurosa modalità di ritrovamento. Tornai finalmente a
casa a fare i compiti.
Tante
volte mi sono chiesto da dove potesse provenire tutta quella roba, ma non ho
mai saputo darmi una risposta plausibile.
E
invece ecco la spiegazione, grazie al libro che ho prima citato e tutto sommato
era anche molto semplice, considerato il tipo di attività molto diffusa a Carpi
in quegli anni: il LAVORO decentrato a DOMICILIO!
Oltre
alle maglie e le camicie, per le quali Carpi divenne famosissima in Italia e
nel mondo, oltre al montaggio dei fiori finti di plastica, anche la ditta
Panini, ai suoi esordi, aveva affidato a qualche carpigiano il compito di
imbustare a mano dei consistenti lotti di figurine per la raccolta dei
calciatori di quell'anno.
Finito
il lavoro manuale di inserimento e chiusura, consegnato lo stock finito,
qualcuno pensò bene di bruciare gli scarti in quel campo di periferia.
Ecco
dunque, per puro caso, grazie a questo piccolo episodio auto biografico, la
riscoperta di un'attività lavorativa della nostra città di cui si erano
completamente perse le tracce.
Adesivi in plastica lucida della
collezione Panini
Avevano un odore pungente di
plastica e vernice ancora oggi percettibile
*0*
Giochi con
le figurine
Oltre
all'attività di collezione e scambio, i
faciutèin (detti anche figurèin, figurèini
o fiifì) svolgevano anche una
funzione di “fiches” o di denaro sussidiario e come tali venivano messi in
palio in vari giochi di abilità o d’azzardo.
I
giochi erano vari, ecco la descrizione di alcuni di essi, suggeritami da
Graziano Malagoli e altri amici.
Batmùrr (battimuro). Più anticamente si
usavano monete, sassi, biglie o tappi. Il vantaggio della figurina è per
vincere non si va spanne, ma è prevista la chiara sovrapposizione di un
cartoncino su un altro.
Si sorteggia con una
classica conta il giocatore che comincia e l'ordine di gioco.
Si concorda, non senza
polemiche, e si traccia una linea per terra alla distanza di 5-6 passi dal
muro. E’ la linea di tiro, dietro la quale si dispongono i giocatori. Il primo
di essi lancia la propria figurina verso il muro. Vince le figurine a terra, colui
che riesce a toccare con la sua figurina lanciata una di quelle già
sparpagliate a terra, ma solo dopo avere toccato il muro con la propria. Perché il tiro sia considerato valido, la figurina deve
obbligatoriamente colpire il muro e rimbalzare indietro. Se ciò
non avviene, a seconda delle regole prefissate, essa è persa o si ripete il
tiro, eventualmente perdendo il turno. L’abilità è fondamentale per essere un
bravo lanciatore, soprattutto per far percorre al cartoncino l’ampia la
distanza di lancio richiesta all'inizio della sessione di gioco. Il lancio va
fatto di taglio, tenendo di solito un angolo del cartoncino, fra il medio e
l’anulare, parallelo al terreno, con un rilascio dato da un movimento secco con
uno scatto della mano. Il tiro deve essere ben calibrato e con la forza giusta.
L'abilità richiesta è notevole, così come la difficoltà a colpire la parete per
rendere valido il tiro. Troppa forza o troppo poca sono … letali e infauste.
Tecnica di
lancio secondo la scuola di Graziano Forghieri
Esiste un modo di dire
legato a questo gioco; una frase che viene pronunciata da che si sente
cronicamente ignorato dalla fortuna:
Sa m mètt a ṡughèer a
batmùrr … a se spoosta al mùrr (se mi metto a giocare a battimuro, si sposta addirittura
il muro).
**
Il tabaccaio Gianni Luppi racconta che si poteva
giocare anche solo a chi tirava la figurina più lontano. Una disciplina di alta
abilità per la quale si utilizzavano le tecniche più raffinate, acquisite con
perizia ed esperienza nel corso di lunghe sedute di gara e in allenamenti solitari.
Un’altra
variante era quella di giocare appoggiando la figurina direttamente sul muro,
facendola poi cadere da una certa altezza prestabilita o nei limiti concordati.
Di solito l’altezza era libera, ma il limite minimo era invalicabile: “T ii in bruuṡa!” era la frase
pronunciata contro chi tentava di giocare sporco.
Anche
in questa disciplina, vince tutte le figurine già a terra chi riesce a coprirne
una, anche parzialmente, con la sua appena lanciata. La strategia da seguire è
che ciascuno deve pensare a lanciare la propria
figurina lontano dal muro, per non essere facile preda dei giocatori che
seguiranno, ma allo stesso tempo deve mirare verso una delle figurine che giace
in terra
Per
raggiungere questo obiettivo, i ragazzi più bravi usavano collaudate e segrete
tecniche, che prevedevano arcuature più o meno accentuate della figurina a
seconda della traiettoria che le si voleva conferire.
Graziano
Forghieri, campione del mondo in gioventù anche in questa specialità e noto
esperto in calcoli di traiettorie con gli oggetti più svariati, ricorda che se
la carta da raggiungere era vicina al muro, quella da rilasciare doveva essere
lasciata pari, ma se era lontana, la propria andava adeguatamente piegata,
aumentando così i volteggi e la gittata.
Battimuro
Ugualmente
se si giocava per primi, si accentuava la curvatura per far svolazzare la
figurina, per mandarla il più lontano possibile.
L’operazione
dell’incurvatura veniva fatta all'ultimo momento prima del lancio, in modo
discreto col palmo della mano, in base alla dislocazione delle carte per terra
e della altezza del rilascio.
Mi
è doveroso annotare che il problema balistico affrontato con intuito e applicazione
dai ragazzi di un tempo era ed è tutt'altro che banale.
A
tutt'oggi, anche con i computer potentissimi e il genio dei migliori cervelli
umani dei matematici, infatti, è impossibile calcolare e prevedere l’algoritmo
della traiettoria di discesa di un semplicissimo foglio di carta che cade.
Per
credere, basta provare alcune volte e vi accorgerete subito che a ogni caduta
il foglio si comporta in modo diverso. Siamo dentro a una delle branche della
matematica più affascinanti e sconvolgenti: quella del caos e dalla casualità.
Chi ragàas i nn avrèvven màai pinsèe a
un lavóor dal gènner.
Biàanch
o ròss: si gioca in due e si
mette in palio un ugual numero di figurine che vengono lanciate in aria dopo
avere scelto mèerca o lissa per indicare la facciata o il
retro della figurina stessa. Ogni giocatore raccoglie e vince le figurine
cadute di fronte o di retro. Ricorda molto il classico testa o croce.
Un
altro gioco era la piàala. Oscar Clò
racconta che si mettevano le figurine tutte assieme in terra, una o più per
ogni giocatore. Poi ogni partecipante tirava il suo sasso e quello che si
avvicinava di più vinceva tutte le figurine. L'abilità stava nell'andare più
vicino possibile alle figurine, mentre il rischio era quello che se i sassi, a
volte anche belli grossi, cadevano proprio sopra alle figurine le rovinavano un
po'. Però l'autore del colpo formidabile era pressoché sicuro di aver vinto e
di portare a casa al spighlutèin èd
faciutèin.
Sacaagna - Al sacàagn, ci ricorda Graziano Malagoli, è quella pietra a parallelepipedo che si pone a
una distanza di 10-15 metri dai lanciatori di piàala e che deve essere abbattuta. Una delle tante varianti del
gioco consiste nell’avere ciascuno posizionato il suo sacàagn su una linea perpendicolare al lancio. Il vincitore della
gara è chi, alla fine dei lanci, vede il propria pietra ancora in piedi. Il
primo a lanciare è chi più si è avvicinato ad un riferimento prefissato, in
genere posto in prossimità della linea di lancio.
Citiamo
il gioco in questa sede, perché ha anche una variante con l’utilizzo dei faciutèin: ognuno mette la sua posta
sul sacàagn (in caso di vento si pone
un sassolino sopra al spighlòot), si
stabilisce nei modi tradizionali l’ordine di lancio. A questo punto possono
esserci due tipi di regole: vince tutto chi abbatte al sacàagn, oppure si incassano solo le figurine che sono a
contatto con la piàala del
lanciatore, in questo modo il gioco dura più a lungo e vi possono essere più
vincitori.
Negli
'40 e '50, mutuato dall'analogo gioco con le carte da briscola, levapatàaia
o chevapatàaia, c'era poi anche questa sfida fra gli inquieti
ragazzi di Via De Amicis. Marco
Giovanardi ricorda che si giocava con le figurine e prendeva il nome di … chevapatàaian.
I
due sfidanti dovevano avere lo stesso numero di figurine da giocare, 20, 30 o
40, impilate e tenute nascoste dietro la schiena. Esse venivano sistemate
dritte o capovolte, mescolate, ben impilate nel pacchetto, senza farsi scorgere
dall'avversario. Preparati i rispettivi mazzetti, si portavano davanti, ma
sempre ben protetti con le mani dalla vista dell'avversario.
Il
primo giocatore disponeva sul marciapiedi la prima figurina così come l'aveva
preparate nel suo mazzo. Il secondo giocatore calava poi la sua. E così via, a
turno. Se la figura era rivolta come quella dell'altro, il giocatore vinceva e
prendeva tutto il mazzetto, se era messa al contrario si procedeva,
intercalandosi nei turni delle calate. Vinceva tutto chi riusciva a far terminare
il mazzetto all'avversario. A volte il gioco, andava per le lunghe e finiva con
una situazione bilanciata, anche perché a
gniiva siira e ormàai a n s èggh vdiiva quèeṡi più. Da notare che la
tecnica di intercalare le figurine dritte o rovesce, dietro la schiena,
avveniva senza guardare, ma solo palpandole con mano. Ciò era fondamentale per
la segretezza e la vittoria finale; ognuno aveva la sua tecnica.
Spighlutèin èd
faciutèin
**
Al
figurèini, i faciutèin o i fiifi che mio padre chiamava anche i maagna sòold.
di Luciana Nora 11-1-2012
L’album,
assieme a due bustine, lo distribuivano gratis all’uscita della scuola, La
prima volta che mi è capitato tra le mani, l’ho portato a casa contenta, ma a
smorzare ogni entusiasmo è arrivato un commento lapidario di mio padre: - L è un maagna sòold, a nn è briiṡa ’na ròoba
sèeria, te pèerd dal tèimp e te nn impèer gniinta.- La sua autorevolezza
era tale che non mi sarei mai sognata di fare resistenza e, d’altra parte, le
sue non erano negazioni senza alternative, anzi!
Mi
arrivavano immediatamente libri, mi passava le dispense del settimanale Epoca,
affidandomi il compito di conservarle e ordinarle per essere poi rilegate. In
effetti quelle dispense mi catturavano in modo davvero eccezionale: leggevo i
titoli, sottotitoli e didascalie alle grandi immagini incomparabilmente più
accattivanti delle figurine e, qualche volta, spinta dal bisogno di capire
meglio, cercavo di affrontare i testi che però mi disarmavano, perché per me
erano troppo lunghi e complessi.
Però,
e c’era un però grande come una casa, le figurine erano soprattutto un
intrattenimento collettivo, fatto di confronti e scambi: - Ce l’ho, ce l’ho,
manca; quante figurine vuoi per darmi quella lì?-
Le
dinamiche di scambio tra le femmine erano molto diverse e assai più tranquille
rispetto a quelle dei maschi che le figurine se le giocavano e quando si
insinuava il sospetto che qualcuno barasse al gioco, si poteva arrivare alle
zuffe.
Fatto
sta che, di soppiatto, ho cominciato anch’io a fare qualche raccolta. Mio padre
sapeva, mi brontolava e non si è mai fatto complice. Per comperare qualche
bustina, 10 lire, dovevo rinunciare a qualcosa della mia paghetta domenicale;
50 lire che mi dava il babbo e trenta che ricevevo dalla nonna Stella.
Per
la durata della febbre da raccolta, un mese circa, rinunciavo alle Resoldor, 35
lire: piccolissime caramelle di liquerizia con forse una componente di menta
forte che mi facevo durare per l’intera settimana. In quanto alla colla, la
Coccoina che aveva un piacevole odore di mandorla, l’ho comperata una sola
volta e poi su suggerimento della nonna ero arrivata a farmi una colla con
acqua e farina unita a una polverina che mi aveva dato la nonna Stella.
Ad
onor del vero non sono riuscita a terminarne che una sola raccolta con la
complicità di un prozio, Mario Gualdi, fratello del nonno materno, che gestiva
una cartoleria sotto il portico lungo, poco più in là del bar Dorando. Mario
aveva una nipote di poco più giovane di me, Guglielmina, alla quale non
lesinavano certo le bustine e, di conseguenza, accumulava doppi su doppi, che
lo zio teneva in un cassetto, e spesso me ne regalava un mazzetto con il quale
poi facevo scambi.
Li
facevo persino con il cartolaio Forghieri che aveva la bottega sotto il portico
di San Nicolò, all’altezza dell’attuale Banca Intesa. Forghieri, a rammentarlo
oggi, era un particolarissimo personaggio: un adulto con uno spirito da bambino
che, nei momenti di relativa calma commerciale, si lasciava coinvolgere e
coinvolgeva volentieri a sua volta.
Io
entravo in quella cartoleria con le figurine, ma poi, particolarmente nel
periodo invernale venivo catturata dalle sue attività alternative e
complementari, in particolare la creazione di maschere e mascheroni in carta
pesta e anche dalla sua capacità nel disegno.
Da
Forghieri, mentre si dilettava a sperimentarli, ho visto per la prima volta i
colori a cera: ero andata a casa entusiasta e , non le figurine, ma quei colori
mio padre non me li ha mai fatti mancare.
In
definitiva il mio rapporto con le figurine si risolse con quattro tentativi
forse non sufficientemente convinti di completare una raccolta e uno solo, con
tematica storica, approdato alla fine. In effetti però, finito il gioco degli
scambi, l’album passava dal comodino della mia camera al solaio, rimanendo
chiuso lì per sempre.
**
In età matura, in ambito
lavorativo, lungo un percorso di ricerca, quasi inaspettatamente mi sono
trovata a riconsiderare le figurine sotto due guide impareggiabili: Giuseppe
Panini e Lucilla De Magistris. Mi ero portata a Modena per poter visionare
l’archivio fotografico Orlandini, acquisito da Giuseppe Panini e, per farlo,
occorreva l’autorizzazione di Panini stesso. È stato uno di quegli incontri che
non si dimenticano: una persona giovialissima, curiosa che aveva voluto
conoscere tutto del progetto al quale stavo lavorando: le ritualità connesse al
ciclo della vita. Permesso accordato e, immediatamente, con una telefonata
preannunciava la nostra visita a quell’archivio che si rivelò enorme: oltre ai
negativi Orlandini e Bandieri, là erano conservate raccolte di ogni genere.
Quando credevo che l’incontro stesse per concludersi, il signor Giuseppe con
una radiosità espressiva tipica di chi sta per fare una sorpresa ed è certo che
sarà graditissima, ebbe a dirmi che sicuramente nella sua raccolta di figurine
potevo trovare immagini utili al mio lavoro di ricerca. Sullo stesso piano del
suo ufficio, praticamente di fronte, una sorta di dependance, veniva conservata
la sua raccolta di figurine. Mi trovavo di fronte ad una persona trasfigurata,
un anziano che mostrava l’impagabile entusiasmo di un bambino sicuro di avere
un tesoro godibile all’infinito. Un fiume in piena che mi raccontava come era
nata questa sua passione che, sì, aveva una strettissima connessione con la sua
impresa, ma era qualcosa d’altro che aveva a che fare con il suo essere dal
quale aveva poi preso avvio anche l’impresa. Nell’illustrare trasmetteva
curiosità, stupore e meraviglia. In quelle stanze invidiabilmente ordinate,
dopo aver mostrato quelli che reputava i pezzi straordinari, compreso un baule
da viaggio tappezzato di figurine, ebbe a presentarmi quella che teneva come
una più che preziosa vestale: la signorina Lucilla De Magistris. Una signorina
che doveva avere annoverato sessant’anni o forse qualcosina di più,
ordinatissima, longilinea, eretta, capelli bianchi acconciati in onde discrete che
incorniciavano un volto con incarnato chiarissimo, pulito, dai tratti
gentili , con una camicetta bianca dal colletto in merletto sotto un cardigan
rosa. Condivideva con il signor Giuseppe la passione per le figurine, tanto che
ebbi successivamente a considerare il fatto che in qualche modo le incarnasse
fisicamente.
Venni così affidata alla guida
della signorina De Magistris che mi mostrò l’incredibile raccolta delle
figurine Liebig, non le figurine che avevo maneggiato da bambina, ma qualcosa
d’altro, cromolitografie cartonate in serie che sembravano appena uscite dalla
stampa, attraverso le quali uscivano usi e costumi di inizio Novecento.
Da quel momento, ho riconsiderato l’incredibile mondo delle figurine. Non mi
sono mai convertita al collezionismo privato ma, a quanti lo praticavano mi
sono poi rivolta più volte e, sempre, ho trovato materiali
preziosi.
^^*O*^^
1960 - 61 Bruno Bolchi la prima
figurina Panini
**00**
Il
prof. Pietro Marmiroli ci regala
questi bei ricordi su un’epoca dove anche le figurine avevano una grande
importanza di vita per i ragazzini (pubblicato su VOCE del 17 marzo 2011). I
ricordi sono dedicati all’Italia del maestro Meoni e alle celebrazioni primo
centenario dell'Unità d’Italia nel 1961.
“Era l'Italia del miracolo descritto da
Bocca, dei viaggi in Urss offerti da Crotti, dei compagni di scuola del Sud,
del libro Cuore e delle figurine
Il maestro Gian Marino Meoni veniva da Modena, era rimasto
vedovo giovane e da giovane si era risposato. Dopo aver fatto la sua gavetta
nelle frazioni in quell'anno mirabile 1961 era in servizio alle Manfredo Fanti,
scuola elementare storica, unica in verità, di una cittadina baciata dal boom
economico e dalla celebrità televisiva. Sì, perché tutta l'Italia catodica aveva
già tifato per Lando Degoli e il suo controfagotto a "Lascia o
raddoppia?" e Carpi era entrata"in orbita e s'ciao",
proponendosi a "Campanile sera", ma rimanendo al palo, sconfitta
dall'agricola Bracciano.
Niente paura per la cittadina neoindustriale perché Giorgio
Bocca, giornalista di fama, avrebbe presto rinverdito la gloria locale
portandola ad esempio e modello del "miracolo italiano" e dopo di lui
l'imprenditore Crotti le avrebbe prodotto una fama mondiale, organizzando
un'Odissea di viaggi Oltrecortina, alla scoperta del socialismo reale. Nel
frattempo, in quel mitico anno ci riconoscevamo tutti italiani; anche i nuovi
compagni, Di Sessa e Pellecchia, amichetti campani dell'Irpinia, appena
arrivati in città e alloggiati in appartamenti di fortuna sotto i tetti del
Castello, erano italiani come noi, anzi erano carpigiani.
Tutti insieme eravamo alle Fanti e il maestro Meoni per ricucire
le due Italie che erano in classe ci educava al senso dello Stato unitario,
leggendoci i racconti mensili del libro "Cuore", dove c'era ampio
spazio per riflessioni sull'immigrazione "Dagli Appennini alle Ande",
molto eroismo risorgimentale nella "Piccola vedetta lombarda",
massicce dosi di coraggio nel "Sangue romagnolo", pacchi di altruismo
nel "Piccolo scrivano fiorentino". Insomma a nostra disposizione
c'era tutta una geografia di virtù italiche di pronto uso che avremmo potuto
facilmente emulare.
Esse erano il frutto di un evento storico prodottosi nel sangue
e nel valore, a seguito di una serie di guerre di indipendenza, da studiare
analiticamente, date e luoghi a memoria, che poi il maestro ci avrebbe
puntualmente richiesto. Per favorirci nel ricordo e nell'acquisizione,
periodicamente la lezione di storia in classe veniva supportata dalla
proiezione di diapositive didattiche che dovevano mostrarci i luoghi, le
divise, i teatri di guerra, culla dell'italianità ancor recente.
L'iniziativa del maestro, di visualizzare per noi il
Risorgimento, era un album della ditta B.E.A in quell'anno diede alle stampe un
albo coloratissimo e seducente dal titolo "Italia '61".
E dentro c'erano proprio le facce di tutti: Mazzini il dubbioso
apostolo dell'Italia repubblicana, il gringo macho Garibaldi, eroe di due
mondi, l'azzimato snob tessitore di alleanze, Cavour, piemontese, falso e cortese.
Picciotti e Menotti, i trecento giovani e forti che sono morti di Pisacane e
della sua amica, spigolatrice in quel di Sapri, venivano proposti a tutta
pagina in un mosaico che li affiancava ai veneziani resistenti di Fusinato,
arresisi agli austriaci solo per fame, conseguendo l'onore delle armi, quelli
del "pan ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca".
Chi restava fuori dalla collezione, perché scandalosa, era la
bella cuginetta di Cavour, quella contessa di Castiglione che era stata
immolata sull'altare della patria e nel talamo di Napoleone III per costruire
un asse militare italo-francese durante la seconda guerra di Indipendenza.
Al suo posto, più virtuosa appariva Anita Garibaldi, agonizzante
tra le braccia del guerriero, in fuga dopo la sconfitta della Repubblica romana
e beccata a morte forse da una delle letali zanzare delle valli del Po
ravennate.
Per comporre i quadri delle battaglie di Calatafimi, di
Castelfidardo, al Volturno, l'incontro di Teano o la partenza da Quarto dei
Mille ci volevano più figurine, incollate insieme, otto o dieci, ma l'effetto
finale era garantito, sembrava un film in cinemascope, tant'era grande e
colorato. Se te ne mancava qualcuna potevi tentare degli scambi di doppie con
altri scolari, sopportando eventuali sovrapprezzi, se la figurina era
considerata rara; qualcuno poteva chiederne anche cinque o dieci. Un altro modo
per procacciarsene era il gioco del muro in cui si lasciavano scivolare giù
libere, dopo averne messe alcune a terra, come posta iniziale.
Chi ne avesse ricoperta qualcuna avrebbe vinto tutte quelle
ammucchiate. L'acquisto di quelle nuove aveva invece un costo, per l'epoca non
esoso, ma neppure esigo: quattro pezzi valevano dieci lire, lo stesso costo di
un wafer farcito, il mignìin.
Tuttavia malgrado l'impegno, gli scambi, le contrattazioni si faceva sempre
fatica a racimolare le trecento figurine e passa degli album e spesso finivano
in granaio o in cantina incompleti, con qualche finestra aperta, come quella
che avrebbe dovuto accogliere l'introvabile parlamentare Bettino Ricasoli.
Ma cosa importava poi se la raccolta rimaneva incompleta,
l'Italia no, lei era tutta intera, unificata con i suoi eroi, le loro gesta, le
imprese dei martiri di Belfiore. E tutto questo ci rassicurava, ci faceva
sentire italiani.”
** --**
I pattini a
rotelle
(collaborazione di
Marco Giovanardi)
Il
Parco delle Rimembranze fu ideato con tre tracciati tondeggianti e concentrici,
al centro fu previsto una specie di campo - arena che fin dall’inizio fu
destinato, immagino, a manifestazioni di vario genere. Ad esempio per le
esibizioni della banda cittadina o anche come campetto di calcio, con partite
organizzate da tale Amner Anceschi che raccoglieva fra gli squattrinati
partecipanti, qualche soldino per affittare il pallone.
Negli
anni ’50, con saggia ispirazione dell’allora sindaco Bruno Losi e
dall’assessore Angela Mora, fu progettata e costruita una bella pista di
pattinaggio liscia e scorrevole e delimitata da una robusta ringhiera verde perimetrale.
Ancor oggi la pista svolge dignitosamente la propria funzione. E’ interessante
ricostruire un po’ la storia di questa realizzazione e della gran moda dei
pattini a rotelle che conquistò i giovani di Carpi dal primo dopo guerra in
poi. Ciò anche grazie ai preziosi ricordi di Marco Giovanardi e ad altre testimonianze. Al pari di quella
delle “vetre” (al buciini) è un’altra
delle piccole storie della Carpi prima del “miracolo” che merita di essere raccontata,
prima che vada persa per sempre, attingendo a ricordi e memorie personali.
Alla
fine degli anni ’40, i giovani lasciati gli incubi della guerra, avevano una
gran voglia di divertirsi e fra le tante novità dilagò anche a Carpi una grande
passione per i pattini a rotelle, nella nostra città chiamati “scattini”. Le
strade furono invase da turbe di ragazzi scatenati che, a folli velocità, si
producevano nelle più spericolate evoluzioni. Si tratta, anche in questo caso,
di vicende e di mode di cui si perdendo il prezioso ricordo, inghiottite da un
passato sempre più lontano e incomprensibile. Uno dei tanti piccoli mondi ignorati da un presente sordo e
insensibile a “queste minuscole, ma preziose cose”.
La
cosa bizzarra è che le parole scattini e scattinare, da noi di uso comunissimo,
NON esistono sui dizionari di italiano. Ma neppure si può dire che esse
appartengano al dialetto, visto la loro tarda comparsa. Si tratta a mio avviso
di parole di gergo locale.
Si
può aggiungere anche un ardito tentativo di spiegazione; un caso forse unico
nella nostra parlata. I due termini potrebbero derivare direttamente
dall’inglese “skate” e “to skate” (pattino e pattinare), a loro volta mutato
dall’olandese (rispettivamente “schoen” e “schaatsen”) e dal fiammingo “schatsen”,
terre che videro nascere questi attrezzi. L’invenzione è fatta risalire al
liutaio belga Joseph Merlin, vissuto nel XVIII secolo), mentre “schettini” sarà
anche più corretto, ma traduce semplicemente una pronuncia.
Il
termine “scattini” (da cui il verbo “scattinare”) non si trova dunque in
italiano. La versione corretta, e riportata dallo Zingarelli, è “schettini” e
definisce il gioco o lo sport – in perenne attesa di riconoscimento olimpico –
più comunemente noti come “pattinaggio a rotelle”. Nella vulgata carpigiana,
tuttavia, gli “schettini” sono sempre stati ignorati a vantaggio di “scattini”,
appunto, italianizzazione del dialettale scaatin,
con l’annesso verbo scatinèer.
1908 Patins Roulettes
I
primi pattinodromi apparsi in Alta Italia a partire dalla seconda metà
dell’Ottocento e che presero a diffondersi ai primi del Novecento si chiamavano
infatti “skating” (pron. skèting). E non è neppure da escludere che sia stato
l’americanismo dominante nelle mode e nel costume, subito dopo la guerra, a far
sì che a Carpi la vulgata scaatin e scatinèer abbia preso il posto di
“pattini” e “pattinaggio”.
Questo
per un periodo che nella storia cittadina ha segnato i giochi delle generazioni
che oggi veleggiano fra i 50 e i 70 anni. E che nelle vite dei singoli andava
in genere dai 7 anni ai 13, vale a dire
dal regalo per la Comunione ai primi turbamenti adolescenziali che finivano per
condannare gli “scattini” alla soffitta. Dato anche il lungo arco cronologico
del suo utilizzo, lo “scattino” era concepito perché se ne potesse regolare il
pianale in parallelo con la crescita del piede. Pochi centimetri: ma fra il
primo e l’ultimo centimetro di quell’allungamento ci sta il racconto di giochi,
di modi di vivere in comunità, di espressioni dialettali, di ragazzi, di bande,
di povertà. E di tante cadute e ranòun
(capitomboli) e ginocchia sbucciate.
Oggi
quando di parla di pattini vengono in mente preziosi prodotti supertecnologici
con scarponcini comodi ed eleganti, tampone di gomma per frenare, mini
ammortizzatori, ruote robuste e scorrevolissime dotate di super cuscinetti a
sfera; per non parlare poi dei modernissimi esemplari con le quattro ruote in
linea.
Ma
una volta le cose era erano ben diverse e gli attrezzi subivano la limitata
tecnologia disponibile all’epoca per questi allora marginalissimi, anche dal
punto di vista economico, settori di gioco e divertimento.
Nelle
nostre zone uno “scattino” era formato da due rudi piastre sagomate di lamiera
in ferro cromata con due nervature che si distendevano per l’intera lunghezza.
Queste ultime consentivano di dare nerbo alla precaria struttura e
contemporaneamente di far scorrere e poi bloccare, con apposito dado quadrato o
esagonale e chiave inglese, le due parti, in modo da mettere a misura
l’attrezzo in base alle lunghezza del piede di chi lo utilizzava. Tale
modularità era molto utile, anche perché lo scattino poteva facilmente
adattarsi al crescere fisico del ragazzino proprietario, oppure in un clima di
austerità e risparmio, poteva essere usato a turno da vari fratelli o familiari
con caratteristiche podologiche differenti. Due rialzi ferma-scarpa in metallo
in punta e una cinghietta di corame attorno al collo del piede assicuravano il
serraggio, che restava comunque sempre problematico, in rapporto a una diffusa
inconsistenza della suola, dovuta all’usura della stessa.
Naturalmente
ognuna delle due parti dello scattino era munita di due ruotine costruite con
materiale amorfo pallido grigiastro/marroncino o anche in legno e l’attrito era
diluito da precari e “tolleranti” cuscinetti a sfere. Tutto il materiale
rotabile era costantemente sottoposto a fortissime tensioni e conseguente
usura. Si ricorda anche il nome di qualche marca di casa produttrice tipo
Fulgor (i migliori e i più ambiti), Gioca o Itas, questi ultimi più recenti e
tecnologicamente più avanzati.
Dopo
queste premesse storico - tecnologiche, torniamo alla nostra piccola storia
locale.
Un
altro capitolo degno di nota del nostro amato Parco fu appunto, come prima si
accennava, il fatto che ad un certo punto l'Amministrazione comunale decise di
costruire la pista di pattinaggio. La causa determinante fu che i cittadini
erano stanchi di correre pericoli girando per le strade, dove sciami di
ragazzini comparivano sui pattini a tutta velocità, noncuranti dei passanti, ma
seguendo le loro temerarie evoluzioni. Verso la fine degli anni ’40 prese piede
l'era degli scattini: tutte le bande, abbandonate momentaneamente le palline,
si erano munite alla bisogna. Con un totale ed entusiastico coinvolgimento si
erano organizzate per questa specialità. C'era il pomeriggio dedicato all'istruzione
dei principianti, il momento delle riparazioni, dove si cambiavano le sfere o
le si reintegrava. Infaati a girèer sui
saas, su e ṡò pèr al schèeli, in mèeṡ a la tèera . . . èeter chè ch a s n in
perdiiva (infatti a girare sui
sassi, su e giù per le scale, altro ché che se perdeva). Poi c’era
l'ingrassaggio ed anche l'applicazione di rostri a mo’ di bighe romane,
prendendo esempio dai “peplum movie” americani di quegli anni (è il caso di
“Ben Hur” con Charlton Heston)..
Il
perché è presto detto. Si organizzavano delle vere e proprie sfide. Si formano
due treni di ragazzini che, a gran velocità, tentavano di scontrarsi
frontalmente. Ogni formazione era formata da 10 o più elementi. La squadra si
lanciava in fila indiana a tutta velocità; nella parte finale ci si chinava
restando aggrappati l'un l'altro, mentre gli ultimi due, eretti, continuavano a
spingere a più non posso. L'andare sui pattini a gran velocità, chinarsi,
ondulando il piede, restare bene attaccati ..
non erano cose da poco; in più si doveva pensare a porre in essere tutti
i trucchi per castigare gli avversari.
Alcune
bande si erano costruite anche uno scudo di protezione che il primo della
colonna, ch l éera sèmmper al più maat
(che era sempre il più estroso), teneva infilando l’avambraccio nelle apposite
anelle posteriori.
Quando si evitava lo scontro frontale (fatto che per
altro non avveniva quasi mai, come le sfide frontali in auto dei film americani
anni ‘50), i due treni sfilavano paralleli in direzione opposta, gomito a
gomito, si buttava sotto ai pattini avversari un pezzo di corda che bloccava
simultaneamente un asse di ruote. In cla manéera chè a caschèeva un mucc’ èd
giint pèr tèera (in questo modo tutta la colonna nemica si ammucchiava per
terra, gli uni sopra gli altri). Non paghi … il duello proseguiva con
inseguimenti individuali (come con gli aerei da caccia nei film della 2^ GM): sòtta i pòordegh, ind i curtìil, su pèr al
schèeli dla Patria (sotto i portici, nei cortili, su per le scale della
premiata Società Ginnica La Patria - oggi solo del Museo Civico). Marco Giovanardi ricorda che fu
inseguito da due vigili in corso Fanti; lui e altri due degni compari, sèmmper cun i paatin ind i pée (sempre
coi pattini hai piedi), si infilarono in una porticina sottoportico; salita la
scala, al buio, si nascosero in un cessetto in comune (o licet, locale in multiproprietà tipico dla miṡéeria dell’epoca) a mezzopiano. I vigili arrivarono
vicinissimi, ma non li scoprirono.
Minuti
di vera vita, intensissimi e indimenticabili. A riviverli, anche dopo tanti
anni, al nostro Marco batte ancora forte il cuore per la paura e l’emozione.
Sente il vento della velocità, l'odore della polvere, il rumore delle ruotine, le urla, le fughe, la
paura.
Ogni
giorno c’era una nuova avventura da raccontare e rivivere, sulla quale i ragazzi si soffermavano
rumorosamente alla mattina seguente, quando, tutti allineati, si attendeva
l’apertura delle scuole Fanti in Piazzale Re Astolfo. A quei tempi prima di
entrare in scuola ci si allineava classe per classe nel piazzale, come i
plotoni dei soldati all’alzabandiera.
I
pattini a rotelle furono dunque un capitolo degno di nota nella vita d’azione
dei ragazzini a cavallo fra gli anni ’40 e ‘50. Non si sa con precisione in
quale quartiere ebbe inizio la novità dei pattini, ma in poco tempo il fenomeno
si sparse a macchia d’olio in tutta la città. I ragazzi della Cremeria in viale
De Amicis (che più volte ci hanno accompagnato con le loro storie in questa
ricerca) gli scattini li rimediarono presto, forse non per primi, mò quèeṡi subìtt.
Quelli
che avevano la possibilità di farseli comprare dai genitori erano pochi; i più
se li dovevano guadagnare con lavoretti o andando a raccogliere materiali ferrosi
da purtèer da Brani (portare da Brani), il noto raccoglitore di ferrivecchi,
a quel tempo in viale Manzoni.
I pattini e la ghisa
Per
tornare ai pattini e nel contempo anche al modo di arrangiarsi dei ragazzi di
allora, su cui ci siamo soffermati già varie volte in questa ricerca sulla
società di quegli anni, era molto diffuso; era la pratica normale, quasi di
sopravvivenza; infatti quasi nessuno aveva la “pappa pronta”.
A
tale proposito è interessante l’aneddoto di vita del mirandolese Vittorio Gavioli, raccontato da Vincenzo Galizia di Modena su Incontri BPER n
63-2000, che si può intitolare “Andar per ghisa”. Egli narra che negli anni ’60 nella città
della Mirandola, a noi vicina, c’era grande attesa e gioia per un importante
avvenimento: si sarebbe inaugurata la pista di scattinaggio. Erano un po' tutti
in agitazione ma, in particolare, i ragazzi perché, evidentemente, si
presentava un evento che, ancor prima del suo verificarsi, dava luogo a tutta
una serie di sfide su chi sarebbe stato il più veloce sui pattini a rotelle. In
centro, nella vetrina dei desideri del negozio di “Carlone”, facevano già bella
mostra di loro alcune paia di scattini e i ragazzi si accalcavano davanti per
fare approfondite considerazioni tecniche, ma anche sul come rivolgersi ai
genitori per convincerli all'acquisto. Vi erano due tipi di pattini a rotelle,
quelli da 3.500 lire, che erano quelli tòogo
(performanti), ovvero di pregio, e quelli da 2.800 lire che erano i lòofi, ovvero gli scadenti.
Il
povero Vittorio, dalla recente carriera scolastica infelicissima, si attentò a
chiedere al padre i soldi necessari. "St’aan
t ii stèe bucèe ! … Succa! (Quest'anno sei stato bocciato! Zuccone !)
Quando sarai promosso a s in ciacararà!
(se ne parlerà!) ", fu la secca risposta del risentito genitore.
Intanto
praticamente tutti erano ormai in possesso dei loro scattini. Soltanto lui e
l’amico del cuore Mario erano ancora, è il caso di dire, a piedi. Ma furono
assistiti dalla fortuna perché, parlandone con un ex compagno di scuola, che
aveva lasciato gli studi per mettersi a lavorare in un’officina, ottennero un
suggerimento che si rivelò assai prezioso.
"Perché
non andate a ghisa ? - disse loro - al
strasèer (lo stracciaio) ve la pagherà ottocento lire al quintale",
soggiunse. "Ma … come si fa?"
domandarono sorpresi. "E' facile!
Voi andate nella zona di scarico della fonderia, in mezzo a quelle montagne di
polvere nera, ci sono sempre residui di ghisa, basta prendere un setaccio e una
calamita e il gioco è fatto. Le calamite ve le dò io !" concluse, avvicinandosi a uno scaffale dal
quale estrasse due pesanti ed anneriti aggeggi a ferro di cavallo, smontati
dall’impianto elettrico di chissà quali vecchi motori a scoppio.
Detto
fatto. Tutte le sere, dopo l'orario di chiusura della fonderia, i due ragazzi
esploravano e setacciavano i mucchi neri dei cascami di lavorazione. La
ricerca, pur disagevole, era però produttiva e riuscivano a riempire polverosi
ed anneriti sacchi di iuta.
"Ma
che giochi fai durante il giorno?" gli chiedeva preoccupata la nonna,
quando Vincenzo rientrava a casa più nero di uno spazzacamino, malgrado i suoi
disperati tentativi di ripulirsi alla meglio. Il ragazzo tergiversava …
imbarazzato.
Alla
fine riuscirono a comprarsi gli scattini, ovviamente quelli lòofi da 2.800 lire e poterono scorazzare insieme agli altri sulla nuova
pista. La cattiva qualità dei pattini,
tuttavia, non permetteva loro di competere in velocità con gli altri, tant'è
che decisero di chiedere al negoziante quanto sarebbe costato il cambio con
quelli tòogo. "Sono usati - considerò lui - ve li
cambio se aggiungete mille lire".
Si
trattava di riprendere il lavoro di calamita e setaccio. La nonna però, che aveva nel frattempo capito
da dove veniva quel singolare annerimento, mossa, a metà fra amore “nipotale” e
compassione, gli diede, prelevandoli dal suo prezioso libretto postale, le
mille lire necessarie.
Ancora scattini … a Carpi
Marco
Giovanardi invece riuscì, utilizzando preziosissimi mezzi propri, a comprare i
suoi primi scattini, barattandoli dolorosamente con dei giornalini di Gim Toro
e di Sitting Bull (che oggi sono valutati una cifretta!!). Ma il vero problema
arrivò dopo, perché per indossarli, a gh
vliiva dal schèerpi èd curàam cun al bóord robùsst (ci volevano le scarpe
di cuoio con il bordo resistente) per l'aggancio. Provò allora a legarli con
vari giri di corda … mò gniint da fèer! Poi finalmente arrivarono anche le scarpe
giuste e fu grande l'emozione di poterli indossare e finalmente partire con il
gruppo.
Qualche
fortunato che possedeva della robuste scarpe da calcio, limava i tacchetti e le
dedicava solo agli scattini, ottenendo così un accettabile e robusto insieme.
Molti
della banda erano già bene attrezzati, ma c'era anche un certo numero di
ragazzi che erano appiedati e accompagnavano gli altri correndo. Quanto ai
novellini, che ancora non avevano avuto il tempo per imparare, venivano spinti,
in una sorta di ruoli iniziatici progressivi, da coloro che erano senza
pattini. In questo modo comunque anche i più poveri, si ritagliavano e si
garantivano un ruolo: “óo piàan . . piàaaan!!
Féerm èt! Mòola … Va viaaaaa!" Mochè! lóor i continuèeven a cucèer a tutta canètta
e dòop i finiiven tutt pèr tèera, grupèe e mucèe su! (Invano, questi
continuavano a spingere a tutta forza, finché non finivano tutti per terra in
un unico mucchio.
Abbiamo
ricordato che lo scattino
standard era molto spartano, non aveva lo scarponcino e non aveva freni, e ciò,
data la velocità, le acrobazie e i salti era un grosso handicap per questi
ragazzi autodidatti. Si rimediava mettendo con forza il pattino destro di
traverso, subito dietro a quello sinistro che manteneva la dirittura di marcia.
Dopo tanto frenare però alcune ruotine cominciavano a essere non più tonde, ma
di forma poligonale. Ma poco male! L’officina della banda collocata a cielo
aperto sul marciapiede all’inizio di Viale De Amici era spesso in funzione. Lì
era il posto dove si smontava e di assemblava di tutto, si rimpiazzavano le
ruote e le sferine perdute. Queste ultime di solito si recuperavamo da Brani
dai mozzi delle vecchie biciclette. Di profondo spessore filosofico -
meccanico, erano le infinite e accese discussioni se era meglio cambiare tutte
le sfere con quelle più grandi o se, invece, consentivano più velocità quelle
piccole. Un grande enigma mai pienamente risolto.
C’era
poi da trovare i pignoni conici che combinassero giustamente con le altre parti
meccaniche. E si provvedeva addirittura al montaggio dei rostri èd fildfèer (di filo di ferro) per
danneggiare gli avversari nei passaggi ravvicinati.
**
I
primi scattinatori comparvero a Carpi negli anni ’20 e fra di essi erano noti
il padre di Raimondo Benzi, Checco Brani, il padre di Mario e l ingléeṡ che era un omino piccolino che era stato a Londra vari anni
(da cui il soprannome) e che gestiva una bancarella di libri alla “Catena”,
sotto il portico di Piazza.
Finita
finalmente la Guerra, già subito dal 1946, questa passione riprese con grande
fervore; vista la diffusione del fenomeno sulle strade, a un certo punto
l’Amministrazione comunale cominciò a preoccuparsi per le sempre più numerose
lamentele da parte di commercianti e cittadini che, rischiando la propria
incolumità, non di rado venivano coinvolti, loro malgrado, nei rocamboleschi
inseguimenti nelle pubbliche strade.
A
tale proposito va anche ricordato che uno dei luoghi preferiti per le sfide era
l’ampio e asfaltato viale della stazione, allora molto meno trafficato, ma pur
sempre pericoloso. Appena finita la guerra vari ragazzi, ad es: Mario Brani,
Giorgio Adani, Magnani, ecc … si trovano spesso a fare delle gran volate
competitive lungo questo bel viale.
In un primo momento venne messo a disposizione di
questi ragazzi poco governabili il locale “Madera”, una sala da ballo in fondo
a Corso Roma, angolo Viale Garagnani - Via Arletti, allora di proprietà dei
Sereni e oggi sede di un ristorante. In quell’ambito, grazie a un bel pavimento
levigato ci fu un ulteriore perfezionamento delle tecniche autodidatte del
pattinaggio. I ragàas i sfrecèeven a dal
velocitèe da maat (i ragazzi sfrecciavano a velocità pazzesche), ma quando
c’era il capitombolo, o per collisione o per disattenzione, i n fèeven gnaanch ’na piiga (non
facevano nemmeno una piega) ... si riprendeva subito e viaaaaaa …
Il
Madera era aperto per il pattinaggio due giorni alla settimana e un fattore
molto importante consisteva nel fatto che il locale/palestra era frequentato
anche da qualche ragazza.
L’intensa
attività di pattinaggio al Madera, preceduta la sera prima da balli da sala,
provocava sul campo la diffusione nell’aria di un’impalpabile polverina e i
ragazzi quando tornavano a casa, dopo ore di rullaggio, avevano le sopracciglia
e i capelli leggermente imbiancati: ma niente paura! non era altro che il
borotalco sparso sulla pista dai ballerini per strisciare meglio.
In
un secondo momento il locale Madera fu destinato a usi diversi in ambito
sportivo e il Comune finalmente decise di costruire la pista al centro del
Parco, con l’intento di radunare i ragazzi e toglierli dalla strada.
La
còvva (la coda). A metà degli
anni ’50 Graziano Forghieri
frequentava anche lui la pista tutti i giorni. Si legava a fatica gli scattini
a delle suole quasi inesistenti e bucate, ma non desisteva. Allora era il più
giovane in mezzo a un gruppo di ragazzi già cresciuti: Brani, Abele Luppi,
Salvarani, ecc … Questi si agganciavano per fare il treno nella pista del Parco
e a Graziano toccava l’ultimo posto, a causa della più giovane età. Il treno
partiva, un giro due; la velocità aumentava
.. 10, 15, 30 kmh a un certo punto per la forza centrifuga la coda
cominciava a sbandare sempre più verso l’esterno della pista, finché il nostro
sventurato scattinatore sbatteva violentemente contro la paratia verde in legno
e volava fuori.
I
ragazzi più abili si esibivano da soli e frenavano in curve strette svirgolate
sulla pista con stridori da far accapponare la pelle. Quanto alle “figure”,
solo dopo aver acquistato una certa padronanza del mezzo, si poteva effettuare
le curve inclinandosi e collocando con eleganza un piede davanti all’altro,
anziché fèer spadìir i dèint
(sgradita sensazione che si può liberante tradurre con un far venire i brividi
ai denti in bocca) agli astanti con il rumore prodotto dalla strisciata a
pattini paralleli indirizzati con convulse pressioni sulle caviglie. O
effettuare una giravolta su se stessi per poi procedere disinvoltamente
all’indietro con leggero moto ondulatorio per imprimere la velocità voluta. O
approfittare delle apposite pedane collocate qui e là per ingobbirsi nella
rincorsa, prendere slancio e decollare in salti di qualche metro. Per tutti,
provetti o principianti, bastava comunque la minima asperità del terreno per
provocare cadute rovinose rimaste nella memoria.
Carpi 20 settembre 1959 Festa
dell'Infanzia al Parco
A
quei tempi chi usava gli scattini si distingueva per i vistosi crostoni alle
ginocchia dovuti ai numerosi ranòun
(cadute rovinose), un curioso termine che sta a indicare nel nostro dialetto
una caduta clamorosa, quanto eclatante.
La
pista del Parco era all’inizio di pubblico accesso e venne subito occupata da
questi scalmanati. Col loro comportamento violento, però scoraggiavano quelli
che intendevano pattinare normalmente.
Quando
una scuola di pattinaggio provava ad entrare in pista, si poteva assistere a
scene del genere: l’istruttrice volteggiava con grazia e leggiadria al centro
della pista, insegnando il movimento. Tutti i ragazzi erano appoggiati al
parapetto di contenimento e osservavano attenti e quando gli allievi ad uno ad
uno provavano a ripetere l’esercizio, ecco che, senza il minimo rispetto,
qualche ragazzaccio si buttava sulla pista scimmiottando gli allievi, ma con
una perfezione e sicurezza nelle rotazioni e salti da far invidia alla maestra
stessa.
La
situazione divenne insostenibile e a un certo punto fu poi negato l’accesso
alle bande di quartiere alla pista del Parco, ma ormai la stagione delle bande
sui pattini, come rapidamente era nata, finì. Si era ormai dopo il 1955 e Carpi
stava cambiando profondamente … e anche il “piccolo mondo” dei pattini subì
delle profonde trasformazioni
Da
allora in poi di ragazzi con gli scattini sulle strade non se ne videro
praticamente più, mentre varie società sportive, nei successivi decenni,
iniziarono centinaia di giovani a questo bellissimo sport che mise in mostra
anche dei veri talenti nostrani.
1997 Romano Reggianini
Negli
anni ’60, oltre a Fabio Gobbi, ne ricordo uno per tutti … Romano Reggianini, forse il migliore,
vincitore di tanti premi, virtuoso acrobata, veloce in pista come su strada
asfaltata; ora è un noto titolare di azienda di successo, collezionista di auto
d'epoca e indiscusso promotore di gare ciclistiche di prim’ordine.
Carpi 20 settembre 1959 Festa
dell'Infanzia al Parco - Pista di pattinaggio
La costruzione della pista di pattinaggio nel Parco fu di grande aiuto per gli allenamenti dal 1959 in poi della prima squadra di pattinaggio della nostra città; la società sportiva si chiamava allora "Sandro Cabassi Carpi ". Il team era coordinato dall’instancabile e generoso Walter Galliani, al biciclissta èd via Ròmma, che tra l’altro era consigliere comunale con una specie di delega allo sport; infatti a quei tempi non c’era ancora un apposito assessorato alla bisogna. La “Cabassi” partecipò con grande successo alle Olimpiadi dei piccoli azzurri organizzata da Uisp e Csi insieme ad Imola per il Centenario dell’unità d’Italia. Reggianini, con l’aiuto di una squadra eccellente, fece il primo posto nei 500 mt, 1.500 mt, 3.000 mt e 10.000 mt.
Egli, assieme a Gianni Giovanardi, dipendente comunale ed ora in forza alla Protezione Civile, Giuliano Setti, Giovanni Forti, Giovanni Cattini e tanti altri costituirono la squadra più forte e temuta di tutta l’Emilia Romagna.
Questi compagni aiutarono Reggianini a conquistare un rispettabile quarto posto in una prova dei mondiali svoltasi a Carpi nel 1962. La prova si svolse praticamente sullo stesso tracciato del Circuito Ciclistico delle Palme, che si corse, organizzato poi proprio dal nostro, per tanti anni su Viale Biondo e Viale Carducci con i raccordi di Via Volta e di Viale De Amicis.
Praticare il pattinaggio agonistico era allora abbastanza costoso e di grande aiuto per i più boletaari (persone scarsi di mezzi economici) fu Alcide Palmati, al quale i ragazzini si rivolgevamo, frequentando il suo originale negozio di antichità e cose strane, situato sotto il portico del vescovado, per avere i vari ricambi, tipi di sfere, ecc …
Nonostante la sua fama èd pèela (termine dialettale per indicare una persona un po’ … tirata), lui era sempre pronto ad aiutarli con grossi sconti e ad aspettare nei pagamenti. Evidentemente si identificava nelle aspirazioni dei ragazzi e nella loro voglia di vivere.
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Gianfranco (Gigia) Sgarbi ci racconta già di un epoca successiva in pieni anni '60. Suo padre, grande meccanico e appassionato di tutto ciò che di muoveva in velocità con le ruote, gli raccontava delle ore passare al Madera. Nel' 64 Gigia ebbe i primi pattini in regalo e per 3-4 anni “frustò” (consumò) la pista del Parco, affrontando e provocando continue sfide contro tutti, preannunciando i futuri e numerosi garèin (gare di moto sulla pubblica via, proibitissime, fra giovani) che poi avrebbe vissuto in moto e auto.
Conserva ancora a casa 4-5 medaglie d'oro, èd laméera piturèeda (lamiera dorata), vinte nelle gare di velocità alla tradizionale Festa dell'Infanzia che si teneva la Parco in settembre per la chiusura della stagione estiva. Gigia non era certo un esteta delle figure artistico -acrobatiche, mò quàand a gh éera da dèer èggh da pistèer, a n s tirèeva mìa indrée d sicùur (ma quando c'era da mettercela tutta in velocità, certo non si tirava indietro). Non ho avuto coraggio di chiedergli se una delle sue trentacinque fratture (subite nell’arco di un lungo periodo di vita di ardimento) sia stata causata dal pattinaggio.
Gli attrezzi che usava erano naturalmente ipertecnologici, per il periodo, e ricorda che addirittura provò in anteprima delle nuove ruotine in gomma, ma esse offrivano troppo "grip" sulla pista del Parco e decise di restare sul legno.
Finito quel periodo di grande passione, non ci fu più seguito, anche perché l’amore per moto e motori (trasmessagli dal DNA paterno) gli riempì quasi totalmente la sua sfera di passioni. Oggi i suoi figli ne hanno un paio a testa, pattini moderni con le quattro ruotine in linea; ma l'uso effettivo è stato di poche decine di minuti in tutto ... oggi ci sono troppe alternative concorrenziali ...
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Quanto a me .. siamo alle solite … umètt (ometto) dalle mille occasioni perdute. Mi sentivo una spiccata predisposizione per andare sugli scattini in velocità, certamente avrei passato ore e ore sulla pista del Parco, ma ci fu il blocco totale disposto dai miei: “NO ! Te t fèe dal mèel!” PUNTO !! E così dopo un paio di fallimentari e precari tentativi segreti con attrezzi presi in prestito al momento, desistetti. Quando forse avrei finalmente potuto, a iéera già tròop chersùu (ero già troppo cresciuto) e una grande passione aveva già conquistato anche me … anima e corpo: la moto ! Alla quale dedicai con fervore ben trent’anni di vita.
Ma questa l’è ’n’èetra stòoria … che racconterò in un altro scritto dal titolo “Bici, mòoto e muturèin”.
Ròobi vèeci e robivèeci (cose vecchie e robivecchi)
L’attuale
società è impostata sull’usa e getta, sullo spreco; si tende a dare poca
importanza alle cose, al loro riuso o conservazione. Un esempio per tutti:
molto spesso un’automobile di pochi anni, in buono stato e basso chilometraggio
e che potrebbe svolgere egregiamente la sua funzione per ancora molto tempo, ha
valore ZERO: cioè significa che deve essere rottamata.
Un
criterio di spreco che assolutamente non esisteva fino agli anni ’60, quelli
precedenti al nostro cosiddetto boom economico, dove nulla veniva buttato via e
quando una cosa era proprio inutilizzabile veniva presa da una strana e
pittoresca categoria di persone: i robivèeci.
Personaggi molto particolari che diventavo presto molto noti sia in città che
in campagna.
Si
raccoglieva di tutto: i metalli in primis, ma anche vetro, lana da materassi,
capelli di donne in trecce tagliate, mobili vecchi, unghie e ossa di bestiame ecc …
Costoro
giravano per le strade con un barusèin (carriolino), sia a la séerca (alla cerca), che su precisa chiamata e spesso
segnalavano la loro presenza con urla o frasi con brevi e geniali cantilene,
che li ponevano subito all’attenzione delle persone. Spesso venivano anche
incaricati di leggeri o piccoli trasporti, in alternativa ai birocciai.
Con
l’avanzare del progresso qualcuno era pure motorizzato con idonei motocarri a
pianale marca Alpino o successivamente Ape Piaggio. Molto spesso con cane senza
guinzaglio, li seguiva docilmente e senza creare guai.
I robivèeci hanno avuto anche loro una specifica evoluzione e
finale scomparsa; hanno girato per Carpi fino agli anni ’80, dedicandosi negli
ultimi tempi alla raccolta dei numerosi cartoni che venivano lasciati di fianco
ai cassonetti. Erano gli scatoloni scarto dei tantissimi laboratori di
maglieria, confezioni e terzisti in genere.
A
un certo punto, però, quasi improvvisamente, con la dipartita fisica degli
ultimi rappresenti di questa singolare categoria, queste figure sono
completamente sparite.
Oggi
si … conferisce all’AIMAG. Un modo di dire innovativo, per obbligare i
carpigiani a portare i rifiuti ingombranti negli appositi centri di raccolta,
dove occhiuti e spietati controllori, danno ordini spietati ai poveri e
disorientati cittadini, che si avventurano nell’OPERAZIONE CONFERIMENTO, per
altro costretti e vessati da apocalittiche minacce di terribili sanzioni e
messa al pubblico ludibrio con l’accusa di insensibilità ambientale. Mò andèe bèin in cal pòost !! Andèe a fèer
èv tuṡèer a leonciina ( cioè
pronti per l’impiccagione).
In
passato a queste incombenze, in una società a misura umana pensavano invece i robivèeci, attività dalla quale
traevano un sostentamento non proprio sostanzioso, ma che permetteva loro di
vivere una povertà dignitosa e non di rado di consentire ai figli un’esistenza
diversa.
Il
materiale ferroso e i metalli pregiati: rame, ottone, ecc … venivano rivenduti
a peso alla ditta Brani, che aveva la sede con un ampio spiazzo di deposito in
Via Manzoni, in precedenza in via Andrea Costa.
Il
nome di Brani, legato ai rottami, divenne ed è famoso per i carpigiani e fece
nascere anche gustosi e ironici modi di dire.
Ne
cito uno legato all’attività di questo prezioso imprenditore dla ruṡṡna (della ruggine). Quando una
persona aveva qualche acciacco, rottura o indisposizione, gli si poteva dire
scherzosamente: guèerda ch a t pòort da
Braani! (Guarda che ti porto a rottamare da Brani!); oppure, con tipico
umorismo carpigiano, fu creata la parodia della famosa canzone cubana
Guantanamera, modificando il ritornello in un irresistibile:
Quàanta-laméera.
Da Braani!! Quàanta-laméera.
Quàanta-laméera.
Da Braani!! Quàanta-laméera.
**
L’attività
di raccolta negli anni ’50 e ‘60 riguardava anche i tanti ragazzini che,
completamente in bolletta, volevano rimediare, d’estate, un po’ di soldi per
comprare qualche gioco o un paio di scattini.
Queste
bande si mettevano in giro e tiravano su tutto quello che potevano; si dice
anche qualche cancellata, quando l’occhio degli abitanti della casa era
distratto.
Sempre
questi ragazzacci erano capaci nottetempo di scalare la recinzione della Ditta
Brani e “recuperare” materiale già depositato in precedenza, che poi veniva
riproposto nei giorni successivi.
**
Tornando
ai robivecchi, ricordo di averne sempre visti; la loro presenza era costante
nelle nostre strade. Mi viene in mento ad esempio un certo Ognibene che era
soprannominato Rangìin, cioè che si
arrangiava, dedicandosi forse anche a raccolte non proprio autorizzate di beni
altri. Carlo Alberto Parmeggiani
racconta che Rangìin passò per
antonomasia nel linguaggio infantile e adolescenziale col detto "T ii pròopria un rangingìin colombo!",
“te graat e te scaap via cóome un clòmmb”,
inteso come epiteto ammollato a persona lesta nel minuto e amicale
freghereccio, sempre in voga nel nostro Principato. "Rangigìin" è pure un termine dialettale che indica il piccolo
esile ragnetto che sciabatta lungo le pareti della casa, indice peraltro di
sanità dei muri, già che se altrimenti fosse, con l'umidità la ragnatela, che
il Rangigìin si perita di fare, sarebbe in proporzione pesante come un tendone
del Circo Medrano.
Giuliano C., era un uomo
straordinario, un personaggio pieno di curiosità geniali e strampalate, ma
anche di inventiva talvolta un po' sconsiderata: ad esempio una volta costruì
un barcone di lamiera nel solaio che non passò poi mai dalla porta e per le
scale; oppure fabbricò un razzo a carburo che finì dritto dritto in un fienile
che prese fuoco. A un certo punto si mise anche a strulghèer (a … indagare inventando) su binari, rotaie e ruote
che permettessero a un treno di fare delle curve meno ampie e più veloci.
Come
robivecchi, la leggenda narra che rivendette per ben sei volte al vecchio
Brani, nella stessa giornata, una pompa da bicicletta arrugginita, buttandola,
anziché ai piedi del muretto dove gli era stato detto di gettarla, dopo la
pesata a 40 lire al chilo, aldilà dello muretto di cui sopra. Ossia nel posto
fra le ortiche dove egli stesso la prontamente la recuperava, una volta uscito
col denaro, per riproporla poi, con noncuranza e la bronza sorniona che lo
distingueva, una mezz'ora dopo allo stesso Brani. Il quale troppo preso dal via
vai dei suoi rottami, si era dimenticato d'aver già avuto quella
pompa sotto gli occhi, dalle mani di C.
Ho
conosciuto anche Danilo Federzoni,
buonissima e onesta persona, propenso a un uso non proprio moderato del
lambrusco. Ebbene, quando tornava a casa, sotto il portichetto di via
Matteotti, si sentiva interrogare, in modo inesorabile, con questa frase
impertinente, pronunciata dai terribili F.lli Forghieri (biciclisti), che
avevano la loro bottega sull’itinerario di rientro del nostro: “ée l pasèe Daniilo?? (E’ passato Danilo
? ovvio … passato di vino)”
E
poi c’era Radamèeṡ; aveva il viso rotondo con un naso importante, pochi
capelli e cappello di paglia (al paiarìss),
statura medio altre e con un po’ di pancia.
Famosissimi i suoi annunci pubblicitari vocali, a grossolana rima baciata, urlati e cantilenati
lungo le contrade per avvertire del suo imminente passaggio:
“Dònni! Dònni! A gh è al strasèer!! Gh ii v
di cavìi, di òos, dal fèer, dal pèesi da marchéeṡ, dal
véeder? Mè a tóogh su tutt … dònniiiiii!!?? (Donne! Donne! C’è il robivecchi! Avete dei capelli - trecce tagliate
-, delle ossa o del ferro, degli assorbenti usati, del vetro ?? Io prendo su
tutto .. donneeee !!)”.
Radamèeṡ mandava un messaggio semplicemente stupendo ed
efficace, tanto che, nonostante il tempo passato, esso è ancora ben presente
nella memoria di molti concittadini.
Al mulètta (l’arrotino) invece gridava, con forti sottintesi: Dònni gh ii v quèel da gusèer? Fòorbṡi,
curtée, fèer da ṡghèer? (Donne avete delle cose da affilare, forbici,
coltelli, ferri da segare ?)
Tale
“Nibàal”
Luppi era invece un tipo molto particolare e viveva di espedienti, parlava a
voce alta con se stesso. Spesso passando vicino alla bottega del fabbro
Bizzoccoli (il nonno di Franco) si infilava lesto sotto al tabarro, che
indossava allo scopo, un qualche pezzo di ferro o metallo che poi sarebbe
andato a rivendere.
Stanco
di questi continui furtarelli, il Bizzoccoli, vedendo il nostro avvicinarsi da
lontano, preparò un ferro rovente, ma non più rosso, per dissimulare meglio la
trappola crudele, e lo mise davanti fuori di lato alla porta. Nibàal (Annibale) vide l’oggetto e ne
appropriò subito con la mano e lo nascose di slancio sotto i panni. Ma
contemporaneamente, ustionato urlò un tragicomico: “Mò che calóor ch a gh à Nibàal sòtt al tabàar!!” (Ma che caldo che
ha Nibàal sotto al tabarro!). Frase
che passò subito per canzonatorio proverbio. Anche nella versione: “’Sa gh èe t chèeld ? … cóome Nibàal sòtt al
tabàar!” (Cosa hai? Caldo come Nibàal
sotto al tabarro!) nel caso che si tenti di nascondere qualcosa.
L’episodio
di trasformò in una piccola leggenda. La tradizione orale, che sempre tende a
ingrandire le cose per glorificare l’occasionale racconto di qualche ciarlatano
affabulatore (penosa figura umana che in dialetto si definisce efficacemente
con il termine ciavadaari)
che, in cerca di facile protagonismo guadagnato dalla narrazione enfatica di
vicende altrui, le esalta ingrandendole, ce ne regala diverse versioni, tra le
quali la seguente, ulteriormente comica.
Una
volta dei ragazzini per fare uno scherzo a Nibàal,
prepararono sul suo consueto itinerario di raccolta un bel pezzo di tondino di
ferro, dopo averlo ben scaldato. Lo sventurato vide l’ambita preda e subito con
la mano si chinò a raccoglierla, ma la lanciò subito urlando: “Mò che calóor ‘Nibàal! Mò che calóor!” E
quando vide i ragazzi che sghignazzavano, con rabbia ringhiò loro contro: “ A sii bèin ... a … a sii bèin … (siete
bene) “ e i ragazzi: “ Mò ’sa gh è a
Sibèin (Cibeno frazione di Carpi” e lui: “ A … a… a sii bèin di caiòun !!” (Siete bene dei coglioni!!).
**
La Marina Trintèina
Eccola in una rara foto degli anni
’60 in Via Cesare Battisti (oggi davanti alle poste) - La Marina rientrava a
casa spingendo il suo carrettino di mercanzia varia verso Cuntrèeda Teranóova, o L’Uultma
(Via Giordano Bruno) indù la stèeva d ca
La Marina Trintèina (Trentini di
cognome) è un ricordo indelebile nella mia memoria; la vedo
ancora spingere il suo carro sotto il portico di Corso Fanti, inveendo
pesantemente contro chi la prendeva in giro. Vale la pena di ricordala con la
testimonianza di alcuni carpigiani, proprio perché ha rappresentato quasi
un’icona della nostra città. E come spesso ipocritamente accade per questi
personaggi scomodi, che si detestavano, ridicolizzavano, sbeffeggiavano, quando
erano in vita, si arriva poi a ricordarli quasi con affetto tanti anni dopo la
loro morte. Un processo mentale auto assolvente, più che altro rivolto a una
nostalgica rievocazione di se stessi e non al “disgraziato” di turno, che
apparteneva a una categoria dalla quale si era ben contenti di essere lontani.
In
noi ragazzini degli anni ’50 e ’60, la sua inquietante figura è rimasta
fortemente impressa nei nostri lontani ricordi: alta, secca, sempre vestita di
nero con il fazzoletto dello stesso colore in testa.
Ci
faceva molta paura a vederla e le stavamo a debita distanza; non di rado
prendeva delle balle orbe e tirava delle sequele ben articolate di briscole,
soprattutto contro i monelli cattivi che, con tutta la pungente crudeltà tipica
nella loro natura, le facevano degli scherzi feroci o la offendevano. Da
giovani spesso si è inutilmente crudeli. Una volta alcuni ragazzi le tolsero il
fermo di una ruota del carretto, con l’esito disastroso che possiamo ben
immaginare. Al barusèin a cavàal a su, tutti
al malgarèini pèr tèera e di siigh e dal madònni ch a s-ciflèeva l’aaria.
Marina abitava in contrada Terranova (L’Uultma - Via Giordano Bruno), altro
luogo di profonda carpigianità; stava subito dopo la bottega da lattoniere di
Ardiglio (Cavasùu) Cavazzuti,
fratello di Ersiglio e Doviglio. L’artigiano era famoso per la messa in opera
di un fugòun da bugadèera … in lèggn.
La saracinesca di questa antica attività si può ancora vedere tale quale,
chiusa ormai da decenni. Fra qualche anno, con la prima ristrutturazione
scomparirà di sicuro.
Pare fosse anche attirata dal fascino di un allora
noto enologo carpigiano, che devotamente ogni settimana andava riverire e nel
contempo a farsi omaggiare di qualche bicchiere. “Ciirooo, mò …s t ii bèel!” era solito dirgli.
Teneva banco il piazza al giovedì e alla domenica
(solo recentemente si è passati al sabato). La sua postazione era di fronte al
quella del fabbro Bizzoccoli che si collocava sotto il torrione degli spagnoli,
proprio ai piedi della lapide per Presa di Roma - XX settembre 1870.
Ho cercato fra la gente ricordi personali sulla
Marina, ottenendo tante tessere per un mosaico un po’ frammentato, che dà però
un profilo verosimile, anche se approssimativo, del personaggio. Sono convinto
che l’interessata non si sarebbe mai immaginata una sua rievocazione.
Primo
Saltini ricorda: “Era quasi un divertimento per noi ragazzini di allora,
passargli vicino e sussurrarle: imberiagòosa!
Un’ingiuria che immediatamente scatena una litania furente di madonne, cancheri
ed epiteti vari. Tutto un vocabolario gergale interessante che poi si poteva
ripetere insieme agli amici, sghignazzando. In più la seguivamo, quando andava
verso i giardini a fare pipì (all’antica maniera delle donne padane); la faceva
stando in piedi e dandosi una asciugatina con il vestito! Eravamo proprio dei
delinquenti.”
Alfredo
Copelli abitava in via Marco Meloni e nel retro della casa c'era un cortile con
una tettoia. Spesso la Marina si fermava lì a dormire per scuasèer la baala (per smaltire le dosi alcoliche), così come era …
cun al barusèin abbandonato con tutte
le povere merci.
Ersilio
Spezzani rammenta che le piaceva
anche bere un buon quartino di vino, ma forse anche di più. “Tante volte
chiedeva a noi ragazzi se le andavamo a prendere il vino, perché a lei non lo
davano all’osteria vicino a San Rocco. Puvrètta
!! La fèeva cumpasiòun, già da ragàas … ,
mò aanch adèesa, dòop taant aan, a pinsèer cum la viviiva, la t fa pinsèer che la solituddin l'è ’na graan
tristèssa.
La pariiva catiiva, mò l'éera sóol ’na
pòovra dònna, sèinsa nisùun intóorna ch la iutìss.
I éeren mumèint dificcil aanch alóora,
sperèmm ch i n tóornen più, aanch se a m sèmmbra che incóo a nn andèmma pèr
gniinta bèin.
Anche
ad Annamaria Loschi la gh fèeva ’na faata paùura ... Aanch perché
a n s capiiva gniinta d quèll ch la dgiiva. Essere vecchi e poveri era ed è
una vera disgrazia.
**
Anna
Bulgarelli ha bene in mente la
Marina Trintèina, abitando nella sua
stessa contrada: “Io sono nata e cresciuta in via Giordano Bruno e me la
ricordo bene. A noi bambine incuteva un certo timore: così alta e vestita di
nero, spesso alterata dal vino. Ma quando era lucida e la incontravo uscendo di
casa, mi riempiva di complimenti e mi
diceva con grande dolcezza " Indù
vèe t pricipèssa?".
Una volta la nipote la stava aspettando da ore in
via Giordano Bruno, più o meno preoccupata. A un certo punto la vide arrivare
senza il carrettino, dimenticato chissà dove, la girèeva d galòun penosamente ondeggiando con un piede sul
marciapiede e uno sulla strada. “Bè mò …
Cuṡ ée la? ’Na baala nóova?” commentò amareggiata la nipote, commentando lo
strano incedere della zia ubriaca.
**
La prof. Anna
Maria Ori: “Ricordo vagamente la Marina Trintèina,
perché non mi ha mai né spaventato, né intenerito, né (lo ammetto) interessato,
ma era una specie di arredo urbano di cui semplicemente prendevo atto. Mi
dispiace di non averla osservata con più attenzione, in pratica di non averla
vista, anche se entrava nel mio raggio visivo.”
**
Gilda
Lugli: "Mia madre, Fernanda
Bertolazzi, mi raccontava che la Marina era di buona famiglia, ma che a un
certo punto suo fratello aveva preso le distanze da lei.
Quando avevamo la ditta di legnami in via Carducci,
la Marina entrava dal retro in via N. Biondo e cercava di venderci la sua
mercanzia. Mi faceva paura, ma anche tanta pena ..."
**
Enrico
Rancan, al fióol dal pròofugh: “Ce l’ho in mente, ma ero veramente piccolo.
Suonava a casa mia, in viale Nicolò Biondo, per offrire la sua mercanzia e mia
madre, per mandarla via in fretta, le comprava sempre qualcosa. A me piacevano
le carrube, che evidentemente lei vendeva, e che ho conosciuto proprio per
questo.
**
Margherita Panzani: “Io me la ricordo bene, abitavo in Corso Fanti e
lei passava, vestita sempre con un grembiulone nero e un fazzoletto in testa,
col suo carretto pieno di scope, secchi, spazzole e tante altre cose. Molte
volte si fermava, chiamava mia nonna e chiedeva il permesso per andare al
gabinetto che era in cortile, gabinetto che era poi un buco, con sopra un
coperchio. Altre volte, semplicemente, apriva le gambe e faceva la pipi li dove
si trovava. Non mi faceva paura e la nonna mi diceva che non era cattiva.”
**
Mauro Marri ricorda bene questa strana donna; sua nonna,
infatti, comprava i giochi da lei per i nipoti, quando erano buoni, il che
succedeva molto raramente. La Marina era ... avanti: faceva già il porta a
porta tanti anni fa.
**
Ecco
un’incisiva immagine che ci lascia Luciana
Nora.
La
Marina
Se
la Filimede fu un personaggio caratterizzante di via Cantarana, l'esprimersi
della quale aveva come confine le contrade attigue, ci fu anche un'altra figura
femminile particolarissima, completamente fuori dagli schemi, conosciuta in
tutta Carpi per via del fatto che svolgeva un'attività ambulante: la Mariina Trintèina ch la stèeva in cuntrèeda
Teranóova.
Aveva
un carro a due stanghe che tirava lei stessa, con il quale portava le sue
mercanzie per tutte le contrade carpigiane. Una struttura corporea segaligna,
vestita di un nero stinto che aveva virato al grigio: un fazzolettone annodato
al collo, i cui lembi estremi venivano usati per asciugare il sudore della
fronte e del petto, sottana lunga e larga quasi fino alla caviglie che, estate
e inverno, spuntavano nude da larghe, nere scarpe maschili.
Dalle
maniche arrotolate fino ai gomiti, uscivano le braccia secche e nervose. Le
mani erano lunghe e nodose le mani su cui, dopo una sosta, come erano soliti fare
gli uomini, sputava, per poi sfregarsele, prima di riagguantare le stanghe del
suo carro e riprendere il suo giro.
I capelli grigi, dritti dal taglio pari appena sotto
le orecchie, qualche volta tenuti indietro da un cerchietto metallico,
incorniciavano un volto austero, rugoso, dai tratti sottili. Un’ambulante
strana che passava senza segnalarsi e bandire la propria merce. Aveva sul carro
dal pianale piatto dal malgarèini e dal
ramaasi, ’na quèelch traapla pèr sòrregh,
un po' di pentolame e varie altre cose. ’Na
spéecie d Righètt èd Limmid ambulante
… in miniatura.
Il tempo aveva tinto di grigio anche il carro.
Sicuramente girò per Carpi fino alla prima metà degli anni ‘60. Se la ripenso
oggi, anche il mio ricordo si spoglia dei colori e vira al grigio come in un
film in bianco e nero e in parte perde la voce. Incontrarla era un fatto
pressoché quotidiano. Almeno a me, ma sono certa di non essere stata la sola
tra le mie coetanee, la sua comparsa incuteva qualche timore, specialmente
sollecitava un interrogativo: Ma chi era la Marina?
La fantasia infantile poteva associarla a una
qualche strega o, più improbabile, a una fata. Avevo capito dove aveva una
posta per il suo carro in una delle mie visite alla zia Ernesta, che abitava in
Cantarana. Entrando in quella contrada da Santa Chiara, sulla destra, poco più
in là del palazzo sede del cappellificio Losi, lì doveva far sostare il carro
la Marina. Era pomeriggio inoltrato e uscendo da quella corte affollata da una
quantità di famiglie, ero rimasta folgorata sull'ingresso, perché, in quella
strada stretta, mi ero ritrovata a un passo dalla Marina che stava smanovrando
il suo biroccino. Mi ero fermata ad osservarla, forse cercando qualche
risposta.
Di lì a qualche minuto, ebbi a vederla sollevare un
poco la sottana, divaricare ampiamente le gambe e, come si usava dire a quel
tempo, spènnder aaqua in mèeṡ a la
strèeda. Mentre realizzavo mentalmente che doveva essere senza mutande, fui
scrollata da un rauco e perentorio: “Vèe,
tè, ragasóola, 'sa gh èe t da guardèer?
N èe t màai visst spènnder aaqua?” No! Non avevo mai visto farlo in
quel modo. Ero poi filata via come un fuso.
Col tempo però i timori erano arrivati a
dissolversi, fino ad avvertire un certo fascino per quella figura femminile
particolarissima, la cui filosofia doveva ritrovarsi pienamente nel dantesco
"non ti curar di loro, guarda e passa". Filosofia praticata fino a
quando, come una sorta di maledizione, uscì la canzone intitolata a Marina, che
divenne, taant pèr ṡuntèer al raam a la mèsscla,
una sorta di perfido dileggio che i ragazzi e anche qualche stupido adulto,
usavano cantarle per farla uscire dai gangheri. Marina usciva allora dal suo
silenzio, prendeva una scopa dal suo carro e, brandendola, imprecava: “Dio chè! Dio là! Viin ché vigliàach. S a t
ciàap a t la ṡbrèegh ind la schiina!”
Non
so quando e come Marina sia uscita di scena, ma spesso mi è ritornata alla
mente, particolarmente quando, tra le mie letture anni Settanta, ho incontrato
Le streghe del Nagual di Carlos Castaneda. Mi piace pensare che, chissà, in
quel suo continuo e faticoso peregrinare, più che dettato dal bisogno di
un'esistenza grama, Marina cercasse e avesse trovato l'essenza dell'essere.
**
Francesco Bezzecchi, detto Il Mimì, ricorda che la Marina comprava le
scope (al malgarèini) dal suo
principale Francesco Pacchioni, il mestichero di fianco al cinema Fanti, in via
Mazzini, che gestì per molti anni una rivendita di colori e affini. Allo
speciale prezzo di costo che le veniva praticato, la Marina applicava poi il
suo guadagno di venditrice ambulante.
La
Marina spesso andava all'osteria di Cimbro in via Matteotti sotto il portico, e
dopo due o tre bicchieri, apriva le gambe e faceva la pipí sotto il tavolo.
Arrivava Pippo (Saetti, figlio di Cimbro, in seguito noto e valente ingegnere e
arredatore) che, con la segatura e la scopa, puliva senza fiatare.
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La
poetessa Luciana Tosi ricorda di
averla vista diverse volte, ma a quei tempi lavorava duramente, faceva almeno
10 ore al giorno e a n gh éera mìa taant
tèimp de stèer a guardèer chi pasèeva ... Si ricorda una la donna alta, un
po' curva, con un abito lungo e scuur,
al carètt cun dal staanghi acsè lunnghi.
Aveva una figlia di nome Norma.
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Infine
‘na poVeṡìa degli anni ’60 di Micin (Cinzio Micheli) dedicata alla
Marina
LA DONA ED TERANOVA
Col prim sol, po' fin a sira,
per le vie della città,
la Marina, gira, gira,
col carretto se ne và.
Và gridando: sùca fina!
pir e persègh, figh e mlòun,
cun nà vòs ardònda e pìna
da desdèr tutt al riòun.
Ma un brutt dè, s'oscura al mond,
vengon giorni tristi, amari,
dove tutt un po' s'counfond
se sbarchèr s'vol al lunàri.
Fu così che quel carretto,
invece ed sùca o portogall,
di portare fù costretto
quel ch'tuliva su "NIBAL".
Passa un giorno, passa l'altro…
poi il boom viene della lana
dove Carpi, per lo scaltro,
l'è dvintéda nà cucagna.
Lei di nuovo butta all'aria
tutt, baraca e buratein,
e di merce, la più varia,
l'impiniss al barusèin.
Marletèin, candeli usedi,
automatich, pan d'savòun,
e (chisà dove scuvèdi)
scatli d'luster d'Furmigòun.
Per stà dòna ed Teranova, (Terranova =
Via Giordano Bruno o l'Uultma)
al baròs l'è seimpr' impgné,
le un po' tutt la mett in ovra
seinsa bsér la qualité.
***
Chissà quanti di questi bizzarri personaggi hanno attraversato le
strade di Carpi! Gente certamente non comune, che vissero esistenze di
sofferenza e di fatica, ma anche di grande libertà, senza padroni, senza orari,
gioiendo alla fine della giornata di una semplice bottiglia di vino in qualche
osteria o bar.
***
Collaborazioni e ringraziamenti
Ringrazio
per i fondamentali e preziosi contributi per strano affresco di piccole storie
carpigiane: Anna Maria Ori, Sandro Bellei, Pietro Marmiroli, Carlo Alberto
Parmeggiani, Franco Bizzoccoli, Attilio Sacchetti, Gianfranco Imbeni, Florio
Magnanini, Luigi Lepri, Giorgio Rinaldi, Gianfranco Guaitoli, Dario D’Incerti,
Marco e Stefano Giovanardi, Graziano Forghieri, Gabriele (Lele) Forghieri,
Jolanda Battini, Luisa Pivetti, Graziano Malagoli, Luciana e Livio Nora, Enrico
(Mendel) Scacchetti, i fratelli Giuliano (Buky) e William Bucchignoli,
Giuseppina Bertolazzi, Pietro D’Orazi, Mario Attolini, Stefano Discosti, Romana
Carra, Giorgio Bassoli, Gianfranco Pavarotti, Primo Saltini, Alcide Boni,
Giliola Pivetti, Gianluca Vecchi, Vanni Fregni, Luigi (Gigi) Matteotti, Claudio
Silvestri, Francesco (Bra-Ghery, Garibaldi, Garibba) Abruscato, Zeno Gelmini,
Giorgio Riva, Mario Brani, Carlo Gozzi, Daniele Saltini, Gianni Luppi, Norberto
Magnani, Valler Cestelli, Glauco Baccarini, Marco (Carro) Carretti, Gianfranco
(Gigia) Sgarbi, Renato e Dafne Corsi, Daniele Diacci (D.D.), Ercole Losi,
Andrea Massari, Alfredo Coppelli, Anna Bulgarelli, Franca Camurri, Franco
Pantaloni, Giorgio Gasparini, Ruggero Canulli, Francesco (Mimin) Bezzecchi, Mauro
Prandi, Nadia Minichiello, Mario Martinelli & Deanna Steffanini, Giorgio
Adani, Lauro Veroni, Luisa Lancellotti, Romano Reggianini, Giovanni Bulgarelli,
Margherita Panzani, Tiziano (Tizianèin) Meschieri, Micin (Cinzio Micheli),
Donato Marciello (Bar Tazza d’Oro), Vanni Previdi, Giorgio Maccari, Massimo
Michelini, Mauro Marri, Davide Cattini, Donato Marciello (Bar Tazza d’Oro),
Giorgio Adani, Corrado Cattini, Alice Ianniciello, Claudio (Claudino) Volponi,
Erminio Ascari, Carlo Lodi, Emilio (Millo) Cerretti, Gilda Lugli, Enrico
Rancan, Tiziano (Pace) Depietri, Paoli Pasini, Mauro Magri, Paolo Vandelli,
Angela Andreoli, Mario Guidetti, Maddalena Zanni, Corrado Cattini, Giuliano
Lugli, Vincenzo Galizia (da Incontri BPER n 63-2000), Claudio Sterpi (di Roma)
e Centro Gioco, Natura, Creatività "La Lucertola" Ravenna lucertolacomra@racine.ra.it, professor Baldassar, alias Roberto Papetti dell’Università delle
Biglie - Ravenna.
In
particolare poi sottolineo il contributo del costante lavoro di ricerca del
Gruppo di Facebook “Chi parla dialetto carpṡàan”
e del rughlètt di affezionati del bar
Tazza d’Oro alle 7 del mattino.
*0*
Note
Nota 1.
Il Gioco del
Pallone è l’attuale Piazzale Astolfo sito dietro al castello di fronte alle
scuole elementari Manfredo Fanti, l’antico Castelvecchio; l’origine del suo
nome era stata in un primo tempo attribuita al fatto che nel 1500 si praticava
una specie di calcio-rugby, sul tipo di quello giocato a Firenze in
quell’epoca. Tuttavia da più attente ricerche, come dimostrano alcuni saggi di
Gianfranco Guaitoli (ufficiale di marina, grande cultore di storia locale),
quel nome deriverebbe dalla pratica di un gioco simile alla "pelota"
spagnola o allo squash; qualche cosa che potrebbe essere identificato con la
"pallapugno" di cui esiste anche una Federazione. Due o quattro
giocatori si proteggevano con strisce di cuoio il polso e l'avambraccio e
colpivano una palla, facendola rimbalzare contro un alto muro.
Guaitoli ha trovato anche tracce in archivio, compresi i
disegni del "cesto” applicato all'avambraccio. Le partite si svolgevano in
piazzale Re Astolfo dal Seicento in poi, sfruttando la muraglia cieca del
Castello, quella sotto le bocche da lupo delle ex-carceri.
Nota 2.
Nel luglio 2010 si è spenta all'età di
90 anni Vanda Carretti, madre di Fabiìn
Carretti. Una’icona di Carpi e l'ultima portatrice di quel soprannome
collettivo trasmesso per successione esclusivamente femminile che da quasi un
secolo i carpigiani conoscono come "Zambella" ("Zambelle"
per connotare l'insieme). Con la sua scomparsa finisce un’epoca di Carpi;
qualcosa di irripetibile, che ha visto la nostra città passare dall’età
“antica” a quella “moderna”. La Zambèela
per il sua professione, per il suo carattere … diciamo … discorsivo, fu attenta
testimone del tessuto più intimo di Carpi e, per quanto di sua competenza,
attivissima coautrice, con azione e parola, della vita della città.
Il soprannome proveniva dalla nonna
materna, Dorina Zambelli. Insieme al marito Ermete Galli aveva gestito dagli
anni Venti, in via Rocca, angolo via Paolo Guaitoli, una rivendita di legna e
carbone ereditata successivamente dalle figlie Libera, Zola, Elsa e Gorizia. Le
due ultime condurranno la rivendita, luogo imprescindibile per
l'approvvigionamento di carbon dolce, coke e legna dell'Appennino, tagliata dai
se-gantini a misura di stufa. L’attività si protrasse fino alla fine degli anni
‘60 e al completamento della rete del gas metano.
La mamma di Vanda, Zola, sposata con
Ciro Carretti, poco prima dell'ultima guerra ebbe invece un'idea: visto che la
famiglia possedeva, tra viale Nicolò Biondo e viale Carducci, un locale di
deposito di legna e carbone che faceva da magazzino per la rivendita, perché
non acquistare una licenza per sali, tabacchi e generi di monopolio e ricavarci
un negozio al servizio dell'area Pallotti in rapida espansione residenziale? La
tabaccheria che segnerà lo sviluppo di questo ramo dal Zambèeli , giunto fino ai giorni nostri, aprirà l'1° gennaio 1938 e
Vanda, con la sorella Hermada (un nome - un monte vicino a Trieste - che come
quello della zia Gorizia, erano chiari segnali di quanto profondo fosse stato
il senso patriottico impresso nelle generazioni dalla Grande Guerra).
Vanda gestirà al paltèin per 58 anni, fino al 1996, assistendo all'evolvere dei
consumi in materia di generi di monopolio e dintorni, dal tabacco da fiuto al
trinciato alle Marlboro, dal chinino al "gratta e vinci" e alle
caramelle, di cui furono sempre generose dispensatrici ai bambini. La bottega
era anche, considerata la consistente frequentazione, luogo di scambio di
notizie, fatti e informazione in tempo reale e il cosiddetto braghiriiṡem (che oggi possiamo tradurre
con i modernissimi “gossip” o “rumors”) trovava lì una delle più importanti
scuole di alta specializzazione.
Anche dal punto di vista toponomastico,
il lato e i dintorni della tabaccheria di viale Carducci resteranno chissà
ancora per quanto tempo indicati, per farsi subito capire dall’interlocutore,
con un bel “là da la Zambèela”.
Nota 3.
Attilio Sacchetti ci tiene a
stilare alcune esemplificative e ammirate annotazioni su Fabio Carretti e così
mi scrive: "Mi è molto piaciuta la descrizione che hai fatto di Fabio
Carretti. Io l'ho conosciuto solo 5 anni fa, non al Bar Roma o alla Banca Popolare
di Piazza Martiri, ma a Pechino. Sì! proprio a Pechino, in Cina, dove siamo
stati insieme ad altri per turismo. E' un uomo simpaticissimo, un affabulatore
e un commerciante ineguagliabile. L'ho visto nel più grande magazzino di
Pechino di merci taroccate del mondo del lusso occidentale. Trattò l'acquisto
di una borsetta (Prada … mi sembra) rigorosamente falsa, parlando in dialetto
carpigiano con i commessi/commesse cinesi. Alla fine ha comprato la borsa al
prezzo che ha voluto lui! E tutti i turisti del gruppo lo chiamavano
preventivamente per consulenze e tutoraggi negli acquisti. Sembra impossibile,
ma è vero. Da quel che scrivi di lui, sicuramente lo vedi periodicamente:
portagli i saluti di Attilio Sacchetti. Carpi, 25-6-2010"
Aggiungo anche la descrizione del
personaggio, estratta dal mio scritto su Il Bar Tazza d'Oro nel dicembre 2009 -
Fabiìn Carretti, detto anche al Cichìin
(il piccolino). E' sagace, impertinente e impenitente; è certamente la persona
meno adatta per raccontargli delle storie o per trarlo in inganno. Viaggiatore
ed esploratore, un tempo, dei mondi dell'azzardo e quindi profondo conoscitore
del "prossimo" e di ogni possibile lato debole e/o nefandezza legata
all'animo umano. Laureato all'Università Italiana della Briscola, “magna cum
laude” e bacio in fronte; è rarissima la volta che sbaglia una giocata. E anche
quando ciò malauguratamente accadesse, ci sarebbe sempre comunque alla base un
validissimo motivo, che verrà poi ampliamente sviscerato con un'opportuna “lectio
magistralis” con lunghe e ripetute spiegazioni. Ha come un computer in testa
che, inserendo tutte le informazioni possibili, gli dà un quadro della
situazione praticamente perfetto. Quando potevo, io mi sedevo di fianco a lui
per godermi l'Arte dell'Assoluto nella briscola. Dopo una giocata difficile, mi
guardava per avere la mia approvazione, ciò in qualità di ricoprente la modesta
mansione vice - spigolista: una marginale figura senza diritto di parola, che
si colloca nel gradino più basso degli accettati attorno al tavolo. " Se
il carico è là abbiamo vinto, se invece il re è lì abbiamo perso!". Io,
che regolarmente non capivo nulla, gli rispondevo di sì, facendo finta di aver
ben afferrato la raffinatezza del pensiero tattico /strategico e della giocata.
se desiderate l'ultima versione con le foto scrivetemi a dorry@libero.it
RispondiEliminanessuno in Itlaia ha mai scritto tanto sul mondo delle palline :)
RispondiEliminaBell'articolo molto gradito. Ricordo bene la Zambèela, singulare tantum. Avevo 15 anni quand'hanno chiuso e mi era dispiaciuto molto che i nuovi proprietari avessero cambiato la vetrina e parte dell'interno. Belli anche i ricordi d'infanzia del mio Prof. Pietro.
RispondiEliminaHo dimenticato di inserire il mio nome in quanto autrice del commento pubblicato qui sopra.
Elimina(Correzione: avevo 17 anni quan'hanno chiuso.)
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